Giustizia: la riforma costituzionale dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza di Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone Il Manifesto, 13 ottobre 2015 La proposta di legge costituzionale che il Senato voterà oggi è inaccettabile per il metodo e i contenuti, lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del "Porcellum". Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti - lasciando immutato il numero dei deputati - la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale. Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo. Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale "Italicum", che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente - anche con pochi voti - nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando. Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale. L’incontro delle forze politiche antifasciste in Assemblea costituente trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura istituzionale fondata sulla partecipazione democratica, sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri. Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso. Non basta certo in senso contrario l’argomento che la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Facendo mancare il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma - parimenti stravolgente - approvata dal centrodestra. Giustizia: il progetto di legge sul reato di "omicidio stradale" alla Camera il 21 ottobre La Nazione, 13 ottobre 2015 L’annuncio del viceministro per le infrastrutture, durante l’iniziativa "Mi sento sicuro: non Bevo e non Guido". Svolta nell’iter della proposta di legge sull’omicidio stradale: "Sarà in aula alla Camera il 21 ottobre". Ad annunciarlo è Riccardo Nencini, viceministro per le infrastrutture e segretario del Psi, in occasione dell’iniziativa "Mi sento sicuro, non bevo e guido" a Firenze. "Una volta chiusa alla Camera - ha aggiunto Nencini - tornerà al Senato ed entro la fine dell’anno avremo la norma nuova che parla di omicidio stradale anche in Italia". Nencini ha quindi spiegato che "la prossima settimana presentiamo al ministero della Pubblica Istruzione il piano di formazione delle scuole, che riguarda la buona guida, omicidio stradale e dintorni. Intanto, Firenze dà l’occasione per una prima nazionale importante". L’iniziativa ‘Mi sento sicuro, non bevo e guido" è stata presentata nella sede della Regione Toscana di Palazzo Bastogi, con la conduzione di Gaetano Gennai, l’introduzione di Massimo Biagioni (presidente Consiglio Regionale Unipol Toscana); Matteo Lucherini (presidente progetto nazionale "Bevi con la Testa") e ne hanno discusso lo stesso Nencini, Vincenzo Ceccarelli (assessore regionale ai trasporti), Pierluigi Stefanini (presidente Gruppo Unipol e Fondazione Unipolis) con il contributo video e slides di: Carmine Tabarro (dirigente sezione Polizia Stradale di Firenze), Andrea Borghi (Polizia Stradale), Pierfranco Severi (presidente delegazione Cesvot Lucca), Bruno Lo Cicero (esperto in comunicazione sociale per la realizzazione della scritta-umana "La Vita non Dipende" a Lucca Comics il 30 ottobre. Giustizia: Lucia Annibali "insieme supereremo il dramma dello sfregio" di Franco Vanni La Repubblica, 13 ottobre 2015 "Una grande donna", dice. Ma subito si accorge che non basta. "È un angelo - si corregge - l’avvocato Annibali è un angelo e abbiamo avuto la fortuna di incontrarla". Alberto Savi, padre di Stefano, quando pronuncia il nome di Lucia Annibali si emoziona. L’ultima volta si sono visti una decina di giorni fa, a casa dei genitori di Pietro Barbini. "Tutti insieme per un caffè, senza tristezza e senza sceneggiate", racconta Alberto. Per Lucia Annibali, avvocatessa di Pesaro, la vita è cambiata per sempre la sera del 16 aprile 2013 quando un uomo, mandato dall’ex compagno, le ha gettato in volto acido solforico. Per Stefano Savi e Pietro Barbini le date che non si cancellano sono quelle del 2 novembre e del 28 dicembre 2014. I giorni in cui una persona ha gettato loro acido in faccia. Per la procura di Milano, si tratta di Martina Levato, aiutata dal compagno Alexander Boettcher. Nel caso dell’aggressione a Barbini c’è anche una sentenza di primo grado, che ha condannato Boettcher e Levato a 14 anni di reclusione. "L’avvocato Annibali è forte e generosa - racconta Alberto Savi. Ci insegna che ci vuole fiducia. Ci è vicina, lontano dalle telecamere e dalle chiacchiere". Il primo contatto fra la famiglia Savi e Lucia Annibali è stata una telefonata, lo scorso marzo. Poi sono arrivati gli incontri privati: con Stefano, con Pietro Barbini, con le due famiglie. Quindi, un evento pubblico, quando i genitori di Stefano hanno raggiunto la donna a Expo, dove era ospite per raccontare la sua storia. Un legame che non si è più rotto. "Ho una pelle nuova, una vita nuova, vestiti più belli e tanti posti dove stare quanti sono i miei amici", scrive Lucia Annibali nel libro " Io ci sono", firmato con la giornalista Giusi Fasano. "Ci sta aiutando ad apprezzare i miglioramenti fisici e psicologici, a non mollare mai", dice Alberto Savi. A Stefano, Lucia ha mostrato su un iPad le fasi di trasformazione del proprio volto, dalla tragedia dell’aggressione al miracolo del chirurgo Edoardo Caleffi, che assieme alla sua squadra le ha fatto il dono di sentirsi di nuovo bella. Ai genitori di Stefano e Pietro, la Annibali ha spiegato il ruolo della famiglia nell’aiutare chi ha avuto il volto cancellato e cerca se stesso sotto le cicatrici. L’avvocatessa di Pesaro è elemento portante di una struttura solida, nata nelle corsie del reparto Ustioni dell’ospedale di Niguarda a Milano. Un’unione dettata dalla disgrazia comune di dovere assistere figli puniti senza colpa, con un’identità e un futuro da ricostruire. Dal dicembre 2014, quando Pietro ha raggiunto Stefano in ospedale, le famiglie si sono avvicinate. "I Barbini sono persone eccezionali - dice Alberto Savi - ci sentiamo, ci vediamo, parliamo di quello di cui bisogna parlare". Vale a dire: le decine di interventi chirurgici, i sogni di ragazzi poco più che ventenni, la terapia riabilitativa, le udienze penali. Pietro e Stefano si sono incontrati in ospedale, e per ora niente più. "Ci sarà tempo", dice Alberto. Pietro studia a Boston, a seimila chilometri di distanza da tutto. Stefano vive a Milano, in casa con i genitori e il fratello gemello. E non si è perso un’udienza contro Boettcher. A rappresentare i Savi nel processo sono gli avvocati Andrea Orabona e Benedetta Maggioni. I Barbini sono assistiti da Paolo Tosoni. Nella solida struttura che sostiene le famiglie Savi e Barbini non c’è solo Lucia Annibali. Da mesi i genitori dei due giovani ricevono lettere da chi ci è passato e può capire. "Ci scrive chi ha subito ustioni in incidenti stradali - dice Alberto Savi - o chi ha avuto il volto rovinato sul lavoro. Storie diverse, con un senso comune: la vita continua, ed è bella". Per Stefano Savi i medici registrano " progressi enormi". Non è ancora in grado di leggere, quindi tornare a studiare Economia gli è impossibile. Ma un passo alla volta, la vista sta tornando. Operazione dopo operazione, la vita di dopo somiglia sempre più a quella di prima. Le serate fuori con il fratello Luca. Le telefonate con gli amici di sempre, "che gli sono vicini", dice Alberto. Domani, nel processo contro Boettcher, sarà sentito come teste Giuliano Carparelli. L’inchiesta ha chiarito che la notte del 2 novembre Martina e Alexander cercavano lui, "colpevole" di avere avuto un rapporto con la ragazza. Hanno sbagliato persona. Hanno colpito Stefano Savi, che gli somigliava. Levato e Boettcher hanno poi raggiunto Carparelli il 15 novembre, ma è riuscito a evitare il lancio di acido. Per questo, soffre. "Potevo esserci io al posto di Stefano", ripete agli amici. "Voglio chiedervi scusa", ha detto ai genitori di Savi. Alberto gli ha spiegato con affetto "che lui non c’entra, che è una brava persona e non ha niente da farsi perdonare". Stefano e Giuliano non si sono ancora incontrati. Potrebbe succedere domani in Tribunale, anche se Stefano forse resterà a casa. Anche per questo, "ci sarà tempo", dice Alberto. È una delle lezioni di Lucia Annibali: il tempo è un alleato, fa parte della squadra: i medici, gli avvocati, la famiglia, gli amici, il tempo. Alberto Savi - come i genitori di Pietro e come i due ragazzi - è ancora nel mezzo del cammino. "Ogni giorno è difficile. Indietro non si torna, bisogna guardare avanti". Quando Stefano sarà in grado di fare da sé, per Alberto non sarà finita. "Mi auguro che mai nessuno soffra quello che sta passando mio figlio - dice Alberto - ma sono pronto a fare la mia parte, a raccontare cosa è possibile fare quando un tuo caro subisce una simile ferita". E lo farà come fa il suo angelo, il suo avvocato Annibali: "Senza tristezza e senza sceneggiate". Giustizia: arrestati gli assassini di Cocò, il bimbo ucciso e bruciato insieme al nonno di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 13 ottobre 2015 Due gli ordini di custodia cautelare emessi per la strage di Cassano allo Jonio. Cosimo Donato e Faustino Campilongo erano già in carcere per estorsione. Lo hanno ammazzato perché avrebbe potuto riconoscerli. Gli hanno sparato in testa per evitare che quel bimbo di appena tre anni potesse puntare il dito contro Cosimo Donato. Per questo dopo avere sparato a Giuseppe Iannicelli (vero obiettivo dei killer) e Touss Ibtissam Touss, la ragazza marocchina che viveva con il nonno, non hanno esitato a puntargli la pistola alla tempia mentre era ancora seduto al sediolino dell’auto. Poi hanno completato l’opera caricando i cadaveri in macchina e dando alla fiamme la vettura. Un lavoro "pulito" volevano fare, un lavoro che non lasciasse traccia. Cosimo Donato, 38 anni, detto "topo", e Faustino Campilongo, di 39, "panzetta" non avevano fatto i conti con gli investigatori dei carabinieri e con la Dda di Catanzaro che tassello dopo tassello hanno messo assieme elementi che li inchiodano. Sono loro gli assassini di Cocò, non hanno dubbi il Procuratore di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, e il suo Aggiunto, Vincenzo Luberto. Cocò, Nicola Campolongo, conosceva bene Donato. Lo conosceva perché suo zio, Giuseppe Junior Iannicelli, era fidanzato con la figlia di Donato. Conosceva bene quelle facce e quella casa. Non solo. Nonno Peppe, quando aveva capito che per lui non tirava una buona aria, aveva iniziato a portarselo dietro, nella certezza che nessuno lo avrebbe ammazzato in presenza di un bambino. Con il nipote andava a incontrare i suoi spacciatori, andava a riscuotere sulle piazze di spaccio e a controllare gli affari. E tra i suoi pusher c’era anche quelli che poi sarebbero diventati i suoi carnefici: Donato e Campilongo. Due pezzi di malacarne che in provincia di Cosenza distribuivano la droga tra Firmo, Lungro ed Acquaformosa per conto di Iannicelli. Un errore fatale, quello del nonno, costato la vita a lui, alla sua compagna e a quel ragazzino che lo seguiva quasi fosse un gioco. Un gioco che, per dirla con le parole del Procuratore Lombardo, "si è trasformato nella carneficina del 16 gennaio 2014, giorno in cui tre corpi carbonizzati furono trovati in un luogo appartato proprio sulla strada che da Cassano porta a Firmo. Peppe Iannicelli, secondo le indagini dei carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Cosenza, non era uno qualsiasi. Era da tempo dedito allo spaccio di droga, prima con la cosca degli zingari, gli Abbruzzese, e poi con il sodalizio contrapposto dei Forastefano. Era ormai inviso agli Zingari per diverse ragioni. Intanto aveva preso a rifornirsi di droga da altri, poi si stava allargando su piazze che facevano gola a molti, infine c’era il rischio che si pentisse. Tutti fatti che hanno fatto saltare il tappo ad una situazione di tensione generale sul territorio e di lotta per il controllo delle attività criminale. Secondo i Pm della Procura di Catanzaro i clan dominanti "ad un certo punto hanno deciso di fare pulizia", assoldando due macellai. E chi meglio di Donato e Campilongo che con Iannicelli lavoravano da tempo? I due lo avrebbero attirato in un tranello con la scusa di "pagargli" una fornitura di droga e poi lo avrebbero ucciso senza pietà neppure per la sua compagna e per il ragazzino che, spiega il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti "si portava dietro usandolo come scudo umano". L’efferato omicidio del piccolo "Cocò" aveva suscitato anche l’attenzione di Papa Francesco, che gli aveva rivolto un pensiero e una preghiera in occasione dell’Angelus in piazza San Pietro, il 26 gennaio 2014. Ieri mattina l’inchiesta ha chiuso il cerchio sugli esecutori materiali del delitto, ma l’indagine non è ancora chiusa se è vero come è vero che la Dda punta ora ai mandanti dell’omicidio. In una situazione di carenza strutturale di uomini e mezzi, la magistratura Catanzarese (che deve fare i conti con la carta delle fotocopie) e le forze dell’ordine (anch’esse in debito d’ossigeno) sono impegnate a chiarire le ulteriori zone d’ombra della vicenda. Per ora incassano il plauso del Governo e del Parlamento. Ed è ovvio che faccia piacere il messaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi che scrive: "Niente potrà sanare il dolore per l’accaduto, ma sono e siamo orgogliosi delle italiane e degli italiani che ogni giorno combattono contro la criminalità e per la giustizia: grazie". Come anche fanno ad esempio le "sincere congratulazioni" di Ernesto Carbone. Resta il fatto, dicono a Catanzaro, "che per sconfiggere davvero la ‘ndrangheta servono maggiori risorse". Giustizia: "quelli si sono presi il nostro bambino... noi ci prendiamo i loro" di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 13 ottobre 2015 "Il bambino si sono presi? E i bambini ci dobbiamo prendere… Prima o poi… ohi compare… Avete fatto gli infami? Sugli infami ci vogliono gli infamoni". Pianificavano la vendetta i Campolongo. Dopo l’omicidio di Cocò, il tema del massacro dei bimbo affiora nei colloqui che i detenuti della famiglia avevano periodicamente con i parenti. Non nascondeva la sua sete di vendetta Domenico Salvatore Campolongo, zio del piccolo: ne parlava con Giuseppe e Angelo Pio Campolongo. Sanno bene chi ha ammazzato Giuseppe Iannicelli, la compagna di questi e Cocò, e meditano un bagno di sangue: "Per il bambino pagheranno...", dice Domenico Salvatore mentre fa cenno con la mano in segno di calma. E aggiunge, riferendosi a Iannicelli: "Se volevate ammazzarlo, dovevate ammazzare a lui... tenevate sempre l’occasione… camminava con la moto, perché non l’avete ammazzato? Avete avuto l’occasione per poi ammazzare un bambino… che vi poteva dire quel bambino?". Campolongo sa bene che bisogna agire con cautela e infatti dice ai suoi interlocutori: "La pagheranno, ora non possiamo far niente per non inguaiarci, ma tra un mese o 30 anni la pagheranno...". Non si tratta dell’unica intercettazione in cui si annuncia che il sangue tornerà presto a scorrere. Agli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Cosimo Donato e Faustino Campilongo, i presunti killer che entrarono in azione a gennaio del 2014, ci sono anche diverse pagine Facebook sulle quali ci sono fitti scambi di messaggi privati con minacce incrociate tra componenti delle due famiglie. Minacce a cui vanno aggiunti gli status nei quali si afferma che "La vendetta è un piatto che va mangiato freddo". Salvatore Domenico Campolongo, sempre in carcere a Corigliano, è convinto che "quelli" hanno approfittato del momento di massima debolezza di Iannicelli. Ossia, del periodo in cui molti della famiglia erano detenuti in quanto travolti dalle inchieste sul traffico di stupefacenti: "Glielo avevo detto che lo avrebbero ammazzato quando usciva dal carcere… E loro lo hanno fatto quando noi eravamo qua… che altrimenti si spaventavano". Una frase che per alcuni versi conferma quanto affermato da alcune testimonianze dei familiari e da quanto dicono gli stessi inquirenti: "Giuseppe Iannicelli andava in giro accompagnato dalla sua donna Ibtissam Touss e dal nipotino proprio perché era convinto che in loro compagnia sarebbe stato al sicuro da eventuali agguati. Non immaginava che i killer che gli avrebbero teso la trappola erano due personaggi che considerava suoi uomini in quanto pusher che si rifornivano da lui per alimentare le piazze di spaccio. Cosimo Donato, 38anni, detto "topo", e Faustino Campilongo, di 39, detto "panzetta", secondo l’accusa, "distribuivano la droga tra Firmo, Lungro ed Acquaformosa per conto di Iannicelli col quale avevano anche un debito per una partita non pagata". È possibile che abbiano attirato l’uomo in un luogo appartato con la scusa di saldare quanto dovuto. Giuseppe Iannicelli junior, figlio della vittima principale della strage era fidanzato con il figlio di Donato. Per questo la sera della scomparsa, ancora ignaro dell’accaduto, incontrò l’assassino con il quale avrebbe dovuto cercare il padre. Racconta agli inquirenti che quella sera nell’aria "c’era puzza di gomma bruciata. Era l’odore che si sente quando si bruciano le carcasse degli animali. Da casa miasi vedeva un filo di fumo salire dalla campagna". Non sapeva ancora che fumo e odore provenivano dal luogo dove era stata data alle fiamme l’auto con i tre corpi all’interno. Il figlio della vittima incontrando i due presunti responsabili, dice che "puzzavano di benzina, avevano le mani nere, unte. Al mio notare dell’odore di benzina Donato dava una sorta di calcio a Faustino come a suggerirgli quello che poi lo stesso Campilongo mi diceva per giustificarsi, cioè che erano andati a rubare nafta. Questa circostanza mi ha subito insospettito". E ancora: "Notavo che sudavano, proprio perché impauriti sebbene facesse freddo. Dopo il rinvenimento dei cadaveri, quando sono venuti a casa per fare le condoglianze, ho litigato con Donato cui ho contestato che sebbene fossero passati dal contrada Fiego, la notte degli omicidi non mi avevano detto nulla. Giustizia: Jacqueline Magi, la giudice che lavora troppo (e chiede il trasferimento) di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 13 ottobre 2015 Il caso a Prato: Jacqueline Magi ne fissa "troppe" oltre le ordinarie e il presidente del Tribunale minaccia sanzioni. Di udienze, con gli oltre 1.800 fascicoli che le sono piovuti addosso, la giudice Jacqueline Magi ne dovrebbe fare almeno il doppio di quelle assegnate da regolamento. E da mesi il magistrato continua a lavorare a cottimo chiedendo udienze straordinarie. Perché, come una volta la "super giudice" ha confessato al presidente del tribunale Nicola Pisano che le aveva appena rinviato tre "dibattimenti" su processi per incidenti sul lavoro, "io proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni" spiegando poi che si sente "come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro". E così Jacqueline Magi ha continuato a macinare udienze facendo imbestialire non soltanto i cancellieri (e i loro sindacati) costretti a straordinari gratis, ma anche, si racconta nei corridori del tribunale di Prato, il presidente Pisano. Che, con un’ordinanza affissa al muro, citando esplicitamente la giudice, ha ribadito che tutte le udienze, comprese quelle straordinarie, devono essere autorizzate da lui come da regolamento. E, siccome i regolamenti vanno rispettati, i trasgressori rischiano provvedimenti disciplinari. La dottoressa Magi ha chiesto il trasferimento al tribunale di Firenze o Pistoia, ufficialmente per motivi familiari, ma in realtà perché stufa di non riuscire a svolgere bene un servizio pubblico. Con i giornalisti non parla. "Niente da commentare, cerco di fare al meglio il mio dovere", si limita a dire mentre corre verso un’udienza (non straordinaria) che ieri l’ha tenuta in aula tutto il giorno. Non è una guerra tra giudici e cancellieri. In realtà quella che si sta combattendo è l’ultima battaglia contro i tagli al personale. "Che da anni hanno penalizzato questo tribunale - conferma Pisano - con una pianta organica sotto dimensionata e ulteriori riduzioni del personale del 35%. Prato è una città complicata, convivono 127 etnie, la falsificazione dei marchi è una piaga, fallimenti e sfratti sono da record. Chiedo da tempo rinforzi che non arrivano mai". La situazione è così grave che negli uffici lavorano persino volontari della Caritas. E l’Arma dei carabinieri ha messo a disposizione dei militari in pensione. Furibondi gli avvocati, in stato di agitazione. E i cancellieri. "Qui dovremmo essere almeno un centinaio come a Lucca o Pisa - dice Sergio Arpaia, cancelliere e sindacalista dell’Unsa - e invece siamo una quarantina. Oggi ho lavorato 10 ore e me ne pagano 6...". Jacqueline Magi ha scelto un’altra battaglia, quella del lavoro doppio, anche se pure lei si schiera per il potenziamento del personale. Perché, ripete, qui decidiamo della vita delle persone e non si può ascoltare la campanella di fine lavoro. Riforma della custodia cautelare senza rivoluzioni sui motivi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2015 La riforma della custodia cautelare ha effetti limitati nella parte in cui si modifica la disciplina delle motivazioni. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 40978 della Sesta sezione penale depositata ieri, la Corte sottolinea che la legge n. 47 del 2015, sul punto, prende sostanzialmente atto della precedente giurisprudenza della stessa Cassazione, che ha ritenuto necessario, nell’ordinanza di custodia, un chiaro contenuto di concreta valutazione da parte dell’autorità giudiziaria. Di conseguenza la nullità prevista dall’articolo 292 del Codice di procedura penale si verifica nel caso di ordinanza priva di motivazione o con una motivazione solo apparente e che elude una specifica valutazione degli indizi. Respinto pertanto il ricorso presentato dal pubblico ministero di Napoli contro la decisione del tribunale del riesame che aveva censurato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip con motivazioni solo apparenti, ma in realtà del tutto appiattite, anche nella forma, sulla richiesta dell’accusa. La Cassazione, prima di affrontare il caso, mette in evidenza come, in realtà, la riforma non deve essere considerata retroattiva e quindi non deve dispiegare effetti sulle ordinanza che sono state emesse quando ancora era in vigore la vecchia versione della norma. Si tratta infatti di misure di natura processuale per le quali il principio base è quello dell’applicabilità della legge del tempo di emissione dell’atto. In ogni caso, la Corte poi si sofferma a precisare che la riforma rende cogenti regole in larga parte già applicate in precedenza. Caratteristica della riforma che è evidente, ricordano i giudici, per la disposizione che impedisce espressamente che si possa affermare la pericolosità solo sulla base della gravità del reato, oppure per l’aggiunta del requisito dell’attualità a quello della concretezza del pericolo. Su questa linea si muove anche la prescrizione di contenuti specifici della motivazione dell’ordinanza di custodia, con l’indicazione, quanto ai poteri del Tribunale del riesame, di integrazione delle motivazioni, ma mai di supplenza. "In definitiva - avverte la pronuncia, il riferimento alla autonoma valutazione" non aggiunge, a quelli preesistenti, un nuovo requisito a pena di nullità, ma si ritiene corretta quell’interpretazione secondo la quale il provvedimento di custodia deve sia avere il necessario contenuto "informativo" che dimostrare la effettiva valutazione da parte del giudicante e, quindi, il reale esercizio della giurisdizione". La riforma non impone, conclude la sentenza, che ogni singolo circostanza di fatto, ciascun punto rilevante sia di nuovo oggetto di valutazione autonoma senza possibilità di rinvio ad altri atti. No quindi, è esplicita la Cassazione, a un formalismo che rende inutilmente incerta la validità delle ordinanze di custodia; sì invece a un maggiore rigore su un contenuto minimo. Guida in stato di ebbrezza, può essere sequestrata l’auto in comproprietà Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2015 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 12 ottobre 2015, n. 40957. In caso di guida in stato di ebbrezza è sempre ammesso il sequestro finalizzato alla confisca anche del veicolo in comproprietà. La presunzione assoluta di pericolosità che impone l’adozione della misura non è infatti intaccata dal fatto che del veicolo sia comproprietario un terzo del tutto estraneo. La sola esclusiva proprietà può fare, eventualmente, parlare di pericolosità attenuata. Se l’appartamento è da ristrutturare non c’è furto in abitazione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2015 Tribunale di Ivrea - Sezione penale - Sentenza 10 aprile 2015 n. 287. Se la condotta furtiva viene commessa all’interno di un immobile da ristrutturare, deve ritenersi integrato il delitto di furto ex articolo 624 c.p. e non anche quello di furto in abitazione di cui all’articolo 624-bis c.p.. Questo perché il concetto di abitazione o di privata dimora, che deve sussistere ai fini della configurazione di quest’ultima fattispecie, più gravemente sanzionata, presuppone che il luogo in cui avviene il furto sia destinato all’esplicazione di attività proprie della vita privata della vittima. Lo ha ribadito il Tribunale di Ivrea con la sentenza 287/2015. Il caso - I protagonisti della vicenda sono tre cittadini stranieri, tratti a giudizio dopo essere stati colti in flagranza di reato dai Carabinieri. I tre ladri si erano introdotti in una abitazione sfitta, da ristrutturare, priva di impianto elettrico e contenente solo alcuni oggetti vetusti dei quali i tre si erano impossessati. Il capo di imputazione era quello di furto in abitazione, previsto dall’articolo 624-bis c.p., con l’aggravante di aver commesso il fatto in tre persone ed usando violenza sulle cose. La decisione - Il Tribunale chiamato a decidere non ha dubbi sulla responsabilità degli agenti, ma procede ad una derubricazione del reato ritenendo integrato nella fattispecie il delitto di cui all’articolo 624 c.p. L’aspetto determinante della questione sta nel fatto che l’immobile nel quale gli imputati si erano introdotti non era abitato, bensì da ristrutturare. Ebbene, per il giudice questo elemento da una parte, non è tale da ipotizzare lo stato di abbandono da parte dei proprietari e, dunque, non fa venir meno la consapevolezza dell’altruità dei beni sottratti; dall’altra, come affermato da orientamento costante della Cassazione, non consente di ritenere integrato il concetto di abitazione o privata dimora, che presuppone che il luogo in cui si sia compiuta l’azione furtiva "abbia per sua struttura o per l’uso che ne é fatto in concreto una destinazione legata e riservata alla esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o famigliari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica". E nel caso di specie, la casa derubata, addirittura priva di un impianto elettrico, non poteva essere destinata "all’esplicazione di attività private della persona offesa". Rafforzata la prevenzione antiriciclaggio, appalti al vaglio degli indicatori di anomalia di Paola Berardino e Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2015 Decreto del ministero dell’Interno 25 settembre 2015-10-12. Fissati gli indicatori di anomalia per l’individuazione da parte degli uffici della pubblica amministrazione delle operazioni sospette di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo. Il decreto Interno 25 settembre 2015 - adottato ai sensi dell’articolo 41, comma 2, del Dlgs n. 231/2007 e preventivamente validato dal Comitato di sicurezza finanziaria del Mef - risponde all’esigenza, sempre più pressante, di stimolare la Pa all’assunzione di un ruolo attivo in materia di prevenzione. Le procedure interne - Il provvedimento impone agli operatori pubblici l’adozione, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, di procedure interne di valutazione idonee a garantire l’efficacia della rilevazione di operazioni sospette, la tempestività della segnalazione all’Unità di informazione finanziaria, la massima riservatezza dei soggetti coinvolti nell’effettuazione della segnalazione stessa. Tali procedure interne specificano le modalità con le quali gli addetti agli uffici della pubblica amministrazione trasmettono le informazioni rilevanti ai fini della valutazione delle operazioni sospette a un soggetto denominato "gestore". La persona individuata come gestore può coincidere con il responsabile della prevenzione della corruzione previsto dall’articolo 1, comma 7, della legge 190/2012. Nel caso in cui tali soggetti non coincidano, gli operatori prevedono adeguati meccanismi di coordinamento tra i medesimi. Gli operatori si possono avvalere di procedure di selezione automatica delle operazioni anomale basate su parametri quantitativi e qualitativi. Gli enti locali con meno di 15mila abitanti possono individuare un gestore comune ai fini dell’adempimento dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette. Analogamente a quanto previsto dalla legge n. 190 del 2012 in tema di anticorruzione, sono imposte iniziative di adeguata formazione del personale e dei collaboratori ai fini della corretta individuazione degli elementi di sospetto. Tale formazione deve avere carattere di continuità e sistematicità, nonché tenere conto dell’evoluzione della normativa in materia antiriciclaggio. La valutazione - Gli indicatori sono destinati ad agevolare l’individuazione delle operazioni sospette, riducendo i margini di incertezza connessi con valutazioni soggettive o con comportamenti discrezionali, e hanno lo scopo di contribuire al contenimento degli oneri e al corretto e omogeneo adempimento degli obblighi di segnalazione. L’elenco non è esaustivo ed è destinato a un periodico aggiornamento, anche in considerazione della continua evoluzione delle modalità di svolgimento delle operazioni. L’impossibilità di ricondurre operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori previsti nell’allegato del decreto non è sufficiente a escludere che l’operazione sia sospetta. Gli operatori sono pertanto tenuti a valutare con la massima attenzione ulteriori comportamenti e caratteristiche dell’operazione che, sebbene non descritti negli indicatori, siano egualmente sintomatici di profili di sospetto. La mera ricorrenza di operazioni o comportamenti descritti in uno o più indicatori di anomalia non è peraltro motivo di per sé sufficiente per l’individuazione e la segnalazione di operazioni sospette, per le quali è comunque necessaria una concreta valutazione specifica. Le caratteristiche degli indicatori - Gli indicatori di anomalia sono suddivisi in: indicatori generali, applicabili a tutti i destinatari, e indicatori specifici, distinti per attività. Gli indicatori generali sono connessi alle modalità di esecuzione delle operazioni e ai mezzi di pagamento utilizzati, oltre che all’identità o ai comportamenti inusuali o sospetti del cliente. Gli indicatori specifici, che sono invece calibrati con riguardo alla tipologia delle attività esercitate dagli operatori, possono essere ad esempio: • la partecipazione a procedure di affidamento di lavori pubblici, servizi e forniture, in assenza di qualsivoglia convenienza economica all’esecuzione del contratto, anche con riferimento alla dimensione aziendale dell’operatore e alla località di svolgimento della prestazione, ovvero mediante ricorso al meccanismo dell’avvalimento plurimo o frazionato, ai fini del raggiungimento della qualificazione richiesta per l’aggiudicazione della gara, qualora il concorrente non dimostri l’effettiva disponibilità dei requisiti facenti capo all’impresa avvalsa, necessari all’esecuzione dell’appalto; • l’esecuzione di pagamenti infragruppo, specie se connessi con la prestazione di attività di consulenza, studio o progettazione, non supportate da idonea documentazione giustificativa; • l’esecuzione delle attività affidate al contraente generale direttamente o per mezzo di soggetti terzi, in assenza di adeguata esperienza, qualificazione, capacità organizzativa tecnico-realizzativa e finanziaria; • la richiesta di finanziamento pubblico incompatibile con il profilo economico-patrimoniale del soggetto cui è riferita l’operazione. L’obbligo di segnalazione - Gli operatori pubblici sono tenuti ad inviare all’ Uif una segnalazione, ai sensi dell’articolo 41 del decreto antiriciclaggio, quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Il sospetto deve fondarsi su una compiuta valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi dell’operazione a disposizione dei segnalanti, acquisiti nell’ambito dell’attività svolta, non solo alla luce degli indicatori di anomalia in base al decreto antiriciclaggio ma anche degli schemi di comportamento anomalo di cui all’articolo 6, comma 7, lettera b) del decreto stesso. Gli operatori devono segnalare le operazioni sospette a prescindere dal relativo importo. Nella valutazione delle operazioni sono tenute in particolare considerazione le attività che presentano maggiori rischi di riciclaggio in relazione alla movimentazione di elevati flussi finanziari e a un uso elevato di contante, nonché i settori economici interessati dall’erogazione di fondi pubblici, anche di fonte comunitaria, e quelli relativi ad appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta e smaltimento dei rifiuti. La segnalazione di operazione sospetta è un atto distinto dalla denuncia di fatti penalmente rilevanti e va effettuata indipendentemente dall’eventuale denuncia all’autorità giudiziaria. Configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2015 Reato - Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Configurabilità. Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello della cooperazione colposa purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano presenti gli elementi della colpa, in particolare la finalizzazione della regola cautelare violata alla prevenzione del rischio dell’atto doloso del terzo e la prevedibilità per l’agente dell’atto del terzo. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 26 maggio 2015 n. 22042. Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Ammissibilità - Condizioni. È ammissibile il concorso colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa (diversamente sarebbe violato il disposto dell’articolo 42, comma II, Codice Penale ) e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare, è necessario che il soggetto sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che la regola cautelare dal medesimo inosservata sia diretta a evitare anche il rischio dell’atto doloso del terzo, risultando dunque quest’ultimo prevedibile per l’agente. • Corte di Cassazione, sezione IV, Sentenza 20 settembre 2011 n. 34385. Reato - Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Ammissibilità - Verifiche necessarie. Il riconoscimento dell’astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perché, una volta accertata l’influenza causale della condotta colposa dell’agente, andrà verificata l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell’evento. In particolare, è necessario che il soggetto sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che la regola cautelare dal medesimo inosservata sia diretta ad evitare anche il rischio dell’atto doloso del terzo, risultando dunque quest’ultimo prevedibile per l’agente. Il fondamento della responsabilità, ex articolo 41 c.p., comma 2, deve, infatti, essere sempre correlato non solo all’esistenza di un dovere giuridico di attivarsi per impedire che l’evento temuto si verifichi, ma anche alla presenza di una condotta colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell’evento lesivo. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 20 settembre 2011 n. 34384. Reato - Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Configurabilità. Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa, purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare è necessario che la regola cautelare violata sia diretta ad evitare anche il rischio dell’atto doloso del terzo, risultando dunque quest’ultimo prevedibile per l’agente. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 11 marzo 2008 n. 10795. Reato - Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Configurabilità. Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, non ostandovi la previsione di cui all’articolo 42, comma secondo, cod. pen., che, riferendosi soltanto alla parte speciale del codice, non interessa le disposizioni di cui agli articoli 110 e 113 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 22 novembre 2002 n. 39680. Reato - Concorso di persone - Concorso colposo nel delitto doloso - Configurabilità - Esclusione - Ragioni. Il concorso colposo non è configurabile rispetto al delitto doloso, richiedendo l’articolo 42, comma secondo, cod. pen. un’espressa previsione che manca in quanto l’articolo 113 cod. pen., che parla di cooperazione nel delitto colposo e non già di cooperazione colposa nel delitto, contempla il solo concorso colposo nel delitto colposo. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542. Lettere: come è morto Eneas nel carcere di Pesaro? contropiano.org, 13 ottobre 2015 Come molti sapranno Venerdì 25 Settembre 2015, un ragazzo di 29 anni è stato trovato morto in una cella del carcere di Pesaro, il suo nome era Anas Zamzami per tutti Eneas, detenuto per accusa di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale con una pena (reato commesso nel 2011) per cui doveva scontare 12 mesi, ne aveva già scontati 5 benché il codice penale art.199/2010 preveda gli arresti domiciliari per pene inferiori ai 18 mesi. La versione della C.C. di Villa Fastigi è che il decesso è avvenuto per suicidio, per familiari ed amici di Eneas le dinamiche dei fatti risultano poco chiare, inoltre avrebbe ottenuto l’udienza per i domiciliari il 21 ottobre, nonostante la richiesta fosse stata inoltrata nel mese di Giugno, infatti, attualmente sono in corso indagini per istigazione a suicidio da parte del Ministero della Giustizia. Rispetto ad Eneas, la Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) dichiara: "L’ennesima tragedia, il suicidio di un uomo nemmeno trentenne con trascorso importante di tossicodipendenza e problemi di natura psichiatrica, ripropone la questione del se può il carcere farsi carico della missione risocializzante quando il soggetto cui si rivolge non è in grado di comprendere né il disvalore delle proprie condotte né recepire le azioni di sostegno", per chi lo conosceva, Eneas non aveva avuto un "trascorso importante di tossicodipendenza" ne problemi psichici o sicuramente non prima di entrare in carcere, dai rapporti mantenuti durante le visite con i familiari e tramite comunicazioni per lettere con l’esterno, non sembra che lui non fosse in grado di comprendere "il disvalore delle proprie condotte né recepire le azioni di sostegno". Leggendo il rapporto dell’associazione Antigone (del 2010) sulla casa circondariale di Pesaro, ci rendiamo conto che le condizioni dei detenuti sono al limite: celle progettate per 1 persona in cui ne risiedono due, spazi comuni insufficienti come numero e dimensioni e carenza di personale. Ci chiediamo se queste condizioni siano adeguate e quanto possano compromettere la salute psicofisica di una persona dopo 5 mesi, Eneas si lamentava delle condizioni di vita nell’Istituto che l’avevano portato ad una significativa perdita di peso e di fiducia verso chi lo circondava. Eneas era in Italia dall’età di 6 anni e aveva frequentato le nostre scuole pubbliche e dopo anni di lotta era riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana proprio il giorno del suo arresto, questo per porre l’attenzione sul motivo che l’aveva portato quel giorno del 2011 a dare una falsa identità e ad opporsi alle forze dell’ordine. Mercoledì 14, alle ore 18:00 nei locali dell ex-Snia a Roma si terrà un incontro in cui invitiamo tutte le realtà interessate, per un confronto e per costruire insieme la giornata del 25 Ottobre sul tema carcere e raccolta fondi a sostegno delle spese legali per cercare di fare chiarezza sul caso di Eneas. I compagni e le compagne di Eneas Veneto: record presenze di detenuti stranieri, Regione al terzo posto in Italia con il 55% di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 13 ottobre 2015 Calano i detenuti nelle carceri, anche i cittadini stranieri. Eppure il Veneto mantiene un primato nell’incidenza di reclusi provenienti dall’estero: è pari al 55 per cento, circa quattro punti percentuali in meno rispetto al dicembre 2011, quando raggiunse quota 58.8 per cento. E nel Friuli Venezia Giulia la riduzione è ancora più massiccia, passando dal 60.6 per cento di stranieri a fine 2011, al 37 per cento della fine dello scorso settembre. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha diffuso i dati più aggiornati sulla consistenza dei detenuti nelle carceri italiane, una fotografia impietosa, anche per il permanere di un sovraffollamento ormai cronico, seppur ridotto rispetto al passato. Nei 197 istituti di pena, a fronte di una capienza regolamentare di 49.585 posti a fine settembre erano presenti 52.294 detenuti (2.120 le donne) di cui 17.251 stranieri. Tornando indietro nel passato, a fine dicembre 2010 nelle carceri italiane erano presenti 68mila detenuti, con una capienza di 45 mila posti. Il calo, in cinque anni, è consistente, con un saldo negativo del 23 per cento. È l’effetto della legge svuota-carceri del 2010 e al ricorso a misure alternative, di cui però hanno beneficiato di meno gli stranieri. Difficile per loro, ad esempio, usufruire degli arresti domiciliari. L’incidenza degli stranieri in Italia è del 32.9 per cento, meno del 36 per cento del 2011 e del 35 per cento del 2013. In questa geografia degli stranieri detenuti balza agli occhi l’incidenza in Veneto. Dei 2.241 detenuti presenti, 1.236 sono stranieri, pari al 55 per cento. In tal modo il Veneto è al terzo posto tra le regioni italiane (assieme alla Liguria), se si considera il dato percentuale, preceduta da Trentino Alto Adige (70 per cento) e Valle d’Aosta (57 per cento), che hanno però valori assoluti molto più bassi. Il calo complessivo dei reclusi ha inciso molto in Veneto. A fine 2011, infatti, il totale della popolazione carceraria era di 3.156 unità, di cui 1.300 italiani e 1.856 stranieri, ovvero il 58.8 per cento. Gli stranieri sono scesi di 620 unità, un considerevole 33.4 per cento. In Friuli Venezia Giulia i detenuti presenti sono 630, di cui 231 stranieri, pari al 37 per cento, dato - quest’ultimo - che colloca la regione all’undicesimo posto. Nel dicembre 2011 il numero totale era di 854 persone, di cui 518 stranieri, pari al 60.6 per cento. Gli stranieri sono diminuiti in 5 anni di 287 unità, pari al 55.4 per cento. Una lettura di questi dati, in chiave veneta, è stata fornita ieri dal governatore Luca Zaia. "I numeri confermano che avevo ottimi motivi per lanciare, cosa che ho fatto da mesi, un allarme Veneto: con il 55,15% di stranieri, siamo la Regione a Statuto ordinario con la percentuale massima, superiore alla media italiana del 32,9% e non di poco (una decina di punti) a Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Lazio, Piemonte". Poi, la marcatura politica: "Ciò dimostra due cose: che l’immigrazione clandestina o con permessi facili incide pesantemente sul numero di reati commessi e che le nostre 9 carceri non sono sufficienti". Incurante del calo ragguardevole dei detenuti (29 per cento in Veneto), Zaia aggiunge: "I problemi erano e restano due, irrisolti da parte dello Stato, il sovraffollamento, che non si risolve con decreti svuota carceri capaci solo di fare da volano ai reati, ma realizzando altre strutture che garantiscano la certezza che la pena comminata sia scontata fino all’ultimo minuto". Il secondo: "L’elevatissima percentuale di stranieri detenuti dovrebbe far riflettere sul buonismo dilagante". Lombardia: straniero 43% dei detenuti. Bordonali (Lega) "scontino pena nei loro Paesi" L’Eco di Bergamo, 13 ottobre 2015 "Sono 3.471 i detenuti stranieri nelle carceri lombarde e, tenuto conto che ciascuno costa 120 euro al giorno, la spesa totale in Lombardia ammonta a 152 milioni di euro l’anno". Lo fa notare l’assessore regionale alla Sicurezza, Protezione civile e Immigrazione Simona Bordonali, commentando i dati, aggiornati al 30 settembre 2015, del censimento effettuato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). L’assessore invita poi a riflettere su un altro dato: "Se gli stranieri in Lombardia sono circa il 13 per cento della popolazione totale, - spiega - e il 43 per cento della popolazione carceraria, significa che c’è un serio problema di integrazione e che in Lombardia non c’è spazio per altri immigrati". Da qui dunque l’invito di Bordonali, affinché "si faccia tutto il possibile, a livello legislativo e di relazioni internazionali, affinché i detenuti stranieri scontino le pene nei propri Paesi d’origine. Questo comporterebbe un risparmio economico straordinario, permetterebbe di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario (in Lombardia sono infatti detenute 7.962 persone a fronte di una capienza massima di 6.133 persone) e impedirebbe a queste persone di tornare a delinquere sul nostro territorio una volta terminata la pena". Umbria; il Garante; cala il numero dei detenuti nelle carceri regionali, siamo a 1.334 perugiatoday.it, 13 ottobre 2015 La relazione del Garante: dei 1.324 detenuti 1033 sono definitivi e 310 in custodia cautelare. Gli stranieri sono 386, 41 le donne e 6 i semiliberi. Cominciamo dai numeri: dal primo giugno 2014 al 28 febbraio 2015 la popolazione penitenziaria nei quattro istituti della regione Umbria è diminuita di 220 unità, passando da 1563 a 1334 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1324 posti. Ovvero: non siamo ancora del tutto in linea. Ma quasi. E ancora. Dei 1324 detenuti 1033 sono definitivi e 310 in custodia cautelare. Gli stranieri sono 386, 41 le donne e 6 i semiliberi. È questo il quadro che emerge dalla relazione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Umbria, figura di garanzia istituita con legge regionale 13/2006, successivamente modificata con legge 11/2015, pubblicata sul sito istituzionale dell’Assemblea legislativa dell’Umbria. Il documento, trasmesso alla terza commissione consiliare il 2 ottobre scorso, illustra l’attività e i risultati conseguiti nell’anno 2014 dall’Ufficio del Garante, per la cui funzione è stato nominato il professor Carlo Fiorio. Più nello specifico, "i destinatari di tale attività di garanzia sono le persone presenti negli istituti penitenziari umbri, quelle in esecuzione penale, le persone sottoposte a misure cautelari personali, le persone in stato di arresto ovvero di fermo, nonché le persone presenti nelle strutture sanitarie". Oggetto della relazione sono dunque le problematiche della popolazione penitenziaria umbra. Cioè i detenuti, per dirla più semplice. La relazione del Garante, dopo essere stata esaminata dalla terza commissione della Regione, sarà posta all’ordine del giorno dell’Assemblea legislativa dell’Umbria. Sardegna: Capelli (Cd); chiusura Opg, spazio per "mostro di Foligno" ma non per i sardi sardegnaoggi.it, 13 ottobre 2015 Il deputato Roberto Capelli (Centro Democratico): "Per il dipartimento di amministrazione penitenziaria sull’Isola c’è posto per il mostro di Foligno ma non per i sardi". "Da quando l’Umbria confina con la Sardegna?". A chiederselo è il deputato del Centro Democratico Roberto Capelli, dopo aver letto la motivazione ufficiale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Dap, circa l’invio in Sardegna di Luigi Chiatti, il pluriomicida passato alle cronache come il "mostro di Foligno". "Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari - prosegue Capelli - la legge ha previsto che gli internati siano trasferiti nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, le Rems, e secondo l’accordo tra Stato, Regioni, città ed autonomie locali firmato a febbraio 2015, il criterio di destinazione deve essere quello della territorialità. Ovvero ogni Regione deve occuparsi della cura e del recupero dei propri pazienti provenienti dagli Opg. Peccato però che il Dap abbia mandato in Sardegna Chiatti, e di fronte alla contestazione della violazione del principio di territorialità, abbia risposto ufficialmente che per mancanza di posti nella regione di appartenenza, "questa Direzione Generale è stata costretta a designare le strutture già attive nelle Regioni limitrofe". "Così - lamenta con sarcasmo Capelli - scopriamo che la Sardegna confina con l’Umbria. Ma quel che è peggio è che il Dap sta inviando pazienti sardi in strutture di altre Regioni, con la motivazione che la Sardegna non ha posti sufficienti. Quindi non c’è posto per i pazienti sardi, ma c’è posto per il "confinante" umbro Chiatti. Mi auguro che il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenga al più presto per ripristinare la legalità e prima ancora il buon senso, e per questo ho presentato un’apposita interrogazione parlamentare al ministro stesso che verrà discussa alla Camera nei prossimi giorni". Campania: Legge Severino, nuovo rischio di sospensione per il governatore De Luca di Corrado Castiglione Il Mattino, 13 ottobre 2015 Manca una settimana all’esame da parte della Corte costituzionale inerente l’applicazione della legge Severino, m particolare in relazione alla sospensione degli amministratori locali nel caso m cui siano colpiti da condanne anche in primo grado per reati che vanno dalla corruzione all’associazione mafiosa, dal traffico di droga all’abuso d’ufficio. E sulla materia che prevalentemente fa perno sulla presunta irretroattività della Severino si scatena una ridda di interpreta- zioni, che evidentemente non riguardano soltanto il ricorso avanzato dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris di cui il 20 ottobre la Consulta discuterà, ma anche la vicenda del governatore della Regione Campania Vincenzo De Luca che pure - come il sin daco - è stato condannato per abuso d’ufficio. In particolare sono tre righe vergate dagli avvocati dello Stato Gabriella Palmieri e Agnese Soldano in difesa della legge Severino ad aprire il campo ad una prospettiva nuova. Scrive l’avvocatura dello Stato: "Si applica la norma vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo". Poche parole che per certi versi lasciano intravedere una parziale incostituzionalità della norma. Vale a dire che la Severino (varata nel dicembre 2012) in realtà non contempla il caso di un soggetto candidato ed eletto prima dell’entrata in vigore della legge e successivamente incappato nelle maglie della legge per una condanna non definitiva. Poche parole che spariglierebbero i giochi e porterebbero le vicende dei due amministratori locali campani su due piani differenti. E qui il ragionamento esulerebbe dal principio della non retroattività della legge penale, per cui non si può essere perseguiti per un fatto che non era reato quando lo si è commesso, piuttosto si accentrerebbe sul momento in cui la carica è stata assunta. È evidente che per de Magistris, sindaco dal primo giugno 2011 condannato a un anno e tre mesi dal tribunale di Roma il 24 settembre 2014, scatterebbe immediatamente l’ombrello. Mentre il governatore De Luca - condannato a un anno dal tribunale di Salerno il 22 gennaio 2015 e poi eletto in Regione a giugno non sarebbe coperto da questo tipo di lettura del quadro normativo. Così come probabilmente non avrebbe riflessi questa interpretazione su Silvio Berlusconi, perché nel caso del leader di Forza Italia a far scattare la Severino e quindi l’incandidabilità è stata una condanna per frode fiscale definitiva e non in primo grado o in appello. Da registrare: per lo stesso giorno dell’esame in Consulta è in calendario un altro appuntamento di rilievo. Le Sezioni unite della Cassazione devono esaminare un ricorso che chiede di accertare se il tribunale ordinario abbia potere cautelare in materia elettorale: cioè, se in un giudizio che riguardi l’applicazione della Severino, il giudice ordinario possa sospenderne l’applicazione, come è successo sia a de Magistris che a De Luca. L’udienza però potrebbe anche slittare. Verona: detenuto di 55 anni si impicca in cella, la famiglia chiede chiarezza sull’accaduto Ristretti Orizzonti, 13 ottobre 2015 Siamo venuti a conoscenza di questo suicidio soltanto oggi, grazie alla lettera di un detenuto del carcere di Montorio ricevuta da Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere - Radio Radicale. "Incendiava le case, piromane di 55 anni si ammazza in cella", di Laura Tedesco (Corriere di Verona, 19 giugno 2015). La famiglia chiede chiarezza, il dolore del sindaco. Il 25 maggio era stato incarcerato per aver dato fuoco alla casa della madre, martedì si è impiccato in carcere a Montorio. Si tratta di un 55enne di San Pietro di Morubio, la cui famiglia ora chiede chiarezza, sulla dinamica di quanto accaduto. Tre settimane fa (per la precisione il 25 maggio) era stato arrestato in flagrante dopo aver appiccato il fuoco l’appartamento dell’anziana madre, distruggendolo. Processato e condannato (a tre anni di reclusione per il reato di incendio doloso) nel giro di 24 ore, martedì si è tolto la vita, in carcere a Montorio. L’ha fatta finita così, a 55 anni, Francesco Martinelli di San Pietro di Morubio: pluripregiudicato per piromania, si è impiccato in cella. E la sua famiglia, adesso, chiarezza: "Sono stato contattato dall’ex compagna del signor Martinelli, che peraltro risultava mio cliente ormai da parecchio tempo - spiega l’avvocato Michele Dorizzi. Mi ha purtroppo informato della tragedia accaduta e mi ha chiesto, a nome della famiglia, di poterne sapere di più su quanto accaduto in carcere". Maggiori "informazioni e chiarezza circa la dinamica" del dramma: è questa, dunque, la richiesta che arriva dalle persone vicine a Martinelli. Da quando quel figlio problematica, alle prese con problemi di droga e alcol, le aveva incendiato la casa rendendola tuttora in agibile, l’anziana madre è ospitata in casa di riposo dove viene seguita dai servizi sociali del Comune: "Sono stati proprio gli operatori, che la seguono con una psicologa, a comunicarle il dramma del figlio - dice il sindaco di San Pietro di Morubio Giorgio Malaspina. È da tempo che i nostri servizi sociali si stanno occupando della signora e lo stesso Martinelli era seguito da loro prima che si facesse arrestare nuovamente". "È un soggetto pericoloso e ritenuto capace di compiere attività delittuosa principalmente per reati contro la persona e soprattutto di elevata gravità desunta dal fatto che lo stesso ha una propensione alla piromania, è solito accompagnarsi a persone pregiudicate in particolare soggetti legati a dipendenze da alcol e droga": era stato un ritratto di Martinelli quanto mai esplicito quello fornito in tribunale dai carabinieri che lo avevano arrestato il pomeriggio del giorno prima per l’incendio doloso della casa di sua madre. Risultato: in meno di 24 ore, era stato prima fermato e poi condannato (per la precisione, si è trattato di una condanna per patteggiamento) alla pena finale di tre anni. Non solo, perché il magistrato aveva anche disposto che il pregiudicato, data la sua "evidente pericolosità sociale" rimanda dietro le sbarre. Anche perché, nel corso dell’udienza, era emerso che il 30 aprile scorso, al comando dei carabinieri venne presentato un esposto firmato da alcuni condomini "che venivano minacciati dall’imputato che avrebbe appiccato il fuoco nel suo appartamento". Un copione che, il 25 maggio, Martinelli (già responsabile di due incendi a casa di un amico nel 2002 e di una donna nel 2013) ha puntualmente messo in pratica dando fuoco all’appartamento che condivideva con la madre a San Pietro di Morubio. E lei, colpita nel giro di pochi mesi dalla scomparsa del marito e di quel figlio pur così "difficile", chiede "almeno di conoscere come sono andate le cose". Pistoia: il carcere non verrà chiuso, stanziati 1 milione 800mila € per riparare il tetto Il Tirreno, 13 ottobre 2015 I tetti del carcere di Pistoia verranno ristrutturati e nei prossimi mesi il Santa Caterina in Brana potrebbe riprendere la sua piena attività. La notizia arriva dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e dal provveditore Carmelo Cantone. Giovedì il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha autorizzato lo svolgimento dei lavori di riparazione di buona parte dei tetti della Casa circondariale, crollati per la bufera dello scorso 5 marzo. Da allora una parte del carcere è inagibile e la maggior parte dei detenuti è stata spostata gradualmente nei carceri di Sollicciano e Prato. Al momento, in Santa Caterina sono presenti solo 16 detenuti. Senza i fondi necessari e l’avallo del Ministero della giustizia, la Casa circondariale pistoiese avrebbe rischiato la chiusura. Il suo destino era legato alla decisione di stanziare o meno i fondi necessari alla ristrutturazione. Ristrutturazione che prevede un investimento fra gli 800.000 e un milione di euro. "A conclusione dei lavori nei prossimi mesi, l’istituto riprenderà la sua piena operatività" scrive Cantone, e ringrazia "i vertici giudiziari della città e le istituzioni per la sensibilità dedicata, nonché il Provveditorato della Toscana per il fondamentale sostegno tecnico che sta fornendo". "Non posso che associarmi al provveditore nel ringraziare tutti - afferma il direttore del carcere, Tazio Bianchi. Ancora non conosciamo i tempi, ma stiamo prendendo contatti con le Opere pubbliche, perché sono loro i titolari dei lavori". Che il carcere non chiuda i battenti è un traguardo importante. "C’è una questione di sicurezza prima di tutto, perché al momento le forze dell’ordine sono costrette a portare gli arrestati in carceri limitrofi. Questo comporta anche spese maggiori. Inoltre, il carcere di Pistoia negli ultimi anni ha dato buoni frutti rispetto alla rieducazione dei detenuti. È infine una buona notizia anche per il personale che vive a Pistoia, che altrimenti sarebbe stato costretto a trasferirsi". Messina: il carcere sarà dotato di una "Area verde" per l’incontro tra detenuti e familiari di Danilo Loria strettoweb.com, 13 ottobre 2015 Area verde nel carcere di Messina, i sindacati: "lodevole iniziativa ma il direttore contemperi l’esigenza di sicurezza con quella del trattamento rieducativo". Domani, 13 ottobre 2015, presso il Carcere di Messina sarà inaugurato il progetto "Area verde" per l’incontro tra detenuti e familiari, in particolar modo con i figli minori. "Il dott. Calogero Tessitore, Direttore del Carcere, ha avuto una buona idea - dichiara Antonino Solano, dirigente nazionale del Si.P.Pe. (Sindacato Polizia Penitenziaria); si tratta di un’iniziativa - continua il sindacalista - che alleggerisce le tensioni fisiche ed emotive vissute dai detenuti che inevitabilmente ricadono negativamente sull’importante lavoro svolto dalle donne e gli uomini di polizia penitenziaria che operano nel carcere. Sulla questione interviene anche Antonino Piazza, Presidente dell’Ad&T (Associazione diritti e tutele), che vede "in modo positivo la realizzazione di un’area verde destinata all’incontro tra familiari e detenuti, in particolare i figli di questi ultimi, ma auspica che questa lodevole iniziativa non si trasformi in un carico di lavoro per il personale di polizia penitenziaria costretto poi a dover gestire continui eventi critici". Alessandro De Pasquale, responsabile nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria ritiene "che la missione del Dottor Tessitore dovrà proseguire, creando anche le aule scolastiche all’esterno dei reparti detentivi, in modo da consentire al poliziotto penitenziario di operare con la massima sicurezza". L’oasi verde mira ad allentare le tensioni e migliorare le condizioni delle incolpevoli vittime come i bambini figli di detenuti e gli anziani genitori dei reclusi; ciò rappresenta un passo avanti dell’istituzione penitenziaria che a Messina è rappresentata dal dottor Calogero Tessitore, hanno lo scopo di per far coincidere l’umanizzazione della pena con le inevitabili esigenze di sicurezza della struttura e dei lavoratori. Avellino: gli assessori Cillo e Mele in visita al carcere di Bellizzi "attiveremo borse lavoro" irpiniapost.it, 13 ottobre 2015 Nella mattinata di ieri gli Assessori alle Politiche Sociali e Trasparenza Marco Cillo e alle Pari Opportunità e Inclusione Sociale Teresa Mele hanno fatto visita ai detenuti della Casa Circondariale di Bellizzi. Ad accoglierli il direttore del carcere Paolo Pastena e il Comandante della Polizia Penitenziaria. È stato un confronto cordiale e propositivo sui futuri rapporti tra l’Amministrazione e la Casa circondariale da cui è scaturito l’impegno di individuare un tavolo comune di lavoro per creare possibilità concrete per i detenuti di fare esperienza anche professionale all’interno dell’Ente di Piazza del Popolo di Avellino. Gli assessori Cillo e Mele hanno visitato le strutture scolastiche del nuovo padiglione e del vecchio padiglione fruibili ai detenuti; inoltre hanno avuto modo di vedere il carcere femminile. "Il nostro intento è quello di attivare delle Borse di Studio Lavoro attingendo dai Fondi Europei e dal Ministero di Grazia e Giustizia per consentire ai detenuti di effettuare tirocinio presso i settori lavori pubblici, urbanistica e altri settori del Comune di Avellino - spiega l’Assessore Marco Cillo- L’esperienza del carcere è sempre forte e significativa perché la privazione della libertà per una persona rimane la peggiore delle condanne. Il nostro obiettivo è quello di aprire uno spiraglio attraverso azioni che possano restituire dignità a queste persone reinserendole nella società riabilitandole alle regole e alla legge". Sulla stessa linea di pensiero l’Assessore all’inclusione sociale Teresa Mele che ha voluto raccogliere le istanze di alcune mamme detenute presenti nella struttura di Contarda Polverista. "Abbiamo in mente di sottoporre alla Giunta la proposta di un Protocollo d’Intesa con la Casa Circondariale di Bellizzi a favore di quei bambini che dalla nascita e fino al compimento dei 3 anni stanno con la mamma detenuta affinché venga data loro la possibilità di frequentare l’asilo comunale - dice l’assessore all’inclusione sociale Teresa Mele. Si tratterebbe di posti extra bando nell’ambito del Piano di Zona per dare loro l’occasione di conoscere il mondo esterno e socializzare con altri bambini". Avellino: il carcere resta sovraffollato; il direttore Pastena "dobbiamo attrezzarci meglio" di Edoardo Sirignano Il Mattino, 13 ottobre 2015 Nelle carceri della provincia di Avellino ci sono oggi 1.036 detenuti, nonostante la capienza regolamentare sia di soli 919 posti. L’incremento si è avuto soprattutto nella struttura di Bellizzi, dove risiedono 100 detenuti in più del previsto. L’Irpinia, considerando le statistiche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, pubblicate sul Sole 24 Ore ed aggiornate al 30 settembre 2015, segue Napoli e Caserta, ma precede sia Benevento (412 reclusi) che a sorpresa Salerno (482 reclusi). La prima è quella del capoluogo (607 carcerati), mentre a seguire ci sono Ariano Irpino (244), Sant’Angelo dei Lombardi (177) e Lauro (8). Per quest’ultima è però in corso una trasformazione m centro di recupero per tossicodipendenti. I reclusi in Irpinia sono soprattutto uomini. Ad Avellino ci sono 35 donne dietro le sbarre, dato superiore al Sannio, ma inferiore a tutto il resto della Campania. In aumento sono gli extracomunitari autori di reati. Le strutture irpine ne ospitano 110,a Napoli ce ne sono 379, a Caserta 252, a Salerno 63 e a Benevento 45. A commentare le statistiche è Paolo Pastena, direttore della casa circondariale di Bellizzi: "Soltanto nella struttura che dirigo ci sono seicento detenuti, anche se abbiamo cinquecento posti a disposizione. Non credo che ci possano essere ulteriori incrementi - dice - Dato effettivo è quello relativo alle donne. Rispetto a questo punto, come si evince anche dall’indagine, m provincia dobbiamo attrezzarci meglio". Il personale dei penitenziari irpini cerca di impegnarsi per far vivere in un contesto dignitoso chi è dietro le sbarre. "Tentiamo di adoperarci e collaborare con le istituzioni per ottenere risultati migliori continua Pastena. Lo spazio minimo per ogni detenuto è monitorato dal dipartimento, che dopo l’allarme, lanciato dalla Corte europea, è sempre più attento. È difficile, quindi, sbagliare. Siamo soggetti a numerosi controlli. Riguardo all’integrazione, negli ultimi tempi, la Regione Campania ha organizzato quattordici corsi per insegnare a chi è in carcere un lavoro, dall’arte della pizza fino all’artigianato. In questo ambito, però, è sempre importante impegnarsi di più". Rispetto agli stranieri, presenti nelle carceri delle aree interne, il direttore di Bellizzi chiarisce il perché la media sia inferiore rispetto al Nord: "Siamo in linea con il Mezzogiorno, da Roma in su ve ne sono quasi il doppio". Sul modo in cui vive chi deve scontare una pena in provincia, però, è perplesso Carlo Mele, garante dei detenuti. "Non voglio prendermela con nessuno, ma posso assicurare che l’Irpinia delle strutture penitenziarie ha due facce. A Bellizzi, così come ad Ariano, da una parte ci sono i padiglioni nuovi, dove si è a norma, mentre dall’altra ci sono quelli vecchi in cui è possibile trovare in pochi metri più di sei reclusi. I carcerati, che per più provengono da fuori provincia, vivono in spazi ristretti e spesso sono costretti a stare intere notti senza acqua, provando non pochi disagi anche nei bisogni fondamentali. È indispensabile, quindi far valere il diritto alla salute, al lavoro ed ai trattamenti obbligatori anche in Irpinia". presidente della Caritas di Avellino lancia poi un appello a favore delle mamme detenute con figli. "Nonostante la legge non preveda più minori in prigione, solo a Bellizzi, fino a qualche settimana fa, c’erano quattro madri insieme ai loro bambini. È importante che quanto prima, anche nelle aree interne, le genitrici possano scontare le proprie pene in apposite case famiglia. Considerato che nei luoghi di detenzione provinciali ci sono donne incinte, mi auguro che si possa cambiare". Perugia: oggi ad Orvieto inizia l’impiego dei detenuti in lavori di pubblica utilità orvietosi.it, 13 ottobre 2015 Firmata lo scorso 20 agosto dal Sindaco, Giuseppe Germani, dal Direttore del Carcere di Orvieto, Luca Sardella e dal Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Spoleto, Silvia Marchetti adesso diventa operativa la convenzione per la promozione e realizzazione del progetto sperimentale finalizzato all’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità, con particolare riferimento alla manutenzione, al restauro, pulizia e decoro urbano dei siti di interesse pubblico. Da Martedì 13 ottobre, infatti, ogni giorno autonomamente due detenuti usciranno dal carcere di via Roma per raggiungere il Centro Servizi Manutentivi del Comune di Orvieto e saranno destinati alle attività utili al Comune fino all’orario di rientro. Essi presteranno la loro mano d’opera dalle ore 07:00 alle ore 11:30, in forma rigorosamente volontaria. Il Comune ha predisposto ogni forma assicurativa per eventuali infortuni e ha messo loro a disposizione un autocarro Piaggio attrezzato con il materiale necessario. Il Sindaco e il Direttore della Casa di Reclusione hanno espresso "soddisfazione per l’innovativa iniziativa che è stata intrapresa sulla Rupe ma anche un sentito augurio alle due persone scelte dall’amministrazione penitenziaria per i loro comportamenti psico-sociali meritevoli di realizzare un percorso di reinserimento sociale ed acquisire da questa esperienza competenze lavorative utili e necessarie nella fase post-detentiva". L’Amministrazione Comunale, da parte sua intende coinvolgere sempre di più le potenzialità presenti all’interno della struttura penitenziaria di Orvieto - considerata un modello sull’intero territorio nazionale - per la realizzazione progetti analoghi. Come è noto, Anci e Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno sottoscritto nel 2012 il Protocollo d’Intesa finalizzato a promuovere un programma per lo svolgimento di diverse tipologie di attività lavorative extra-murarie da parte di soggetti in stato di detenzione in favore delle comunità locali. Successivamente, nel maggio 2014 Anci Umbria, Regione Umbria, Tribunale di Sorveglianza di Perugia e Ministero di Giustizia, hanno siglato un analogo impegno per favorire l’avviamento di percorsi individuali, di durata determinata, di formazione/lavoro a titolo volontario e gratuito, relativi a progetti di pubblica utilità. Tale progetto sperimentale realizzato con la collaborazione tra gli enti e le amministrazioni operanti nel territorio, è utile a realizzare percorsi di reinserimento sociale dei condannati e a ridurre i conflitti sociali; inoltre, consente loro l’acquisizione di conoscenze e competenze professionali ritenute necessarie nella fase post-detentiva, oltre che usufruire da parte della collettività, delle risorse di una popolazione detentiva ancora attiva e produttiva. Lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte dei soggetti interessati al provvedimento è gratuito e non costituisce in alcun modo rapporto di lavoro con i Comuni, il cui unico onere è quello relativo alle spese per l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché riguardo alla responsabilità civile verso terzi anche mediante polizze collettive. Benevento: nel carcere si tiene un corso gratuito sui social media con Simone Pacini ilquaderno.it, 13 ottobre 2015 "Social media per principianti", un workshop gratuito sull’utilizzo del web 2.0 si svolgerà al carcere di Benevento. Come raccontare e raccontarsi attraverso i social media? Giovedì 29 ottobre, dalle 13 alle 16, presso la Casa Circondariale di Benevento, si terrà per la prima volta in un carcere, un workshop gratuito e aperto a giovani under 35, sull’utilizzo del web 2.0. L’iniziativa s’inserisce nell’ambito delle attività del progetto "Limiti", ideato e realizzato dall’ Associazione Culturale Motus e dalla Solot Compagnia Stabile di Benevento, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. L’istituto penitenziario di Benevento apre ancora una volta le sue porte, dando modo ai giovani partecipanti - detenuti e non - di conoscersi e confrontarsi insieme con la realtà dei social. Un pomeriggio intero per scoprire e confrontarsi sulle potenzialità del web: Blogging, Social Media Storytelling, Community Management. Il corso si pone come obiettivo quello di chiarire i dubbi e attivare delle metodologie sulla gestione "familiare" dei social network. Facebook, Twitter e Instagram saranno quelli affrontati nello specifico, oltre a una panoramica sull’intera galassia social. Durante il corso si cercherà di capire come attraverso i social media, oltre a divertirsi, sia possibile creare comunità, coltivare i propri interessi e promuovere sé stessi e le proprie attività soprattutto in virtù della sua natura user friendly e intuitiva. Il workshop sarà condotto da Simone Pacini, uno degli esperti di social media più influenti di Twitter, secondo la lista stilata dal blogger e consulente 2.0 americano Evan Carmichael. Le iscrizioni gratuite, sono in corso fino al 20 ottobre. Basta inviare una mail all’indirizzo info@solot.it, corredata dalla carta d’identità. Il programma del workshop • Introduzione ai social network: come il web 2.0 ha cambiato la nostra vita • Facebook, il re dei social: come usarlo con creatività e gestire la propria privacy • Twitter, il social vip (e un po’ snob!) • Instagram. La grande rivoluzione dell’immagine • Parte interattiva e di coinvolgimento che si sviluppa attraverso esercitazioni, dibattiti, q&a (questions and answers). Verona: Sappe; detenuto dà fuoco al materasso, 12 agenti intossicati finiscono in ospedale veronasera.it, 13 ottobre 2015 Nella giornata di lunedì 12 ottobre, un detenuto del carcere di Montorio a Verona ha appiccato un incendio nella sua cella. Diversi agenti di Polizia Penitenziaria sono rimasti intossicati. Un altro incendio appiccato nel carcere di Montorio a Verona e anche questa volta il detenuto ha dato fuoco a un materasso nella sua cella. Lo riferisce l’Ansa lunedì 12 ottobre, che a sua volta è stata informata direttamente da Donato Capace, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Nel rogo, dodici poliziotti sono rimasti intossicati e feriti. Nessuno di loro è in gravi condizioni, ma sono stati portati immediatamente portati all’ospedale e ora sono in cura nelle camere iperbariche. L’Ansa riporta le parole di Capace: "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti con coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. Prima hanno salvato la vita al detenuto che aveva dato fuoco alla cella, poi hanno domato le fiamme. È stata una giornata da incubo nel carcere di Verona. Prima dell’incendio, infatti, si è verificata un’aggressione selvaggia da parte di un detenuto, non nuovo a gravi episodi di intolleranza. Poi l’incendio. Poteva essere una tragedia, sventata con professionalità, capacità e competenza". Sempre su L’Ansa è intervenuto anche il segretario regionale veneto del Sappe, Giovanni Vona: "Verona non è un carcere semplice, è una realtà con una presenza media di 500/600 detenuti. Dal 2012 al 30 giugno di quest’anno sono 70 i tentati suicidi di detenuti sventati per fortuna in tempo dalla polizia penitenziaria, più di 600 episodi di autolesionismo, oltre 100 ferimenti e 650 colluttazioni. Anche e soprattutto per questo il Sappe e la polizia penitenziaria sono in stato di agitazione da diverso tempo". Oltre agli agenti, sono rimasti intossicati anche tre detenuti. Tuttavia, l’incendio è stato spento direttamente dal personale della casa circondariale di Montorio e non c’è stato bisogno dell’intervento dei Vigili del Fuoco, che erano stati comunque allertati. Napoli: i detenuti e Socrate, un giorno a Secondigliano tra filosofia e mal di vivere di Gennaro Carillo Il Mattino, 13 ottobre 2015 Da qualche anno la Fondazione Premio Napoli svolge in carcere una parte delle sue attività. Dietro le sbarre si sono succeduti poeti (Pusterla e Valduga), un genetista (Barbujani), un giurista (Rodotà). Gabriele Frasca annuncia, a breve, un progetto di formazione stabile. E toccato anche a me, nell’ambito del ciclo "Del pensare libero", organizzato dalla Fondazione con Astrea e A voce alta, entrare in un penitenziario, quello di Secondigliano, per parlare di Socrate ai detenuti. Si arriva nell’aula passando per lunghi corridoi. Più degli agenti e dei cancelli, che fanno parte dell’iconografia ufficiale, ti colpiscono le onde multicolori dipinte alle pareti nelle ore di laboratorio d’arte. Pensi a un reparto di pediatria, dove i colori accesi e i personaggi dei cartoni dovrebbero ridurre la paura e far dimenticare che si è in un luogo di dolore. Nell’aula, ti aspetta il mondo, vociante come una classe qualsiasi, soltanto più numerosa. Il mondo, perché pare che tutti i tipi umani stiano qua dentro. C’è il comico, il quale mi accoglie giocando con il nome di Socrate: in dialetto vuol dire "tua suocera", la "finora". C’è il tipo polemico, che protesta per la casualità dei giudizi in Cassazione, con i giudici che "sparano il tocco" (gli ricordo non dice cose troppo diverse Rabelais, a proposito del giudice Brigliadoca). C’è l’intellettuale, che manifesta dubbi sulla data di nascita del filosofo. Ci sono gli indifferenti, quelli che ancora ostentano la guapparia e quelli che invece l’hanno perduta, non a causa di una femmina ma di una detenzione troppo lunga. Ci sono i bianchi e i neri. Tra i neri, mi si avvicina un gigante che supera i due metri. Torreggia con la fisicità di un pivot, i suoi muscoli intimidiscono. Poi lo guardi e ti viene incontro il sorriso più buono e felice che tu abbia mai visto. "Professò", mi saluta come se mi conoscesse e gli avessi portato un regalo, io che non ho niente da dargli. Mi domando che cosa ci faccia qui, il ragazzo più buono del mondo. Se sta qui e non su un campo di basket, c’è qualcosa che non funziona, un’inversione nell’ordine naturale delle cose. Mi aiuta il direttore del carcere, che ha una barbetta curata ed è un uomo intelligente e buono anche lui. Il ragazzo è arrivato dall’Africa su un barcone. La polizia ebbe una soffiata: una partita di droga a bordo. Messo in mezzo, il ragazzo è finito in galera, non so se a torto o a ragione, e ora è quello che si dice un detenuto modello. Ma la sua è l’unica storia che mi raccontano. Perché qua dentro, a Secondigliano, la sola domanda che ti viene naturale fare è "quando esci?", non "perché ti hanno condannato?". Gli uomini con cui parli potrebbero aver commesso qualunque crimine. Tra chi ti sorride ci potrebbe essere qualcuno che ha ucciso. La luce è forte, nell’aula, ma è come nuotare nel mare di notte. Torniamo a Socrate. Prima della lezione, a molti preme sapere due cose: se Santippe era cattiva e soprattutto se Socrate era ricchione. Quando gli spiego che Socrate era bisessuale e che la morale ateniese era molto diversa dalla nostra, mi appaiono rassicurati. Comincio la "lezione". Ho bisogno di un punto d’attacco, un punto debole nel quale far breccia, altrimenti addio Socrate. È il senso originario della parola "kairos", prima che designasse l’occasione propizia, il bene nel tempo. Devo cancellare la distanza, come ogni residuo di autorità. Mi viene in soccorso il titolo del ciclo, "Del pensare libero". Socrate è davvero uno che libera il pensiero. Lo è perché non si atteggia come un maestro di verità ma come uno che la verità la cerca insieme ai suoi amici, in una condizione d’incertezza. Lo è perché dice che confutare i discorsi non significa criticare le persone ma amarle, perché le si cura dall’errore. E che chiunque, ragionando con la propria testa, scegliendo, tra i discorsi, quello che gli appare il migliore, può contribuire a fare andare avanti il ragionamento, senza aver paura che quello che si dice possa "parere brutto", perché contrario all’opinione della maggioranza. Questo piace molto ai detenuti: che nessuno possa essere ritenuto pregiudizialmente incapace di accedere alla verità e che nessuno, questa verità, la possiede perché dotato di una natura divina. Hanno il complesso di Tersite, il complesso degli ultimi della classe, e glielo dico. Mi confermano che qualcuno, ai tempi della scuola, li ha stereotipati come scarti e zittiti perché "scemi". Quell’umiliazione, che ha rovinato la vita di molti ed è dunque un crimine tremendo, un reato di cinismo per il quale nessuno pagherà, brucia ancora. Ecco perché Socrate gli piace: perché li riscatta e, in fondo, li rispetta, trattandoli da pari. Ponendo, nella lingua semplice con cui lo fa parlare Platone, questioni che li riguardano da vicino. La legge e la giustizia, per esempio. Ascoltano il dialogo con Critone. Sono interessati all’antefatto. Alla differenza tra il sistema processuale ateniese in età classica e l’ordinamento vigente. Li meraviglia scoprire che i giudici popolari che condannano Socrate sono stati estratti a sorte. Che Socrate si difende, male, da solo. Che la democrazia preferisce, a lui che è il più giusto dei cittadini, i tre infami che l’accusano. Fin troppo facile, ma utile, il parallelismo con il Cristo e Barabba. Gli argomenti con i quali Socrate persuade Critone che non ci si deve sottrarre all’esecuzione della sentenza di morte, pena l’uccisione delle leggi che in quanto cittadini ci si è obbligati a osservare, non li sconcertano. Ma anche Trasimaco, l’anti-Socrate, riscuote consensi. Apprendere che il giusto secondo legge non è altro che l’utile del più forte, l’utile di chi persegue il proprio interesse mediante le leggi, un po’ li conforta, facendo apparire i reati commessi come qualcosa di prossimo a un atto di disobbedienza verso il potere politico. Conclusione pericolosa, la loro. Si può provare a superarla solo spiegando che l’argomento di Trasimaco presuppone acquiescenza allo stato delle cose e una concezione della politica in culla prevaricazione, anzi la guerra per bande, è una regola che non ammette eccezioni. Se così fosse, non varrebbe la pena morire per la legge. Mi fermo. Interviene un detenuto della prima fila. Midice che la questione più urgente è quella della dignità che il giudice ti toglie. Gli rispondo che una sentenza di condanna implica un giudizio su atti specifici, non sulla persona. La quale è sempre qualcosa di più grande di quegli atti. La persona non coincide con quello che un giudice ha deciso relativamente a un episodio isolato, per quanto grave, di una biografia complessa com’è quella di ognuno di noi. Non so se l’ho convinto. Un suo compagno confessa che la paura peggiore è che la pena, una volta scritta sul corpo, ti accompagni anche fuori e per tutto il tempo che resta. Aggiunge che, se pure il giudice si limita a condannare gli atti, la stigmatizzazione sociale riguarda la persona e che la società - i "molti" - può farti male, come sostiene Critone. Non so cosa rispondergli, se non che ha posto la questione in termini decisamente migliori dei miei. Avevo sottovalutato che in carcere non cresce a dismisura solo l’immaginazione. Cresce anche l’attenzione. Che è disponibilità socratica ad ascoltare e a capire. Busto Arsizio: nella squadra di calcio dei detenuti Italia e resto del mondo giocano uniti Provincia di Varese, 13 ottobre 2015 Il carcere di Busto apre le porte per mostrarci una domenica speciale che si rinnova ogni mese. Nella squadra di calcio dei detenuti Italia e resto del mondo unite per andare in gol. Verso la libertà. Varchi un cancello. Esibisci i documenti. Lasci tutti i tuoi effetti personali nell’apposito armadietto. Superi un’altra porta. E finalmente sei in campo. Un campo speciale. Semplice, spartano, senza erba, ma per chi ci gioca è più bello di San Siro e di Wembley. No, non è una partita come un’altra quella a cui abbiamo assistito ieri mattina. Perché in campo c’era la squadra di calcio a 5 dei detenuti del carcere di Busto Arsizio, ribattezzata la "Nazionale" (infatti gioca in maglia azzurra). Nazionale sì, ma multietnica: i 14 calciatori che la compongono provengono da vari paesi. Sono italiani ma anche est-europei, albanesi, africani. Hanno dai 25 ai 35 anni. E ieri sono scesi sul campo della casa circondariale di via per Cassano per affrontare i Giovani Democratici della provincia di Varese. "Gettare un ponte tra dentro e fuori è fondamentale - osserva Agostino Crotti, presidente dell’Associazione assistenza carcerati - Giocando a calcio smettono di essere numeri, e tornano persone. Ora il nostro sogno è quello di creare una squadra di calcio per ogni sezione del carcere, per poi organizzare un torneo". Per il momento, la Nazionale dei detenuti si deve accontentare di una partita al mese. Ma per ora è già un grande risultato, considerando le difficoltà logistiche e burocratiche che vanno affrontate per organizzare una gara di questo tipo. Allenati da mister Luca Cirigliano (uno dei principali artefici dell’iniziativa) i ragazzi del team di via per Cassano giocano bene, altroché. "Tra di loro c’è anche qualcuno che, nei paesi d’origine, ha giocato ad alti livelli" osserva Crotti. Se n’era accorta la squadra della Croce Rossa di Gallarate (sconfitta 13-0 il mese scorso). Se ne sono accorti ieri anche i Giovani del Pd (Massimo Brugnone, Andrea Cozzi, Alex Gorletta, Mohit Kabotra e Marco Cirigliano, "prestato" da Sel), travolti 20-1 al termine dei tre tempi da venti minuti. Il prossimo match è in programma per il 25 ottobre, contro un oratorio di Busto. I detenuti lottano su ogni pallone, corrono il doppio, il triplo rispetto ai giovani del Pd. Che tengono botta nei primi dieci minuti e poi crollano. Si vedono belle giocate, qualche numero, dietro la rete si crea anche una piccola folla di spettatori. In certi tiri potenti, anche troppo rispetto alle dimensione del campo, si sente la voglia di spaccare il mondo: un gran gol può diventare una piccola rivincita. Un lampo di felicità che rompe la noia. E si scherza anche: "Fuori Balotelli!" grida il portiere quando esce dal campo un ragazzo di colore. Entra don Silvano Brambilla, il cappellano del carcere: batte il calcio d’inizio del terzo tempo. "Grande don!" gli urlano i "suoi" ragazzi. Sotto un raro sole di ottobre e negli abbracci e i sorrisi che seguono una rete, anche il carcere può sembrare un luogo come un altro. Per un attimo. Poi torna la realtà, e con essa la routine, la sofferenza. C’è ancora tempo per una serie di calci di rigore, uno a testa. Poi le guardie carcerarie ci riaccompagnano all’uscita. I ragazzi si sono divertiti. "Mi raccomando, vogliamo le foto!" ci dice uno di loro salutandoci. Prima di imboccare ancora quei lunghi, spettrali corridoi. In attesa di un’altra partita, un altro gol, la libertà. Ferrara: "La Gerusalemme liberata", teatro-carcere con la regia di Horacio Czertok assemblea.emr.it, 13 ottobre 2015 Un laboratorio teatrale in carcere che torna agibile dopo i danni causati dal sisma del maggio 2012, e i detenuti che portano in scena la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: è successo a Ferrara questo fine settimana, con "Me che libero nacqui al carcer danno", progetto del Coordinamento regionale teatro carcere, per la regia di Horacio Czertok con la collaborazione di Andrea Amaducci. "È ammirevole l’impegno degli attori detenuti, quasi tutti stranieri, che si sono cimentati nella recitazione dei versi del Tasso, riproponendo il combattimento di Tancredi e Clorinda, e raggiungendo un risultato di grande impatto emotivo", commenta Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia Romagna, tra il pubblico insieme al Garante comunale di Ferrara, Marcello Marighelli, e tanti ristretti. L’appuntamento artistico è stata l’occasione per la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa per fare il punto della situazione della struttura. I detenuti sono 294, a fronte di una capienza regolamentare di 252 persone: si conferma quindi "l’abbattimento dei numeri dei reclusi, in linea con il complessivo trend regionale spiega Bruno: non si ravvisano gravi profili di sovraffollamento, con il conseguente miglioramento generale delle condizioni di vita dei detenuti e delle condizioni di lavoro del personale" I condannati in via definitiva sono 208, di cui 12 ergastolani. Gli stranieri sono 116, i tossicodipendenti 77; sei ristretti sono ammessi a lavorare all’esterno, 1 è in regime di semilibertà. Fra le specificità dell’istituto penitenziario ferrarese la Garante segnala l’organizzazione di sezioni riservate, in particolare per collaboratori di giustizia (20), autori di reati sessuali (24) e detenuti "classificati" nel circuito detentivo Alta Sicurezza 2 (4), in cui vengono assegnati automaticamente soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. I detenuti possono effettuare colloqui 6 giorni su 7 alla settimana, anche nel pomeriggio, con un servizio di prenotazione telefonica attivo. RadioCarcere-Radio Radicale: la storia di Pasquale, agli arresti domiciliari in un garage Ristretti Orizzonti, 13 ottobre 2015 Giovedì 15 ottobre, alle ore 21.00 la storia di Pasquale che, ancora in attesa di giudizio, si trova agli arresti domiciliari in un garage e vive in condizioni umilianti. A seguire le lettere dalle carceri. Ecco il link: www.radioradicale.it/scheda/455354/radio-carcere-informazione-su-processo-penale-e-detenzione. Libri: "I vent’anni di Luz", di E. Osorio, granelli di parole per formare la storia dei vinti intervista a cura di Cristina Guarnieri Il Manifesto, 13 ottobre 2015 Un’intervista con la scrittrice Elsa Osorio. Una biografia scandita dal sogno della rivoluzione e il doloroso dramma dei desaparecidos sono alcuni dei materiali usati per tessere la materia vivente di una intera epoca. Elsa Osorio è una scrittrice argentina che ha narrato la crudele storia del Sud America. Nel 1998 è uscito in Europa uno dei suoi romanzi più noti "I vent’anni di Luz" (Guanda), che racconta il dramma dei desaparacidos attraverso la vicenda di una figlia rubata. Elsa è venuta a Roma per inaugurare "Chiari di luna", gli incontri letterari, musicali e gastronomici che d’ora in avanti, ogni lunedì, animeranno la vita della Casina di Roma. L’incontro, al quale ha partecipato, ha visto la partecipazione anche di Tamara Bartolini e Michele Baronio, due artisti che hanno portato in scena La miliziana, uno dei vertici letterari della Osorio, un romanzo sulla vita di Mika Etchébérère, argentina ebreo-russa che ha attraversato da rivoluzionaria l’intero XX secolo, muovendosi tra la Patagonia e la Germania nazista, tra la guerra civile spagnola e il Maggio parigino. Chi è Mika Etchebérère? "È stata l’unica capitana donna delle milizie del Poum che hanno combattuto contro il regime franchista. L’ho conosciuta attraverso il racconto orale di un grande narratore, Juan José Hernández, che partecipava alla rivista Sur di Victoria Ocampo. In una notte un po’ ubriaca, ricolmo di vino, Juan mi parla di un’argentina che aveva comandato una colonna nella guerra civile spagnola. Il mattino dopo gli chiesi: "Ma chi è Mika? Un tuo personaggio?". Mi rispose: "No, è una persona reale, vive a Parigi". A partire da quel momento Micaela Feldman - questo il suo vero nome, scoperto più tardi - ha fatto parte della mia vita. Ci sono voluti poi 23 anni di indagini per scriverne la storia". "Spazzolare la storia contropelo", diceva Walter Benjamin, nel senso di salvare dall’oblio i vinti anziché salire sul carro dei vincitori. Che sentimento ti suscita aver "salvato" una figura cancellata dalla storia ufficiale? "Mi rende felice, anche perché il gruppo cui Mika apparteneva durante la guerra rappresenta, per così dire, "i doppiamente vinti". Il Poum non solo perse la guerra ma fu anche sconfitto dai comunisti". Che significa per te la rivoluzione? "Un sogno che abbiamo nutrito per anni. Una bella parola: significa cambiare un ordine imposto per l’uguaglianza e la felicità di tutti. Quanto allora riponevo nella rivoluzione, però, oggi lo riverso nella giustizia universale, l’idea che ciascun cittadino possa accedere alla giustizia. Oggi si può essere rivoluzionari anche se si combatte per la libertà e per la creatività". Pensi che in Argentina un percorso di giustizia sia stato compiuto o che manchi ancora molto? "Certamente manca molto, ma siamo entrati in un vero cammino di giustizia: sono state abolite le leggi d’impunità (l’obbedienza dovuta e il punto finale) che permettevano a molti criminali di rimanere a piede libero. Essi oggi hanno quel che non diedero alle loro vittime: la possibilità di avere un giudizio giusto. E questo è frutto non solo della volontà politica del governo, ma anche della lotta delle madri e nonne di Plaza de Mayo". La Spagna con Baltasar Garzón ha aiutato l’Argentina. Ora l’Argentina aiuta la Spagna? "Sì. In un processo di giustizia universale, la grande novità è che in Spagna, per un articolo di legge, si è potuto giudicare indipendentemente dalla nazionalità della vittima e del carnefice. I processi di Madrid hanno influito sull’Argentina, che nel recente passato aveva ritrosia a portare in giudizio chi è stato coinvolto nella omicida repressione urante il regime militare". E Bergoglio? La Chiesa aprirà gli archivi? "Nutriamo molta speranza. È un buon segno che sia stato nominato un papa latinoamericano. Gli abbiamo già fatto molte richieste. Mi auguro davvero che gli archivi vengano riaperti. Cristina Kirchner è entusiasta che vi sia un papa argentino, è cattolica. Il paese ora è diviso, succedono cose persino "divertenti". Per esempio, un giornalista di estrema destra ha scritto una lettera a Bergoglio suggerendogli di non riceverla. Come se potesse dare consigli al Papa!". La tua opera letteraria: dalla letteratura fantastica all’impegno civile. "Non ho mai avuto intenzione di fare letteratura della memoria. Mi si è semplicemente imposta una storia: cosa succederebbe a uno di questi bambini rubati durante la dittatura se nessuno lo cercasse? A partire da qui ho potuto rendere conto di qualcosa di cui la memoria collettiva ha bisogno. Quello che scrivo è un granello nella sabbia, ma penso che possa essere importante per la memoria collettiva. Al di là della fascinazione che esercitano su di me le parole, in sé stesse, anche la letteratura è un’arma per lotta. Se devo usarla la uso". Il prossimo romanzo? "È un poliziesco basato su un fatto storico. Mi piace comporre senza contraddire la storia, anzi, facendone uso. Ma i personaggi sono completamente inventati, non come Mika. Continuerò però a scrivere anche racconti fantastici. Credo che un autore scriva quello che ha necessità di scrivere". Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura di Roberto Saviano La Repubblica, 13 ottobre 2015 Con il riconoscimento alla Aleksievic cadono i pregiudizi sulla non fiction. Il Nobel a Svetlana Aleksievic non è solo un riconoscimento a una intellettuale che ha subito la pressione del regime di Lukashenko e che combatte Putin. Il Nobel a Svetlana Aleksievic è una rivoluzione culturale: dopo decenni, viene premiata la narrativa non fiction. Nel mondo anglofono, o meglio, in quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante, questo Nobel è una specie di terremoto. Lo dimostra bene un articolo di Philip Gourevitch pubblicato sul New Yorker il 9 ottobre 2014 e riproposto in questi giorni dall’autore sul suo profilo Twitter. Sul New Yorker Gourevitch raccontava chi è e cosa scrive Svetlana Aleksievic, e spiegava quanto rivoluzionario sarebbe stato se il Nobel per la letteratura si fosse finalmente aperto a quella visione del mondo, a quel racconto della realtà che apparentemente sfugge a ogni catalogazione. Quasi una profezia. In molti non ci credevano e pensavano che il Nobel avrebbe continuato a seguire il canone classico premiando la letteratura che o è fiction, altrimenti non è. La questione è di tipo epistemologico e, per argomentare la sua tesi, Gourevitch cita Gay Talese che in un’intervista a The Paris Review disse: "Gli scrittori di non fiction sono cittadini di seconda classe, l’Ellis Island della letteratura. Semplicemente non riusciamo a entrare. E sì, questo mi fa incazzare". Ma le parole di Telese cristallizzano la direzione verso cui il mercato letterario tende. Spesso il problema per uno scrittore è costruire un libro che sul mercato possa indossare un’etichetta, che possa stare esattamente in quello scaffale: quanta miopia nella necessità di catalogare la scrittura. "Gli editori e i librai - scrive Gourevitch - sono complici, insieme ad altri custodi del canone, della privazione filistea alla grande scrittura documentaristica, riservando l’etichetta "letteratura", su copertine e su scaffali, solo alle opere di fiction". Librai ed editori partecipano tutti al grande fraintendimento chiamando "letteratura" solo ciò che è pura invenzione e attribuendo alla narrativa che racconta la realtà un ruolo secondario. Personalmente - e sono di parte - credo che valga il contrario e non intendo piegarmi ai dettami del mondo anglosassone che, nella sua quasi totalità, impone la legge dell’ottusa divisione tra fiction e non fiction. La letteratura e la lettura, così intese, vengono accompagnate da una serie di domande preventive che vivisezionano la scrittura. Cos’è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. Lo scrittore di narrativa non fiction si appresta a lavorare su una verità documentabile ma la affronta con la libertà della poesia. Non crea la cronaca, la usa. Aleksievic racconta prendendo brani ascoltati in stazione; dopo un’intervista esprime la nausea che le ha generato. Non ha paura che le lettere dal fronte che seleziona, che le sue interviste, siano percepite come talmente perfette da sembrare invenzione. Sa che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione e accetta di farsene megafono, amplificatore. La sua grandezza sta proprio nel coraggio letterario, non farsi irreggimentare dalla prassi di lavoro che impongono i giornali. Scegliere la letteratura non fiction, del resto, è una scelta di stile, è la scelta di un percorso. Santa Evita di Tomá s Eloy Martí nez è il libro che racconta meglio di qualunque altro la storia di Evita Perón, ma non racconta ciò che è incontestabilmente considerato vero. Non è una biografia. Raccoglie fatti, molti, su cui esistono più versioni e sceglie quelle ritenute più veritiere o più funzionali alla narrazione. Potrebbe essere smentito Martínez, e avrebbe come unica possibilità di difesa la credibilità del suo lavoro, cioè della ricerca antropologica. C’è chi chiede all’arte di non essere più arte. Chi pretende che sia più vera della verità. Più realista della realtà. Come se fosse un gigantesco, e alla fine inutile, pantografo. Questo Nobel va nella direzione opposta, perché non premia solo il coraggio di una dissidente, ma anche e soprattutto il coraggio di una scrittrice che ha scelto un metodo, che con il suo stile letterario ha minacciato il potere. La verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può misurare. Ragionando per assurdo, che senso avrebbe avuto allegare a "Ragazzi di zinco" un dvd con tutte le interviste fatte, nomi e cognomi esatti, per dimostrare che quelle conversazioni erano avvenute proprio come le leggiamo? Ovviamente non avrebbe avuto nessun senso perché al lettore interessa un’altra verità: raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole. Farli diventare creazione, non cronaca. Gli scrittori di narrativa non fiction sono stati fino a oggi relegati in un limbo di non affidabilità. Svetlana Aleksievic (che era addirittura chiamata spia, perché creduta in Bielorussia una agente della Cia) era liquidata dai colleghi con le solite litanie "tutti ci siamo occupati di Afghanistan", "tutti abbiamo scritto su ?ernobyl", "non scrive niente che non si sappia già". Certo, esistono decine, centinaia di reportage: ma Aleksievic non ha solo raccontato l’Afghanistan o Cernobyl, lei ha creato un Afghanistan e una Cernobyl a più dimensioni, agli antipodi rispetto a quelle che i telegiornali avevano tracciato o che i reportage ci hanno restituito. Ha raccontato quello che stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era visibile ma c’era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della letteratura. Aggiungere realtà al romanzo, sottrarre freddezza alla cronaca, sono l’unica strada che esiste per portare argomenti "sensibili" all’attenzione del lettore. Truman Capote scrisse: "Ho questa idea di fare un grande e imponente lavoro; dovrebbe essere esattamente come un romanzo, con un’unica differenza: ogni sua parola dovrebbe essere vera, dall’inizio alla fine". Per Capote oggi sarebbe stato ancora più difficile scrivere e difendere A sangue freddo. Lo hanno massacrato quando è uscito e oggi avrebbero fatto di peggio, perché il peccato capitale di manipolare (che non vuol dire falsificare) la realtà viene visto come un’invasione di campo da parte di chi fa cronaca. Tom Wolfe, teorico del New Journalism, affermava che non basta riportare le parole dei tuoi protagonisti (veri, non di invenzione), ma bisogna costruire il contesto in cui agiscono e parlano. E qui entra in campo la letteratura. Ma forse c’è una ragione politica per cui la letteratura non fiction è considerata una specie di paria, ed è questa: relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti o della misurabilità della notizia, significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo. Affrontare invece quello stesso racconto con il metodo narrativo, significa creare un affresco comprensibile, fermare il consumo di notizie e iniziare la digestione dei meccanismi; significa ricomporre il mosaico e parlare a chi quella notizia non la leggerebbe mai, non potrebbe comprenderla se non in un quadro più generale, non la sentirebbe propria. Provate a leggere le pagine di Aleksievic sul tramonto dell’ideologia comunista, sui suicidi di chi ci credeva, e capirete come quelle parole siano salite sulla locomotiva della letteratura e abbiano centrato il punto. Aleksievic si prende la responsabilità di intervenire sulla realtà e non si mette al riparo da essa. E allora non capisco come sia possibile che in Italia, quando si discute sui grandi scrittori viventi, non si parli innanzitutto di Corrado Stajano, di Un eroe borghese e Africo. Letteratura è Guerre politiche, la prova non fiction di Goffredo Parise superiore a moltissimi altri suoi libri di fiction. Letteratura è Banditi a Orgosolo di Franco Cagnetta, velocemente catalogato come studio antropologico. Letteratura è Un popolo di formiche di Tommaso Fiore che ogni ventenne (del Sud ma anche del Nord) dovrebbe leggere, letteratura è l’inchiesta sulla morte di Francesca Spada in Mistero napoletano di Ermanno Rea, è Il provinciale di Giorgio Bocca. Sto citando libri spesso mai nemmeno pronunciati quando si discute di letteratura italiana eppure ne sono l’aria migliore degli ultimi decenni. Letteratura è il recente Al di la del mare, il racconto con nessun altra prova che i suoi occhi, di Wolfgang Bauer tra i profughi siriani. Come si possono non considerare letteratura Dispacci di Michael Herr o i libri di Kapuscinsky, sistematicamente accusato, in vita e dopo la morte, di "aver inventato", lui che veniva considerato un reporter e quindi doveva dimostrare le sue verità. Letteratura è il più bel libro mai scritto sulla fame nel mondo, La fame di Caparros. Tutti gli scrittori che ho citato, prima di questo Nobel, hanno convissuto con lo spettro della perenne diffidenza e tutte le loro teorie sulla non fiction novel e sul New Journalism erano percepite come giustificazioni ex post o stravaganze artistiche. La cosa è accaduta persino con il padre di tutti gli scrittori non fiction Rodolfo Walsh che raccontò nel 1957 con strumento letterario nel suo Operazione Massacro un episodio sconosciuto e violentissimo della repressione militare argentina. La sua denuncia esplose nel mondo proprio per lo stile con cui decise di affrontare il tema. Anche con il cinema è andata così; i registi Vittorio De Seta e Francesco Rosi sono sempre stati silenziosamente accusati di "manipolare" la verità. Amati quando relegati nelle retrospettive culturali, ma temuti e fermati quando i loro lavori intervenivano nel dibattito politico. Il caso Mattei oggi sarebbe immobilizzato dalle querele e dall’accusa di infedeltà, eppure è forse il capolavoro che più di ogni altro racconta quello che l’Italia poteva essere nel dopoguerra, e non fu mai. Questa volta il Nobel è stato coraggioso nel premiare una persona che viene definita saggista, che viene definita giornalista, che viene definita reporter, pur essendo sempre stata una scrittrice. Spero si avveri la profezia di Gourevitch, che un anno fa sul New Yorker aveva scritto: "Non appena sarà abbattuta la barriera non fiction del Nobel, il fatto che sia esistita sembrerà assurdo. "Letteratura" è solo un termine di invenzione per indicare la scrittura". Il dovere della verità sull’Isis, per Renzi in politica estera verità senza eufemismi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 ottobre 2015 Il premier deve spiegare agli italiani il ruolo dell’Italia nella crisi internazionale. Se qualcuno vorrà scommettere sulla capacità di Matteo Renzi di continuare a sconfiggere i suoi nemici, vincere le prossime elezioni e governare a lungo, dovrà essere consapevole del fatto che si tratterà di una scommessa al buio. A occhio, le probabilità sono fifty fifty, cinquanta per cento a favore di Renzi e cinquanta contro. A suo favore giocano diversi fattori. Innanzitutto, la sua personalità: il suo fortissimo istinto per il potere unito a una non comune disponibilità al rischio. Nell’avventura di Renzi sembra trovare molte conferme il detto secondo cui la fortuna arride agli audaci. In secondo luogo, il fatto che, per un concorso di circostanze, egli non sia sostenuto solo da coloro che lo apprezzano. Gode anche dell’appoggio di molti a cui non piace ma che pensano di lui ciò che Winston Churchill pensava della democrazia: la peggiore soluzione escluse tutte le altre. Poi c’è il fatto che, come ormai è accertato, Renzi riuscirà a portare a casa la riforma costituzionale. Liquidare il bicameralismo simmetrico non è fare una "riformetta": significa cambiare la "costituzione materiale" del Paese, ristrutturare le regole del gioco. Anche se non è garantito, colui che riesce a farlo, di solito, si trova in vantaggio nella competizione politica successiva. Da ultimo, c’è la ripresa economica in atto. Se la tendenza si confermerà Renzi se ne prenderà tutto il merito. Ciò gli darà un fortissimo vantaggio rispetto agli avversari. Fin qui le probabilità a suo favore. Le probabilità contro dipendono dal fatto che la politica nostrana non è un compartimento stagno, isolabile dal resto del mondo. Sono le conseguenze dell’irruzione del mondo esterno nelle nostre vicende interne che possono, politicamente parlando, tagliare le gambe a Renzi. In parte a causa della visione del mondo che impregna segmenti rilevanti della coalizione sociopolitica che sostiene il suo governo e, in parte, forse, anche a causa dell’incapacità di Renzi di emanciparsi del tutto dal suo passato "scoutistico" (e lapiriano). In tempi di grandi emergenze occorrono leader capaci di dire la verità all’opinione pubblica e di trascinarsela dietro. È precisamente per questo - non certo per la battuta sopra citata sulla democrazia - che Churchill è passato alla storia come uno dei grandi statisti del XX secolo. Il modo in cui Renzi ha deciso di trattare le questioni siriana e libica non convince. Da un lato, abbiamo scelto di non contribuire con azioni di fuoco ai bombardamenti della coalizione anti Stato Islamico (lo faremo, e stiamo decidendo come e quando, solo in Iraq). Non partecipando a tali azioni di fuoco della coalizione in Siria ne restiamo membri di serie B. Corriamo rischi (i nostri aerei svolgono attività di intelligence) ma non partecipiamo a pieno titolo, col diritto di dire la nostra, all’attività decisionale della coalizione. Dall’altro lato, ci siamo dichiarati disponibili a guidare una rischiosissima missione militare (eufemisticamente descritta come peace enforcing) contro i gruppi armati che alimentano il caos libico. Come mai? Eppure è chiaro che le due cose sono interdipendenti, è chiaro che se non si riesce a indebolire lo Stato Islamico non sarà neppure possibile pacificare la Libia. E, inoltre, come mai, rinunciando a bombardare lo Stato Islamico, rinunciamo anche alla forza negoziale che quella partecipazione ci conferirebbe, per esempio, ai tavoli ove si decide come fronteggiare il flusso di profughi in fuga dalla Siria? La risposta è semplice. Partecipare ai bombardamenti contro lo Stato Islamico significa partecipare a una guerra che non può essere camuffata da altro. Guidare la missione in Libia significa ugualmente partecipare a una guerra ma con la possibilità - almeno nella prima fase - di camuffarla da peace enforcing. È per questo che si insiste tanto su argomenti che dovrebbero essere resi irrilevanti dallo stato di necessità in cui ci troviamo: come l’argomento secondo cui l’articolo 11 della Costituzione ci autorizzerebbe ad agire in Libia (sotto l’egida delle Nazioni Unite) ma non in Siria. Per inciso, i costituenti vollero l’articolo 11 per bollare le guerre di aggressione condotte dal fascismo. Non potevano immaginare quali manipolazioni ideologiche ne sarebbero seguite. Naturalmente, quando si scoprirà che la suddetta guerra, camuffata da peace enforcing, come tutte le guerre, lascerà sul terreno sia combattenti che vittime civili, la finzione non potrà più reggere e il governo dovrà fronteggiare la mobilitazione "pacifista" contro l’intervento in Libia. Tipici pasticci in cui va a infilarsi un’Italia pubblica che ha ribattezzato "operatori di pace" i propri soldati e che di eufemismi sembra anche disposta a morire. Niente di quanto accade nel grande incendio mediorientale, dal crollo di interi Stati all’impennata del flusso dei profughi verso l’Europa, fino alla destabilizzazione in atto della Turchia, sembra in grado di scuotere questa Italia facendole comprendere che il mondo sicuro e pacifico in cui vivevamo fino a poco tempo fa è finito. Una incapacità che, a quanto pare, condividiamo con i tedeschi. Chi crede che le ripetute minacce del Califfo contro Roma o che le immagini di San Pietro su cui sventolano le bandiere dello Stato Islamico, siano scherzi, boutade, non ha capito nulla. Spetterebbe a Renzi spiegare all’opinione pubblica come stiano davvero le cose. Il fatto che uno di solito così loquace non abbia trovato ancora le parole giuste per spiegare la verità agli italiani, non è di buon auspicio. Per noi, prima di tutto. Ma anche per la sua futura carriera politica. Il realismo attento di Angela Merkel la non buonista di Paolo Lepri Corriere della Sera, 13 ottobre 2015 "Sensato", una parola che più merkeliana di così non si potrebbe. Non dispiace questo pacato richiamo alla necessità che la politica risolva i problemi. È buona, o almeno molti tedeschi pensano che lo sia, ma evita di cadere nella trappola stucchevole del buonismo. Stiamo parlando di Angela Merkel, che ha detto di non "poter immaginare" l’eventualità di ospitare profughi a casa sua. Una affermazione, questa, che si adatta totalmente al suo stile anti-declamatorio e realista. Il mondo si era invece abituato da tempo alla dolciastra gara di chi annuncia la volontà di svuotare con un cucchiaino il mare agitato dell’emergenza migranti. Lo ha fatto il premier finlandese Juha Sipilä, imprenditore liberale conquistato dal moderatismo compassionevole. Altri lo hanno imitato. Perfino un "cattivo" come Matteo Salvini ha fatto un passo in questa direzione. Precisando però di avere "un monolocale". La donna più potente del mondo ha rispetto per chi ha fatto la scelta dell’accoglienza privata, ma pensa che il suo "dovere" sia quello di "fare tutto il necessario affinché lo Stato sia in grado di gestire la situazione in modo sensato". "Sensato", una parola che più merkeliana di così non si potrebbe. Non dispiace, comunque, questo pacato richiamo alla necessità che la politica risolva i problemi. Evitando le strizzate d’occhio e calcolando però costi e benefici di questa mancanza di protagonismo caritatevole. Sicuramente Angela ha fatto anche i suoi conti. È una donna che governa sondaggi alla mano, compiuti continuamente da agguerriti gruppi di lavoro che occupano molte stanze della cancelleria. Al suo confronto Berlusconi era un dilettante. Perché se è vero che gli esempi di solidarietà aumentano, è anche vero che la sua popolarità è diminuita sensibilmente dopo la decisione di aprire le porte ai disperati. I cristiano-sociali, poi, sono in rivolta e invitano Orbán ad avvelenare le loro platee. Per risalire la china è meglio evitare in ogni caso il buonismo. Immigrati: ius soli "temperato", ecco tutte le regole per diventare cittadini italiani di Matteo Basile Il Giornale, 13 ottobre 2015 Oggi alla Camera lo ius soli "temperato". Per la cittadinanza cinque anni di scuola e genitori con permesso di soggiorno. Un bambino che nasce in Italia da genitori stranieri non diventa automaticamente italiano. Può diventarlo, ma solo ad alcune condizioni. Non sarà una legge sullo ius soli radicale ma una versione soft quella che sarà votata oggi in prima lettura alla Camera. Niente diritto alla cittadinanza immediato come accade negli Stati Uniti ma un compromesso all’italiana ribattezzato "ius soli temperato". Due le vincolanti principali per diventare italiani: genitori con permesso di soggiorno di lunga durata e l’obbligo della frequenza di almeno un ciclo scolastico. Il percorso per arrivare al compromesso è stato complicato e farcito di polemiche. Il Pd, per vedere approvato il disegno di legge, ha dovuto cedere alle pressioni di Ncd e Scelta Civica accettando paletti più stringenti mentre le opposizioni restano critiche. Contraria Sel, Lega Nord e Fratelli d’Italia sulle barricate e Forza Italia decisamente pronta a dare battaglia. Ambigua la posizione M5S mentre esulta la sinistra che vede in dirittura d’arrivo una delle "battaglie" che da sempre porta avanti non senza guai, vedi la partecipazione alle primarie Pd di immigrati spesso foraggiati dal partito stesso. Ma cosa cambia in concreto? Se la legge verrà approvata senza ulteriori modifiche, potrà diventare cittadino italiano chi è nato in Italia da genitori stranieri, se almeno uno di loro è in possesso di un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. Ma nemmeno in questo caso il processo sarà automatico: è infatti necessaria comunque una dichiarazione di volontà di un genitore (o di chi esercita la responsabilità genitoriale) da presentare al comune di residenza del minore entro il compimento dei 18 anni. Diventato maggiorenne è lo stesso minore a poter fare richiesta entro due anni (e non più uno come previsto sinora). Inoltre, la famiglia deve dimostrare di avere un reddito minimo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e la disponibilità di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge. Previsto anche il superamento di un test di conoscenza della lingua italiana anche se ancora non è chiaro come e da chi sarà organizzato. Ma una delle novità principali riguarda l’introduzione dello "ius culturae", ovvero la concessione della cittadinanza a chi ha svolto almeno un ciclo scolastico completo. Il minore straniero, nato in Italia o entrato nel nostro paese entro il dodicesimo anno di età, per diventare italiano deve aver frequentato una scuola italiana per almeno cinque anni o seguito percorsi di formazione professionale triennali o quadriennali che rilascino un diploma professionale. Non è tutto. Verrà infatti tenuto conto anche del merito: chi, per esempio, è stato bocciato alle elementari dovrà aspettare per vedere esaudita la propria richiesta. I numeri dei potenziali beneficiari della riforma sono enormi: i minorenni stranieri oggi in Italia sono oltre 1 milione e ben 925.569 hanno al momento una cittadinanza non comunitaria. Ma i nuovi paletti non permetteranno a tutti di avere un passaporto italiano. Le nuove norme invece si applicheranno, retroattivamente, ai 127mila stranieri in possesso dei requisiti che hanno superato il limite di età dei 20 anni per farne richiesta. La protesta dei drappi neri, la Turchia piange i morti "adesso fermiamo il Paese" di Marco Ansaldo La Repubblica, 13 ottobre 2015 Ad Ankara e in altre città i funerali delle 128 vittime. A Istanbul in segno di lutto e di sfida a Erdogan, la gente espone sui balconi e in strada vessilli scuri. Ma incombe la paura di altri attentati. Nel sud est due bambine uccise dalla polizia durante gli scontri. Un lungo drappo nero scende da un balcone di Besiktas, il quartiere che si apre sullo Stretto del Bosforo, a Istanbul. È la sede del Cumhuriyet Halki Partisi, Partito repubblicano del popolo, la formazione socialdemocratica oggi all’opposizione. Ma a guardarsi intorno non è l’unico segno di lutto. Salendo per Barbaros Bulvari, il boulevard di Barbarossa, dalle abitazioni spuntano vessilli oscurati, i giovani comunisti consegnano ai passanti volantini con un fiocco nero, e dalle auto emerge qualche fazzoletto di colore scuro. La sera, alla tv statale, pure quando trasmettono le partite di calcio una fascia nera compare in alto a destra. La Turchia fatica a elaborare il dolore per la strage delle 128 persone morte sabato mattina per i due kamikaze saltati in aria alla stazione di Ankara. E la metropoli, il centro più internazionale del Paese, teme più di altre città che l’onda di attentati, letta in progressione geografica, da Diyarbakir a Suruc ad Ankara, possa infine arrivare qui. La sindrome da bomba non lascia indifferente nessuno. Ieri sera un allarme nella metro della capitale ha fatto chiudere la linea ferroviaria. Ma il livello di allerta, quello personale dei cittadini, prima che quello della sicurezza, resta altissimo. Ieri e oggi associazioni varie, medici, ingegneri, architetti, docenti universitari, dietro lo slogan "Fermiamo la vita nel paese", si sono astenuti dal lavoro in solidarietà con le famiglie delle vittime. E i funerali, anche quelli celebrati a Istanbul, si trasformano quasi spontaneamente in cortei di protesta. I tre giorni di lutto proclamati sabato vanno adesso a concludersi. Ma quasi tutti i partiti hanno comunque sospeso i comizi elettorali e le altre manifestazioni di piazza, in vista del ritorno alle urne, il primo novembre prossimo. Una decisione che coinvolge i conservatori islamici, i socialdemocratici, i curdi, ma che non ha trovato il consenso dei nazionalisti. Spiega il leader del partito curdo, Selahattin Demirtas, il gruppo più colpito tra le vittime del massacro, mentre visitava a Istanbul una famiglia con un congiunto ucciso: "Non troviamo necessario organizzare grandi raduni nei prossimi giorni. Come possiamo pensare a questo, in un’atmosfera così amara? La vita di una singola persona è più importante del nostro successo elettorale". Lo stesso Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, benché attaccato l’altro ieri sia nel sud est del Paese sia nei suoi "santuari" nel Nord Iraq, ha fatto sapere di voler mantenere il cessate il fuoco, nel tentativo di abbassare il livello dello scontro con l’esercito e svelenire i toni. La Turchia a fatica cerca di tornare alla vita normale. Il primo ministro, Ahmet Davutoglu, per le elezioni generali ha confermato la data di novembre. "Avranno luogo - ha detto- qualsiasi siano le circostanze". Eppure molti si domandano che cosa possa mai succedere in questi quindici, delicatissimi giorni che precederanno il voto. E soprattutto: servirà la strage di Ankara a sciogliere uno stallo politico che vede contrapposto un potere politico ormai incrostato nelle difesa delle sue prerogative, di fronte a istanze di democrazia piena e di libertà che non sono più garantite? La gente per strada a Istanbul appare dare per nulla credito alle spiegazioni ufficiali sulla strage, che indicano come pista il Califfato Islamico come mandante. "Vedendo come è accaduto l’incidente - ha annunciato ieri in tv Davutoglu - stiamo indagando sui jihadisti come prima priorità". Nei locali di Besiktas i residenti guardano le immagini e si fanno scettici. Molti puntano piuttosto, conoscendo bene la storia turca dei decenni passati, su un possibile coinvolgimento dei servizi segreti volto a destabilizzare il Paese, finendo per premiare così, come chiede il presidente Erdogan, chi si pone invece come il campione della stabilità. In tanti, anzi, se la prendono con un governo che ha fatto della sicurezza una vera ossessione, mentre le misure minime di garanzia sabato mattina sono state completamente disattese durante il corteo pacifista in marcia davanti alla stazione maledetta. Ora chiedono le dimissioni del ministro dell’Interno e di quello della Giustizia, ma senza troppa convinzione che la loro voce verrà sentita. "Non è possibile parlare di fallimento in generale - si è subito opposto il premier - questo attacco non trasformerà la Turchia nella Siria". Il dolore, però, non dà tregua a nessuno. Soprattutto quando arriva la notizia che altre vite si sono perdute, dopo la strage. Come quella di due bambine ammazzate nelle proteste avvenute nel sud-est dell’Anatolia. Una di 12 anni, nella provincia di Diyarbakir, morta per un proiettile vagante arrivatole in testa. L’altra ad Adana, a sud, per un’altra pallottola sparata nel corso di una rivolta sedata dalla polizia con lacrimogeni e idranti. E non consola nessuno sapere che i due agenti che alcuni giorni fa avevano trascinato per strada il cadavere di un simpatizzante della guerriglia curda, come hanno mostrato un video raccapricciante girato da loro stessi, siano stati sospesi dal servizio. Sono ben altre le notizie che la Turchia vorrebbe vedere in prima pagina, e non sangue, morti, funerali, come ogni giorno, ormai, da due mesi a questa parte. Medio Oriente: palestinesi sotto occupazione e senza libertà, perché il mondo tace? di Marwan Barghouthi Il Manifesto, 13 ottobre 2015 Lettera di Marwan Barghouthi, leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto "il Mandela palestinese". L’escalation di violenze non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa, il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 20021, a chiedere di occuparsi delle cause che stanno alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi. Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l’incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese che ha occupato nel 1967 (tra cui Gerusalemme), una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione. Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico problema bloccato nell’agenda dell’Onu dalla sua fondazione. Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l’appoggio della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura internazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni dell’Onu, varare misure per garantire la responsabilizzazione delle parti, anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime dell’apartheid. E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un’impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza? Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani - specialmente Al-Haram Al-Sharif - continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti. Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan "spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà", ma, una generazione dopo l’altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova. Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell’unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all’Onu sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre. Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione. Iran: condannato per spionaggio il reporter del "Washington Post" Jason Rezaian di Paolo Mastrolilli La Stampa, 13 ottobre 2015 Rischia 20 anni, ma Rohani suggerisce uno scambio di prigionieri. Lo hanno condannato, di nascosto. E ora Jason Rezaian, corrispondente dall’Iran del "Washington Post", rischia fino a venti anni di prigione per aver commesso atti di spionaggio. Teheran però avrebbe intenzione di usarlo come mercé di scambio, per riportare indietro alcuni cittadini della Repubblica islamica detenuti dagli Stati Uniti. Rezaian è nato in California 39 anni fa, da padre di origine iraniana e madre americana. nel 2008 si era trasferito a Teheran e nel 2012 era stato assunto dal "Washington Post". Due anni dopo, il 22 luglio 2014, era stato arrestato insieme alla moglie iraniana Yeganeh Salehi, per la quale aveva fatto domanda di visto per andare negli Usa. Lei era stata rilasciata in ottobre, mentre lui era stato incriminato con quattro capi di accusa, fra cui quello più grave di aver spiato a favore di un governo straniero. Le prove non sono mai state pubblicate, ma fra di esse ci sarebbe una lettera che aveva scritto nel 2008 per chiedere lavoro nell’amministrazione Obama. Diritti violati Da allora Jason è rimasto rinchiuso nel carcere di Evin, con pochissime possibilità di comunicare con la moglie e la famiglia. Il suo processo è cominciato a porte chiuse davanti al giudice Abolghassem Salavati, noto per le sue sentenze draconiane imposte ai detenuti politici, al punto che nel 2011 l’Unione Europea lo ha sottoposto a sanzioni per violazioni dei diritti umani. Per difenderlo il Washington Post ha inviato anche una petizione all’Onu, che ha espresso grave preoccupazione accusando la Repubblica islamica di aver ignorato i suoi diritti legali e chiedendo il rilascio immediato. A questo punto Rezaian è stato detenuto più a lungo degli ostaggi americani del 1979, 448 giorni, e due mesi fa è stato condannato in segreto. La notizia l’ha rivelata domenica alla tv di stato il portavoce della Corte Rivoluzionaria di Teheran, Gholam Hossein Mosheni-Ejei, senza però chiarire i dettagli della sentenza. Il presunto reato, però, può comportare una condanna fino a 20 anni di prigione. Il direttore del "Washington Post", Martin Baron, ha definito il verdetto come "un’ingiustizia oltraggiosa", e ha annunciato che il giornale farà comunque ricorso. "L’Iran - ha detto Baron - si è comportato in una maniera inconcepibile durante tutto il caso, ma soprattutto con questa indifendibile decisione di condannare un giornalista innocente per seri crimini, dopo un procedimento svolto in segreto, senza alcuna prova di qualunque reato". Il ministro degli Esteri iraniano Zarif, parlando qualche giorno fa a New York, aveva detto che Rezaian era stato spinto da qualche funzionario americano di basso livello a raccogliere informazioni, perché poteva essere ricattato a causa della sua richiesta di visto per la moglie. Nulla però è stato aggiunto per sostenere l’accusa. Il suo caso è stato discusso durante il negoziato per il programma nucleare, e in varie occasioni lo stesso presidente Rohani aveva suggerito la possibilità di uno scambio tra prigionieri. In cambio della liberazione di Rezaian, e forse degli altri detenuti americani Saeed Abedin, pastore dell’Idaho accusato di aver creato chiese clandestine; Amir Hekmati, ex marine arrestato mentre visitava la nonna; e Robert Levinson, scomparso dal 2007, Teheran potrebbe chiedere il rilascio di alcuni suoi cittadini condannati per aver violato le sanzioni contro la Repubblica islamica. Una conferma delle nuove possibilità di dialogo create dall’accordo nucleare, ma anche delle enormi differenze e diffidenze che ancora restano fra i due paesi. It veterano dei marine Amir Hekmati viene arrestato nell’agosto 2011. Nel 2012 viene condannato a morte per spionaggio, pena poi commutata in otto anni di carcere.