All’attenzione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando Ristretti Orizzonti, 16 ottobre 2015 Gentile Ministro, ci sono piaciute le parole, che lei di recente ha rivolto ai direttori delle carceri, parlando dell’importanza dei percorsi rieducativi e della necessità di portare innovazioni significative negli istituti di pena del nostro Paese: "Se non prendiamo rischi non cambia nulla". Le vogliamo però raccontare cosa può succedere a "un direttore che innova" con responsabilità e coraggio. L’8 ottobre il direttore della Casa di reclusione di Padova, Salvatore Pirruccio, ha fatto un giro delle diverse attività per salutare le persone presenti, operatori e detenuti, prima di andarsene a ricoprire un incarico al Provveditorato, di cui quasi nessuno sentiva il bisogno, in un momento così difficile per le carceri italiane. E gli "esterni", volontari e operatori sociali che erano presenti, si sono sentiti in profondo imbarazzo di fronte ai detenuti, che applaudivano il direttore, per il comportamento di Istituzioni, che quel direttore l’hanno "liquidato" malamente a due anni dalla pensione. E lo hanno fatto in modo molto "all’italiana" (è triste dover parlare di un pessimo stile diffuso nel nostro Paese), cioè senza spiegare nulla a nessuno. Forse perché dava fastidio quello che bene ha espresso l’applauso dei detenuti: che nella Casa di reclusione di Padova, pur con mille difficoltà, il direttore non si è mai sottratto alla responsabilità di OSARE CAMBIARE le condizioni di vita delle persone detenute. Allora al Ministro torniamo a chiedere semplicemente: PERCHE’? perché un direttore che ha cambiato la vita di tante persone detenute e delle loro famiglie, con quelle due piccole, importanti telefonate in più che ha concesso ogni mese e quei colloqui via Skype che hanno annullato tante distanze, deve andarsene? Da dove è partita questa decisione di allontanarlo dal carcere, che lui ha contribuito a rendere uno dei pochi istituti "presentabili" anche di fronte all’Europa? Che cosa gli si rimprovera? Forse di aver coinvolto nei percorsi rieducativi anche i detenuti dell’Alta Sicurezza?? Quelli che nella maggior parte delle carceri stanno chiusi nei loro ghetti, dove non POTRANNO MAI CAMBIARE, perché la sfida vera del cambiamento passa per un carcere aperto, dove il confronto avviene con la società esterna, come a Padova. Ai tavoli degli Stati Generali dell’esecuzione della pena, che stanno lavorando per un cambiamento di rotta nel modo di funzionare delle carceri, e nell’idea stessa di pena, chiediamo invece: non credete che ci sia qualcosa di malato in un sistema, che da una parte "studia per innovare" e dall’altra allontana uno dei pochi direttori che ha cambiato sul campo davvero il "suo" carcere? Non potete associarvi a noi nel chiedere al Ministro: PERCHE’? A chi come noi crede che, solo trattando le persone detenute nel rispetto della loro dignità, si contribuisce davvero a rendere la società più sicura, chiediamo ugualmente di associarsi a noi nel porre al Ministro questa semplice domanda: PERCHE’? Gentile Ministro crediamo che il Dap abbia tutto il diritto di fare le scelte che crede più opportune per raggiungere gli scopi che si prefigge, ma crediamo che tutti quelli che a vario titolo operano nel carcere di Padova (dipendenti e non) abbiano tutto il diritto di sapere (ed il Dap il dovere di chiarire) le motivazioni e gli scopi che si vogliono perseguire con queste scelte. Gentile Ministro, i perché che poniamo nascono da persone e realtà che a diverso titolo e da molto tempo (chi da 10 anni, chi da 20, 30 e più) operano nelle carceri. Sono pezzi di società civile che fisicamente, realmente sono presenti quotidianamente, o quasi, nelle patrie galere. Vogliamo tentare assieme di portare il nostro contributo per dare risposte a tutti i perché che quotidianamente emergono. Vogliamo e desideriamo essere promotori di ponti tra la società e le carceri, non di muri. La preghiamo signor Ministro, accolga questa nostra reale e sincera disponibilità. Da ultimo, che i recenti fatti vedano firmatari di questa lettera anche la quasi totalità dei detenuti (poco meno di 600) è un ulteriore segno che c’è qualcosa da tenere presente e capire meglio. GRAZIE. Seguono 570 firme di detenuti Redazione di Ristretti Orizzonti Padre Fabiano Giovanni Maria, cappellano Casa Circondariale di Padova e Direttore OASI - Padri Mercedari Cooperativa Sociale Mercede Don Marco Pozza, Parroco carcere Due Palazzi, Diocesi di Padova Giotto Cooperativa Sociale AltraCittà Cooperativa sociale Volontà di Sapere Cooperativa Sociale Work Crossing Cooperativa Sociale Gruppo Operatori Carcerari Volontari I docenti della sezione carceraria dell'Istituto Einaudi-Gramsci Associazione Granello di Senape Padova Associazione Antigone (sezione Veneto) Teatrocarcere Due Palazzi/BelTeatro Telefono Azzurro Padova ASD Polisportiva Pallalpiede Nairi Onlus Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto Francesca Melandri (sceneggiatrice e scrittrice) Adolfo Ceretti (Ordinario Giurisprudenza Università Milano-Bicocca) Fabio Schiavon e Giuseppe Faccini Catechisti Giustizia: Corte dei conti "Commissari per le carceri, soldi non spesi e pochi risultati" di Francesca Sironi L’Espresso, 16 ottobre 2015 Gli obiettivi promessi per l’edilizia dei penitenziari non sono arrivati. Erano stati stanziati 460 milioni di euro, per costruire e ristrutturare le strutture. Ma ne sono stati spesi solo 52 in quattro anni. E infatti i nuovi posti sono molto meno del previsto. Il duro rapporto dei magistrati contabili. Gli obiettivi erano nobili. Ma soprattutto terribilmente necessari: ridurre il sovraffollamento carcerario, costruendo nuovi istituti, ristrutturando padiglioni e completando i lavori in cantiere. Ma i risultati non sono stati all’altezza della missione. Anzi: "vengono considerati deludenti rispetto agli obiettivi". È l’ultima tegola della Corte dei Conti sulle strutture commissariali. Centri di poteri e di sprechi su cui più volte è intervenuta la magistratura contabile. In questo caso la relazione riguarda l’attività dei commissari delegati dal 2010 al 31 luglio 2014, nominati da diversi governi, ad occuparsi delle fatiscenti strutture penitenziarie italiane. Il risultato? Poco o nulla. Innanzitutto per l’incapacità di investire, di portare veramente risultati in favore dei detenuti e del paese. Nonostante una disponibilità di finanziamenti a dir poco importante. "In termini finanziari", scrive infatti la Corte: "Si è rilevato che, rispetto ai 462,769 milioni di euro assegnati ai commissari nel periodo 2010-2014 dal bilancio dello Stato, solo 52 (l’11,32 per cento circa) risultano essere stati spesi alla data della cessazione dell’incarico dell’ultimo commissario (31 luglio 2014)". Solo 52 milioni su 462 sono stati usati allo scopo. La differenza di 410,395 milioni, spiegano, è stata rimessa all’entrata dello Stato per essere riassegnata. Non sono soldi persi, insomma, ma di certo non sono stati usati per l’obiettivo previsto. E i risultati si vedono: "I nuovi posti creati con i vari interventi immobiliari dei commissari sono stati, alla fine del 2014 - in base alle informazioni aggiornate del Ministero della giustizia-Dap - soltanto 4.415 rispetto agli 11.934 previsti", si legge nella nota: "posti che entro il 2016 dovrebbe raggiungere il totale di 6.183 (pari al 51,81 per cento delle previsioni)". Conclusione: per questi risultati serviva nominare un commissario, con il portato di spese che si porta? Risposta della Corte: No. "Gli sforzi dell’attività dei commissari delegati e del commissariamento straordinario nel settore dell’edilizia penitenziaria", concludono infatti i magistrati: "mostrano come non sia servito procedere alla nomina di un commissario per eliminare o correggere adeguatamente disfunzioni e carenze dell’azione amministrativa ordinaria". Che restano. Giustizia: il viceministro Costa "la grande riforma è solo un’invenzione giornalistica" di Giancarlo Perna Libero, 16 ottobre 2015 Il viceministro: "La separazione delle carriere è un impegno impervio, serviva più coraggio". È sempre meno fanciullone di provincia Enrico Costa, oggi viceministro della Giustizia di Ncd. Ogni volta che lo rivedo dopo qualche anno, le sue origini langarole (è della ridente Mondovì) si stingono sempre di più, lasciando il posto a un uomo di mondo un po’ scettico e un tantino relativista. Quando, a metà intervista, gli ho chiesto se avrebbe seguito Matteo Renzi sulla strada delle adozioni gay, non ha detto "no" come sarebbe accaduto anni fa sotto il duplice influsso del padre Raffaele, l’ex ministro liberale e conservatore, e della visione cuneese della vita fatta di galli e galline, caprie capre, uomini e donne e del tutto ignara ahimè del gender. L’Enrico metropolitanizzato se n’è infatti uscito così: "Nel mio partito (contrario alle adozioni gay, ndr) sono la minoranza della minoranza. Per me, si dovrebbe soddisfare ogni sensibilità individuale. Se perciò una coppia gay lo desidera, adotti pure. L’Italia, tuttavia, non è pronta per una rivoluzione che la farebbe passare da zero a cento. Meglio andare per gradi con un primo provvedimento che accantoni il tema dell’adozione ma non escluda di ripescarlo in futuro". L’ufficio del viceministro è degno del suo grado. L’ampia stanza con arredamento all’antica ha un salottino annesso in cui sediamo su poltrone di cuoio di fattura inglese. Costa, bel giovanottone quarantacinquenne, è in maniche di camicia come un deputato della Knesset e come usa nell’era Renzi che ha esportato il look su questa sponda del Mediterraneo. "Figlio d’arte, hai fatto i primi passi sulla scia di papà. Adesso, cammini sulle tue gambe?", chiedo, senza aggiungere che sarebbe ora, essendo deputato da tre legislature, ovvero dal 2006, quando fu eletto nelle liste del Cav. "Sono stato certo favorito all’inizio - replica - sull’onda delle belle cose fatte da papà. Ho tuttora attorno tanti suoi amici del vecchio mondo liberale piemontese. A mio padre mi ispiro moltissimo. Quindi, per rispondere alla domanda: cammino con le mie gambe la cui forza viene però da lontano". "Il tuo collegio cuneese è ancora liberale come un tempo?", domando. "Anche di più - si entusiasma Costa. Tantissimi che incontro premettono: "Io sono sempre stato liberale". C’è un orgoglio di appartenenza non comune negli altri partiti. L’humus liberale è fertile di valori e principi". "Perché due anni fa hai scelto di mollare il Cav per Alfano?", dico di colpo. "Vissi la brusca decisione di Berlusconi di lasciare il governo Letta - risponde sull’imbufalito al ricordo - come uno strappo alla sua stessa visione di un governo di larghe intese per tirare il Paese dalle secche. Fece tutto da solo, senza consultare né preavvertire. Seppi del colpo di testa leggendo la notizia su un monitor dell’Aeroporto di Torino mentre mi imbarcavo. Ma questo è un partito? mi sono chiesto. Decisi allora di votare in ogni caso la fiducia al governo perché era quello il bene del Paese e non nuove elezioni. Anche se fossi stato l’unico di Fi. Poco dopo, Alfano e gli altri lasciarono il partito per formare Ncd e mi sono unito a loro". "Come hanno reagito gli elettori del cambio di casacca?". "Molti hanno criticato, molti hanno apprezzato. Ma la cosa è ormai alle spalle e non sene parla più. Nel mio collegio collaboro con quelli di Fi con la vecchia amicizia di sempre, senza sgambetti, né veti reciproci. Nulla rimpiango di quel che ho fatto prima dello strappo, né dopo", dice Enrico che spegne il cellulare e si prepara a entrare nel vivo della chiacchierata. Gaetano Quagliariello, coordinatore di Ncd, ha sbattuto la porta per l’eccessiva sudditanza di Alfano al Pd. "Era il massimo teorico dell’alleanza organica col Pd. Ora dice l’opposto. Vorrei conoscere le ragioni di questa evoluzione del suo pensiero". Anche Carlo Giovanardi è in fuga con altri. Che resterà di voi? "In questi due anni, ci siamo sufficientemente radicati per resistere a piccole scosse telluriche come queste". Ce la farai a essere rieletto? "Non faccio calcoli. Questo mi dà grande libertà nello svolgere il mio ruolo". Non essendo tu né santo né sciocco, non credo affatto che non pensi al futuro. "Il segreto è questo: l’area di centro, cioè la nostra e di Casini, deve costruirsi una forte identità". Qualsiasi cosa facciate, per sopravvivere dovrete decidere se allearvi con Pd o con Fi. "Non è così. Se costruisci un’identità forte fondata sui principi liberali, scompare il problema della collocazione, poiché tu stesso rappresenti una cosa precisa". Non mi pare che Casini rappresenti una cosa precisa. "Casini si è presentato come un mediatore tra forze in lotta. Questo suo profilo ben definito lo ha fatto sopravvivere all’uscita da Fi nel 2008". Estimatore del casinismo? "Casini non mi dispiace, per metodo e per azione politica". Intanto ingoiate i diktat di Renzi al quale Alfano cede di continuo. "Renzi ha moltissime idee liberali. Per cui, non è che cediamo ma aderiamo per condivisione. Nostra funzione non è difenderci da Renzi ma bilanciare la sinistra Pd". Spiegati. "I provvedimenti escono dal Consiglio dei Ministri con connotati liberali ma cambiano nelle commissioni parlamentari". Inquinati dalla sinistra Pd? "Inquinati, no. Ho stima della sinistra Pd che ha nobili ideali. Ma nostro compito di centristi è tutelare i contenuti liberali dei provvedimenti". Passiamo al tuo orto: la Giustizia. Avete rinunciato in toto alla grande riforma: separazione carriere, ecc. "La grande riforma è un’invenzione giornalistica. Quella vera si fa con piccoli provvedimenti coerenti tra loro. La Giustizia è il punto di maggiore distanza tra Pd e noi. Bisogna trovare gli equilibri. Io sono per la separazione delle carriere. Farla significa però un’impervia riforma costituzionale. Dobbiamo cercare di ottenere aggiustamenti con legge ordinaria. È quel che proveremo a fare". L’abuso del carcere preventivo prosegue imperterrito. "Abbiamo appena approvato la legge sull’ingiusta detenzione che considera la carcerazione anticipata come extrema ratio. Si poteva essere più coraggiosi, ma sono mancate le condizioni politiche". Infatti, Nicola Cosentino è in carcere da 18 mesi senza processo e sei ne aveva fatti prima. "Non conosco il caso specifico...". Dovresti. "...ma so che dal 1992 a oggi lo Stato ha pagato 600 milioni di risarcimenti per ingiusta detenzione a 24mila persone". La magistratura se ne impipa. Tocca a voi politici dargli sulla voce. (Enrico si alza e prende da un mobile, dov’è in mostra, una lettera incorniciata che Enzo Tortora scrisse al padre Raffaele dopo l’ignobile arresto di trent’anni fa. Poche parole amare e un appello ai politici: "Fate qualcosa!"). Lo dice pure lui che dovete muovervi! "Se tengo qui la lettera che ho portato da Mondovì e guardo ogni giorno, è perché il tema che mi sta a cuore". Poiché il tuo imbarazzo è sincero e la tua impotenza evidente, ti grazio e passo ad altro. Meglio Alfano del Cav come leader? "Avevo col Cav un atteggiamento meno confidenziale ma provo tuttora per lui un sentimento forte, anche se non l’ho mai più sentito. Il rapporto con Alfano è più sciolto. Lui è il mio punto di riferimento. Più lo attaccano, più si rafforza". Renzi? "Abilissimo nell’intercettare la sensibilità degli italiani. Molto coraggioso nell’ambito del Pd verso il quale ha tenuto una linea netta, scomoda, senza mediazioni, costruendosi un’identità forte. È difficile fare i liberali tra i dem, eppure lui lo è. Perciò sono a mio agio nel suo governo". Cittadino romano dal 2006, hai avuto tre sindaci, Veltroni, Alemanno, Marino. La palma? "L’immagine di Roma ha avuto un momento particolarmente felice con Veltroni e particolarmente infelice con Marino. Alemanno non pervenuto". Per il dopo Marino vi schiererete col candidato Pd o quello del centrodestra? "Il successore andrà scelto nella società civile, gli uomini dei partiti hanno fallito. Decideremo con riguardo alla persona più che all’appartenenza politica". Tra i due Papi che da romano hai visto in azione, Benedetto o Francesco? "Trovo che questo Papa coraggioso stia cambiando la Chiesa e scaldi il cuore. E la Chiesa ha bisogno di cambiamento e di questo calore". Giustizia: Unione Camere penali; ancora 220 internati negli Opg e Rems già sovraffollate Agi, 16 ottobre 2015 Sono ancora 220 le persone internate negli ospedali psichiatrici giudiziari. La denuncia viene dall’Unione delle Camere penali, con il suo Osservatorio Carceri, ad oltre 6 mesi dalla "formale, solo sulla carta" chiusura degli Opg. Le Regioni, aggiungono i penalisti, "che hanno già le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) hanno comunicato che non vi sono più posti per accogliere altre persone nelle loro strutture, già sovraffollate". Le Camere penali, dunque, parlano di "allarme" per una situazione che "rischia drammaticamente di peggiorare travolgendo i principi di diritto e di civiltà che sono alla base della riforma", e non mancano di fornire esempi concreti; a Castiglione delle Stiviere - che prima era un Opg, oggi è una Rems - si era ipotizzato di costituire 8 Rems, ciascuna per 20 unità, ma "allo stato vi sono ben 270 presenze. La struttura di Castiglione delle Stiviere, a cui è stata solo cambiata la targa all’ingresso, da Opg a Rems, è diventata la residenza nazionale, ospitando soggetti provenienti da tutta Italia - concludono i penalisti - e la legge è, pertanto, tradita e occorre intervenire subito. Le Regioni sono in gran parte inadempienti nonostante i rinvii che vi sono stati in passato per l’entrata in vigore della legge e il Governo deve fare la sua parte, con le risorse necessarie e facendo scattare subito il commissariamento la dove è necessario". Giustizia: il Pd chiede le dimissioni di Maroni, Salvini scopre il garantismo di Salvatore Merlo Il Foglio, 16 ottobre 2015 Storie di ordinari opportunismi. In Italia la politica, si sa, giustizia i nemici ma è ipergarantista con gli amici. E così come in una pazza altalena, in una ginnastica di furbe contorsioni, fra capriole tonanti e silenzi di sasso, il giustizialismo si commuta in garantismo, il garantismo in giustizialismo, e senza mai perdere, come si dice, né il pelo né il vizio. Ed è infatti davvero difficile, in queste ore in cui la regione Lombardia è oggetto d’indagine giudiziaria, non segnalare come intrigante il garantismo da partigiano di Matteo Salvini, cui si contrappone il giustizialismo militante del Pd, del suo capogruppo alla Camera Ettore Rosato, dei suoi dirigenti lombardi Alessandro Alfieri e Umberto Ambrosoli, persino del candidato sindaco di Milano, Emanuele Fiano, un intreccio intrigante e rivelatore proprio perché le motivazioni di ciascuno, oggi garantista ieri giustizialista, ieri giustizialista oggi garantista, sono, appunto, e come sempre, partigiane, militanti, interessate, effetto d’una sovreccitazione, d’un’instabilità dell’umore, d’un bronzeo opportunismo. "Hanno indagato un nostro assessore perché si è permesso di ascoltare le proteste di un’associazione di volontariato", ha detto Salvini. "Martedì c’è stata una giornata di sputtanamento mediatico sulla migliore sanità europea e sulla Lega", ha aggiunto. "Il nostro Garavaglia è innocente", "innocentissimo", ha giurato. E infatti Salvini parla addirittura di "un attacco politico magari per nascondere i problemi del Pd e delle cene di Marino e di Renzi", di un’accusa "senza reati", "inconsistente", "solo sputtanante", "interessata", basata più su una "volontà persecutoria" che su delle prove. E insomma d’improvviso Salvini ha recuperato la memoria sepolta del 1993, dei linciaggi in tivù, dei cappi sventolati in Aula, delle transenne mobili davanti Montecitorio, dell’accalcarsi di una folla rabbiosa tra vigliaccherie e fischiar di monetine. Dunque ha evocato il "complotto", la "trama politica" come inquietante rovescio del ricamo giudiziario, e si è abbandonato a violenti sfoghi contro la giustizia a orologeria. E c’è da chiedersi se lui sia lo stesso Salvini che a dicembre, dopo lo scandalo Mose, voleva subito in galera tutto "il Pd corrotto", lo stesso Salvini che a proposito di Vincenzo De Luca diceva che "solo in Italia i condannati possono governare le regioni", lo stesso Salvini che a settembre polemizzava con il Papa, contro l’amnistia, perché "l’Italia ha bisogno della certezza della pena", "chi sbaglia paga", e "se i magistrati ti condannano devi solo andare in galera", lo stesso Salvini che appena cominciò l’indagine sul Cara di Mineo, che aveva coinvolto il sottosegretario Castiglione, chiese "l’immediata chiusura" del centro di raccolta immigrati, e puntò il dito sul partito dei "corrotti" di governo. E insomma indiziario contro i nemici, e rigorista in favore degli amici. E sempre il garantismo, in Italia, si perde nel risentimento, in un paese in cui persino i progetti di legge rivelano ripicche e interessi di parte, e le forche sono sempre buone purché siano gli altri ad essere impiccati. Dunque il Pd, che aveva difeso Castiglione da Salvini, che aveva accettato la candidatura dell’incandidabile De Luca in Campania, che aveva respinto l’attacco contro Ignazio Marino mentre alcuni consiglieri comunali, e un assessore del Pd, venivano arrestati dalla procura di Roma, quello stesso partito, insomma, e quelle stesse persone, adesso chiedono le dimissioni di Maroni dalla presidenza della Lombardia, con un vertiginoso capovolgimento di ruoli. Diceva per esempio Ettore Rosato, il capogruppo renziano del Pd alla Camera, a proposito di De Luca e della sua lista elettorale definita "impresentabile" da Rosy Bindi: "De Luca ha ragione. E deve guardare avanti". E Maroni, invece? "Si deve dimettere". E dunque si è sempre giustizialisti con il culo degli altri, e garantisti con il proprio, col risultato d’aver ridotto la faticosa disciplina del garantismo - che va applicato contro le proprie convinzioni e persino contro i propri gusti più radicati, e insomma contro vento e talvolta anche contro evidenza - a un volgare doppiopesismo. È forse anche per questo che in Italia risulta difficile esprimere dubbi sui grandi processi indiziari, quelli alla politica corrotta come nei misteriosi casi di cronaca nera, gli omicidi che ingarbugliano l’anima, il caso Meredith e il delitto di Cogne, il processo Mori e la Trattativa, perché, soffocato il garantismo per eccesso di pelosità politica, c’è sempre qualche forsennato di successo che ti accusa di voler isolare i giudici, di difendere una parte, o di essere moralmente complice di chissà che. Un capolavoro. Giustizia: processo Mafia Capitale. I penalisti all’Anm "la sicurezza non c’entra nulla" Agi, 16 ottobre 2015 Si fanno sempre più aspri i rapporti tra la magistratura e l’avvocatura romana in vista del processo a Rebibbia di Mafia Capitale. Ieri la Giunta distrettuale del Lazio, replicando ai quattro giorni di astensione dalle udienze proclamati dalla Camera Penale, si era espressa per la correttezza del provvedimento adottato dal presidente del tribunale negando che nell’organizzazione delle udienze si potesse ravvisare una menomazione del diritto di difesa. Oggi la Camera Penale, con un nuovo comunicato, ha voluto chiarire meglio le ragioni della protesta spiegando a chiare lettere che in questo processo "la sicurezza", invocata dal tribunale per giustificare la celebrazione delle udienze a Rebibbia con il sistema di videoconferenza previsto per tutti gli imputati detenuti, "non c’entra nulla: la verità è che questo processo ha da essere esemplare anche per sperimentare in vitro la nuova frontiera della giustizia del futuro, quella che vuole un imputato lontano dal suo processo, da chi lo giudica, così come da chi lo difende e da chi lo accusa. Per questo i penalisti protestano". "La Giunta dell’Anm - si legge nel comunicato dei penalisti - critica la presa di posizione della Camera Penale dicendo, in sostanza, facciamo sempre così, a Roma e fuori Roma, la legge lo permette, e anzi è un bene per gli imputati essere giudicati in tempi rapidi, quindi di che si lamentano gli avvocati?. Ebbene, va chiarito preliminarmente che la legge non permette affatto di espropriare agli imputati il diritto ad essere presenti al loro processo, neppure nei processi di mafia, tanto che prescrive il sistema della video conferenza solo nei confronti dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis (applicato al solo Massimo Carminati, ndr), n egli altri casi lo permette solo per motivi che, nel caso romano, sono insussistenti, e sfidiamo l’Anm locale a dimostrare il contrario. Sfidiamo, in particolare, il sindacato dei magistrati a dimostrare perché mai sarebbe meno sicuro trasferire gli imputati nel carcere di Rebibbia e farli, lì, partecipare al processo presso l’aula bunker, che è stata costruita apposta per questa bisogna, invece che trasferirli dai carceri dove sono attualmente a quelli che li debbono ospitare temporaneamente per permettere l’audio-conferenza". Per i penalisti "si vuole ignorare che non tutte le strutture carcerarie possiedono i locali per il collegamento, e proprio per questo molti detenuti di questo processo dovranno essere spostati (temporaneamente o giornalmente?) dai penitenziari dove sono attualmente ad altri proprio per permettere le video conferenze. Insomma, visto che non sarebbe ‘sicurò - chissà poi perché - spostarli una volta sola per portarli a Roma, tutti, in un carcere, gli si fa fare avanti indietro in dieci carceri. Oppure li si sposta comunque "temporaneamente" in venti". La Camera penale, poi, non concorda con l’Anm locale quando dice che analoghe modalità processuali sono state applicate nel processo al cosiddetto clan Fasciani. "La notizia in parte non corrisponde al vero - dicono gli avvocati - e comunque è affetta dalla medesima incongruenza logica di cui sopra. Posto infatti, che nel processo richiamato dal comunicato di Anm la videoconferenza non è stata disposta in egual misura, e che il calendario non era comparabile a quello odierno, resta l’interrogativo di fondo: se (a Roma) avete sbagliato una volta volete ripetere l’errore? Se (in altre parti d’Italia) sbagliate spesso, o sempre, volete farlo anche qui? Che logica è?". Quanto all’esigenza di celerità del processo, ravvisata dall’Anm, ecco la replica della Camera Penale: "In un processo in cui le indagini sono durate anni, in cui il decreto di giudizio immediato è stato richiesto gli ultimissimi giorni disponibili facendo trascorre quasi sei mesi, in cui tra quel decreto e la data di udienza sono passati altri cinque mesi, questa affermazione è paradossale". Il principio della ragionevole durata del processo, proseguono gli avvocati, "viene invocato sempre per ridurre le garanzie degli imputati, oppure per comprimere in maniera paternalistica, quanto non francamente autoritaria, il diritto di difesa, con un calendario parossistico che impedirebbe persino i contatti tra difensore e imputato detenuto, a centinaia di chilometri di distanza". Adesso si vorrebbe onorare questo principio "solo nel processo esemplare, visto che tutti sanno, a partire dall’Anm locale, che le cadenze parossistiche di ‘quel’ processo, si rifletterebbero in centinaia o migliaia di richieste di rinvio degli altri processi, quelli normali. Per questo i penalisti protestano. Ieri il Csm ha disposto di verificare "se le contestazioni della Camera penale abbiano fondamento", ed anche per "riflettere più in generale sulle problematiche che emergono in relazione all’organizzazione di maxiprocessi": facciamo bene a protestare". Giustizia: Mafia Capitale. Relazione di Cantone sull’Atac "5 anni di appalti irregolari" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 ottobre 2015 Il presidente dell’Authority lancia l’allarme sulle gare. E l’assessore Esposito porta le carte in procura. L’ipotesi tangenti. Appalti per due miliardi di euro affidati nella maggior parte dei casi a trattativa privata. Lavori assegnati negli ultimi cinque anni dall’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma che dunque si occupa di autobus e metropolitana, "con procedura negoziata e senza pubblicazione di bando". Rischia di avere conseguenze clamorose la relazione che il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone ha già trasmesso ai vertici dimissionari della municipalizzata capitolina e che l’assessore Stefano Esposito - uno degli esponenti del Partito democratico che la scorsa settimana aveva lasciato l’incarico per costringere il sindaco Ignazio Marino a fare subito la stessa scelta - ha consegnato giovedì pomeriggio al procuratore Giuseppe Pignatone. Del resto era stato proprio lui, nei giorni scorsi, a sollecitare l’intervento dell’Autorità. Perché il sospetto è che alla base di quegli accordi per l’erogazione di servizi e forniture possa esserci il versamento di tangenti. Un’ipotesi che già nei prossimi giorni i magistrati potranno verificare grazie all’acquisizione dei contratti e della lista delle società che hanno ottenuto gli incarichi. Gli analisti coordinati da Cantone hanno verificato la procedura adottata per ogni singolo lavoro e la conclusione del presidente è lapidaria: "Le percentuali rilevate evidenziano un utilizzo eccessivo della procedura negoziata e quindi una criticità nell’applicazione del codice dei contratti pubblici secondo il quale va adottata come regola la procedura aperta/ristretta e come eccezione, da motivare, la procedura negoziata". La decisione finale suona come un vero e proprio ultimatum: "Entro trenta giorni dovrà essere inviata una relazione dettagliata sulle procedure poste in essere tra il 2011 e il 2015 e sulle modalità di individuazione dell’importo degli appalti". La tabella dei numeri allegata al dossier consegna i dettagli: "Nel 2011 è stato affidato in procedura negoziata il 99,94 per cento del numero di appalti di forniture, il 92,98 per cento di quelli per lavori e il 98,84 per cento per servizi. Nel 2012 questi valori sono stati rispettivamente del 99,35 per cento, del 68,63 per cento e dell’87,37 per cento". Dati sostanzialmente identici a quelli degli anni successivi, per arrivare al 2015 quando si è registrata una minore percentuale - 84,27 per cento sul numero di forniture, 82,35 per cento dei lavori, 76,79 per cento dei servizi - ma un aumento sostanziale della spesa. I dati esaminati dimostrano che nel 2011 sono stati affidati appalti per oltre 479 milioni di euro, saliti l’anno successivo a più di 511 milioni, scesi nel 2013 a 271, risaliti nel 2014 a 343 e infine diventati nei primi nove mesi del 2015 ben 647 milioni. Un fiume di denaro speso durante la gestione del Campidoglio affidata prima a Gianni Alemanno e poi a Marino. Alcune indagini avviate negli anni scorsi dalla Procura di Roma avevano già evidenziato alcuni illeciti commessi dai manager scelti dall’amministrazione comunale e poi finite anche nell’inchiesta sull’organizzazione guidata dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati e dal patron delle cooperative Salvatore Buzzi. Mai prima d’ora era stato però disegnato un quadro così dettagliato. Scrive Cantone: "Le disposizioni vigenti attribuiscono alla procedura negoziata carattere di eccezionalità imponendo adeguate motivazioni e la corretta applicazione del dettato normativo relativamente all’individuazione dell’importo stimato dell’appalto e al conseguente legittimo ricorso ad affidamenti in economia". In serata una nota di Atac precisa che "oltre il 90 per cento del valore degli acquisti aziendali viene svolto tramite gare di appalto telematiche. Come di consueto l’Azienda fornirà all’Autorità tutte le informazioni richieste nei tempi stabiliti, certa di poter rappresentare la coerenza dei comportamenti aziendali alle vigenti disposizioni di legge". Cantone e i magistrati stabiliranno se si tratti di giustificazioni convincenti. Giustizia: l’anticorruzione non è uguale per tutti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 ottobre 2015 Due nomine contestate, nella sanità laziale e in quella calabrese, hanno portato a risultati assai diversi. A Roma il presidente Zingaretti è stato assolto, a Catanzaro, per un caso simile, il suo collega Oliverio è stato sospeso. L’assurdo di una normativa poco trasparente sui controlli. Dal pasticciato regionalismo che (ancora) affligge l’Italia, affiora l’ennesima incongruenza. L’anticorruzione, si sa, è uguale per tutti, ma per qualcuno sembra esserlo un po’… meno. In ballo ci sono due nomine contestate, nella sanità laziale e in quella calabrese, e due risultati assai diversi, a seconda che il rilievo venga mosso a Roma o a Catanzaro. Dunque non si può non rallegrarsi del fatto che il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti, eviti i tre mesi di sospensione (col congelamento dei poteri di nomina) che gli sarebbero stati inflitti all’esito dei vari passaggi burocratici dall’Autorità anticorruzione, l’Anac, presieduta da Raffaele Cantone: perché di certo la pena avrebbe colpito la piena funzionalità di un’istituzione tuttora fondamentale per la vita di tanti cittadini. Tuttavia, non si può che restare perplessi di fronte alla disparità del trattamento riservato a Mario Oliverio, il presidente della Calabria, per un caso non molto diverso e una pena analoga. E non si può che avanzare qualche riserva su una normativa che attribuisce la decisione finale sul controllato a un controllore sottoposto per gerarchia al controllato medesimo. Un passo indietro. A febbraio Zingaretti nomina Giovanni Agresti commissario dell’Ipab di Gaeta. Agresti è già amministratore di due cliniche finanziate dalla Regione, il che lo renderebbe incompatibile con la carica ai sensi della Severino, la legge che regola la trasparenza nella pubblica amministrazione: nella sua autocertificazione cita le società private ma omette di segnalarle come causa di "inconferibilità". Scoppia il bubbone, e Agresti si dimette. Zingaretti ne dichiara nulla la nomina. Il che non gli eviterebbe di incorrere nella sospensione, come da delibera Anac del 23 settembre. La stessa pena, in sostanza, che Oliverio s’era visto infliggere per avere nominato all’Asp di Reggio Calabria un commissario in condizioni di incompatibilità. Ma qui arriviamo a uno snodo fondamentale nella definizione del procedimento. L’Anac nazionale deve passare la palla, per le conclusioni, a una figura regionale, il "Responsabile per la prevenzione della corruzione" che non è, si badi, un funzionario dell’Anac stesso, ma "un dirigente della Regione", come l’Autorità presieduta da Cantone specificherà in una nota alquanto affilata. Senza voler dubitare della professionalità o della buona fede di nessuno, il paradosso che un burocrate si trovi a dire l’ultima parola sul destino del governatore da cui dipende, appare, in effetti, abbastanza vistoso. Nel Lazio questo delicato compito tocca a Giuditta Del Borrello. La delibera con cui l’Anac mette Zingaretti sotto osservazione a settembre sembra piuttosto stringente. Ma Del Borrello ne rovescia gli esiti (senza peraltro comunicare alcunché a Cantone): la colpa è tutta e solo di Agresti che ha "prodotto una dichiarazione mendace". Zingaretti, ingannato dall’astuto manager, non ha responsabilità alcuna, "benché il legislatore sembri avere costruito come automatica la sanzione inibitoria" (cioè i tre mesi di sospensione). Ne deriva il "tana libera tutti" e, a corollario, la possibilità che basti quindi un’autocertificazione per sollevare l’ente pubblico da qualsiasi fardello di accertamento ulteriore: un effetto collaterale inquietante. Il resto è bagarre politica. Zingaretti plaude "all’archiviazione". Cantone fa sapere di non avere archiviato un bel nulla, spiegando come il seguito del procedimento toccasse alla dirigente regionale. Cinque Stelle e destra gridano all’ "autoassoluzione" del governatore, chiedendo chiarimenti in Consiglio. Il vicepresidente dell’assemblea, Francesco Storace, sostiene in un’interrogazione che Giuditta Del Borrello patirebbe a sua volta una condizione di incompatibilità: un contenzioso di lavoro aperto proprio con la Regione Lazio. Insomma, la confusione regna sovrana. Giù a Catanzaro, Oliverio avrà certo modo di rammaricarsi per la scarsa affezione dimostratagli da Maria Gabriella Rizzo, omologa calabrese di Del Borrello. A noi resta (come minimo) il dubbio retrogusto di una norma di salvaguardia nazionale condita e alterata da troppe salse regionali. Giustizia: patrocinio a spese dello Stato, compensi più rapidi di Beatrice Migliorini Italia Oggi, 16 ottobre 2015 Il bilancio dell’incontro tra il guardasigilli Orlando e il presidente del Cnf Mascherin. Accelerazione delle procedure di liquidazione dei compensi derivanti dall’attività in regime di patrocinio a spese dello stato. Istituzionalizzazione della presenza dei rappresentanti dei Consigli degli Ordini forensi nelle conferenze permanenti dei servizi. Riorganizzazione della geografia giudiziaria in base alle specifiche esigenze territoriali. Questi alcuni dei punti di incontro tra avvocatura e governo emersi, ieri, nel corso del faccia a faccia che si è svolto tra il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin e il ministro della giustizia Andrea Orlando sui temi più urgenti per la categoria. Ecco, quindi, che il ministro Orlando, per quanto attiene "la riforma dell’ordinamento e della geografia giudiziaria", si legge nella nota diffusa dal Cnf, "ha comunicato di voler integrare la sottocommissione con un rappresentante dell’avvocatura istituzionale come richiesto dal Cnf". Il ministro ha, inoltre, sottolineato la volontà di provvedere al più presto con una norma di legge che "istituzionalizzi la presenza dei rappresentanti dei Consigli degli ordini forensi nelle conferenze permanenti dei servizi, che dovranno occuparsi della individuazione dei costi degli uffici giudiziari". Tema centrale, poi, quello sviluppato d’intesa tra il Cnf e Cassa forense, sulla liquidazione dei compensi. "Il guardasigilli", spiega il Cnf, "ha pienamente condiviso, tanto da assicurare la predisposizione di una norma in questo senso, la proposta volta a snellire ed accelerare, attraverso il coinvolgimento dei consigli degli ordini le procedure di liquidazione dei compensi derivanti dall’attività in regime di patrocinio a spese dello stato". Al termine dell’incontro, infine, il numero uno del dicastero di via Arenula ha annunciato che entro la fine della prossima settimana sottoscriverà il decreto che stanzia gli incentivi per la negoziazione assistita e incontrerà le associazioni in tema di elezioni dei Coa. "L’incontro ha rafforzato il metodo di dialogo istituzionale avviato dal Guardasigilli con il Cnf su tutti i temi riguardanti il sistema Giustizia ed il ruolo al suo interno degli Avvocati", ha precisato Mascherin, "nel corso del faccia a faccia ho avuto, inoltre, modo di ribadire l’apprezzamento per la nomina di un avvocato a vicecapo dell’ufficio legislativo aggiungendo quello per lo stanziamento di fondi a sostegno della negoziazione assistita. Il lavoro comune da fare è molto, ma con il rispetto dei reciproci ruoli si può andare lontano". Mandato d’arresto europeo: la trasmissione degli atti oltre il termine non blocca la consegna di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 15 ottobre 2015 n. 41516. La mancata trasmissione dei documenti da parte dello Stato che richiede la consegna di un detenuto straniero non preclude l’accoglimento della domanda, neppure se questa è stata respinta, con sentenza definitiva, per scadenza dei termini. La Corte di Cassazione, con la sentenza 41516 depositata ieri, esclude che sia necessario un nuovo mandato d’arresto europeo e la rinnovazione della domanda di consegna se questa è stata definitivamente respinta perché lo Stato richiedente ha inviato le "carte" dopo la dead line prevista dall’articolo 17 della legge 69/2005 che attua la decisione quadro (2002/584/Gai). L’arrivo dei documenti che illustrava le condizioni legittimanti consente, infatti, una nuova valutazione nel merito, pur restando inalterata la possibilità di disporre la liberazione dell’interessato a causa dei ritardi nella procedura. I giudici della sesta sezione ricordano che il riconoscimento reciproco dei provvedimenti è la pietra angolare della cooperazione giudiziaria e che il no al mandato d’arresto europeo può essere opposto solo nei casi tassativamente previsti dalla decisione quadro. E tra questi non rientra la scadenza dei termini, tempi che non sono posti a presidio dell’efficacia della richiesta ma a garanzia di una rapida definizione del procedimento. L’inerzia, anche reiterata, nel trasmettere gli atti, non può essere interpretata come una volontà tacita di desistere dall’azione. La sentenza definitiva non blocca la strada a un nuovo giudizio che può essere escluso solo per la riscontrata rinuncia da parte dello Stato estero all’esecuzione del mandato. Secondo il difensore dell’imputato non si poteva accogliere l’istanza senza un nuovo mandato, come previsto dall’articolo 707 del codice di rito che, in situazioni analoghe, che subordina il parere favorevole dello Stato richiesto a una nuova domanda di estradizione. La Cassazione sottolinea però la differenza strutturale tra l’avvio della procedura di estradizione e la consegna: solo la prima prevede, infatti, l’espressione di una volontà politica di persistere nella collaborazione, mentre nella consegna questa è tacita se non revocata. Rafforzata la prevenzione antiriciclaggio, appalti al vaglio degli indicatori di anomalia di Paola Berardino e Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015 Decreto del ministero dell’Interno 25 settembre 2015. Fissati gli indicatori di anomalia per l’individuazione da parte degli uffici della pubblica amministrazione delle operazioni sospette di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo. Il decreto Interno 25 settembre 2015 - adottato ai sensi dell’articolo 41, comma 2, del Dlgs n. 231/2007 e preventivamente validato dal Comitato di sicurezza finanziaria del Mef - risponde all’esigenza, sempre più pressante, di stimolare la Pa all’assunzione di un ruolo attivo in materia di prevenzione. Le procedure interne - Il provvedimento impone agli operatori pubblici l’adozione, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, di procedure interne di valutazione idonee a garantire l’efficacia della rilevazione di operazioni sospette, la tempestività della segnalazione all’Unità di informazione finanziaria, la massima riservatezza dei soggetti coinvolti nell’effettuazione della segnalazione stessa. Tali procedure interne specificano le modalità con le quali gli addetti agli uffici della pubblica amministrazione trasmettono le informazioni rilevanti ai fini della valutazione delle operazioni sospette a un soggetto denominato "gestore". La persona individuata come gestore può coincidere con il responsabile della prevenzione della corruzione previsto dall’articolo 1, comma 7, della legge 190/2012. Nel caso in cui tali soggetti non coincidano, gli operatori prevedono adeguati meccanismi di coordinamento tra i medesimi. Gli operatori si possono avvalere di procedure di selezione automatica delle operazioni anomale basate su parametri quantitativi e qualitativi. Gli enti locali con meno di 15mila abitanti possono individuare un gestore comune ai fini dell’adempimento dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette. Analogamente a quanto previsto dalla legge n. 190 del 2012 in tema di anticorruzione, sono imposte iniziative di adeguata formazione del personale e dei collaboratori ai fini della corretta individuazione degli elementi di sospetto. Tale formazione deve avere carattere di continuità e sistematicità, nonché tenere conto dell’evoluzione della normativa in materia antiriciclaggio. La valutazione - Gli indicatori sono destinati ad agevolare l’individuazione delle operazioni sospette, riducendo i margini di incertezza connessi con valutazioni soggettive o con comportamenti discrezionali, e hanno lo scopo di contribuire al contenimento degli oneri e al corretto e omogeneo adempimento degli obblighi di segnalazione. L’elenco non è esaustivo ed è destinato a un periodico aggiornamento, anche in considerazione della continua evoluzione delle modalità di svolgimento delle operazioni. L’impossibilità di ricondurre operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori previsti nell’allegato del decreto non è sufficiente a escludere che l’operazione sia sospetta. Gli operatori sono pertanto tenuti a valutare con la massima attenzione ulteriori comportamenti e caratteristiche dell’operazione che, sebbene non descritti negli indicatori, siano egualmente sintomatici di profili di sospetto. La mera ricorrenza di operazioni o comportamenti descritti in uno o più indicatori di anomalia non è peraltro motivo di per sé sufficiente per l’individuazione e la segnalazione di operazioni sospette, per le quali è comunque necessaria una concreta valutazione specifica. Le caratteristiche degli indicatori - Gli indicatori di anomalia sono suddivisi in: indicatori generali, applicabili a tutti i destinatari, e indicatori specifici, distinti per attività. Gli indicatori generali sono connessi alle modalità di esecuzione delle operazioni e ai mezzi di pagamento utilizzati, oltre che all’identità o ai comportamenti inusuali o sospetti del cliente. Gli indicatori specifici, che sono invece calibrati con riguardo alla tipologia delle attività esercitate dagli operatori, possono essere ad esempio: • la partecipazione a procedure di affidamento di lavori pubblici, servizi e forniture, in assenza di qualsivoglia convenienza economica all’esecuzione del contratto, anche con riferimento alla dimensione aziendale dell’operatore e alla località di svolgimento della prestazione, ovvero mediante ricorso al meccanismo dell’avvalimento plurimo o frazionato, ai fini del raggiungimento della qualificazione richiesta per l’aggiudicazione della gara, qualora il concorrente non dimostri l’effettiva disponibilità dei requisiti facenti capo all’impresa avvalsa, necessari all’esecuzione dell’appalto; • l’esecuzione di pagamenti infragruppo, specie se connessi con la prestazione di attività di consulenza, studio o progettazione, non supportate da idonea documentazione giustificativa; • l’esecuzione delle attività affidate al contraente generale direttamente o per mezzo di soggetti terzi, in assenza di adeguata esperienza, qualificazione, capacità organizzativa tecnico-realizzativa e finanziaria; • la richiesta di finanziamento pubblico incompatibile con il profilo economico-patrimoniale del soggetto cui è riferita l’operazione. L’obbligo di segnalazione - Gli operatori pubblici sono tenuti ad inviare all’ Uif una segnalazione, ai sensi dell’articolo 41 del decreto antiriciclaggio, quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Il sospetto deve fondarsi su una compiuta valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi dell’operazione a disposizione dei segnalanti, acquisiti nell’ambito dell’attività svolta, non solo alla luce degli indicatori di anomalia in base al decreto antiriciclaggio ma anche degli schemi di comportamento anomalo di cui all’articolo 6, comma 7, lettera b) del decreto stesso. Gli operatori devono segnalare le operazioni sospette a prescindere dal relativo importo. Nella valutazione delle operazioni sono tenute in particolare considerazione le attività che presentano maggiori rischi di riciclaggio in relazione alla movimentazione di elevati flussi finanziari e a un uso elevato di contante, nonché i settori economici interessati dall’erogazione di fondi pubblici, anche di fonte comunitaria, e quelli relativi ad appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta e smaltimento dei rifiuti. La segnalazione di operazione sospetta è un atto distinto dalla denuncia di fatti penalmente rilevanti e va effettuata indipendentemente dall’eventuale denuncia all’autorità giudiziaria. Licenza revocata se c’è una ordinanza di custodia cautelare di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015 Tar Calabria - Reggio Calabria - Sentenza 25 giugno 2015 n. 652. La Pubblica amministrazione può revocare la licenza di polizia precedentemente rilasciata per l’esercizio di attività di giochi e scommesse se il soggetto autorizzato è colpito da misura cautelare o su di esso pendono procedimenti penali, a prescindere dall’esito del giudizio. Tali misure sono infatti elementi che provano l’assenza di "buona condotta" e giustificano il provvedimento di revoca. Lo ha chiarito il Tar di Reggio Calabria con la sentenza 652/2015. Il caso - Il protagonista della vicenda è un signore titolare di una licenza con la quale veniva autorizzato ad esercitare l’attività di raccolta scommesse e l’attività di sala giochi con l’installazione ed uso dei sistemi di giochi. In seguito, tale autorizzazione veniva revocata dalla Questura perché l’uomo veniva attinto da ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione di tipo mafioso e porto abusivo di armi in luogo pubblico. L’ex titolare della licenza aveva però impugnato tale provvedimento sostenendo che la Questura non aveva preso in considerazione il fatto che, precedentemente all’emanazione del provvedimento di revoca, in sede di riesame egli aveva ottenuto gli arresti domiciliari e l’imputazione a suo carico si era ridimensionata. Successivamente, i giudici amministrativi avevano respinto la sua domanda cautelare, mentre l’uomo veniva assolto dai reati contestatigli. La decisione del Tar - I giudici calabresi tuttavia ritengono che la Questura ben ha fatto a revocare la licenza in quanto le autorizzazioni di polizia, ai sensi dell’articolo 11 comma 2 T.u.l.p.s., possono essere negate (o revocate), non solo nei confronti di chi è stato condannato per una serie di delitti come rapina, estorsione o reati contro l’ordine pubblico, ma anche nei confronti di "chi non può provare la sua buona condotta". E pur non potendosi porre l’onere della prova di buona condotta a carico dell’interessato, le autorizzazioni possono essere negate a chi non sia ritenuto "in possesso di quell’affidabilità necessaria per poter escludere, in via prognostica, il pericolo che possa abusare del titolo". Rientra pertanto nella discrezionalità della Pubblica amministrazione valutare tutti gli elementi a disposizione in funzione anche della pericolosità degli interessi in gioco e, nel caso di specie, la decisione della Questura non è sicuramente censurabile "a fronte della gravità dei fatti all’epoca contestati e dell’emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale". A favore del ricorrente, resta il fatto che la sentenza penale assolutoria può portare, attraverso un’apposita istanza, alla riedizione del potere amministrativo. Il Garante privacy non è parte nel processo per risarcimento danni contro il Comune di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015 Corte di Cassazione - Sezione III civile - Sentenza 15 ottobre 2015 n. 20890. Il Comune deve risarcire i danni morali per lesione della privacy patiti dalla persona le cui condizioni di salute sono state rese note non solo ai dipendenti incaricati di una consegna, ma anche agli altri presenti. Con la sentenza n. 20890, depositata ieri, la Cassazione ha rigettato il ricorso del Comune che nel proprio agire aveva reso conoscibili a terzi i dati relativi alla situazione di handicap di un cittadino, sul quale procedeva alle dovute verifiche e a cui in ultima istanza aveva revocato il permesso disabili. Il caso - Per i giudici la lesione della riservatezza è di fatto esistente, quando la mancanza di cautele, che rende conoscibili non solo da parte degli incaricati dell’ente locale le condizioni di salute del cittadino, relative alla propria pratica di ottenimento o mantenimento del permesso invalidi per la circolazione stradale, si realizza in un piccolo territorio municipale. Infatti, in tal caso è evidente come soprattutto in un piccolo centro la lesione della riservatezza sia concreta. A peggiorare la situazione del Comune - nel caso specifico - era stato rilevato da parte dei giudici che la successiva revoca del permesso invalidi fosse una sorta di azione ritorsiva a danno del cittadino. Tra l’altro, come fa rilevare la Cassazione, le modalità della convocazione presso la Asl e della consegna della documentazione erano già state portate dall’interessato all’attenzione del Garante, che le aveva giudicate illecite. Cade anche la contestazione del Comune contro la sentenza del Tribunale per l’illegittimità dovuta al mancato coinvolgimento del Garante privacy, in quanto litisconsorte necessario. Argomento respinto sulla base del dato normativo che prescrive la necessaria presenza del Garante nel processo solo quando oggetto della lite sia un provvedimento dell’Authority. Mentre il Garante è sicuramente figura estranea alla causa per danni intentata contro il Comune perché è un giudizio che vede coinvolti solo l’ente locale in diretta lite con chi si ritiene danneggiato. La sentenza - In base a questi rilievi venivano riconosciuti i danni morali al cittadino danneggiato dall’illecita diffusione dei propri dati sanitari all’interno di una piccola comunità. Venivano così accordati 15 mila euro di danni per riparare la sofferenza morale patita. La Cassazione rigetta il ricorso e non rileva alcun errore di diritto del giudice che ha applicato la valutazione equitativa di un danno di difficile quantificazione come nel caso di specie. E, infine rigetta anche la pretesa nullità della sentenza di merito non essendoci stata violazione dell’articolo 152 del Codice privacy. Permesso disabili, paga i danni il Comune che non tutela la privacy sui dati della salute di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015 Il Comune deve risarcire i danni morali per lesione della privacy patiti dalla persona le cui condizioni di salute sono state rese note non solo ai dipendenti incaricati di una consegna, ma anche agli altri presenti. Con la sentenza n. 20890, depositata ieri, la Cassazione ha rigettato il ricorso del Comune che nel proprio agire aveva reso conoscibili a terzi i dati relativi alla situazione di handicap di un cittadino, sul quale procedeva alle dovute verifiche e a cui in ultima istanza aveva revocato il permesso disabili. Il Quotidiano Enti locali e Pa si è già occupato di un caso simile - sempre in relazione a una sentenza della Cassazione - che riguardava la diffusione, nell’ambito di una procedura amministrativa per il cambio di residenza, di dati sensibili relativi alla sfera sessuale di un cittadino. Il caso. Per i giudici la lesione della riservatezza è di fatto esistente, quando la mancanza di cautele, che rende conoscibili non solo da parte degli incaricati dell’ente locale le condizioni di salute del cittadino, relative alla propria pratica di ottenimento o mantenimento del permesso invalidi per la circolazione stradale, si realizza in un piccolo territorio municipale. Infatti, in tal caso è evidente come soprattutto in un piccolo centro la lesione della riservatezza sia concreta. A peggiorare la situazione del Comune - nel caso specifico - era stato rilevato da parte dei giudici che la successiva revoca del permesso invalidi fosse una sorta di azione ritorsiva a danno del cittadino. Tra l’altro, come fa rilevare la Cassazione, le modalità della convocazione presso la Asl e della consegna della documentazione erano già state portate dall’interessato all’attenzione del Garante, che le aveva giudicate illecite. Tra l’altro cade anche la contestazione del Comune contro la sentenza del Tribunale per l’illegittimità dovuta al mancato coinvolgimento del Garante privacy, in quanto litisconsorte necessario. Argomento respinto sulla base del dato normativo che prescrive la necessaria presenza del Garante nel processo solo quando oggetto della lite sia un provvedimento dell’Authority. Mentre il Garante è sicuramente figura estranea alla causa per danni intentata contro il Comune perché è un giudizio che vede coinvolti solo l’ente locale in diretta lite con chi si ritiene danneggiato. La sentenza. In base a questi rilievi venivano riconosciuti i danni morali al cittadino danneggiato dall’illecita diffusione dei propri dati sanitari all’interno di una piccola comunità. Venivano così accordati ben 15 mila euro di danni per riparare la sofferenza morale patita. La Cassazione rigetta il ricorso e non rileva alcun errore di diritto del giudice che ha applicato la valutazione equitativa di un danno di difficile quantificazione come nel caso di specie. E, infine rigetta anche la pretesa nullità della sentenza di merito non essendoci stata violazione dell’articolo 152 del Codice privacy. Lettere: magistratura, sopprimere le correnti ideologiche di Gerardo Mazziotti Roma, 16 ottobre 2015 Il magistrato Dante Troisi pubblicò nel 1955 "Diario di un giudice". E, come sovente succedeva in quegli anni con le opere di denuncia, l’autore finì nei guai. Ha scritto tra l’altro "Condannare è come uccidere. La nostra sembra una giustizia a cui importa sospettare e non provare, minacciare e non punire, incriminare più che giudicare. Ogni giorno cresce il numero di indiziati di reato. Presto saremo un popolo di imputati". Perciò fu sottoposto a provvedimento disciplinare e sanzionato con una "censura". In realtà il libro racconta la vita di ogni giorno in un Tribunale italiano con verbali di carabinieri e interrogatori e con il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della magistratura e quello del popolo in nome del quale la Giustizia viene esercitata. Una riflessione, dolente, impietosa. Elio Vittorini interpretò il testo sottolineando il suo essere specchio di una "società primitiva, impetuosa e insieme come stupefatta di non riuscire ad avere altro di civile che avvocati e giudici". Nel 1998 fece scalpore "La toga rossa" di Francesco Misiani perché, nel descrivere la nascita della corrente di sinistra Magistratura Democratica vi si afferma che "i magistrati italiani hanno come compito la ricerca di una politica della magistratura che sia capace di inserirsi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso (...), che ritengono il capitalismo nemico della democrazia (...). che hanno come fine l’abbattimento dello Stato borghese". Qualcosa di simile si poteva leggere in una "risoluzione" del Direzione Nazionale del Pci. Stupefacenti le pagine dedicate ai processi che si celebravano negli stadi della Cina maoista, le cui sentenze di morte venivano eseguite immediatamente sotto gli occhi plaudenti del popolo e che Misiani si augurava che un giorno si potessero celebrare anche nel nostro Paese. Nel 2007 il Procuratore Aggiunto di Torino Bruno Tinti ha scritto "Toghe rotte", nel quale, tra l’altro, vengono denunciati "i vizi nell’esercizio dell’autogoverno della magistratura, dovuti alla degenerazione corporativa delle correnti, che influiscono negativamente sull’efficienza dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso e rappresentano la causa non ultima dell’interminabile durata dei processi". Nel suo libro " Magistrati", apparso presso Einaudi nel 2009, Luciano Violante, ex presidente della Camera dei deputati, ha scritto "Con il tempo le correnti dei magistrati si sono trasformate da luoghi di discussione e approfondimento in ben oleate macchine di potere interno. Basti considerare che, prima o poi, tutti i capi corrente sono eletti al Csm. La conseguenza è che oggi, come denunciano molti magistrati, chi non appartenga a una corrente o non sia protetto da un partito, difficilmente arriva a ricoprire incarichi rilevanti. In pratica, e spiace dirlo, bisogna difendere l’indipendenza dei magistrati dalle correnti ideologiche, e bisogna trovare il modo di superare quel corporativismo che i Costituenti speravano di avere eluso stabilendo che un terzo dei componenti fosse eletto dal Parlamento". Su questa anomalia italiana ho scritto una lettera dal titolo "Quod non dixit non voluit", pubblicata sul Corriere della Sera il 24 settembre 2012 per denunciare il fatto che l’Associazione Nazionale Magistrati e le varie correnti ideologiche non sono state previste dalla Costituzione e che, pertanto, vanno soppresse. L’Anm è un sindacato di categoria che si contrappone al Parlamento ogni qualvolta è in discussione una legge che li riguarda e che minaccia scioperi ( e li attua) se non sono di suo gradimento. Talché una seria riforma della Giustizia (se ne parla da decenni ma non si ha mai il coraggio di farla) deve prevedere, preliminarmente, la soppressione dell’Anm e delle correnti ideologiche perché incostituzionali. Fino a quando i magistrati saranno liberi di costituire un loro sindacato e di associarsi in correnti qualsiasi tentativo di riformare questo sistema giudiziario è destinato a fallire. Cagliari: detenuto 31enne in attesa di giudizio tenta suicidio a Uta e muore in ospedale Ansa, 16 ottobre 2015 Un detenuto colombiano è morto dopo essersi impiccato nel centro clinico del carcere di Uta. Ieri aveva tentato il suicidio impiccandosi nella sua cella del carcere di Uta e gli agenti della polizia penitenziaria erano riusciti a slegarlo in tempo, purtroppo però una volta in ospedale il suo cuore ha smesso di battere. È morto così oggi, a 31 anni, un detenuto in attesa di giudizio. Il caso ripropone il problema della carenza di organico nell’istituto di Uta, ma in generale in tutte le carceri sarde, più volte denunciato dai sindacati di categoria e da diversi esponenti politici, in prima fila il deputato di Unidos Mauro Pili. "Dopo le recenti segnalazioni della Uil il carcere di Uta torna alla ribalta per fatti di cronaca - commenta il coordinatore provinciale Raffaele Murtas - il personale di polizia penitenziaria sta cercando disperatamente di fare in modo che la situazione non sprofondi. Nonostante la grave carenza di organico si salvano numerose vite, in questo caso nonostante la tempestività non è andata come speravamo. Rimane il rammarico per lo stato di abbandono da parte dei vertici del dipartimento di una struttura aperta di recente". Dello stesso avviso Fabrizio Floris e Donato Capece, del Sappe. "L’ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano - denunciano - è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria". "Un carcere nuovo che sta esplodendo - aggiunge il deputato Pili - con pochissimi agenti e con una gestione al limite del collasso. La spregiudicatezza di chi governa il sistema penitenziario sardo è al limite". Campobasso: la famiglia chiede giustizia per Alessandro, morto in cella a 34 anni di Assunta Domeneghetti primonumero.it, 16 ottobre 2015 Parla Maurizio Ianno, fratello del detenuto campobassano deceduto il 19 marzo scorso nel carcere di via Cavour per un infarto: "Vogliamo la verità, la nostra battaglia è anche per tutti i detenuti che rischiano la fine che ha fatto Alessandro". Quattro persone, il medico e tre infermieri, risultano indagate per omissione di soccorso ma il magistrato Rossana Venditti ha già chiesto l’archiviazione del caso. Secondo i legali della famiglia Ianno i sanitari del carcere non hanno capito che il 34enne stava per avere un arresto cardiocircolatorio: "Lo ha detto a tutti, si è fatto portare in infermeria e gli hanno prescritto il Malox, inoltre la terapia insulinica gli è stata praticata dopo la morte. Ci sono troppe anomalie da spiegare per questo ci siamo opposti". "Io e Alessandro eravamo quasi coetanei, tra noi c’era appena un anno di differenza. Ero il penultimo di sei fratelli. Oggi che lui non c’è più sono io quello più giovane della famiglia". Chi parla è Maurizio Ianno, fratello di Alessandro, giovane detenuto morto nel carcere di via Cavour, a Campobasso, il 19 marzo 2015 per un arresto cardiocircolatorio. Dopo quell’infarto un medico e tre infermieri sono finito sul registro degli indagati per omissione di soccorso. Ianno si trovava dietro le sbarre per furto: aveva qualche precedente ma sarebbe uscito pochi giorni dopo la Festa del papà. Maurizio oggi chiede "giustizia e verità", a nome della famiglia, dei suoi fratelli e della madre perché convinto "che se lo avessero portato in ospedale si sarebbe salvato. Ciò che è capitato a mio fratello può succedere ancora, la nostra battaglia è anche per tutti i detenuti che rischiano la fine che ha fatto Alessandro". Sul caso Ianno pende una richiesta di archiviazione avanzata il 28 luglio dal magistrato Rossana Venditti. E c’è anche l’opposizione all’archiviazione dei legali Silvio Tolesino e Antonello Veneziano, difensori della famiglia del detenuto morto, i quali vogliono evidenziare al giudice "tutte le anomalie registrate quel 19 marzo". A giorni dovrebbe essere fissata l’udienza. Nell’attesa l’avvocato Tolesino ci ha riferito la sua versione: "Più di cinque detenuti - ha detto - sono pronti a testimoniare nell’eventuale processo che Alessandro si lamentava dei dolori "al petto, alla spalla, allo stomaco" già dalla tarda mattinata di quel maledetto 19 marzo". Alessandro è morto alle 17, come hanno scritto sul registro dei decessi i sanitari del 118. Cosa sia successo in quelle ore è ancora da chiarire. Come da chiarire è un altro particolare macabro relativo alla terapia insulinica (soffriva di diabete) che gli sarebbe stata praticata post mortem. Questo almeno si evince dal registro dell’infermeria. "In infermeria Ianno c’era stato due volte - dice ancora Tolesino - la prima gli hanno somministrato il Malox, la seconda volta il Gaviscon (sono due medicinali che curano i bruciori di stomaco, nda)". Per il medico incaricato dal magistrato di eseguire l’autopsia, poi, il decesso sarebbe stato "asintomatico e silente". E proprio questa perizia potrebbe aver convinto il sostituto procuratore a chiedere l’archiviazione del caso. In realtà, e questo lo dicono i detenuti che con Alessandro avevano parlato durante l’ora d’aria, i sintomi di un infarto in arrivo c’erano già tutti e molte ore prima. Inoltre, e questo lo ricorda bene Maurizio, "Alessandro aveva qualche problema di salute, un po’ di colesterolo alto, un po’ di diabete… l’anno scorso ero stato io stesso a portarlo in ospedale perché accusava sintomi molto simili a quelli avuti in carcere. Lui era un po’ chiuso di carattere, timido, e credo che se ha chiesto aiuto a così tante persone doveva proprio avere dolori forti". Quando sono arrivate le analisi di laboratorio è emerso, inoltre, che l’arresto cardiocircolatorio c’è stato a seguito dell’occlusione di un’arteria. Non è stato, insomma, un infarto "fulminante" come si direbbe in gergo, il che spiega i sintomi dolorosi di cui si è lamentato per ore Alessandro. "Avrebbero dovuto controllare il cuore - dice ancora Tolesino - ma in carcere non mi risulta ci siano apparecchiature mediche per farlo. Per questo avrebbero dovuto portarlo in ospedale". E invece non l’hanno fatto. Non subito. Ianno è caduto a terra proprio davanti all’infermeria dove per la terza volta aveva chiesto agli agenti di polizia penitenziaria di essere accompagnato. Reggio Emilia: Rems, diminuiscono posti e costi La Gazzetta di Reggio, 16 ottobre 2015 La commissione regionale Politiche per la salute rivede il progetto: si passa da una spesa di 7,3 a una di 6,2 milioni, i posti letto scendono da 40 a 30. Parere positivo nel consiglio regionale, con il sì di Pd e Sel e l’astensione di Lega, M5s e Fdi-An, della commissione Politiche per la salute e politiche sociali, presieduta da Paolo Zoffoli, alla rimodulazione delle risorse per la realizzazione della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Reggio Emilia, prevista dopo la chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. "Relativamente all’intervento - hanno riferito i tecnici della Giunta regionale - viene rideterminato il numero di posti letto, che passa da 40 a 30. Viene conseguentemente rideterminato il costo complessivo della struttura, che passa da 7.356.880 euro a 6.200.000 euro (di cui 5.890.000 euro a carico dello Stato e 310.000 euro a carico della Regione), determinando risorse residue statali pari a circa 1.100.000 euro, da utilizzare per le strutture a media e bassa intensità per l’accoglienza di persone cui sia applicata la misura di sicurezza non detentiva (10 posti letto a Bologna e Parma)". Pur rimarcando, con il superamento degli Opg, l’impegno della Regione nel raggiungimento dell’obiettivo di una assistenza qualitativamente elevata, Giuseppe Paruolo (Pd) ha manifestato "preoccupazione, alla luce dei recenti accadimenti, per le condizioni di sicurezza nelle nuove strutture". Occorre, ha concluso, "trovare un punto di equilibrio tra assistenza e sicurezza, per rassicurare operatori, pazienti e famiglie". Gabriele Delmonte (Lega), sempre sullo stesso argomento, ha chiesto di "rafforzare le misure di sicurezza, reinvestendo i fondi risparmiati", rimarcando che "l’obiettivo non è stato raggiunto, gli operatori non sono tutelati". Infine, ha domandato alla Giunta "informazioni sulle modifiche nel progetto". I tecnici hanno riferito che "la struttura sarà di dimensioni minori, passando da 3.760 a 3.000 metri quadri, e quindi più facilmente controllabile", hanno inoltre sottolineato che "verrà analizzata attentamente ogni indicazione pervenuta dai soggetti interessati, per valutare ogni problematica", al fine di "raggiungere gli obiettivi dettati dalla normativa". Tommaso Foti (Fdi) ha presentato un emendamento chiedendo un maggiore coinvolgimento, sulla materia, della commissione assembleare competente. L’emendamento, come anticipato da Marcella Zappaterra (Pd), è stato accolto dalla maggioranza. Padova: uccise il ladro con un colpo di pistola, chiesta l’assoluzione per il tabaccaio di Angela Tisbe Ciociola Corriere Veneto, 16 ottobre 2015 Per il pm Franco Birolo nel 2012 avrebbe agito per "legittima difesa putativa". Si sarebbe trattato di un legittimo errore di valutazione del reale pericolo. È stata chiesta l’assoluzione per Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola che il 26 aprile 2012 ha ucciso con un colpo di pistola un ladro che si era introdotto nel suo negozio. Nel cuore della notte, due ladri, Igor Ursu e Gheorghe Neagu, entrambi di origine moldava, si erano introdotti nella tabaccheria sfondando la vetrina con una Fiat Punto rubata. Birolo, che dormiva nell’appartamento proprio sopra il negozio, è stato svegliato dal rumore e, impugnata la pistola detenuta legittimamente, è sceso al piano di sotto. Qui, nel buio, ha intravisto un uomo che scappava verso l’auto lasciata in moto davanti alla tabaccheria e che portava con sé molte stecche di sigarette. Ma soprattutto ha intravisto un’ombra, quella di Ursu, che gli arrivava alle spalle. Sentendosi aggredito, ha sparato. Il colpo ha passato da parte a parte il ladro che, prima di morire, è riuscito a percorrere una trentina di metri. Lo scorso maggio, Birolo, difeso dall’avvocato Luigino Martellato, era stato rinviato a giudizio per eccesso colposo di legittima difesa. I due malviventi, infatti, non erano armati, e il tabaccaio avrebbe dovuto valutare meglio la reale situazione di pericolo. Il 15 ottobre, però, il pm Benedetto Roberti, ha chiesto l’assoluzione di Birolo che avrebbe agito il legittima difesa putativa. In sostanza, in quelle condizioni, è legittimo un errore di valutazione del reale pericolo. Il giudice Beatrice Bergamasco ha aggiornato il processo al prossimo 26 novembre, giorno in cui parleranno gli avvocati della madre e del fratello del ladro ucciso, costituitesi parte civile. Alba (Cn): Sappe; detenuto evade dal carcere, seconda evasione in quattro mesi Agenparl, 16 ottobre 2015 "Un detenuto senegalese ammesso al lavoro all’interno del carcere è evaso ieri nel tardo pomeriggio dal carcere di Alba". Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Il detenuto era destinatario di un provvedimento di espulsione e probabilmente per questo è evaso: ha sfruttato la condizione di essere autorizzato a girare l’istituto per il suo lavoro di pulizie ed ha trovato il varco dal quale fuggire", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe, aggiungendo che il soggetto evaso (20 anni) era detenuto per reati collegati allo spaccio di stupefacenti con fine pena 15 settembre 2016. "È del tutto evidente" aggiunge "che un detenuto che evade dal carcere allunga ovviamente la sua permanenza nelle patrie galere. Mi auguro per lui che si costituisca prima di essere catturato, ma è certo grave constatare come questa sia la seconda evasione che si verifica nel carcere di Alba in soli 4 mesi", conclude Capece ricordando il precedente del giugno scorso. Vicente Santilli, segretario regionale piemontese del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, evidenzia che "sempre ieri e sempre nel carcere di Alba, verso le 19.15 un detenuto collaboratore di giustizia ha tentato di impiccarsi, per problemi familiari, e ci era quasi riuscito se non era per la prontezza dei poliziotti penitenziari di servizio presso la sezione che hanno evitato il peggio". Verona: carcere di Montorio, sopralluogo del ministero dopo gli incendi nelle celle di Angiola Petronio Corriere Veneto, 16 ottobre 2015 Incendi nelle celle, arriva il magistrato capo della direzione "detenuti e trattamento". Interrogazione della Bonfrisco. È arrivato ieri pomeriggio. Ma chi - sindacati della polizia penitenziaria in testa - sperava si trattasse di un ispettore inviato dal ministero della Giustizia per verificare la situazione del carcere di Montorio a partire dalla gestione del direttore, è rimasto alquanto deluso. Perché quel dirigente che ha varcato i cancelli della casa circondariale poco prima delle 16, è un componente della direzione "detenuti e trattamento" del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un ufficio che si occupa della situazione dei carcerati e che interviene anche quando si creano situazioni "difficili". Quattro incendi di celle in sei mesi, di cui tre nell’arco di 48 ore. E ieri a Verona è arrivato da Roma il direttore generale di quella struttura, il magistrato Roberto Piscitello. Si occupa dell’assegnazione e del trasferimento dei detenuti, la direzione "detenuti e trattamento". E il fatto che oltre le sbarre della casa circondariale ne sia arrivato il direttore è un segnale preciso che manda il ministero di Giustizia. Ha ascoltato i detenuti, il dottor Piscitello. E non ha incontrato quei sindacati che erano davanti ai cancelli, pronti per essere ascoltati. Quelli che ieri, dopo l’ennesima incendio, invocavano un’ispezione. Erano già venuti l’anno scorso, gli uomini del dipartimento. E difficilmente tornano nello stesso carcere nel giro di poco tempo, Erano nelle loro celle anche Jil Jesus Maria Paredes e Janku Bahic quando Piscitello è arrivato a Montorio. Appena tornati dal tribunale dove si sono presentati per una direttissima, con l’accusa di incendio. Sono i due detenuti che l’altro giorno hanno dato fuoco alla cella numero 28, sezione 2 piano secondo del carcere. Ci hanno bruciato materassi, sgabelli, scrivania, armadietto. Tutto quello che poteva bruciare. E lo hanno fatto dopo una rissa tra due detenuti. Sono finiti in ospedale in 12, gli agenti della polizia penitenziaria. Tre in barella a Borgo Roma" altri 9 in borgo Trento sulle auto di servizio. Paredes e Bahic hanno chiesto i termini a difesa e sono tornati giustappunto a Montorio, in attesa del processo fissato per il 17 dicembre. Ma non è detto che restino fino ad allora nel carcere veronese. Perché una delle tante richieste dei sindacati della polizia penitenziaria potrebbe essere accolta. Quella di trasferire quei detenuti "facinorosi" che erano già nella sezione dedicata ai carcerati sottoposti a sanzioni disciplinari. Intanto lo stato d’agitazione continua e le organizzazioni che rappresentano gli agenti e che hanno chiesto un incontro al prefetto, si presenteranno con due tavoli separati. A uno al Uil pubblica amministrazione. All’altro Cgil, Cisl e autonomi. Ma la "vertenza" sulla situazione a Montorio continua anche a livello politico, mentre il direttore Maria Grazia Bregoli continua a rimanere sul suo Aventino fatto di silenzi. "Quando si mette in gioco l’incolumità degli agenti e di altri detenuti come è accaduto mercoledì siamo al limite. I facinorosi vadano trattati come il codice impone, anche con i trasferimenti in carceri di massima sicurezza", commenta il deputato Pd D’Arienzo. Intanto la senatrice Cinzia Bonfrisco, capogruppo dì Conservatori e Riformisti, ieri ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando chiedendo di verificare se "siano state tempestivamente adottate le necessarie e previste misure di sorveglianza; se intenda assumere e, in caso contrario per quali motivi, ogni opportuna iniziativa volta al potenziamento dell’organico degli agenti di polizia penitenziaria assegnati presso il carcere di Verona, rendendo al contempo, per quanto possibile, più accettabili le condizioni di lavoro degli agenti di polizia e la vita intramuraria delle persone ristrette". L’ennesima giornata di tensione, quella di ieri, dentro e per Montorio. Pescara: "Una scarpa per il futuro", nasce calzaturificio per dare lavoro ai detenuti Ansa, 16 ottobre 2015 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sostiene e promuove il lavoro penitenziario attraverso progetti che mirano a qualificare la formazione professionale e l’impiego di mano d’opera di soggetti in esecuzione penale. In questa ottica, ieri, 14 ottobre, il Consiglio di Amministrazione di Cassa Ammende ha approvato il progetto denominato "Una scarpa per il futuro" presentato dalla Direzione della Casa Circondariale di Pescara quale ente capofila, per il potenziamento del calzaturificio già esistente presso l’istituto penitenziario, che inizierà, pertanto, a produrre calzature per il Corpo di Polizia Penitenziaria, previ collaudi che saranno espletati dai fruitori. Il progetto approvato da Cassa Ammende, per un importo di 507.993,63 euro, prevede il potenziamento della attuale filiera mediante l’acquisto di nuovi macchinari e attrezzature che renderanno possibile completare l’intero iter produttivo delle calzature. Il finanziamento sosterrà le spese per realizzare e/o potenziare l’impianto di areazione e aspirazione, l’ampliamento degli spazi disponibili e la collocazione di moderne attrezzature a regola d’arte. Trenta i detenuti destinatari del corso di formazione professionale per un totale di 900 ore (90 ore di teoria e 810 ore tecno-pratiche) al termine del quale i corsisti saranno in grado di produrre le tomaie, l’orlatura e la timbratura delle scarpe. Il calzaturificio, realizzato nel 2013 con fondi della Cassa Ammende, produce scarpe antinfortunistiche di ottima fattura impiegando dai 13 ai 15 detenuti, con una produzione, a oggi, di circa 14.000 paia di scarpe destinate a tutti i detenuti degli istituti penitenziari per le esigenze di sicurezza sui luoghi di lavoro e per la vendita all’esterno. Augusta (Sr): progetto dal carcere "Green food e Green drinking" approda all’Expo siracusanews.it, 16 ottobre 2015 Tutto pronto per la "spedizione" di una rappresentanza della scuola per geometri Filippo Juvara e della casa reclusione Augusta per la presentazione all’Expo di Milano del progetto di riqualificazione urbana "Green food e Green drinking". Il progetto, vincitore del concorso nazionale "La scuola per Expo" è stato realizzato da studenti detenuti al carcere di Brucoli sotto la guida delle insegnanti Marilù Attardo, responsabile del progetto, Emanuela Russo, Simonetta Boscarino, Maria Rosa Bosco e la collaborazione dell’ordine degli architetti, ingegneri, geometri. Ai detenuti si sono poi uniti degli studenti esterni che hanno curato insieme ai docenti la parte esterna del progetto facendo ciò che i detenuti non potevano fare, ricognizioni e filmati nei luoghi della città a Siracusa. E ieri ci sono state nella sala teatro del carcere le prove generali della presentazione che avverrà giorno 20 al padiglione Italia dell’Expo. Saranno presenti anche la preside, professoressa Strano, ed il direttore della casa di reclusione, Gelardi. Nell’occasione verrà proiettato un video attraverso il quale saranno presenti con le loro voci ed i loro volti, i detenuti del corso geometri. Bologna: Teatro del Pratello; se il giudice diventa imputato, il processo è in scena di Giulia Foschi La Repubblica, 16 ottobre 2015 All’Accademia delle Belle Arti uno spettacolo nato dalla collaborazione tra il Teatro del Pratello e il Tribunale per Minorenni di Bologna.. Uno spettacolo del Teatro del Pratello Imputato, avvocati, giudici e testimoni in scena per "La rappresentazione di un processo": ma non sono attori. Il protagonista del dibattimento in corso dalle 10 di domani, venerdì 16, all’aula magna dell’Accademia delle Belle Arti è il presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna Giuseppe Spadaro, che tolta la toga vestirà i panni di un giovane dj finito in un brutto guaio per una pastiglia di Ecstasy passata alla sua fidanzata, imputato per spaccio di stupefacenti e lesioni. "Non sarà difficile - spiega: qualsiasi giudice dovrebbe essere in grado di assumere il punto di vista dell’imputato, a maggior ragione se minore. Chi non è mai stato accusato? Chi non ha mai dovuto difendersi? Il processo coincide con la vita". La simulazione, a cura di Paolo Billi, nasce da una proposta del Tribunale per i Minorenni all’interno del Progetto Dialoghi, ponte tra le attività del Teatro del Pratello e le scuole: nonostante la soppressione dell’annuale spettacolo aperto al pubblico negli spazi dell’Istituto penale, dichiarati inagibili, il lavoro con i ragazzi detenuti e sottoposti a misure alternative continua. Domani però il palco sarà tutto per i professionisti del settore: otto magistrati tra giudici togati e onorari, il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive Desi Bruno e l’assistente sociale dell’Ussm Anita Lombardi si affrontano davanti a tre classi di tre istituti superiori e a novanta studenti dell’Accademia, seduti a terra al centro dell’aula, circondati da cinque palchetti destinati a collegio giudicante, pubblica accusa, difesa e testi. Spettatori e coautori, gli universitari si occuperanno delle riprese e del montaggio per la realizzazione di un documentario che verrà proiettato nelle scuole, una volta completato con la seconda parte del progetto, che vedrà protagonisti i ragazzacci di Billi impegnati in un laboratorio su "Il Processo" di Kafka. Il tema sarà così trattato in tutte le sue accezioni, da quella giuridica al processo come sviluppo evolutivo. Viterbo: triangolare calcio, raccolta fondi per acquistare materiale sportivo ai detenuti viterbopost.it, 16 ottobre 2015 "Diritti in Campo". È l’iniziativa organizzata dall’Associazione Pianeta Giustizia assieme al capogruppo del Partito Democratico al Consiglio regionale del Lazio Riccardo Valentini. "Un Triangolare di calcio - spiega Valentini - tra la Nazionale Giornalisti sportivi Rai, la Nazionale Italiana Jazzisti e l’Associazione Pianeta Giustizia Viterbo. L’obiettivo è raccogliere dei fondi per l’acquisto e la donazione di materiale sportivo destinato all’attività ricreativa dei detenuti della Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo". Il Triangolare - che si svolgerà a Marta oggi pomeriggio a partire dalle 15 presso il Centro Sportivo "Poleggi e Romagnoli", preceduto da un incontro tra le giovanili della Virtus Marta - è stato presentato da Teresa Mascolo (direttore Casa Circondariale Mammagialla Viterbo), Lucia Catanesi (sindaco di Marta), Ottavio M. Capparella (presidente Associazione Pianeta Giustizia) e Mirko Bandiera (presidente della Camera Penale di Viterbo). Ha moderato l’incontro il giornalista Daniele Camilli. Un’iniziativa che vede il patrocinio del Comune di Marta, del Lions Club di Viterbo, della Camera Penale di Viterbo, della Virtus Marta, della Federazione Italiana Gioco Calcio, dell’Associazione Italiana Arbitri e del Comitato Provinciale di Viterbo della Croce Rossa Italiana. "Una data, quella del 16 ottobre - sottolinea Riccardo Valentini - che non abbiamo scelto a caso. Il 16 ottobre ricorre infatti il 72° anniversario del rastrellamento del quartiere ebraico di Roma da parte dei nazisti. Perché riaffermare i valori dei diritti significa anche ricordare le lotte e gli episodi tragici che ne hanno accompagnato l’affermazione. Significa anche ricordare il valore assoluto della nostra Costituzione democratica e Repubblicana nata dalla lotta contro l’oppressione nazista e fascista e i suoi crimini contro l’umanità". "Diritti in campo" - spiega il presidente dell’Associazione Pianeta Giustizia Viterbo, Ottavio Capparella - evidenzia una sua vocazione solidaristica che in questo caso è indirizzata al mondo carcerario. Infatti l’evento si propone di contribuire, anche grazie alla qualificata partecipazione della Nazionale Giornalisti sportivi Rai e della Nazionale Italiana Jazzisti, alla valorizzazione delle attività sportive all’interno della Casa Circondariale di Viterbo. L’obiettivo di questa prima edizione del Triangolare è anche quella di sensibilizzare l’opinione pubblica verso il mondo carcerario, nell’ottica della funzione rieducativa della pena e quindi dell’importanza che ogni attività di carattere anche sportivo può avere per il detenuto". Al termine della giornata è previsto infine un convegno presso la Sala del Consiglio Comunale di Marta sul tema "La condizione carceraria tra realtà e prospettive". Radio: al via stagione di Jailhouse Rock, programma radiofonico curato da Antigone Ristretti Orizzonti, 16 ottobre 2015 Ricomincia la stagione di Jailhouse Rock, la trasmissione radiofonica curata dall’Associazione Antigone. Storie di musica e di carcere, raccontate ogni settimana da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti e dai tanti detenuti di tutta Italia che collaborano alla trasmissione. Ospite della prima puntata il rapper Clementino, che quest’estate ha suonato nel carcere napoletano di Poggioreale, a vent’anni esatti da quando su quel palco salì Pino Daniele. E poi ancora Carmelo Cantone, capo delle carceri toscane, Carmelo Musumeci, con la sua rubrica "L’ergastolano", il Grc (Giornale Radio dal Carcere), interamente curato da detenuti di Roma Rebibbia e Milano Bollate, la strepitosa cover band di detenuti Freedom Sounds. Jailhouse Rock va in onda ogni venerdì dalle 17.00 alle 18.00 su Radio Articolo 1 e Radio Popolare Roma; su Radio Popolare, sulle frequenze della Lombardia e di altre radio di Popolare Network, la domenica dalle 16.30 alle 17.30; su Controradio (Firenze) il martedì alle 22.30; su Radio Città del Capo (Bologna) il sabato alle 22.30; su Radio Flash (Torino) il lunedì alle 20.00; su Radio Popolare Salento la domenica alle 16.30; su Radio Città Aperta (Roma) il lunedì alle 13.00. Cittadinanza, italiani si nasce e si diventa di Federico Guiglia Il Messaggero, 16 ottobre 2015 Ma italiani si nasce o si diventa? Come si fa, nel mondo delle tante identità, a riconoscere un italiano? L’eleganza nel vestire? La simpatia nel rapporto umano? L’allegra malinconia nel canto? Un certo saper vivere tra buon cibo, Colossei in vista e tutte quelle strade dell’universo e dell’animo che continuano a portare a Roma? Per la prima volta il legislatore ha dato una risposta moderna all’antica domanda: italiani si nasce e si diventa. La Camera ha approvato un testo che valorizza le due cose insieme, "inventandosi" una felice mescolanza fra tre diritti, uno più bello dell’altro. I diritti dei padri, della storia e della geografia. Quattro figli di Garibaldi erano italiani pur nati a diecimila chilometri dall’Italia, in Brasile e in Uruguay: il dolce tesoro della memoria. La generazione-Balotelli è italiana pur nata in Italia da genitori stranieri: la tenera potenza delle radici. Ma con questo provvedimento sarà italiano anche chi arriverà nella Penisola da bambino, imparando a scuola chi furono Leopardi e Leonardo, e chi sono oggi e domani i suoi compagni di classe e di giochi (oltre all’immancabile squadra del cuore): la forza invincibile della cultura. Memoria, radici e cultura sono i tre ingredienti che impastano un sentimento che si chiama patria. Ora ciascuno potrà scegliere i suoi ingredienti tricolori, frutto delle circostanze della vita, della famiglia, del caso. E potrà riflettere: perché un Mario Balotelli deve sentirsi meno italiano dell’Umberto Bossi che italiano non si sente? Forse inconsapevoli, comunque meritevoli, i deputati che hanno votato il testo ora all’esame del Senato tra virgole, cavilli e polemiche hanno tuttavia decretato che c’è un modo riconoscibile per "essere italiani": amare l’Italia. Anche quando non si parla italiano, ancora, come capita ai figli di italiani nati all’estero e ai figli di stranieri nati o cresciuti in Italia da genitori che non conoscono la nostra lingua. Ma l’Italia per amore è una scelta che prescinde dall’anagrafe, dall’origine familiare, dai viaggi che in un dato momento dell’esistenza ti portano per sempre nel "bel paese là dove si suona". Per sempre risiedendovi o coltivandolo nel cuore, come succede quando si compie un ciclo scolastico e mai si dimenticherà la patria adottiva o di nascita, ovunque ci si trovi a vivere e a ricordarla. Accordare la cittadinanza italiana ai bambini nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri, e dopo un percorso di regolare soggiorno o di studi, non è soltanto un atto di civiltà. È il più forte e lungimirante investimento nell’identità italiana che solo una nazione dalla vocazione universale come l’Italia poteva e doveva finalmente compiere. Oggi la cittadinanza non è un formale né casuale pezzo di carta. È il riconoscimento di quello che sei e desideri. È il passaporto dei tuoi sogni e delle tue sofferenze. È il tuo "selfie". È la libertà di poter dire, come molti potranno presto dire, "sì, sono orgogliosamente italiano". Il business dei profughi fantasma "Badge-truffa al Cara di Mineo" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 16 ottobre 2015 Centinaia di migliaia di euro sottratti allo Stato in quattro anni per pagare la permanenza di persone già fuggite dal centro o assenti all’appello. Lo ha scoperto la Procura di Caltagirone. E ad Agrigento 7 indagati: lucravano sull’accoglienza. Louay è uno di quelli che, nel Cara degli scandali, c’è stato meno di 48 ore. Come tutti i siriani, gli eritrei e i somali mandati qui dopo essere stati soccorsi nel Canale di Sicilia, non si è fatto prendere le impronte né identificare. Di chiedere l’asilo in Italia non aveva alcuna intenzione. Adesso che è fuggito, il suo badge fra tre giorni andrà in allarme ma chissà se la sua assenza verrà segnalata o se, come è successo per migliaia di profughi, il Consorzio che gestisce il più grande Cara d’Europa continuerà a prendere indebitamente i 35 euro che la Prefettura paga per ogni migrante per ogni giorno di permanenza. La "truffa del badge", in quattro anni, è già costata allo Stato centinaia di migliaia di euro. E la stima è approssimata per difetto. Truffa è il reato ipotizzato dal procuratore della Repubblica di Caltagirone Giuseppe Verzera nel nuovo filone dell’inchiesta sul Cara di Mineo, il quarto dopo quelli sull’irregolarità dell’appalto da cento milioni di euro per la gestione del centro venuta fuori in Mafia capitale, sulla parentopoli nelle assunzioni del personale e sull’induzione alla corruzione con l’offerta di posti di lavoro in funzione di cambi di casacca al consiglio comunale di Mineo, filone quest’ultimo che ha già portato alla notifica di cinque avvisi di conclusione d’indagine, uno dei quali per il sindaco di Mineo, Anna Aloisi dell’Ncd. La reale entità della truffa del badge è ancora in fase di quantificazione, ma il meccanismo è chiarissimo. Quando i migranti vengono condotti al Cara viene loro consegnato un badge che dà diritto ad usufruire di tutti i servizi del centro: dalla mensa all’emporio all’ambulatorio. E che, naturalmente, serve agli ospiti per entrare ed uscire dal centro. Quando non viene utilizzato per tre giorni di fila, il badge va in allarme, segnalando l’assenza dal Cara del migrante in questione. Dopo ulteriori due giorni di inattività, il tesserino magnetico viene automaticamente disattivato. E se, per i primi tre giorni di "assenza" i 35 euro di diaria sono comunque dovuti al gestore, passate le 72 ore, nulla più sarebbe dovuto. Ed è proprio qui che si innesta la truffa. Perché le assenze che vengono automaticamente registrate dal sistema computerizzato del Cara non sarebbero state segnalate alla Prefettura che, dunque, dal 2011 ad oggi avrebbe continuato a pagare diarie non dovute per giorni, settimane, mesi per migliaia di migranti fantasma. L’inchiesta condotta dal procuratore Verzera sta poi vagliando un’ulteriore ipotesi: che possa esserci stato anche un fiorente "mercato" parallelo di badge attivi lasciati dai migranti fuggiti e gestiti dai terminali delle organizzazioni di trafficanti molto attivi nel centro. Come ha svelato alcuni mesi fa un’inchiesta della Dda di Palermo, le cellule siciliane dei trafficanti libici sarebbero state in grado di far entrare abusivamente nel Cara di Mineo centinaia di loro "clienti", ospitandoli lì a spese dello Stato in attesa di organizzare per loro (ovviamente dietro un ulteriore pagamento) l’ultima tappa del loro viaggio con destinazione Nord Europa. Il nuovo filone di indagine, del quale il procuratore Verzera ha già informato la commissione antimafia, la commissione d’inchiesta sull’accoglienza ai migranti e quella sulle libertà civili della Ue, arriva nel momento in cui il Cara di Mineo (pesantemente coinvolto nell’inchiesta romana su Mafia capitale) ha subito un improvviso ridimensionamento: dal dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione diretto dal prefetto Mario Morcone, che in questi anni ha destinato a Mineo più di 4000 persone contemporaneamente, è arrivato l’ordine di dirottare altrove i migranti. E adesso il numero degli ospiti è sceso sotto quota 2.000, con la conseguente riduzione della forza lavoro. Dei circa 700 lavoratori del centro ( a cui si sommano le migliaia dell’indotto e dei centri Sprar del circondario) più di 150 hanno ricevuto preavviso di licenziamento. Anche altre Procure accendono i riflettori su truffe analoghe. Ad Agrigento i pm Vella e Delpini, coordinati dal procuratore Renato Di Natale, hanno mandato la Guardia di finanza a perquisire gli uffici della Omnia Academy, un’associazione che gestisce comunità di accoglienza di migranti in quattordici comuni e che ha visto lievitare il suo volume d’affari in un solo anno da un milione e mezzo a cinque milioni di euro. Sette gli indagati per truffa ai danni dello Stato e falso. Bulgaria e migranti: i tanti volti del traffico di Francesco Martino (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 16 ottobre 2015 La crisi economica europea ricicla come "facilitatori" realtà malavitose ma anche soggetti sociali. È il 27 agosto 2015. Un camion abbandonato lungo la corsia d’emergenza dell’autostrada A4, non lontano dalla capitale austriaca Vienna. Al suo interno vengono rinvenuti i corpi senza vita di 71 persone: 59 uomini, 8 donne e 4 bambini. Sono rifugiati siriani, morti soffocati nel tentativo di raggiungere il sogno di una nuova vita nel cuore dell’Europa. Il camion viaggiava col logo di un allevamento di polli slovacco e con targa ungherese. Le indagini di polizia, però, puntano il dito in un’altra direzione: sei delle sette persone arrestate sono infatti di nazionalità bulgara (il settimo è afghano). Un episodio tragico, che ha messo sotto i riflettori il ruolo di reti e soggetti bulgari coinvolti nel business del traffico di persone, alimentato dalla grande fuga da Siria, Iraq e Afghanistan attraverso la cosiddetta "rotta balcanica". Seppure ai margini dell’attuale massiccia ondata di arrivi, sviluppatasi lungo l’asse Grecia-Macedonia-Serbia-Ungheria (e più recentemente Croazia), la Bulgaria - membro e confine esterno dell’Unione europea - resta un importante paese di transito. Secondo i dati del ministero dell’Interno di Sofia, da inizio 2015 sono almeno 17mila i rifugiati e richiedenti asilo fermati in Bulgaria. Tutti o quasi, intenzionati a proseguire il proprio viaggio verso Austria, Germania o Svezia. Un reato di natura ambigua. Vista la sua posizione geografica, la Bulgaria è un paese tradizionalmente attraversato da canali illegali utilizzati per il trasporto di persone, armi e droga. Il paese viene regolarmente citato come luogo d’origine e di transito nei rapporti internazionali sul traffico di persone, come quello pubblicato annualmente dal Dipartimento di Stato americano. Dal punto di vista strettamente legale, però, c’è un forte dibattito - sia a livello interno che internazionale - sull’opportunità di inserire il supporto e/o trasporto di rifugiati e richiedenti asilo nella categoria più generale del "traffico di persone". "Tradizionalmente il concetto di traffico implica un trasferimento di persone con l’intento esplicito di sfruttare successivamente i soggetti trafficati. Tipici esempi, lo sfruttamento sessuale e di forza lavoro. Nel caso dei profughi, il rapporto tra clienti e trafficanti si conclude quando chi viaggia arriva a destinazione", ci spiega un esperto bulgaro di trafficking, che preferisce rimanere anonimo, data la sensibilità del suo campo di specializzazione. Dal punto di vista di chi tenta di arrivare nei paesi dell’Europa ricca attraverso i Balcani, i cosiddetti trafficanti rappresentano una medaglia a due facce: se da una parte infatti i "facilitatori" sfruttano lo stato di necessità di chi viaggia, spesso mettendo i propri clienti in situazione di estremo pericolo, dall’altra forniscono un appoggio necessario - e senza alternative - per superare i muri, fisici e legali eretti lungo la via. Nuovi strumenti legali. La natura ambigua del reato, insieme alla sua relativa novità (in Bulgaria l’arrivo di profughi ha iniziato a toccare numeri importanti solo dalla seconda metà del 2013) hanno contribuito alla sostanziale inadeguatezza degli strumenti legali necessari a contrastare il fenomeno. Fino a poche settimane fa, l’unico reato previsto dal codice bulgaro (articolo 280) era infatti quello che sanziona il trasporto illegale di persone attraverso i confini statali. "Nel caso dei migranti non è semplice contrastare il traffico. Nella maggior parte dei casi è infatti complicato dimostrare l’intenzione di commettere reato e le sanzioni previste sono quasi soltanto di carattere amministrativo e pecuniario", è la posizione recentemente espressa dal vice-ministro degli Interni Filip Gunev. "Anche la tecnologia rende più difficile l’opera delle forze dell’ordine: oggi i trafficanti raramente si avvicinano alla linea di confine, ma si limitano a fornire ai migranti indicazioni e un apparecchio Gps". A fine settembre il parlamento di Sofia ha approvato una serie di modifiche al codice che rende più pesanti le pene per i trafficanti: da uno a sei anni per chi aiuta persone ad attraversare illegalmente la frontiera, che possono aumentare fino a dieci se chi passa la frontiera è minorenne, oppure se il trasporto mette i "clienti" in pericolo di vita. Chi fornisce riparo a profughi e migranti, invece, rischia multe da 5mila a 10mila leva (2500 - 5000 euro). "Oltre alle modifiche di legge, costituiremo uno speciale team dedicato alla lotta al traffico, in collaborazione tra il ministero degli Interni e le procure", ha aggiunto il vice-ministro Gunev. I primi risultati sono diventati visibili nei primi giorni di ottobre, quando la polizia bulgara ha dato vita a quella che probabilmente è l’azione più massiccia contro il traffico di profughi, a Sofia e in altre città della Bulgaria, con l’arresto di 46 persone, l’identificazione di 500 migranti non registrati e il sequestro di numerose armi da fuoco. "È facile trasformare una rotta tradizionalmente utilizzata per traffici illegali in un canale per il trasporto di migranti, persone vulnerabili e pronte a rischiare", ha dichiarato di recente Kamelia Dimitrova, presidente della Commissione per la lotta al trafficking del parlamento di Sofia. L’identikit del trafficante. Posizione rilanciata dal ministro degli Interni Rumyana Bachvarova: "La crescente pressione migratoria verso l’Europa fa sì che molti gruppi criminali iniziano ad occuparsi seriamente [di traffico di migranti], perché si guadagnano soldi facili". La preoccupazione che traspare è che le potenti reti bulgare dedite al trafficking abbiano già reindirizzato le proprie risorse, contatti, capitali e know-how nel "business rifugiati". L’esperto bulgaro intervistato da OBC fornisce però un quadro più complesso. "Le strutture criminali più solide, quelle che controllano il traffico di droga o di persone, almeno per il momento non sembrano giocare un ruolo di primo piano. Il trasporto di migranti per loro è gravido di rischi: l’identità delle persone trasportate è quasi sempre ignota, esiste un’importante barriera linguistica, il processo è seguito da vicino dai servizi di sicurezza e gli introiti, anche se corposi, non sono stabili". Per lo specialista, a facilitare il movimento di rifugiati nel passaggio delle frontiere e attraverso la Bulgaria, al momento è una galassia di soggetti diversi. "Ci sono sicuramente molti vecchi esponenti della criminalità comune, in cerca di guadagni facili. Ci sono poi persone residenti nelle aree di confine, che conoscono il territorio e da sempre attraversano la frontiera in modo irregolare per i motivi più diversi. Ma anche una serie di categorie messe alle strette dalla crisi economica, come quella dei tassisti, può essere tentata da un’attività illegale redditizia e, finora, poco rischiosa". Se il flusso migratorio dovesse continuare nel futuro, avverte però l’esperto "non è improbabile che la criminalità organizzata tenti di mettere le mani stabilmente sul business". "Turchia paese sicuro", ma l’Unione europea si divide di Carlo Lania Il Manifesto, 16 ottobre 2015 Europa. Una bozza di accordo con il governo turco spacca il consiglio Ue. 3 miliardi di euro ad Ankara perché rafforzi i controlli e impedisca ai profughi di partire. Non è passata neanche una settimana dall’attentato che ad Ankara ha fatto strage tra i partecipanti a un corteo pacifista e l’Europa si preparerebbe a inserire la Turchia nella lista dei paesi sicuri, quelli dai quali non si possono accettare rifugiati politici. È uno dei punti che Recep Tayyip Erdogan dieci giorni fa aveva posto come condizione a Bruxelles in cambio di un coinvolgimento più attivo nel fermare i profughi diretti in Europa e politicamente molto importante per lui perché, se approvato, impedirà in ai curdi in fuga dal paese di essere considerati rifugiati politici. La classificazione della Turchia come paese sicuro farebbe parte dell’accordo che il vicepresidente della commissione europea Frans Timmermans ha raggiunto con il governo turco nel corso di una missione ad Ankara alla quale ha partecipato anche il commissario per l’allargamento Johannes Hahn. Accordo che deve essere approvato dai capi di stato e di governo che si sono riuniti ieri sera a Bruxelles per il quarto vertice in pochi mesi dedicato alla crisi migranti. Tra gli altri punti discussi con il governo turco, ci sarebbe un ulteriore stanziamento di 3 miliardi di euro (uno era già stato stanziato) per la gestione dei campi profughi (soldi presi in parte dal bilancio europeo e in parte dal fondo degli stati membri), l’accelerazione al 2016 della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e lo scongelamento di cinque capitoli del processo di adesione della Turchia all’Ue. In cambio Ankara si sarebbe detta pronta rafforzare i propri confini e ad aumentare la collaborazione con la Grecia (punto sul quale si è detto d’accordo anche il premier greco Tsipras), a riprendere i migranti entrati illegalmente in Europa e a garantire ai profughi siriani il diritto a poter lavorare. La guerra in Siria e l’emergenza profughi in pochi mesi hanno fatto della Turchia un partner indispensabile per l’Unione europea che non se la sente più di tenerla ai margini come ha fatto negli ultimi venti anni. Per questo Bruxelles, che teme di vedere arrivare ai propri confini molti più profughi di quanti non se ne siano visti negli ultimi mesi (Timmermans ha parlato di "milioni" di migranti che potrebbero arrivare entro la primavera), sembra essersi convinta a mettere da parte per il momento i dubbi nutriti fino a oggi per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, la libertà di stampa e le politiche repressive nei confronti dei curdi. Tutti problemi ben presenti anche al vertice di ieri sera, dove non sarebbero mancate le resistenze da parte di paesi ancora scettici nel concedere tanto a Erdogan. In particolare Germania e Svezia si sarebbero espresse contro l’inserimento della Turchia tra i paesi sicuri proprio a causa della situazione con i curdi. Che l’atteggiamento nei confronti della Turchia fosse cambiato era nell’aria. Già due giorni fa, alla vigilia della missione di Timmermans, il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker si era dimostrato più che disponibile: "Noi abbiamo bisogno della Turchia e la Turchia per altri aspetti ha bisogno di noi", aveva detto aggiungendo di ritenere l’inserimento della Turchia tra i paesi sicuro un passaggio obbligato altrimenti, aveva spiegato, "se così non è bisogna toglierla dalla lista dei paesi candidati all’Ue". Un via libera dettato dalla paura che l’aggravarsi della conflitto siriano, unito all’incertezza del processo di pace in Libia spinga una nuova ondata di profughi a partire. Come ha detto chiaramente Francois Hollande arrivando a Bruxelles per il vertice: "Dobbiamo fare in modo che i paesi che ospitano più profughi siriani vengano aiutati - ha spiegato il presidente francese. Altrimenti nuovi flussi di migranti usciranno da quei paesi diretti Europa". L’aiuto ai paesi terzi era del resto uno degli punti all’ordine del giorno del consiglio europeo. Nonostante le promesse, gli stati membri finora si sono dimostrati abbastanza avari, al punto che dei 2 miliardi e 300 milioni di euro chiesti dalla commissione Ue a favore di Africa e Siria, finora ne sono arrivati solo 17 (a pagare sono stati Germania, Spagna, Italia e Lussemburgo) mentre dei 500 milioni per aiuti umanitari ne mancano all’appello ancora 250. Un ritardo che preoccupa non poco Junker. Ieri il parlamento europeo è intervenuto stanziando 401,3 milioni di euro destinati a Turchia, Libano, Siria e alle agenzie Ue che si occupano di migranti. Ma siamo ancora lontani dalla cifra richiesta. Brasile: Pizzolato, estradizione il 22 ottobre, gli avvocati scrivono al ministro Orlando di Geraldina Colotti Il Manifesto, 16 ottobre 2015 La difesa del sindacalista italo-brasiliano Henrique Pizzolato ha inviato alla stampa copia della lettera indirizzata al ministro della Giustizia Andrea Orlando. La relazione dell’avvocato Alessandro Sivelli riassume la vicenda di Pizzolato e chiede che venga sospeso il provvedimento di estradizione, fissato per il prossimo 22 ottobre. Il ministro ha già fatto slittare una prima partenza, e a questo fa riferimento Sivelli per chiedergli di valutare "la reale ed effettiva sussistenza delle garanzie offerte dallo Stato brasiliano". Le crude fotografie allegate, che documentano l’altissimo livello di violenza registrato nelle carceri brasiliane, sostanziano l’urgenza della richiesta. Le cifre annuali degli omicidi commessi dicono che - nonostante i tanti passi avanti dei governi Lula e poi Rousseff - le prigioni restano ancora una gigantesca discarica sociale, e la loro gestione appesa ai singoli bilanci e norme dei 26 stati di cui è composto il Brasile. Il carcere di Papuda, a cui è stato destinato Pizzolato ha una capienza sufficiente a contenere 4.848 posti letto, ma vi sono 10.409 detenuti: standard di vivibilità enormemente al di sotto di quelli richiesti dal Comitato di prevenzione contro la tortura. Leggendo gli atti e ascoltando il parere di insigni giuristi, nel paese e fuori, quello di Pizzolato si presenta come un caso di giustizia negata: "Hanno voluto colpire me per colpire Lula", ha dichiarato in diverse circostanze il sindacalista. Pizzolato è stato condannato a oltre 12 anni nell’ambito dello scandalo per tangenti detto del Mensalao. Benché non fosse un politico, è stato giudicato dal Supremo tribunale federale in un procedimento segnato da forti irregolarità, ma che non prevede la possibilità di un secondo grado. Essendo anche cittadino italiano, il sindacalista si è rifugiato nel nostro paese. Dopo una prima sentenza favorevole, è stato ritenuto estradabile e si trova nel carcere di Modena. Il 14 dicembre dovrà presenziare all’udienza preliminare per reati di falso da cui non potrà difendersi se viene rimandato in Brasile. Inoltre, sono ancora pendenti i ricorsi presentati contro il provvedimento di estradizione al Tar e alla Corte europea per i diritti dell’uomo. Perché - chiede al ministro l’avvocato Sivelli - "non può attendere queste decisioni prima di dare esecuzione a un provvedimento di estradizione che riteniamo palesemente ingiusto"? Gran Bretagna: il doppio e ipocrita standard inglese di fronte a due casi di prigionia di Giulio Meotti Il Foglio, 16 ottobre 2015 Londra è in agitazione per la sorte di due cittadini inglesi detenuti in due differenti carceri stranieri. Ma la condizione dei due ha generato reazioni completamente diversi fra chi firma appelli e si mobilita: esaltato il primo detenuto, difeso e protetto da tutto l’establishment che conta, la "bella gente" dei giornali, delle ong e dello spettacolo; ignorato il secondo, lasciato marcire in una galera saudita, senza che nessuna star o personalità pubblica si sia mossa per lui. Soltanto che il primo è un ex terrorista che si trova nell’isola di Guantánamo Bay, mentre il secondo è un anziano cittadino britannico detenuto ingiustamente in Arabia Saudita. Il primo è accusato di aver fatto parte di al Qaida. Il secondo ha avuto la sola "colpa" di essere in possesso di vino fatto in casa nel regno dell’islam. È la storia di Shaker Aamer e Karl Andree. Per il primo, cittadino britannico di origine saudita, descritto da tutti come un bravo padre di famiglia musulmano, sono appena entrati in sciopero della fame tante celebrities del Regno Unito, come Maxine Peake and Mark Rylance, e hanno firmato lettere aperte al governo inglese per il suo rilascio attori come Ralph Fiennes, registi come Mike Leigh, drammaturghi blasonati come David Hare, musicisti che non invecchiano mai come il leader dei Pink Floyd Roger Waters, la direttrice della sezione inglese di Amnesty International Kate Allen e ben trentadue parlamentari di destra e di sinistra. Jeremy Corbin, neosegretario del Labour, è sempre alle manifestazioni per il rilascio dell’ex terrorista islamico (ma lui frequenta chiunque militi nella umma). Una gigantografia di Aamer è piazzata davanti a Westminster. E il cantante PJ Harvey ha persino dedicato una canzone a Shaker Aamer, che dà il nome allo stesso brano musicale. Karl Andree è da un anno in una lurida cella del regno saudita, condannato adesso a trecento frustate per qualche bottiglia di vino fatto in casa. Nessuna star e organizzazione dei diritti umani si è azzardata a denunciare la condizione delle carceri in Arabia Saudita, mentre Irene Khan, segretaria di Amnesty, ebbe a definire Guantánamo "il Gulag del nostro tempo". Sul sito di Amnesty UK ci sono 943 voci sul caso Aamer, ma nessuna che riguardi Andree. Il caso del pensionato colpevole di aver trasportato un po’ d’alcol è portata avanti in Inghilterra soltanto dai figli, che angosciati si sono rivolti al premier David Cameron: "È un cittadino britannico e chiedo che il governo invochi clemenza per fare in modo che venga liberato. Ha scontato la sua pena, trovo che le frustate siano ingiustificate vista la sua età e le sue condizioni di salute". A fine settembre il leader laburista Jeremy Corbin, assieme ad altri tre parlamentari, aveva compiuto un viaggio a Washington perorando la liberazione di Aamer da Guantánamo. Non si ricorderanno loro viaggi a Riad per chiedere la liberazione del pensionato. Forse c’entra col fatto che Londra ha appena aiutato l’Arabia Saudita a ottenere un posto al Consiglio per i diritti umani dell’Onu? Niente male comunque come doppio standard per i felloni dell’establishment inglese e della literary London. Espiano la coscienza infelice sulla "war on terror" vestendosi di arancione e chiudono gli occhi sul volto più torbido e brutale dei regimi islamici. Ci bevono su. Filippine: incendio in carcere nella provincia di Leyte, morti 10 detenuti rainews.it, 16 ottobre 2015 Almeno 10 detenuti sarebbero morti a causa di un incendio scoppiato in un carcere di massima sicurezza nella provincia di Leyte. A provocare l’incidente, fanno sapere le autorità, un cortocircuito del sistema elettrico. Così circa 1200 detenuti dovranno essere trasferiti in alloggi di emergenza. Secondo il Centro Internazionale di Studi della prigione, l’episodio evidenzia, ancora una volta, le difficoltà del sistema carcerario filippino, al quarto posto nella classifica mondiale per il sovraffollamento.