Ergastolano, evaso: il peggio del peggio a cura della redazione di Ristretti Orizzonti Il Mattino di Padova, 12 ottobre 2015 O forse no, o forse solo una persona che non ce l’ha fatta a sopportare una pena infinita, e che ha cercato un po’ di libertà, in modo sbagliato certo, ma con la forza della sua umanità, con cui ora chiede scusa. Non ci sono storie di vita che non siano "raccontabili", ma certo ci sono storie più difficili di altre, più "indigeste", più esposte alla rabbia dei cittadini "regolari": quella di Walter lo è, lui è un ergastolano, aveva avuto un po’ di fiducia da tutti, usciva in permesso regolarmente, a un certo punto ha perso la testa, è evaso, ora è stato ripreso. E ci ha scritto dal carcere di Opera. Un articolo che consiglieremmo a tanti: a chi crede che l’ergastolo sia una pena intelligente, a chi ripete che "tanto l’ergastolo nel nostro Paese non lo sconta più nessuno", a chi, come gli Stati Generali sull’esecuzione della pena, deve mettere mano alle leggi per migliorarle, e forse finalmente tenterà di farci diventare un Paese civile, quindi un Paese senza la mostruosità del "fine pena mai". Un mancato rientro non voluto, di Walter Sponga Cara Redazione, di me le ultime notizie che avete riguardano il fatto che sono evaso da un permesso e ora mi hanno ripreso e sono in carcere a Opera. Ho pensato allora di scrivervi una lettera per spiegare che a volte le cose non sono quelle che sembrano, poi decidete voi se volete pubblicarla. Non è facile spiegare il mio stato d’animo di quel giorno, anche perché ultimamente avevo sempre più difficoltà a rientrare in carcere dai permessi, ho trascorso 22 anni in prigione di cui più di tre nella sezione Semiliberi (se vi ricordate io lavoravo però all’interno del carcere) vedendo la gente arrivare, stare lì un po’ di tempo e poi andarsene in semilibertà, affidamento, detenzione domiciliare o scarcerati, ultimamente avevo l’impressione di camminare su una strada senza speranza. Ho cercato per anni di trovare un’uscita da quell’ingranaggio infernale che è la mia condanna all’ergastolo, ma senza esito, alla fine non ce l’ho più fatta psicologicamente a continuare, immaginando che tutto il resto della mia vita sarebbe stato cosi. Mi sono stufato di tutto e di tutti, perfino del mio lavoro che in realtà mi piaceva, anche li ultimamente non mi importava più di niente e facevo una cazzata dopo l’altra, fino a quando fui ripreso dal mio responsabile: "Walter, ricordati che io sono sempre un agente di polizia e tu un detenuto", e io gli ho risposto che ultimamente mi dimenticavo di esserlo. Come si fa dopo 22 anni a dimenticarsi di esserlo... più il tempo passava e più nella mia mente si è sviluppata l’idea di voler ancora una volta vivere un periodo di tempo da uomo libero. Questa idea giorno dopo giorno è diventata come un chiodo fisso fino a quella domenica… Ero partito dalla associazione in cui ero in permesso premio, come sempre intorno alle 18.00 per rientrare in carcere, ma strada facendo mi ripetevo nella mente "devo rientrare, non posso fare il cretino". Ogni domenica era un calvario per il rientro, ma sono arrivato fino davanti all’istituto, ho parcheggiato l’auto e mi ripetevo "devo rientrare", ma il mio corpo non voleva fare ciò che la mia mente pensava. Mi sono appoggiato sul volante pensando "aspetto ancora qualche minuto e poi vado", ma mi sono perso nei miei pensieri, ad un tratto ho sentito battere contro il vetro, era un agente che mi diceva "Ehi Sponga, ma che c. stai facendo? hai bevuto, sei ubriaco o ti sei drogato? vieni che ti porto in infermeria". Penso che sia in quel momento che è scattata la molla di andarmene, mi sembra di aver risposto "basta non ce la faccio più, andate tutti a far in c. me ne vado", non so se l’ho detto ad alta voce, oppure era solo il mio pensiero, dovevo andarmene non ce la facevo più. In quell’istante sono stato invaso da una vampata di calore, sembrava che nell’auto ci fossero 50 gradi, le mani hanno iniziato a tremarmi ho messo in moto e sono partito, l’unico mio pensiero era di andare via il più lontano possibile. Dopo un po’ che stavo guidando avevo come due voci nella mia mente, una che mi diceva "ma che cosa stai facendo? torna indietro le cose si possono sistemare" e l’altra "Ormai vai per la tua strada, vivi, ancora una volta nella tua vita, da uomo libero, vai", non sapevo più cosa fare, ho preso il telefono e ho chiamato la donna che amo dicendole: "Mi dispiace amore ma questa volta non ce l’ho fatta a rientrare". Lei prima è scoppiata a piangere, poi si è infuriata come una iena, è rimasta più di un’ora al telefono per cercare di farmi trovare un attimo di lucidità, ma io sentivo solo la sua voce senza capire realmente ciò che mi diceva. Se doveste chiedermi di che cosa abbiamo parlato, non sono in grado di dirvelo non mi ricordo, il mio cervello ha cominciato a funzionare quando ero già in Francia, troppo tardi per il ritorno. È qui che ho deciso di continuare per la mia strada, ormai il danno era fatto, ho preso la direzione di Marsiglia e ci sono arrivato a metà mattinata. Sono andato a comprare dei fiori e li ho portati alle mie due donne che ho lì, la prima è Michela la donna con la quale ho vissuto per 20 anni in Francia e che è morta nel 2002, l’altra mia figlia Sabine che si è uccisa in un incidente stradale il 24 dicembre 2009. Sono rimasto con loro due non so per quanto tempo… un’ora o più… Sono risalito in auto per andare a trovare due vecchi amici d’un tempo che fu, sono arrivato che le due famiglie erano ancora a tavola, ci siamo salutati ho spiegato la mia situazione e dopo il pranzo ho chiesto di vedere il fascicolo dell’incidente di mia figlia. Ci abbiamo passato l’intero pomeriggio ma non ho trovato niente che non sapevo già, ho trascorso la sera con loro e l’indomani ho chiesto di vedere la mia vecchia auto, i miei due amici me l’hanno sconsigliato, ma non c’era verso volevo vedere con i miei occhi, quindi siamo andati all’officina e quando ho tolto il telo dall’auto mi è quasi venuto un infarto vedendo il suo stato, forse se avessi venduto l’auto all’epoca mia figlia sarebbe ancora viva. Siamo usciti e abbiamo vagabondato un po’ per la città vedendo il cambiamento degli ultimi 22 anni. Verso sera ho deciso di partire per la Spagna, Barcellona. Sono tornato a dire addio alle mie due donne, vedete non importa quanto profonda o superficiale possa essere una ferita, ti farà sempre soffrire finché non riesci a metterci la parola fine. Ho guidato tutta la notte, sono arrivato a Barcellona a mattina avanzata stanco morto, ho vagabondato fino a sera e ho trascorso la notte in auto. Il giorno seguente, l’ho passato nei vicoli di Barcellona, la sera ho deciso di andare a far benzina ma arrivando al parcheggio l’auto non c’era più, non so, rimorchiata o rubata. Allora ho comprato un sacco a pelo e ho trascorso la notte in un parco con altre persone, sembra che sia una cosa normale a Barcellona dormire nei parchi. Il giorno seguente mi sono mosso alla ricerca di un motel che non fosse troppo fiscale, ma niente fino alla sera, quando ho conosciuto uno nei bassifondi della città che mi ha dato una dritta. Sono quindi riuscito a trovare una stanza a 25 euro per notte e l’ho affittata per quattro notti. Purtroppo fino a quel momento ho avuto solo delle spese e nessuna entrata, ma il solo pensiero di andare a commettere dei reati mi dava il voltastomaco, continuavo a dirmi "ma chi sono io, non posso più immaginare di entrare in un supermercato e sconvolgere la vita di quelle persone, infliggendo loro un trauma che saranno costretti a trascinarsi dietro tutta la loro vita, chi mi dà questo diritto?". Ed è in quel momento che ho capito realmente chi sono, non ero più quella persona menefreghista il cui unico scopo era quello del proprio benessere a discapito di tutti e di tutto. No, sono una persona migliore con dei sentimenti veri e un profondo rispetto per il mio prossimo. Quindi ho deciso di andare a cercare un lavoro, cosi tre giorni dopo ho trovato un lavoro come autista di camion per un mese, e poi un altro lavoro, che consisteva nel montaggio e nello smontaggio delle piste di autoscontri, e che mi permetteva di girare tutta la Spagna, ho sempre lavorato fino al mio arresto. Con questo scritto vorrei chiedere scusa a tutti coloro che avevano fiducia in me… mi dispiace. Cara redazione, è difficile per me esprimere le mie emozioni, sapete che ho l’abitudine di tenermi tutto dentro, pensavo di essere più forte ma alla fine sono solo un essere umano con i propri limiti, vorrei che tutto ciò non fosse successo, ora posso solo dire che mi dispiace, non posso tornare indietro, spero solo che le persone che mi hanno dato la loro fiducia possano capire e non siano troppo arrabbiate nei miei confronti. Potete fare di questo scritto quello che pensate utile, se volete pubblicarlo mi farebbe piacere, non sono riuscito a trovare veramente un titolo, ho pensato a "Un mancato rientro non voluto", ma vedete voi! Giustizia: in cinque anni i detenuti in carcere sono diminuiti del 23% di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2015 Sono 17.586 i detenuti usciti dal carcere, beneficiando della possibilità introdotta dalla legge 199 a fine 2010 di scontare l’ultima parte dalla pena presso la propria abitazione. Al 31 dicembre 2010 nelle carceri italiane erano presenti quasi 68mila detenuti di fronte a una capienza regolamentare di 45.022 posti, un triste record che ci valse la condanna della Corte europea del gennaio 2013. L’ultimo censimento effettuato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) al 30 settembre 2015 ne rileva invece 52.294, ossia il 23% in meno. In cinque anni, i provvedimenti svuota carceri e l’allargamento delle misure alternative alla detenzione sono riusciti quindi a ridimensionare il problema del sovraffollamento. Ma ci sono comunque ancora 2.709 detenuti in "più" rispetto alla capienza regolamentare (che, sottolinea il Dap, prevede spazi più ampi rispetto alla media europea), un numero che sale a quasi settemila se si considerano i posti non disponibili a causa delle ristrutturazioni in corso. E, soprattutto, la situazione non è omogenea sul territorio nazionale. La Lombardia è la Regione dove la distanza con la capienza regolamentare è più alta: ci sono infatti 1.450 detenuti "di troppo". Situazione critica anche in Puglia (833 reclusi in più), Campania (823), Veneto (548) e Lazio (451). "Gli istituti più in difficoltà - dice Andrea Scandurra, coordinatore delle attività di ricerca di Antigone, storica associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale - sono le case circondariali delle grandi città dove gli arresti sono moltissimi e si devono affrontare emergenze continue". All’opposto, ci sono le Regioni con più posti liberi (in Sardegna se ne contano ben 760), dove spesso vengono spostati detenuti dai luoghi di pena più affollati. È diminuito anche il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Le restrizioni all’utilizzo di questo strumento previste dal Dl 92 del giugno 2014 e poi dalla legge di riforma dello scorso aprile (la 47/2015) hanno portato il numero di detenuti in attesa di primo giudizio da 9.999 (30 giugno 2014) a 8.942 (30 settembre 2015), con un calo di circa il 10%. Se si considerano anche i condannati in attesa dei successivi gradi di giudizio si passa dai 19.984 del 30 giugno 2014 agli 18.015 del 30 settembre scorso. In tabella sono riportati solo i dati relativi ai detenuti in attesa di primo giudizio. La presenza femminile, tradizionalmente bassa, rimane estremamente contenuta, mentre gli stranieri rappresentano ormai un terzo (il 32,9%) del totale. Un valore che, nelle Regioni del Nord, sale oltre il 40%: in Emilia Romagna è al 46%, al 45% in Lombardia e Toscana. Percentuali elevate, nonostante la diminuzione causata dalla disapplicazione del reato di inottemperanza all’obbligo di espulsione del questore imposta dalla Corte di giustizia dell’Aja: al 31 dicembre 2010 la media nazionale era infatti del 36,7%. La presenza di stranieri è, inoltre, più alta fra i reclusi in attesa di primo giudizio: 3.787 su 8.942 (oltre il 42%). Le ragioni vanno dal pericolo di fuga all’assenza di un "domicilio" dove attendere il processo. Che sono poi le stesse motivazione che spiegano lo scarso utilizzo delle misure alternative alla detenzione. "Nella maggior parte dei casi - spiega Scandurra, non hanno un contesto sociale, una famiglia, cui fare riferimento. Gli stranieri tendono inoltre a commettere reati meno gravi: ce ne sono quindi di più fra chi ha condanne brevi, mentre le misure alternative spesso riguardano chi deve scontare lunghi periodi di detenzione". Al 30 settembre scorso erano in 31.766 a beneficiare delle misure diverse dal carcere: l’affidamento in prova ai servizi sociali è l’istituto più utilizzato (11.802), seguito dalla detenzione domiciliare (9.605). Numeri ancora troppo bassi secondo Antigone mentre l’amministrazione penitenziaria sottolinea la carenza di braccialetti elettronici grazie ai quali potrebbero uscire altri duemila detenuti. Ma come trascorre il tempo in carcere? Nel 2014 il ministero della Giustizia, per migliorare la vita di chi ha perso la libertà, ha stabilito che almeno 8 ore vadano trascorse fuori dalla cella. Il Dap segnala inoltre che nel 2015, sono stati presentati 720 progetti di miglioramento delle strutture che prevedono l’impiego di detenuti. Stando all’ultimo rapporto di Antigone, alla fine del 2014, in carcere lavorava solo il 27,13% dei reclusi. "Si tratta però di una media nazionale - aggiunge Scandurra - e soprattutto, per la maggior parte, non sono veri lavori ma piccoli servizi non formativi distribuiti a rotazione che occupano poche ore a settimana. È più un’ottica di welfare che di reinserimento. Istituti dove vengono realizzate vere lavorazioni ci sono, ma sono la minoranza". A breve Mauro Palma dovrebbe essere nominato Garante nazionale dei detenuti mentre a metà novembre chiuderanno gli stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. L’obiettivo, una volta superata la fase di emergenza, è la definizione di una migliore fisionomia del carcere e un nuovo modello di esecuzione penale. "Bisogna rivedere l’idea stessa della pena - sostiene Scandurra - in modo da ridurre le recidive e facilitare il reinserimento: oggi il detenuto è privato di ogni autonomi a. Questa infantilizzazione determina atteggiamenti vittimistici in cui è sempre colpa di qualcun’altro e non prepara in alcun modo a farsi carico di se stessi, elemento fondamentale per il reinserimento sociale". Giustizia: abusi in divisa, nei tribunali è il mese della verità di Luisiana Gaita lettera43.it, 12 ottobre 2015 Dal caso Uva fino a quello Bifolco: sei processi che vedono gli agenti alla sbarra. E che a ottobre possono svoltare. Il sindacato di polizia: "Abbassare la tensione". "Quando in un servizio di polizia una persona perde la vita è sempre una sconfitta per lo Stato. Chiunque sia la vittima, cittadino o agente": secondo la tesi del segretario del Siap (Sindacato italiano appartenenti polizia) Giuseppe Tiani, quindi, negli ultimi anni lo Stato ha perso troppe volte. In occasione dell’inizio del processo per l’omicidio del 17enne Davide Bifolco (ucciso il 5 settembre 2014 a colpi di pistola da un carabiniere durante un inseguimento), l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad) ha ricordato quelle che per il sodalizio sono le altre vittime. Solo nel mese di ottobre ci sono udienze relative a sei processi che vedono alla sbarra carabinieri o poliziotti. Altre quattro udienze sono fissate entro il 2015. Fino a sentenza definitiva gli imputati sono presunti innocenti, però il problema resta. Tutto ciò mentre in Italia si sta ancora discutendo del reato di tortura così come del numero identificativo sulle divise degli agenti. E se i sindacati di polizia Coisp e Sap hanno sempre dichiarato che la nuova legge impedirebbe agli agenti di svolgere il proprio lavoro, il Siap pur avendo messo una pietra sopra l’ipotesi del numero identificativo, apre alla legge. "Purché vi siano delle garanzie", ha spiegato a Lettera43.it Tiani, secondo cui è necessario partire "dal presupposto che nel nostro Paese non ci sono faide tra cittadini e polizia, ma siamo tutti dalla stessa parte e che i poliziotti devono essere al servizio dello Stato e, quindi, della gente". Uva, Brunetti, Bifolco: le morti su cui fare luce In questi giorni a Varese sono previste due udienze nel processo per la morte di Giuseppe Uva. In Corte d’Assise il procedimento a carico di due carabinieri e sei poliziotti (per omicidio preterintenzionale) presenti la notte del 14 giugno 2008 nella caserma dei carabinieri di Varese. Uva vi fu condotto dopo essere stato fermato per schiamazzi e vandalismi. A Roma, invece, il 7 ottobre il Pg ha chiesto in Appello 10 anni per gli agenti che ebbero in custodia Stefano Brunetti, 43enne di Anzio arrestato l’8 settembre 2008 con l’accusa di rissa e morto il giorno dopo in ospedale. Nel 2013, in primo grado, i giudici della Corte di Assise di Frosinone li avevano assolti. Secondo la versione degli agenti in commissariato Brunetti si rese protagonista di atti di autolesionismo. In Francia, poi, c’è l’appello per la morte di Daniele Franceschi, che in primo grado ha portato alla condanna di due membri dello staff sanitario del penitenziario di Grasse, in Costa Azzurra. Questo solo per chi, in seguito o in concomitanza con l’intervento delle forze dell’ordine, ha perso la vita. In attesa della sentenza poi rinviata del processo Bifolco, a Napoli la tensione era forte. Il tribunale era presidiato da una cinquantina di agenti in automezzi blindati. C’erano anche la sorella di Stefano Cucchi, proprio nel giorno in cui il fratello avrebbe compiuto 37 anni, e Claudia Budroni, sorella di Bernardino, il 40enne che il 30 luglio 2011 sul grande raccordo anulare di Roma fu ucciso dal proiettile di un poliziotto che lo stava inseguendo. Sono state invitate ad allontanarsi. "Invitate dagli agenti a lasciare il piano del tribunale dove si trova l’aula d’udienza. Pericolose. Mah", ha scritto sulla sua bacheca Facebook Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Bifolco e di molte, presunte vittime delle divise. Forse solo una questione di ordine pubblico. Intanto il processo per la morte di Stefano Cucchi riprenderà il 15 dicembre in Cassazione. Si torna in aula per i casi De Michiel e Narducci Nel frattempo sono attesi sviluppi su altri due casi. Il 21 ottobre a Venezia continua il processo De Michiel per i fatti del 2 aprile 2009. I fratelli Tommaso e Nicolò De Michiel, allora 23 e 25 anni, litigavano a due passi da casa quando arrivò una volante. I poliziotti (cinque quelli a giudizio) hanno sempre sostenuto che i due erano in stato di ubriachezza e che avevano cominciato già dal momento in cui erano stati caricati sul mezzo a dimenarsi e a colpire gli agenti. Nicolò De Michiel ha presentato ricorso contro l’accusa di ubriachezza e il giudice di pace gli ha dato ragione. Negli uffici della Questura uno dei due fratelli ha subìto lesioni guaribili in 40 giorni (la frattura di due costole, contusioni multiple). Il 22 ottobre si torna in aula, a Bologna per il processo a carico di Filippo Narducci, che nel 2010 fu arrestato e poi denunciato da tre poliziotti. Il giovane è già stato assolto in primo grado. Per i tre agenti - accusati in un secondo momento di abuso d’ufficio, falso materiale e ideologico, falsa testimonianza e lesioni personali - il tribunale di Forlì ha chiesto per due volte l’archiviazione del procedimento, a cui Narducci si è sempre opposto. Reato di tortura, il Siap chiede "importanti modifiche" "Le tensioni individuali e collettive che non hanno trovato soluzione nelle appropriate sedi dei palazzi istituzionali si scaricano sulla piazza e nei rapporti tra cittadini e forze di polizia", ha detto Tiani. Secondo cui la colpa sta tutta nella inadeguatezza delle leggi esistenti: "Bisogna fissare paletti rigidi rispetto a chi viola, oltraggia e resiste agli ufficiali in uniforme. Detto ciò, se il poliziotto sbaglia è giusto che paghi. Non sono tra quelli che vogliono nascondere. Però servono regole severe, perché non possiamo permettere che si sputi in faccia agli agenti, così come che questi abusino di poteri che lo Stato conferisce loro. Anche io ho partecipato alle lotte studentesche, ma non ho mai usato violenza". Il Siap aveva dato la sua disponibilità a discutere di un numero identificativo che fosse però relativo a un reparto e non al singolo. "La piega che ha preso il dibattito", ha detto il segretario generale, "ci spinge oggi a dire un secco no. Non ci sono le condizioni culturali, politiche e sociali". Sul tavolo politico resta il reato di tortura. "Ci sarebbero importanti modifiche da apportare. Non può essere un reato proprio, a esclusiva delle forze di polizia", ha sottolineato Tiani, che critica aspramente la parte del testo che "estende il concetto di tortura anche al caso in cui si arrechi, con violenza o minaccia, un’acuta sofferenza per vincere una resistenza". La soluzione: "Ci devono essere garanzie". In concreto? "Ci siano luoghi adeguati nei nostri uffici e nelle caserme militari, ossia di carabinieri e finanza". Per il segretario del Siap servirebbero "una stanza per gli arrestati con il vetro e una stanza per i verbali con all’interno quattro telecamere dall’alto verso il basso e quattro negli angoli del pavimento, dove la visione di immagini e voci sia a 360 gradi. Non si può prendere un frammento di una condotta e farlo diventare un fatto. Vogliamo essere garantiti anche noi". Giustizia: nei Tar si rischia la paralisi di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2015 Tre mesi per correre ai ripari, altrimenti con il nuovo anno la giustizia amministrativa rischia un forte passo indietro: collegi che non si riusciranno a costituire, udienze che salteranno, calo della produttività (e, dunque, rinvigorimento dell’arretrato), viavai di magistrati da un Tar all’altro per cercare di tappare i buchi. Il quadro non è eccessivo, visto che il presidente del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, a settembre ha deciso di lasciare l’incarico, disilluso dalla mancanza di segnali del Governo nonostante una lettera inviata a giugno in cui si tratteggiava il rischio di paralisi. La questione è quella degli organici, dopo che il Dl 90/2014 ha anticipato i pensionamenti dei dipendenti pubblici, magistrati compresi. Fra questi ultimi, chi a fine anno avrà raggiunto 70 anni, dovrà lasciare. Un esodo che, unito alle tante uscite anticipate a cui da tempo ricorrono coloro che vogliono mettersi al riparo da sorprese dell’ultima ora, mette a rischio l’attività di Tar e Consiglio di Stato. E il problema riguarda solo la giustizia amministrativa. I magistrati ordinari e quelli contabili - che pure ricadevano sotto gli effetti della norma del Dl 90 - questa estate sono, infatti, riusciti a ottenere una proroga: i primi fino a dicembre 2016 e i secondi fino a giugno. I giudici amministrativi, invece, sono rimasti al palo, vittime degli atavici dissidi interni. Tant’è che all’interno del Consiglio di presidenza - l’organo di autogoverno di Tar e Consiglio di Stato, dove si riflettono le diverse posizioni fra la componente dei tribunali amministrativi e quella dei consiglieri di Stato - c’è chi ha tifato perché il Parlamento non estendesse anche alla magistratura amministrativa le proroghe concesse alle altre due giurisdizioni. Di più, a luglio il Consiglio ha votato una delibera di appoggio all’operato delle Camere. "Si sono create due fazioni - spiega Manfredo Atzeni, consigliere di Stato e componente dell’organo di autogoverno: quella dei favorevoli allo svecchiamento, che è maggioritaria, e quella di chi vorrebbe che il limite della pensione salga a 72 anni. Al di là di tali posizioni, c’è un problema reale di vuoti che si verranno a creare con il nuovo anno, sia nei posti di vertice, sia negli altri livelli. Ne risentirà la produttività e i costi, perché cresceranno le spese di missione per far viaggiare i magistrati in modo da assicurare nei Tar più scoperti un minimo di udienze". Secondo una proiezione, a gennaio i posti vacanti saranno in media del 30% rispetto agli organici, con punte del 68% per le presidenze nei Tar. È vero che è in corso di svolgimento il concorso per reclutare 45 referendari (il primo livello dei tribunali amministrativi), ma le immissioni in ruolo delle nuove leve è di là da venire. Anche perché sono state ricevute più di 4mila domande e, dunque, i tempi si allungano. Così come non si può pensare a tempi brevi per il reclutamento di cinque consiglieri di Stato: i candidati conosceranno a dicembre la sede delle prove scritte. Dunque, i nuovi magistrati entreranno in servizio, nel migliore dei casi, verso la fine del 2016. Nel frattempo c’è da tamponare l’emergenza. Da un po’ di anni a questa parte l’arretrato ha continuato a scendere: a fine 2014 era di poco meno di 300mila cause e a fine settembre scorso si è arrivati a 272mila. Il rischio è questo processo virtuoso si interrompa e le pendenze riprendano a galoppare. I primi segnali di questa inversione di tendenza - affermano a Palazzo Spada - già si intravedono. Giustizia: diritto del lavoro, controlli a distanza a misura di privacy di Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2015 La nuova disciplina dei controlli a distanza dei lavoratori introdotta dal Jobs act (Dlgs 151/2015, articolo 23) semplifica alcuni passaggi burocratici e gestionali propedeutici all’installazione degli impianti ma non altera l’assetto complessivo delle regole e delle tutele esistenti in una materia tanto delicata. Tuttavia, per applicare correttamente le regole della riforma (il nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori), le aziende devono attenersi a determinati criteri. Vediamo quali. Che cosa va autorizzato. Un’azienda che intende installare un apparecchio che consente di monitorare la prestazione lavorativa, deve innanzitutto dimostrare che questo strumento non ha la finalità esclusiva di controllare a distanza l’attività dei lavoratori. Se il datore di lavoro deve, invece, soddisfare alcune esigenze lecite (di tipo organizzativo e produttivo, sicurezza del lavoro, tutela del patrimonio aziendale), e il controllo a distanza dell’attività lavorativa è un effetto indiretto dell’attività dell’impianto, questo può essere installato. Bisogna seguire, però, un percorso di autorizzazione, del tutto analogo a quello esistente prima della riforma. L’autorizzazione - finalizzata a verificare che lo strumento sia conforme ai requisiti di legge - può essere data dalle rappresentanze sindacali o, in alternativa, dalla direzione territoriale del Lavoro. Per le imprese che hanno unità produttive situate in province differenti oppure in più regioni, la legge offre una semplificazione importante: l’accordo può essere raggiunto con le associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con il ministero del Lavoro. Gli strumenti di lavoro. Una rilevante novità riguarda gli apparecchi necessari a eseguire la prestazione lavorativa, e quelli usati per registrare gli accessi e le presenze. Questi potranno essere installati e utilizzati senza la necessità di seguire la procedura di autorizzazione ordinaria, sindacale o amministrativa. Questa innovazione consente di superare molte incertezze applicative che prima della riforma accompagnavano l’utilizzo di strumenti di lavoro assolutamente comuni (navigatori satellitari, tablet, telefoni) che, secondo la vecchia normativa, avrebbero dovuto essere assoggettati alle procedure di autorizzazione. Il datore di lavoro deve usare l’impianto installato e autorizzato, nel rispetto delle regole previste dal Codice della privacy (Dlgs 196/2003) per tutte le operazioni di "trattamento" di dati personali. Queste regole si applicano ogni volta che il datore di lavoro svolge attività di raccolta, registrazione, organizzazione, conservazione, consultazione, elaborazione, estrazione, raffronto, utilizzo e distruzione di dati personali. La regola generale posta dagli articoli 23 e 24 del Codice della privacy sul trattamento dei dati è che questo deve avvenire con il consenso espresso dell’interessato. Il consenso non è tuttavia necessario nei casi in cui il trattamento è funzionale ad adempiere obblighi previsti dalla legge o per dare esecuzione al contratto (come nel rapporto di lavoro). A prescindere dal consenso, il datore di lavoro ha sempre l’obbligo (articolo 13 del Codice della privacy) di informare i lavoratori su finalità e modalità con cui i loro dati saranno trattati. Questo adempimento è una condizione di legittimità per poter raccogliere e trattare i dati personali che si acquisiscono con strumenti telematici (e anche per utilizzare le informazioni raccolte a fini disciplinari). Anche se il trattamento dei dati è ammesso (o autorizzato, dall’interessato e dal Garante) e se è stata data l’informativa, il datore di lavoro non può effettuare controlli in maniera indiscriminata: ogni forma di controllo deve, infatti, essere conforme ai principi di liceità, pertinenza, trasparenza e compatibilità del trattamento. Prove di resistenza per il reato di falso in bilancio di Antonio Ciccia Italia Oggi, 12 ottobre 2015 Il falso in bilancio cerca di resistere, anche se "azzoppato". La legge 69/2015, in vigore dal 14 giugno 2015, ha ridisegnato le "false comunicazioni sociali", privando di rilevanza le valutazioni. Ma non è stato un colpo di spugna totale. O almeno così sembra leggendo le sentenze della Cassazione. Dal giugno 2015 ci sono due delitti e riguardano il primo la repressione delle false comunicazioni sociali commesso nell’ambito di una società "non quotata" (articolo 2621 codice civile) e il secondo lo stesso fatto ma commesso in una "quotata" (articolo 2622 codice civile). Il primo reato è punito con la reclusione da uno a cinque anni, con la reclusione da tre a otto il secondo. Tutte e due i due reati sono reati di pericolo e si consumano a prescindere dall’avere causato un danno a soci o creditori. Per le società non quotate non c’è più bisogno della querela della persona offesa per procedere. I reati possono essere commessi dagli amministratori, dai direttori generali, dai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, dai sindaci e dai liquidatori. Oggetto della falsificazione possono essere i bilanci, le relazioni e le altre comunicazioni dirette ai soci e al pubblico previste dalla legge. Non sono punibili le false comunicazioni "atipiche", come le comunicazioni inter-organiche e quelle dirette ad unico destinatario, magari punibili ad altro titolo. La legge 69/2015 ha aggiunto che la condotta consiste nell’esposizione di "fatti materiali non rispondenti al vero" oppure nell’omissione di "fatti materiali la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene". Nell’ipotesi prevista dall’articolo 2621, per le società non quotate, i "fatti materiali" non rispondenti al vero oppure quelli occultati devono essere anche "rilevanti". La legge di riforma del 2015 ha, invece, eliminato il riferimento alle valutazioni. La legge pretende, inoltre, che la falsa comunicazione sia idonea a ingannare, anzi concretamente ingannatoria. Sul piano soggettivo, è necessario il cosiddetto dolo specifico, e cioè la volontà di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto. La riforma non ha confermato la espressa caratterizzazione del dolo come intenzionale, attraverso la soppressione dell’inciso "con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico". Nelle prime applicazioni giurisprudenziali, le sentenze si dedicano a risolvere a problemi di carattere transitorio e in particolare se i fatti commessi prima della legge 69/2015 costituiscono ancora reati punibili e in caso affermativo quale sia la legge da applicare in quanto più favorevole al reo. Una prima sentenza si è dedicata a studiare l’effetto della eliminazione delle valutazioni dall’oggetto delle false comunicazioni. Secondo la sentenza della Cassazione penale, sezione V, n. 33774, del 16 giugno 2015, il riferimento all’omissione di "fatti materiali rilevanti" anziché di "informazioni" unitamente alla mancata riproposizione dell’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" circa l’esposizione di "fatti materiali rilevanti" non rispondenti al vero implica la volontà di non attribuire rilevanza penale alle attività di "mera valutazione". La stessa sentenza, pur rilevando che la maggior parte delle poste di bilancio altro non è se non l’esito di procedimenti valutativi e, quindi, non può essere in alcun modo ricondotta nell’alveo dei soli fatti materiali, ha anche aggiunto che, comunque, va fatta la verifica dei fatti materiali, ancora punibili. La sentenza 33774 ha richiamato alla punibilità i ricavi "gonfiati", i costi effettivamente sostenuti ma occultati oppure le falsità aventi ad oggetto l’esistenza di conti bancari o rapporti contemplati da fatture emesse per operazioni inesistenti. Ugualmente punibili sono le false dichiarazioni relative a crediti lasciati in bilancio anche se definitivamente inesigibili o l’omessa indicazione della vendita o dell’acquisto di beni o, infine, la mancata svalutazione di una partecipazione nonostante l’intervenuto fallimento o l’omessa indicazione di un debito derivante da un contenzioso nel quale si è rimasti definitivamente soccombenti. Anche con la sentenza 37570 dell’8 luglio 2015 nell’annullare una sentenza di assoluzione, anche se non riguarda espressamente la questione delle valutazioni, la Cassazione rimette tutto in discussione con riferimento al non corretto inserimento di ricavi in bilancio, e contemporaneamente stabilisce che tra vecchio e nuovo 2622 codice civile il più favorevole al reo è il vecchio articolo. Conti correnti cointestati, la prova al contribuente di Andrea Bongi e Silvia Bartolozzi Italia Oggi, 12 ottobre 2015 Che siano cointestati oppure no l’onere della prova sui conti correnti incombe sempre sul contribuente. Ne è convinta la Corte di Cassazione che è tornata sugli accertamenti fondati sulle verifiche dei conti correnti bancari, per ribadire l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale è tenuto a giustificare tutti i movimenti bancari non riconducibili a operazioni imponibili. Per l’Amministrazione sono, infatti, sufficienti i dati risultanti dai conti correnti riferibili al contribuente per poter fondare l’accertamento delle imposte sui redditi, mentre grava sul contribuente accertato l’onere di dimostrare l’estraneità di ogni singola operazione contestata ad una operazione imponibile. E tutto ciò sia in presenza di conti correnti intestati unicamente al contribuente accertato sia in presenza di conti cointestati o sul quale il contribuente abbia comunque potere di agire o agito. Il conto corrente cointestato con la madre (sentenza n. 18125/2015). Non basta evidenziare la cointestazione del conto per vincere, almeno in parte, le presunzioni fiscali in tema di accertamenti bancari. Questo è quanto recentemente ribadito dalla sentenza n. 18125 del 15/9/2015 con la quale la Suprema corte di cassazione ha confermato la pronuncia di secondo grado, con cui la Commissione regionale della Liguria aveva deciso una controversia insorta all’esito di un’indagine finanziaria effettuata sui conti correnti bancari di una contribuente. I giudici di appello avevano, infatti, ritenuto che la contribuente non avesse fornito giustificazioni per le movimentazioni bancarie riprese a tassazione, essendosi solamente limitata ad allegare la circostanza che il conto corrente accertato fosse cointestato con la madre. Per la Commissione di secondo grado la contribuente avrebbe dovuto provare, facendo anche ricorso a delle presunzioni semplici, che le operazioni bancarie contestate erano riferibili esclusivamente all’altro cointestatario del conto corrente ovvero a sua madre. I giudici di legittimità, sulla scia di precedenti pronunce, fra tutte la n. 18081 del 4/8/2010, hanno confermato il proprio orientamento ormai consolidato, in base al quale ricade sul contribuente l’onere probatorio di dimostrare la non riferibilità di ciascuna movimentazione bancaria ad operazioni imponibili. Indipendentemente dalla natura dell’attività svolta dal contribuente, le operazioni risultanti dai conti correnti bancari sono sempre rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile e sono di per sé sole sufficienti a fondare un accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 32 del dpr 600/1973. Per vincere tale presunzione il contribuente potrà far ricorso anche alle presunzioni semplici, a condizione che le stesse siano positivamente apprezzate dal giudice. Nel caso in commento i Giudici non hanno apprezzato come "grave precisa e concordante" la prova indiziaria della cointestazione del conto corrente fornita dalla contribuente, reputando invece necessaria una prova documentale della riferibilità di tutte le operazioni all’altro cointestatario. Il conto cointestato con il coniuge (sentenza n. 4585/2015). Sempre in tema di conti correnti cointestati si evidenzia, sotto due diversi profili, la sentenza n. 4585 del 6/3/2015, che, richiamando anch’essa un precedente orientamento (Cassazione civile n. 21420/2012), ha affermato che una volta che sia stata provata la riferibilità del conto corrente all’attività professionale, anche in base ad una presunzione, tutti i versamenti ivi effettuati si presumono inerenti l’attività professionale, a prescindere da quale sia il soggetto che li abbia effettuati. Nel caso in commento il contribuente lamentava il fatto che alcuni dei versamenti accertati fossero stati effettuati dal coniuge cointestatario del medesimo conto corrente; la Corte, tuttavia, ha ritenuto tale circostanza non rilevante, richiedendo la prova ferrea e documentale dell’effettiva estraneità di quei versamenti all’attività professionale del contribuente. Insomma, se il conto corrente è di pertinenza dell’attività esercitata dal contribuente si presume che tutti i versamenti ivi effettuati siano il frutto di detta attività. La stessa sentenza pare altresì degna di nota anche sotto un ulteriore profilo, ovvero la distinzione tra attività imprenditoriale e lavoro autonomo, che non consente, come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 228/2014, una omogeneità di trattamento tra le due figure per quanto concerne la valutazione dei prelevamenti da conto corrente. E infatti, nel mentre per l’imprenditore il prelevamento da conto corrente rappresenta comunque un ricavo, per il lavoratore autonomo tale equiparazione non può essere fatta, attesa la peculiarità dell’attività del lavoratore autonomo, nella quale prevale la componente personale rispetto all’organizzazione professionale e, di conseguenza, vi è una "fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali". I movimenti sul conto della suocera (sentenza n. 18370/2015). Anche in presenza di conti correnti non intestati (né cointestati) al contribuente, l’amministrazione finanziaria può procedere a un accertamento fiscale. È il caso deciso dalla sentenza n. 18370/2015 con la quale gli Ermellini hanno sancito l’onere per l’Ufficio di dimostrare anche in via presuntiva che un conto corrente, benché non intestato al contribuente, è comunque ad esso riconducibile. In particolare, la Corte di cassazione è ormai orientata (si vedano al riguardo le sentenze della stessa Corte n. 26173/2014 e n. 20668/2014) nel senso di ritenere valida la presunzione di riferibilità al contribuente accertato di un conto corrente intestato ai suoi stretti familiari. La prova contraria spetta, ovviamente, al contribuente stesso, che nel caso in esame non era stato messo in condizione di fornire la prova liberatoria in relazione ai conti correnti intestati alla suocera, essendosi visto limitare il contraddittorio ai conti intestati o comunque cointestati con il coniuge. Milano: "è vero, è detenuto per errore", ammessa la colpa ma nessuno lo libera di Marinella Rossi Il Giorno, 12 ottobre 2015 Da 72 giorni a San Vittore: non c’è giudice "competente" sul suo caso. Vittima due volte. Delle sviste amministrative e della burocrazia giudiziaria. Prima, rispedito in galera per un "disguido", per un errore. E poi, nessuno che, ora verificata la carenza segnalata correttamente dalla questura ma che riguarda anche il tribunale delle direttissime, si assuma il carico e l’incarico di tirarlo fuori. Il giudice che lo ha condannato e ha commutato la pena in obbligo di firma, un pubblico ministero dell’ufficio esecuzioni, un giudice di sorveglianza? Nessuno. In un ginepraio di "non luogo a provvedere", trasmissione di atti alla Procura, carenza di competenze, Diallo A., 28enne della Guinea e piccolo spacciatore, è risucchiato in una zona grigia del diritto. E resta in galera, vittima e zimbello, qui a rappresentare meglio di ogni altro il detto: gli uomini sono tutti uguali davanti alla legge, ma alcuni sono più uguali degli altri. Lui lo è meno. Ieri alle 12 Diallo era ancora, e dopo 72 giorni indebiti, a San Vittore; non era stato firmato alcun ordine di scarcerazione dall’autorità giudiziaria a favore del ragazzo che in carcere è stato rispedito il 30 luglio, per il "disguido", così definito dalla stessa questura, tra la nota correttamente inviata dal commissariato di Porta Genova - dove Diallo regolarmente firmava tre volte alla settimana ottemperando alle prescrizioni del giudice - e chi non l’aveva recepita e memorizzata: la Divisione anticrimine e il tribunale delle direttissime. Il difensore che dai primi di ottobre ha preso in carico la disavventura del giovane, l’avvocato Antonio Nebuloni, si è rivolto - con la nota di chiarimenti della questura - al giudice Micaela Curami, che l’1 luglio ha ammesso Diallo al patteggiamento a un anno di reclusione per piccolo spaccio e ha commutato la pena in obbligo di firma tri-settimanale: la quale però ha risposto con un "non luogo a provvedere" da parte sua, in quanto il patteggiamento è nel frattempo divenuto definitivo e ha quindi trasmesso gli atti alla Procura. Che, però - pm competente dell’ufficio esecuzioni Adriana Blasco - potrebbe trovarsi nell’effettiva impossibilità di azione, in quanto il giovane a cui si dovrebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della pena, è, paradossalmente, non in libertà (stato in cui si provvede con la sospensione, proprio per evitare un inutile passaggio in carcere), ma in galera. E il giudice del tribunale di sorveglianza, Marina Corti, a sua volta non sarebbe ancora entrata nella fase di competenza, perché la sentenza definiva non è ancora a disposizione, e solo dopo quella il difensore può proporre istanza di misure alternative. In-giustizia secondo l’abusato Kafka? L’avvocato di Diallo, Nebuloni, prefigura amari scenari: "Probabilmente in un altro Paese il giudice sarebbe andato personalmente in carcere a provvedere e a chiedere personalmente scusa al detenuto per l’errore". Ma Kafka direbbe che forse no, non sarebbe così nemmeno altrove. Foggia: i prodotti coltivati dai detenuti donati alla mensa Caritas del Conventino teleradioerre.it, 12 ottobre 2015 Preparazione del terreno, dell’impianto d’irrigazione ed infine raccolta degli ortaggi: sono alcune attività che vedono impegnati i detenuti della Casa Circondariale di Foggia presso Masseria Giardino, nell’ambito del progetto di reinserimento sociale "Campi Liberi", un’iniziativa che consente ai detenuti, giunti ormai a fine pena, di poter coltivare terreni comunali destinando la produzione a scopi benefici. Il progetto mira quindi al reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, in questo caso quello agricolo, in un territorio, come quello di Capitanata, a forte vocazione agricola. Operazioni al via alle otto del mattino e fino alle tredici, sotto l’attenta guida di esperti ed agronomi, hanno il compito di coltivare prodotti che verranno poi donati alla Caritas Diocesana Foggia- Bovino e al Santuario dell’Incoronata. "Un bell’esempio di come trasformare un esperienza dolorosa come quella della carcerazione, in un occasione per fare del bene - è il commento di Don Francesco Catalano, direttore della Caritas foggiana - arricchendo il menù della mensa dei poveri che ogni sera conta un numero di circa 180 presenze". "I prodotti oltre ad essere abbondanti, sono anche di ottima qualità e rappresentano un valido aiuto per la mensa Caritas che nel 2014 ha erogato quasi cinquantamila pasti". "La pena può e deve avere una funzione rieducativa - conclude don Francesco Catalano - per reinserire nel tessuto sociale persone con un passato da dimenticare, ma che sono ancora capaci di essere protagonisti del bene". Salerno: al carcere di Fuorni la nuova vita delle detenute diventate istruttrici sportive La Città di Salerno, 12 ottobre 2015 C’è chi è finita dentro per truffa, chi per rapina, chi anche per concorso in omicidio. Molte hanno i figli che le aspettano fuori, alcune anche i nipoti. hanno tra i 24 e i 49 anni; arrivano per lo più da Napoli, ma anche dalla Romania, tre dalla provincia di Salerno. Tutte dicono di pentirsi di quello che hanno commesso soprattutto perché il reato, e la conseguente pena, le hanno allontanate dalle loro famiglie, dalle loro certezze, dai loro affetti più profondi. Per tanto, troppo, tempo. Nel loro periodo di reclusione, però, hanno avuto la possibilità di dedicarsi maggiormente a loro stesse, a interrogarsi, a capirsi di più. E in questo lavoro di ricostruzione, ancora in atto, grande peso lo ha avuto, a loro detta, l’iniziativa in cui sono state coinvolte: il progetto "Corpus sanum ad mentem sanam", nato per alleviare attraverso lo sport e l’istruzione il problema dell’emarginazione nella quale versano i detenuti favorendo un più agevole reinserimento sociale e lavorativo al termine della pena. Ieri mattina, nella casa circondariale di Fuori, si è tenuta la cerimonia di consegna degli attestati di qualifica alle quindici detenute che hanno frequentato il corso di formazione per istruttore base di primo livello. Alcune di loro erano presenti e con orgoglio, e un pizzico di commozione, hanno stretto la mano dei promotori dell’iniziativa: Antonella De Simone dell’Università degli Studi di Salerno, Carmela Fulgione Sessa, il presidente del Lions club Salerno Arechi, Marco De Luca, presidente Avantgarde Sport e il consigliere comunale Luigi Bernabò, giunto a Fuorni in sostituzione dell’assessore alle Politiche sociali, Nino Savastano. Otto delle 15 partecipanti al progetto che per due ore a settimana, per quattro settimane consecutive, hanno seguito le lezioni sia teoriche che pratiche utili per poter diventare istruttrici sportive di primo livello una volta pagato il loro debito con la giustizia, hanno raccontato le loro storie. Come quella di Natascia Picardi, napoletana, a Fuorni dallo scorso 7 novembre, la più giovane ospite della casa circondariale condannata per rapina: "In cella abbiamo costruito una sorta di forno elettrico e spesso io preparo torte per le mie compagne. Sono bravissima. Certo, la libertà mi manca e stare qui mi ha fatto capire meglio il suo valore". Accanto a lei le sue compagne di cella: Lucan Petronela, 37 anni, romena, accusata di concorso in omicidio non ancora passato in giudicato: "Io non c’entravo nulla", afferma, ma sarà il giudice a deciderlo; Giuseppina Argiulo, 46 anni dentro per truffa e vicina alla scarcerazione: "Per legge dovremmo avere le celle aperte fino alla sera - afferma - peccato, però, che al nostro piano ci vengano concesse solo due ore la mattina"; Antonietta Chiarazzo, 49 anni, napoletana di nascita ma residente a Eboli, con sei figli e nove nipoti che l’aspettano all’esterno: "Questi mesi reclusa mi sono serviti per capire che niente pesa di più della lontananza dai figli. Una volta fuori ci penserò due volte prima di sbagliare di nuovo". Poi ancora Laura Ruocchio, 26 anni, Elena Bot, 31 anni, romena, Argentina Varone e Vincenza Avola, 31 e 36 anni, rispettivamente di Pagani e di Angri, entrambe arrestate per rapina. "Iniziative come questa fanno capire l’importanza dello sport in ambito carcerario - ha affermato il direttore della struttura, Stefano Martone - sia per aiutare i detenuti a recuperare le proprie abilità fisiche che per indicar loro un nuovo approccio alla vita". Per Bernabò, infine, "lo sport è lo strumento migliore con cui reinserirsi nella società dopo aver espiato la pena". Sassari: nel carcere di Bancali pochi agenti e l’arrivo dei detenuti 41bis aggrava problema di Patrizia Canu L’Unione Sarda, 12 ottobre 2015 Sono in pochissimi. L’arrivo dei 41 bis, una serie di detenuti ad alta pericolosità sociale, ha soltanto aggravato il problema. Nel carcere di Bancali, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria C.N.P.P. lancia l’allarme, per la carenza di organico nelle strutture penitenziarie di Sassari e di Tempio Pausania. Il segretario provinciale del sindacato, Vannino Piana, non usa mezzi termini: "La struttura penitenziaria sassarese è in sofferenza. Manca il personale, ogni santo giorno bisogna fare i salti mortali per coprire tutti i posti di servizio al fine di garantirne la sicurezza". Il problema si acutizza quando si verificano i trasferimenti di detenuti, sempre più frequenti: "Sono sempre più numerosi i ricoveri in ospedale, che impegnano notevolmente le poche unità di polizia penitenziaria del servizio di sezione. Questi agenti supportano i colleghi del nucleo traduzioni e piantonamenti, per lo più impegnati nel servizi di scorta. Questi ultimi non solo si occupano di scortare i detenuti ristretti presso la struttura di Bancali, ma spesso devono fare la spola e scortare fuori regione i detenuti ristretti presso la casa di reclusione di Tempio Pausania". Catanzaro: nella Casa circondariale si è svolta la Giornata nazionale "Obesity Day 2015" catanzaroinforma.it, 12 ottobre 2015 Nella Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, si è svolta, la Giornata Nazionale "Obesity Day 2015", promossa dall’Adi (Associazione Italiana di dietetica e Nutrizione Clinica), in collaborazione con Coldiretti Calabria, Casa Circondariale e Istituto Tecnico Agrario Vittorio Emanuele II di Catanzaro. L’iniziativa ha inteso promuovere lo stile di vita mediterraneo quale patrimonio immateriale dell’umanità "uno spiccato esempio anche di contaminazione naturale e culturale" e, come tale, modello di riferimento. Dopo il saluto del Direttore della Casa Circondariale, dott.ssa Angela Paravati, che ha voluto sottolineare la rilevanza del progetto che vede il carcere al centro della crescita culturale ed umana dei detenuti, anche attraverso una corretta educazione alimentare, è seguito l’intervento del Presidente dell’Adi Calabria, dott.ssa Romana Aloisi, la quale si è soffermata sull’importanza della prevenzione e della sostenibilità della dieta mediterranea. Suggestivo il filmato, proiettato nel corso dell’incontro, che ha visto i detenuti (autori del video) alle prese con frutta ed ortaggi, ed indaffarati nella cucina del carcere. Di estremo interesse l’intervento dei rappresentanti dell’Adi, Dott.ssa Maria Capellupo e Dott.ssa Claudia Gigliotti, che si sono soffermate sul valore dei prodotti ortofrutticoli nella dieta mediterranea e sui metodi di cottura e conservazione. L’iniziativa è stata arricchita dal contributo di Coldiretti Calabria, rappresentata dal Presidente Regionale Pietro Molinaro, il quale ha rimarcato l’importanza del ritorno all’agricoltura, soprattutto per i giovani, e l’impatto positivo della realizzazione dell’orto urbano all’interno del carcere di Catanzaro. Sotto il profilo strettamente sanitario, sono intervenuti i dottori Antonio Montuoro e Antonio Tavano, i quali hanno sottolineato l’importanza della sana alimentazione come stile di vita e nella prevenzione e cura di alcune patologie. Sono stati coinvolti all’iniziativa anche i detenuti, i quali hanno presentato alcune ricette di pietanze tradizionali, alla luce dei propri ricordi d’infanzia. Un ruolo rilevante è stato svolto dall’istituto Tecnico Agrario di Catanzaro, nelle persone del Dirigente Scolastico dott.ssa Teresa Rizzo e della professoressa Carpino. Le conclusioni sono state affidate al Professore Nicola Siciliani De Cumis, esperto in pedagogia, che ha sottolineato il rapporto tra alimentazione e stile di vita, ricordi personali, salute mentale e prospettive esistenziali. Brindisi: matrimonio in carcere "applicate le regole, rispetto per la bimba e per noi" brindisireport.it, 12 ottobre 2015 Riceviamo dal direttore della Casa circondariale di Brindisi, Anna Maria Dello Preite, e volentieri pubblichiamo la seguente lettera che contiene puntualizzazioni e considerazioni in merito al matrimonio di un detenuto, vicenda di cui si è occupato un nostro articolo del 7 ottobre. "In relazione all’articolo pubblicato lo scorso 9 ottobre a firma Stefania De Cristoforo, "Io sposa in carcere, triste davanti a mia figlia di quattro anni", nella mia qualità di direttore della Casa Circondariale di Brindisi, per rispetto della verità, ho il dovere di contestarne il contenuto e precisare quanto segue. Il matrimonio celebrato in data 7 ottobre all’interno della Casa Circondariale di Brindisi, si è svolto nel pieno rispetto delle disposizioni vigenti. Tra di esse, quelle che regolano gli accessi in Istituto, in ottemperanza alle quali l’Autorità Giudiziaria competente, e non la Direzione del carcere, ha negato l’autorizzazione all’ingresso ad alcuni dei testimoni designati. Assolutamente non rispondente al vero la circostanza riferita dalla Signora Margherita secondo la quale sarebbe stata da me ricevuta fuori: non ho mai incontrato la signora né alcun altro familiare del detenuto. Vero è, invece, che pur in presenza di un provvedimento di trasferimento del marito presso altra sede disposto già nei giorni precedenti dai Superiori uffici per le gravi condotte da lui poste in essere all’interno della struttura, ho comunque deciso, assumendomi personalmente ogni responsabilità, di differirne l’esecuzione a matrimonio avvenuto al fine proprio di evitare ulteriori disagi alla sua famiglia. Quanto al luogo individuato per la celebrazione del matrimonio, la sala ordinariamente destinata ai colloqui con i familiari risulta essere oggi l’unico spazio disponibile in mancanza di altre soluzioni, ad eccezione della Cappella evidentemente non idonea ad ospitare un matrimonio celebrato con rito civile. Ho molto rispetto del dolore della signora Margherita come madre, e ancor di più mi dispiace per la sua bambina costretta ad assistere al matrimonio che i suoi genitori hanno deciso di contrarre all’interno di un carcere. Reclamo però lo stesso rispetto per quanti lavorano in questa struttura con serietà, professionalità e sensibilità che sono certa non sono mancati neanche in questa circostanza. Potrei elencare a riguardo le tante iniziative che da anni vedono impegnato il carcere di Brindisi nei progetti di accoglienza dei bambini, e non solo, ma ritengo che non sia questa l’occasione più opportuna". Milano: teatro-carcere "L’amore vincerà" il male che imprigiona di Elena Gaiardoni Il Giornale, 12 ottobre 2015 Le sbarre si trasformano in riflettori di luce e il palcoscenico prende il posto della cella per fare spazio a L’amore vincerà, lo spettacolo che vede protagonisti quindici detenuti del circuito di Alta Sicurezza della casa di reclusione di Opera. Stasera alle 19.45 nell’auditorium di Expo il recital di canti, poesie e racconti, diretto da Isabella Biffi, in arte Isa-Beau, festeggia un tour passato da teatri come l’Ariston di San Remo, per testimoniare il lavoro artistico in atto all’interno di alcuni istituti di pena intenti a trasformare la punizione in rieducazione del detenuto. L’amore vincerà, voluto da Regione Lombardia, ha come unico interprete milanese Francesco Ranieri, tornato a essere un imprenditore dopo aver girato per 17 anni le carceri d’Europa, dalla Spagna alla Germania all’Italia, "per traffico di droga - dichiara Ranieri. Cosa faccio sul palcoscenico? Racconto un po’ di storie, che fanno parte della storia di chi come me ad un certo punto della vita ha voluto prendere una scorciatoia e ha giustamente pagato". Perché Expo? Da mesi ripetiamo che il tema dell’Esposizione Universale è "Nutrire il pianeta" e che il principio di nutrizione deve varcare il mero concetto di cibo, per assurgere a un significato simbolico in cui ad essere nutrito non è solo il corpo, ma ciò che chiamiamo spirito o psiche o coscienza, soprattutto quando essi appartengono a persone colpevoli d’aver commesso quanto definiamo "male". Come il cibo fa bello il corpo fisico, la nutrizione artistica è in grado di far bella la coscienza. Qual è stato il cibo che l’ha cambiata da trafficante a uomo libero? "Le lacrime. Non ho mai pianto per paura, ma quando ho capito di avere una coscienza che non sapevo di avere. Una coscienza pulita che poteva domare, superare, prendere il posto di quella sporca, volando sopra di essa" risponde Francesco Ranieri. Il carcere che l’ha aiutata di più? "Nelle carceri tedesche c’è un motto, che purtroppo conosciamo molto bene per un’altra storia: "Arbeit macht frei", "Il lavoro rende liberi". Vedo ancora questa scritta a Meinz. In Italia rieduchiamo i detenuti attraverso la cultura, in Germania si punta sul lavoro. Se unissimo lavoro e cultura arriveremo ad un concetto elevato non solo di carcere, ma di società. I detenuti che in Germania lavorano si costruiscono un piccolo patrimonio e quando escono non si trovano senza nulla per ricominciare. In un istituto di pena tedesco puoi essere miliardario ma dentro il carcere non puoi spendere più di 86 euro al mese se non lavori. È un’esperienza che ti cambia davvero". Il dibattito sulle sbarre è di un’attualità vorace. Da poco è stato ristrutturato il teatro del Beccaria e operosa, è proprio il caso di dire, è l’intraprendenza di chi dentro le case di punizione crea testate come In corso d’Opera, diretta da Renzo Magosso, il giornale redatto all’interno di Opera recentemente insignito del premio Vergani. Stasera quindici uomini canteranno e danzeranno in L’amore vincerà, per dichiarare che il cibo di Expo non è un tema mondiale e eclatante, ma una sottile vena emozionale stretta come una cella, un canale di sangue che deve iniziare un corso nuovo all’interno delle nostre coscienze, non libere da quanto chiamiamo "male", perché bene e male si spartiscono la lotta di ogni giorno in ognuno di noi. "Questa lotta è il nostro lavoro quotidiano - dice Giacinto Siciliano, direttore del penitenziario di Opera - e lo spettacolo di stasera ne sarà splendida testimonianza". Su un palcoscenico che è libertà. Torino: teatro e carcere, al via le prenotazioni per "Le atre facce della medaglia" piemontepress.it, 12 ottobre 2015 Dialogo teatrale sul carcere: dal 24 al 27 novembre alla Casa Circondariale di Torino. Prenotazioni entro il 28 ottobre. "Le altre facce della medaglia" è il titolo delle quattro le serate proposte, con la regia di Claudio Montagna, dalla compagnia Teatro e Società in collaborazione con la Cattedra di Sociologia del Diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, per approfondire e mettere a confronto, attraverso il tetro, i punti di vista sulla legge di riforma penitenziaria, a quarant’anni dalla sua approvazione. L’appuntamento è presso il teatro della Casa Circondariale Lorusso Cutugno il 24-25-26-27 novembre e per partecipare è necessario iscriversi entro il 28 ottobre. Ogni sera il dialogo è aperto dagli spettatori, con domande scritte sul tema; a rispondere è un gruppo di detenuti attraverso scene ideate con tecniche dell’improvvisazione teatrale. Pochi minuti, intensi e ricchi di significato, chiusi dai commenti di chi lavora per il carcere o da esperti e studiosi del settore, seguiti dal breve intervento di uno studente di giurisprudenza che confronta ciò che ha visto e sentito con la sua formazione teorica. L’evento teatrale "Le altre facce della medaglia" affronta le trasformazioni e le innovazioni introdotte dalla legge di riforma penitenziaria del 1975, le sue modifiche e il suo stato di attuazione oggi, dando voce a chi quotidianamente vive a contatto con quella realtà; mentre gli spettatori sono preparati dall’invio, insieme all’autorizzazione all’ingresso in carcere, di un estratto che ne evidenzia i temi e i problemi principali. Le serate teatrali "Le altre facce della medaglia" si collocano all’interno del progetto Passi oltre i confini realizzato da Teatro Società grazie al sostegno di "Progetto libero - linee guida in ambito carcerario" della Compagnia di San Paolo e con la partecipazione dell’Assessorato alla Cultura della Città di Torino. Il progetto è condiviso operativamente dalla Direzione, dagli educatori e dagli agenti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino nell’ambito della Cattedra di Sociologia del diritto. "Le altre facce della medaglia". Casa Circondariale di Torino - via Maria Adelaide Aglietta 35. Coordinamento registico Claudio Montagna Programmazione - ore 21.00 Martedì 24 novembre Mercoledì 25 novembre Giovedì 26 novembre Venerdì 27 novembre Modalità di prenotazione. Per ogni serata c’è una disponibilità massima di 120 posti. La prenotazione è obbligatoria e può essere fatta: via e-mail a: info@teatrosocieta.it - per telefono al numero: 3931954753. La segreteria, attiva dal 5 ottobre al 28 ottobre, è aperta dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle 13.00. Fuori orario, è possibile lasciare un messaggio per essere richiamati. È possibile prenotarsi fin d’ora per qualunque data tra quelle elencate, tuttavia, a causa del numero ristretto di posti e della complessità delle procedure, si raccomanda di prenotarsi soltanto se si è certi di poter essere presenti. Per ciascuna delle date indicate, in base all’ordine di arrivo delle richieste, l’ufficio preposto della Casa Circondariale definirà e comunicherà l’elenco dei partecipanti alle serate. Brescia: "I volti dell’alienazione", una mostra contro gli Ospedali psichiatrici giudiziari La Presse, 12 ottobre 2015 "Il 31 marzo era la data stabilita per la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari. Sono passati sei mesi e poco è stato fatto per la liberazione dei 700 internati. La responsabilità più grande è delle Regioni che non hanno predisposto strutture e programmi terapeutici individualizzati per l’uscita dalla istituzione totale e il progressivo inserimento nella società. Il ritardo burocratico e il sotterraneo boicottaggio della legge devono essere contrastati per affermare i valori di civiltà e umanità per cancellare l’orrore". È la denuncia della Società della ragione onlus, che ha organizzato a Brescia la mostra "I volti dell’alienazione", ospitata dal museo Ken Damy (corsetto Sant’Agata 22) fino al 14 novembre. L’associazione è impegnata sui temi del carcere, della giustizia e dei diritti umani e sociali e porta avanti la campagna StopOpg con la collaborazione dell’archivio pittorico Roberto Sambonet, del museo Ken Damy, della Cgil e del Comune di Brescia. La mostra è a cura di Franco Corleone e Ivan Novelli e raccoglie 40 disegni e 70 studi dell’artista e designer milanese Roberto Sambonet. Attraverso i ritratti che l’artista ha realizzato tra il 1951 e il 1952 nel manicomio di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile, l’esposizione racconta e indaga il complesso fenomeno del disagio mentale. Sambonet ha trascorso sei mesi nei reparti dell’ospedale, conducendo una sua personale ricognizione e ha ritratto gli internati in una serie di opere di grande intensità, a china e a matita, ma tutte capaci di andare al di là del volto e mostrare pensieri, emozioni, sentimenti. Una sorta di viaggio di umana partecipazione, uno scavo nelle pieghe della malattia e della sofferenza, che nel 1977 è stato raccolto nel volume Della Pazzia (M’Arte Edizioni, Milano 1977). Qui l’artista accosta ai ritratti dei malati di mente testi di autori che nei loro scritti hanno affrontato e raccontato il tema della pazzia, come Allen Ginsberg, Dino Campana, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Edgar Lee Masters, William Shakespeare, Voltaire e altri. Roberto Sambonet, nato a Vercelli nel 1924, è stato un importante pittore, designer e grafico. Si è formato all’accademia di Brera e ha partecipato attivamente alla vita cittadina frequentando l’ambiente delle avanguardie artistiche che avevano come punto di ritrovo il bar Giamaica. Ha partecipato all’avventura del gruppo dei Picassiani con Cassinari, Morlotti e Treccani. Tra il 1948 e il 1953 si è trasferito in Brasile, dove il suo linguaggio artistico ha vissuto una maturazione molto importante che lo ha condotto verso quell’essenzialità della linea che divenne tratto fondamentale della sua opera, nella pittura, nella grafica e nella produzione di celebri oggetti di industrial design. La mostra è stata già ospitata dalla Fabbrica del Vapore di Milano, dal Teatro Chille de la balanza di Firenze, dal Palazzo Municipale di Ferrara e dal Museo in Trastevere di Roma. Caserta: carcere di Nisida, inaugurazione murales "Scala da 1 a 1000: Metamorphosis" Roma, 12 ottobre 2015 Sarà inaugurata oggi, alla presenza delle autorità e della società civile, l’opera dal titolo "Scala da 1 a 1000: Metamorphosis", realizzata da un gruppo di 5 ragazzi dell’area penale ospiti della Comunità pubblica per i minori di Nisida. L’iniziativa, partita lo scorso 14 settembre, curata dall’associazione "Let’s Think-Living and Idea", rientra nell’ambito del progetto educativo, artistico itinerante "Oltre i Muri" ed ha visto i giovanissimi protagonisti dipingere il vano scala della struttura secondo le tecniche dei murales. Lo scopo principale, tra gli altri, è quello di trasmettere il valore dell’arte a contenuto educativo e sociale, che proponga ed esalti la solidarietà, la cultura della legalità, del rispetto per l’ambiente, della cittadinanza attiva, la rimozione di ogni forma di barriera che ostacoli lo sviluppo umano e l’integrazione sociale. La serata, che avrà inizio alle ore 18, sempre presso la struttura di Nisida, vedrà la presenza del dirigente Centro giustizia minorile per la Campania, Giuseppe Centomani, della direttrice del centro polifunzionale Alessandra Rossi; del sindaco Luigi de Magistris, dell’assessore alle Politiche giovanili Alessandra Clemente. L’evento prevede anche un aperi-grill: al barbecue ci sarà lo chef Venerando Valastro, mentre alle pizze fritte ci penserà il casertano Francesco Martucci, patron dei Masaniello noto per il suo essere sempre presente in manifestazioni di solidarietà, molte delle quali promosse dallo stesso pizzaiolo. Libri: "In questo luogo incantato". Rene Denfeld per la Giornata contro la pena di morte recensione di Mauretta Capuano Ansa, 12 ottobre 2015 Un condannato a morte aspetta la sua fine nell’isolamento di una cella eppure nel luogo feroce in cui si trova da tempo riesce a cogliere qualcosa di incantato. E proprio "In questo luogo incantato" (Ed. Frassinelli, pp 218, euro 19), il primo romanzo della giornalista americana Rene Denfeld, esperta in inchieste su casi di pena capitale, che Frassinelli ha pubblicato in concomitanza con la Giornata Mondiale Contro la Pena di Morte. Oltre duecento pagine che ci fanno entrare in un mondo che non vorremmo conoscere, dove non c’è un raggio di luce, il calore umano non esiste e il tempo si dilata. "Il mondo esterno è diventato irreale. Quando sogno, mi trovo sempre dentro" racconta il protagonista che da tempo sta a marcire nelle segrete del carcere. "Qui il tempo passa, ma non conta. Potrei anche avere un orologio, ma che cosa mi direbbero le lancette? Niente" dice. A salvare il narratore della storia, di cui non conosciamo il nome né il crimine commesso, sono i libri della biblioteca della prigione. Non parla con nessuno il condannato nel braccio della morte. È solo, senz’anima, ma affamato delle parole dei libri. "Ho letto tutto ciò che conteneva quella piccola biblioteca polverosa. Ho letto i prologhi e gli epiloghi al punto che avrei saputo dire quante volte Stephen King ringraziava la moglie, Tabitha" racconta il protagonista il cui libro preferito è "Alba bianca" di James Houston. In questo inferno ci sono solo due figure che rappresentano un collegamento con il mondo esterno: un sacerdote che si prende cura dei detenuti per espiare un peccato e una donna che ha la missione di salvare uno di loro, di portare un po’ di speranza, ma il condannato che potrebbe far uscire dal braccio della morte non ne vuole sapere. "Il prete spretato cammina lungo il braccio. Sento nei suoi passi che non gli piace quello che deve fare oggi" dice il narratore a proposito del sesto detenuto che il sacerdote deve accompagnare alla morte. Una morte in modo pulito, dove non restano da ripulire "materia cerebrale e sangue", grazie alla macchina della Camera dei Rampicanti. Tra morte e redenzione, incubi e fantasmi, la Denfeld, già autrice di saggi, con questo romanzo che è come un pugno nello stomaco ma riesce a parlare di amore, ha vinto tra l’altro il Prix du Premier Roman Etranger ed è entrata nella Top 20 dei Libri dell’anno di Goodreads. E alla fine il protagonista se ne va come ha sempre "sperato di diventare: dimenticato" ma prima lascia alla signora che si prende cura dei detenuti il suo libro preferito: "Alba bianca". "Basta profughi", a Vienna vola la destra xenofoba di Andrea Tarquini La Repubblica, 12 ottobre 2015 Il partito di Strache, erede di Haider, sale oltre il 30% ma resta in carica il borgomastro socialdemocratico. "Vienna la rossa" resiste in nome dei valori dell’Europa migliore, ma sull’onda della paura dell’ondata dei migranti la destra xenofoba ed euroscettica, ammiratrice dichiarata del dittatore magiaro Viktor Orbàn, avanza in un nuovo capitolo della sua crescita finora inarrestabile. E l’onda lunga dei timori verso la "marea umana dei profughi" investe quasi tutta l’Europa: nelle stesse ore, la cancelliera federale Angela Merkel, a causa della sua politica dichiarata delle braccia aperte a chi fugge, registrava una caduta dei consensi al 38 per cento, il minimo dal 2013. Tornando qui a Vienna, i risultati sul 97 per cento dei voti per il rinnovo del governo della capitale (che è sia comune che Stato federale) indicano che i socialdemocratici del borgomastro Michael Haeupl restano primi con il 39,5 per cento, ma perdono quasi il 6 per cento cadendo a uno dei peggiori risultati del dopoguerra. Solo a vantaggio della Fpoe di Heinz-Christian Strache: il dinamico, spregiudicato 46enne erede di Joerg Haider, vola al 31 per cento. La "rivoluzione d’ottobre" nazionalista che Strache aveva promesso non ha trionfato, eppure ieri sera egli appariva insieme grande sconfitto e alla lunga vero vincitore. "Nessuno può sminuire o sottovalutare il nostro successo", ha commentato a caldo. Strache sperava in una vittoria, o in un testa a testa, perché aveva puntato tutto sulla paura dei migranti. Chiedendo linea dura, attaccando "le illusioni social-romantiche" di Angela Merkel e del cancelliere socialdemocratico austriaco, Werner Feymann, elogiando Orbàn e i suoi Muri: "Ognuno ha una recinzione che protegge il giardino di casa, serve anche a noi". Solo l’alta partecipazione al voto (74 per cento, molto superiore alla media), lo ha fermato: è stato il "sursaut", il soprassalto della borghesia illuminata e cosmopolita e della Vienna giovanile (si vota a 16 anni), a portare molti più voti ai rivali di Strache, oprattutto ai socialdemocratici. I democristiani (Oevp) partner di Feymann nella debole grosse Koalition nazionale crollano dal 14 all’8,7 per cento. Perdono più di tutti proprio loro che nel 2001 con l’allora cancelliere Wolfgang Schuessel sdoganarono la destra allora guidata da Haider. Fino a provocare proteste al tradizionale ballo delle debuttanti di Vienna, per la presenza annunciata della vice-cancelliera Fpoe. L’Austria è in prima linea nell’accoglienza dei migranti in fuga, che arrivano in transito dall’Ungheria. I più proseguono verso Germania e Svezia. Ma ogni giorno Strache tuonava: "Gli austriaci diverranno minoranza, circondati da minareti e veli". Disoccupazione (8,4%) e debole crescita economica alimentano malumori anche a Vienna da anni prima in classifica mondiale per qualità della vita. Con Angela Merkel contestata da elettori e partito per le porte aperte ai migranti, con Marine Le Pen alta nei sondaggi, con Orbàn a casa più forte che mai, la "rivoluzione d’ottobre" sinistramente evocata da Strache non è ancora arrivata, ma resta minacciosa in tutta l’Unione. Strage ad Ankara: uomini i due kamikaze, ipotesi su responsabilità dell’Isis di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2015 Sono due kamikaze, entrambi uomini, gli autori della strage di sabato mattina ad Ankara. Lo ha reso noto l’ufficio del premier turco, Ahnet Davutoglu, che ha anche aggiornato a 97 il numero dei morti nell’attentato, di cui 92 sono già stati identificati. La nota dell’esecutivo mette la parola fine alle indiscrezioni circolate dopo l’attentato secondo cui uno dei due attentatori suicidi sarebbe stato una donna. Nella nota dell’ufficio di Davutoglu si spiega che la polizia sta ancora cercando di identificare i due kamikaze e quindi non si conferma la notizia che uno dei due sia il fratello ventenne dell’autore della strage del 20 luglio a Suruc, vicino al confine con la Siria, in cui morirono 33 filo-curdi e che fu rivendicata dall’Isis. Le prime indagini sulla strage di Ankara indicano che potrebbe trattarsi di un’azione dell’Isis. Lo dicono fonti della sicurezza turca, citate dal sito Bugun: "L’attacco è nello stile di Suruc, tutti i segnali indicano che è una copia di quell’attacco". Oltre ai 97 morti ci sono almeno 186 feriti, 28 dei quali sono ricoverati in terapia intensiva, vittime delle due esplosioni nei pressi della stazione centrale di Ankara, dove - con la partecipazione di centinaia di persone - prima delle 10 di sabato mattina stava per iniziare una manifestazione pacifista per chiedere la fine del conflitto che le forze di sicurezza hanno ingaggiato contro i separatisti curdi del Pkk, nel sud-est del Paese. La Turchia precipita di nuovo nell’instabilità a venti giorni dalle elezioni del 1° novembre. Condannando quello che era stato subito definito da fonti del governo come un attacco terroristico, il presidente Recep Tayyep Erdogan ha assicurato che gli autori della strage saranno consegnati alla giustizia: "Qualunque sia l’origine - ha detto Erdogan - è necessario opporsi a tutti i terroristi". Le esplosioni sono state due, avvenute a tre secondi di distanza l’una dall’altra. Davutoglu ha anche annunciato 3 giorni di lutto nazionale. Le vittime sono per lo più manifestanti; tra i corpi, secondo le testimonianze, molti striscioni e bandiere, tra cui quelle del Partito democratico del popolo (Hdp), l’opposizione filo-curda. Davutoglu: "Nessuna rivendicazione, ma Isis, Pkk e Dhkp-c tra i sospetti". Il premier ad interim Ahmet Davutoglu ha detto che "questo attentato non ha colpito un singolo gruppo, cittadini che si erano riuniti per una marcia o una comunità politica: ha colpito il nostro popolo per intero". "E poiché andiamo verso elezioni (il primo novembre prossimo, ndr), questo attentato ha puntato direttamente contro la democrazia e i diritti democratici e la libertà". "Oggi è il giorno di stare uniti, fianco a fianco", ha aggiunto. "È l’episodio più doloroso della storia della repubblica". "Nessuno ha rivendicato le esplosioni, ma Isis, Pkk e Dhkp-c (estrema sinistra, ndr) sono potenziali sospetti. Negli ultimi tre giorni a Istanbul e Ankara sono stati arrestati diversi potenziali kamikaze", ha rilevato ancora Davutoglu, precisando che a Istanbul si trattava di un membro del Dhkp-c, sigla di estrema sinistra. "È una nostra responsabilità comune quella di proteggere la nostra popolazione", ha detto ancora Davutoglu, sottolineando di guidare un governo ad interim che non è il governo dell’Akp. Il premier turco ha inoltre ringraziato per i messaggi di cordoglio e solidarietà giunti da tutto il mondo. Davutoglu ha annunciato inoltre l’intenzione di incontrare i leader dei partiti di opposizione socialdemocratico Chp e nazionalista Mhp, ma non del filo-curdo Hdp. Obiettivo destabilizzare Chi sono autori e mandanti dell’attentato più spaventoso mai compiuto in Turchia contro la società civile che ieri marciava per la pace con i curdi? A venti giorni dalle elezioni c’è una strategia della tensione per destabilizzare la Turchia. La Turchia è già in guerra su due fronti, dentro e fuori il Paese: gli indiziati vanno dai militanti del Califfato al "deep state", lo Stato profondo, intreccio di forze oscure che si muove da sempre sotto la superficie della politica, tirato in ballo quando non si trovano spiegazioni plausibili. Ma la spiegazione più attendibile è proprio nella fase che attraversa la Turchia, la più critica della sua storia recente. Quanto sta accadendo è il risultato della ripresa del conflitto nelle zone curde, ricominciato dopo la rottura della tregua con il Pkk, e delle politiche di un governo che con il passaggio di migliaia di jihadisti ai confini con la Siria, lanciati con l’obiettivo di abbattere il regime di Assad, ha alimentato una destabilizzazione regionale fuori controllo. Sul fronte esterno il problema di Erdogan è il fallimento della guerra ad Assad, su quello interno il successo elettorale dei curdi del partito Hdp che gli ha sottratto in giugno la maggioranza assoluta, al punto che per alzare il tiro e polarizzare il Paese ha dato mano libera alle forze armate contro il Pkk: il risultato sono stati centinaia di morti tra i curdi e dozzine tra i militari, che peraltro hanno adottato metodi inaccettabili colpendo duramente non solo i combattenti ma soprattutto i civili. I filmati mostrano Cizre rasa al suolo come una città siriana. Non potendo vincere la guerra ad Assad, complicata dall’intervento militare della Russia, Erdogan ha tentato di eliminare i curdi all’interno e si è alleato con le frange più nazionaliste. Erdogan, come ha dichiarato a Bruxelles durante la sua recente visita, qualifica ormai tutti i curdi come terroristi, siriani anti-Isis e Hdp compreso per i legami con il Pkk, sperando che la deriva ipernazionalista lo salvi dalla sconfitta elettorale. L’Europa ha bisogno di lui per accogliere due milioni di migranti e non ha replicato a queste dichiarazioni mentre per anni Francia e Germania avevano accusato Ankara di mancato rispetto degli standard democratici. Non c’è da stupirsi se ora arrivano gli attacchi kamikaze: la Turchia è vittima delle politiche spericolate di Erdogan, incoraggiate dall’Occidente, e ora la guerra di Siria si salda con il conflitto in Kurdistan. Per essere un Paese membro della Nato, la Turchia di Erdogan in questo periodo aveva posto più problemi di quanti ne risolvesse. Gli americani hanno duramente negoziato per ottenere la base di Incirlik e i turchi insistono ancora per insediare in territorio siriano una fascia di sicurezza dai contorni incerti. Alla Turchia destabilizzata, bastione sempre più fragile dell’Alleanza atlantica e tenuta sdegnosamente nell’anticamera dall’Unione Europea, oggi non resta che buttarsi nelle braccia della Nato e dell’Europa che dopo avere snobbato a lungo Erdogan lo corteggia perché disponibile a tenersi in casa i profughi siriani. Una sorta di unione obbligata tra debolezze strategiche che hanno sbagliato le scelte nel quadrante mediorientale e oggi, nell’ora del terrore, fanno causa comune ma con obiettivi assai diversi. In piazza contro Erdogan, il governo accusa l’Isis della strage e bombarda i curdi di Marco Ansaldo La Repubblica, 12 ottobre 2015 Gas lacrimogeni contro i manifestanti. Le madri dei ragazzi uccisi da due kamikaze respinte mentre vengono a deporre fiori sulle mattonelle sporche di sangue. Le lacrime alla morgue. "Le vittime sono 128". Raid sui guerriglieri in Kurdistan. Bandiera a mezz’asta. Tre giorni di lutto. Telegiornali e quotidiani concentrati unicamente sulla "bomba che ha colpito i nostri cuori", come si legge su Hurriyet. "Che siano maledetti", urla un altro quotidiano, Sozcu. Ma le madri dei ragazzi morti alla stazione di Ankara, venute qui a baciare le mattonelle dove hanno ammazzato i loro figli, non hanno la forza di inveire a lungo. Piangono. E non riescono nemmeno a poggiare quattro garofani rossi sul selciato dove sabato mattina più di cento pacifisti, in maggioranza simpatizzanti della causa curda, sono saltati in aria per un impasto di tritolo misto a biglie piazzato nella cintura di due kamikaze. La polizia allontana tutti. "Le indagini sono in corso", gridano. Agenti in tuta bianca e con i copri-scarpe sintetici continuano a raccogliere reperti. Da un palco, il leader del partito curdo, Selahattin Demirtas, giacca nera e camicia grigia, scende per strada. Ha nuovamente invitato tutti alla calma, accusando però il governo di inefficienza. "Oggi siamo in lutto - ricorda - tuttavia la nostra presenza è testimonianza dell’umanità che non si arrende di fronte a una minaccia occulta". Solo dopo una lunga trattativa viene ammesso a mettere a terra la bandiera del suo partito là dove 24 ore prima ne sventolavano centinaia. C’è ancora sangue. Oggi la Turchia piange i suoi morti. Ma quanti sono esattamente? Il governo è fermo a 95, la cifra dell’altro ieri. Il partito curdo ne lamenta invece 128. Ai quali tocca aggiungere altri 49 uccisi ieri, tutti guerriglieri, sulle montagne del Kurdistan turco, abbattuti dai caccia dell’aviazione. Il Pkk ha proclamato inutilmente il cessate il fuoco. Entrambi i lati del confine, quello turco e quello iracheno, nascondono le basi dei ribelli. E la guerra così riprende anche sul fronte militare. I curdi appaiono sotto tiro ovunque: nelle piazze, come l’altro ieri ad Ankara, o a giugno nella strage di Diyarbakir, o a luglio nel massacro dei 33 ragazzi morti a Suruc, al confine con la Siria. E, da quello stesso mese, cioè da quando il Presidente Tayyip Erdogan ha accettato di schierarsi con la coalizione internazionale per attaccare il Califfato in Siria, non passa giorno che i raid turchi non sgancino qualche bomba sui villaggi del sud est dell’Anatolia o del Nord Iraq. Poca chiarezza, finora, anche sugli attentatori della stazione. A farsi saltare in aria sarebbero stati due kamikaze, entrambi uomini. Lo dice alla sera il capo dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, dopo aver incontrato il premier Ahmet Davutoglu. "Mi hanno dato informazioni sull’attentato: capirete che non posso dare dettagli", spiega ai giornalisti subito dopo l’incontro. "Tuttavia, non hanno fatto i nomi di nessuna organizzazione". Uno dei due sarebbe stato identificato. Si tratta di un uomo di 20-25 anni. Sarebbero riusciti a recuperare frammenti di impronte digitali dai resti dell’ordigno. Il giornale Haber-turk sospetta che possa essere il fratello maggiore dell’attentatore di Suruc. In mattinata, invece, si era fatta insistente la voce di una donna kamikaze. Nebbia totale, però, su chi li abbia mandati a compiere la strage. Fonti della sicurezza turca sono tutte su una sola pista: "Questo attentato è nello stile di Suruc, e tutte le tracce dicono che è stato una copia dell’altro… Questo porta al Califfato Islamico". E una seconda fonte conferma: "Tutti i segnali ci indicano che l’attentato possa essere stato realizzato dai jihadisti: siamo completamente focalizzati su di loro". Verso lo slargo della stazione si dirigono migliaia di persone: altre centinaia si affollano per l’intera giornata davanti alla camera mortuaria cittadina, in attesa di notizie. Nel centro città, la gente deve però accontentarsi di incontrarsi sulla piazza Sihhiye, poco lontano dal luogo dell’esplosione. C’è un momento in cui la polizia carica, sfoderando i gas lacrimogeni per disperdere quelli che vogliono raggiungere il punto esatto dove sabato i due kamikaze si sono fatti saltare in aria. Gli animi si accendono. Partono degli slogan. I manifestanti hanno come obiettivo Erdogan: "Assassino", "ladro", "dimettiti". Sono le stesse parole che si sono sentite alle manifestazioni di protesta a Istanbul e a Diyarbakir: migliaia le persone in piazza. Dice un impiegato che lavora in un ufficio non lontano dalla stazione di Ankara: "Io non voglio che Erdogan finisca come Gheddafi. Mi basta che perda alle elezioni del 1 novembre, che la Turchia abbia una governo rappresentato da più partiti e non più solo dal suo, e che lui se ne vada all’estero e non si faccia vedere mai più. Lui e la sua famiglia. Il figlio Bilal, che è venuto da voi in Italia, a Bologna, ha già cominciato fare i bagagli". I poliziotti hanno finito la carica. Il lancio dei gas, ora, fa scappare tutti. Non c’è silenzio, non c’è lutto, anche se le bandiere restano giù. Questo è un altro giorno di ordinario dolore, nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan. La risposta, se ci sarà, potrà venire solo dalle urne, fra poco più di quindici giorni. Quel sorriso sul pullman in viaggio verso la morte di Adriano Sofri la Repubblica, 12 ottobre 2015 Virale in rete il selfie di Dijle Deli nel bus che la portava con i suoi compagni al corteo e alla strage. Le foto degli ultimi istanti, una sfida alla censura imposta sul massacro. Una delle fotografie della strage di Ankara ha colpito in modo particolare le persone, a giudicare dai passaggi che ha avuto nella rete. Non è una "bella" fotografia, nel modo in cui si dicono belle anche fotografie dolorose e struggenti. Non è nemmeno della strage, in verità. Ci stanno andando, alla strage. In primissimo piano c’è la ragazza che l’ha scattata, un selfie di gruppo; dietro ha i suoi compagni di viaggio, sui sedili del pullman, che sorridono e salutano con le due dita levate. Solo due donne meno giovani e con la testa coperta tengono più quietamente le mani in grembo. La ragazza, una studentessa, si chiama Dijle Deli, e ha postato la fotografia accompagnata dalla didascalia: "Siamo venuti ad Ankara a portare la pace". Ha un viso molto bello, come conferma su Facebook la foto del suo profilo, che ha aggiornato a luglio per avere un oleandro fiorito sullo sfondo. Anche nelle altre foto ha un trucco colorato ed elegante, ma non dev’essere molto vanitosa: nel selfie il sole ha abbagliato il naso facendolo sembrare un nasone. Le altre foto del suo profilo erano dedicate alle giovani combattenti curde del Rojava, e al nome di Kobané. Le cronache informano che i ragazzi del pullman venivano da Malatya, capoluogo di provincia di 400 mila abitanti nell’Anatolia orientale, erano aderenti al Chp, il Partito Popolare Repubblicano, il più antico della Turchia, oggi all’opposizione. Dei passeggeri del pullman, 11 sono morti, 4 feriti, tre sono scampati perché erano andati a comprare da bere, e speriamo che sappiano perdonarselo. C’è un’altra fotografia presa in un pullman che va alla strage, questa volta vengono da Adana. Non è un selfie, sono quasi tutti uomini, giovani i più, e anche qui fanno allegri il segno della vittoria: nei primi sedili uno, meno giovane, si è addormentato, e un altro dal sedile accanto lo guarda dormire. Forse l’affetto che queste fotografie si procurano nella rete sta proprio nella loro ordinaria normalità: senza la strage, si potrebbe dire che "sono venute un po’ male". Ma c’è stata la strage. C’è l’ovale di Sebnem Yurtman, una ragazza - quasi una bambina - di Emep, il Partito del Lavoro, un partitino marxista-leninista. C’è la foto di una giovane donna, Kubra Meltem Mollaoglu, accanto al suo leader, Selahattin Demirtas, il prestigioso copresidente del Hdp, il Partito democratico dei popoli. E tanti altri scatti: un risarcimento al pazzesco divieto del governo turco di mostrare le immagini della strage, perfino di andare a mettere un fiore sul suo luogo. Queste foto fanno sentire gli altri, quelli che erano alla manifestazione o che avrebbero potuto esserci, come dei superstiti. Ieri, a Istanbul, giravo in cerca di eventuali dimostrazioni, in centro, a Besiktas, e non ne ho trovate, ma a un certo punto ho avuto l’impressione che fosse tutta una manifestazione, che le persone, e la miriade di ragazzi che popola la città bellissima, avessero l’aria di muoversi come per andarci, o tornarne. Ci fu un tempo in cui le persone si facevano la fotografia per la tomba: in bianco e nero, naturalmente, e con una posa seria, già quasi postuma. C’erano fotografi specializzati. Poi anche sulle lapidi dei cimiteri arrivarono i colori e le pose scanzonate, che rimpiangevano la vita, invece di disporsi all’aldilà. Ora le immagini sono destinate a durare il tempo della trasmissione, a illustrare un messaggio o viceversa, e finire la loro vita di insetto: salvo che intervenga la disgrazia, o il crimine. Le televisioni hanno ritrasmesso all’infinito il video della prima fila della manifestazione, coi giovani che cantano e danzano, e l’esplosione alle loro spalle. Fra le immagini fermate di quella sequenza, c’è un momento in cui i giovani ancora cantano e ballano, non si sono ancora piegati per la paura e l’urto, e già alle loro spalle c’è il bagliore: come un fulmine non visto che precede lo scoppio. L’infamia si gioca in quell’intervallo minimo, fra il ballo e il canto di pace e il programma di morte. Infatti c’è qualcuno che le guarderà, le avrà guardate, alla rovescia, tutte queste immagini, pieno di odio per le facce dei ragazzi che salutano con le dita a V, per l’uomo coi baffi che tiene in braccio la bambina, per il macchinista col papillon e la sposa in bianco col bouquet di fiori; e pieno di tripudio per i corpi squartati e i visi sbigottiti. Ci saranno stati anche i selfie e le fotografie e i video degli attentatori suicidi, martiri della propria miserabilità e dell’avidità dei loro mandanti. Gireranno anche quelli sui social media, si prenderanno la loro dose di approvazioni e devozioni. Il mondo è così, ha una faccia doppia. È una gran fortuna stare dalla parte del selfie di Dijle Deli, e bisogna fare in modo di meritarsela. Guatemala: "Samuele lascerà il carcere", diplomazie al lavoro per il volontario lecchese di Daniele De Salvo Il Giorno, 12 ottobre 2015 La sorte di Samuele Corbetta sta tenendo in apprensione i genitori, certi della sua innocenza L’ambasciatore italiano in Guatemala ha avuto assicurazioni sul trattamento rispettoso in carcere. La sorte di Samuele Corbetta sta tenendo in apprensione i genitori, certi della sua innocenza L’ambasciatore italiano in Guatemala ha avuto assicurazioni sul trattamento rispettoso in carcere Samuele non è solo, lo Stato non lo ha dimenticato, alla Farnesina, dopo l’appello lanciato dai genitori dalle pagine del nostro giornale, stanno lavorando freneticamente per garantirne l’incolumità e riportarlo il prima possibile a casa. Lo assicura Fabrizio Pignatelli della Leonessa, l’ambasciatore italiano in Guatemala impegnato costantemente per risolvere il caso di Samuele Corbetta, il volontario di 34 anni di Sirtori condannato a otto anni di carcere al termine di un processo - che secondo i familiari sarebbe una farsa - per l’infamante reato di abusi su una minore, che già da quasi due anni e mezzo sta scontando la pena in una prigione dello stato centroamericano. Attualmente è detenuto in un carcere preventivo di massima sicurezza, il timore è che possa essere trasferito in un penitenziario comune, dove non sopravvivrebbe a lungo. "Dal nostro ministero degli Esteri hanno convocato a rapporto i rappresentanti guatemaltechi a Roma - spiega l’importante esponente diplomatico -. Sono state chieste rassicurazioni formali sul trattamento riservato al nostro concittadino a cui teniamo molto perché è un giovane eccezionale". Il caso è all’attenzione del ministro Paolo Gentiloni e dei sottosegretari. Lui stesso si sta impegnando in prima persona, è andato a trovarlo dietro le sbarre: "Sta bene, ha un carattere molto forte, si trova in un braccio speciale, dispone di una propria camera, lavora e insegna la nostra lingua agli altri". Ha parlato di recente con il viceministro degli Esteri del Guatemala e con il responsabile dell’amministrazione carceraria che hanno ribadito che da dove è adesso non verrà spostato. Nonostante si attenda il pronunciamento dei magistrati della Suprema corte del posto, ai quali è stato depositato un ricorso contro il verdetto di colpevolezza, le speranze di un ribaltamento della sentenza sono poche, significherebbe tra l’altro ricominciare l’iter penale, i tempi si allungherebbero ulteriormente. "La situazione politica in Guatemala in questo momento è complicata, con i nostri legali riteniamo che la strada migliore sia quella di ottenere il dimezzamento della condanna per buona condotta. Stiamo già lavorando per presentare l’istanza". Sono in corso però pure trattative per stipulare accordi bilaterali per lo "scambio" di detenuti, alcune bozze dei testi sono pronte, ma non è un’impresa semplice e nemmeno breve, probabilmente se e quando verranno ratificati potrebbe già essere tornato in Brianza da uomo libero. "Di certo non lo abbandoneremo. Per noi Samuele rappresenta una priorità". Israele: il Governo approva l’inasprimento delle condanne contro i "lanciatori di sassi" Nova, 12 ottobre 2015 Il governo israeliano ha approvato oggi all’unanimità le misure che innalzano le pene (dai 2 ai 4 anni di carcere) per i cosiddetti "lanciatori di sassi" palestinesi. Le disposizioni prevedono anche multe ai genitori dei minori coinvolti negli scontri con le forze di sicurezza. Intanto circa 50 palestinesi stanno protestando nei pressi del confine tra Gaza e Israele, tentando di forzare il posto di blocco eretto dalle forze di sicurezza. Una donna incinta di 30 anni e suo figlio di due anni sono morti stanotte in un raid dell’aviazione israeliana a Gaza partito in risposta al lancio di un razzo. Lo ha annunciato il portavoce del ministero della Sanità di Gaza, Ashraf al Qedra, secondo cui le vittime sono decedute sotto le macerie in seguito al cedimento strutturale dell’abitazione dopo che i raid avevano colpito un sospetto deposito di munizione nelle vicinanze. Altre quattro persone, tutte familiari delle vittime, sono rimaste ferite. Questa mattina una donna palestinese ha azionato un dispositivo esplosivo al grido di "Allah è grande" all’interno della propria auto a un posto di blocco della polizia nei pressi di Gerusalemme, ferendo un agente. La donna e il poliziotto sono stati ricoverati rispettivamente al policlinico di Hadassah di Ein Karem e al centro medico di Shaare Zedek di Gerusalemme. L’agente ha riportato lesioni di lieve entità, mentre la donna ha subito ferite più serie. Secondo quanto riferisce il sito internet del quotidiano "Haaretz", undici palestinesi hanno perso la vita negli scontri tra militanti e forze di sicurezza dello Stato ebraico iniziati venerdì scorso lungo il confine tra Gaza e Israele. Medio Oriente: Barghouti dal carcere "causa violenze è la liberta negata ai palestinesi" Askanews, 12 ottobre 2015 Dalla sua cella nel carcere di Hadarim, il leader palestinese Marwan Barghouti ha rivolto un appello alla comunità internazionale affinché affronti con convinzione "le cause della violenza tra palestinesi e israeliani: vale a dire la negazione della libertà dei palestinesi". Nel suo messaggio - scritto al quotidiano britannico The Guardian, il primo intervento su un media internazionale dal 2002, all’apice della seconda Intifada - Barghouti ha anche reso omaggio alla "nuova generazione di palestinesi" che resiste all’occupazione israeliana. "Il vero problema - denuncia Barghouti - è che Israele ha scelto l’occupazione invece della pace e utilizza i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto colonialista". L’intervento di Barghouti - che molti considerano come il presidente palestinese in pectore - precede di pochi giorni l’incontro del Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) che dovrà tentare di riprendere le fila del dialogo tra Israele e palestinesi. "L’escalation delle violenze - scrive Barghouti - non è iniziata con l’uccisione dei due coloni israeliani. È iniziata molto tempo prima e va avanti da anni. Ogni giorno ci sono palestinesi uccisi, feriti, arrestati". "Ogni giorno i coloni avanzano, continua l’assedio di Gaza, prosegue l’oppressione e l’umiliazione (...) come ho già fatto nel 2002 continuo a chiedere che vengano affrontate le cause della nuova spirale di violenza: la negazione della libertà dei palestinesi". Commentando l’ultima ondata di proteste, Barghouti ha lodato "la nuova generazione palestinese che non ha atteso istruzioni per rivendicare i propri diritti, il proprio dovere di resistere all’occupazione. Lo fa a mani nude, di fronte a una delle potenze militari più forti al mondo". Barghouti ha anche messo in guardia Israele per il suo comportamento sulla Spianata delle Moschee che rischia di "trasformare un conflitto politicamente risolvibile in una guerra religiosa senza fine che destabilizzerà ulteriormente una regione che ha già vissuto tumulti senza precedenti". Cinquantasei anni, Barghouti, una delle più importanti figure della prima e seconda Intifada, è stato arrestato da Israele nel 2002 e condannato per omicidio. Iran: stringe la mano al suo avvocato, attivista detenuta accusata di "condotta indecente" Ansa, 12 ottobre 2015 Attivista in carcere accusata di "condotta indecente" e "relazione sessuale inappropriata": è bastata una stretta di mano con l’avvocato ad attirare l’ennesimo anatema sulla disegnatrice e attivista iraniana Atena Farghadani, 29 anni, costretta - secondo Amnesty International - a subire persino un test di verginità e gravidanza nel carcere in cui è rinchiusa. L’episodio che ha scatenato l’ira delle autorità giudiziaria della Repubblica Islamica risale a giugno, ma la sezione britannica di Amnesty lo denuncia oggi nel suo sito, dopo aver appreso i dettagli della vicenda grazie ad una direttiva trapelata due giorni fa dal famigerato penitenziario di Evin, a Teheran, in cui si ordinava appunto la visita ginecologica coatta nei confronti della giovane donna. Atena è detenuta da diversi mesi ed è stata già condannata a 12 anni e 9 mesi per "oltraggio", ma anche per "attentato alla sicurezza nazionale" e "diffusione di propaganda a ostile alle istituzioni", a causa delle sue idee anticonformiste e di alcune vignette che hanno preso di mira esponenti del parlamento e la guida suprema in persona, ayatollah Alì Khamenei. Nell’appello diffuso dal sito, Amnesty International torna a invocarne la liberazione, in nome dell’impegno preso dallo stesso presidente Hassan Rohani per il consolidamento d’uno stato di diritto nel Paese, affermando che si tratta di "una prigioniera di coscienza", di una donna che non ha compiuto "alcun vero reato". Una donna "ingiustamente punita solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione e di associazione". Prelevata in casa nell’agosto 2014 da un drappello di pasdaran della Guardia rivoluzionaria, custodi dell’anima più intransigente della rivoluzione khomeinista, Atena fu bendata, malmenata e trascinata in carcere dopo una perquisizione e la confisca di oggetti personali e documenti. Rilasciata a novembre è stata poi di nuovo arrestata sei settimane più tardi dopo aver denunciato in un video postato su You Tube i maltrattamenti in cella e gli interrogatori da nove ore al giorno subiti. È seguito un periodo d’isolamento in prigione, senza poter vedere il legale né i familiari, un nuovo rilascio e quindi l’ultima incarcerazione a gennaio, con altre denunce di percosse, l’avvio di uno sciopero della fame di protesta, il peggioramento delle condizioni di salute. Nel frattempo è intervenuta la condanna e la detenzione prosegue. Ma non basta. A giugno la stretta di mano con l’avvocato difensore Mohammad Moghimi, spiata dalle guardie, ha rappresentato l’inizio di un’ennesima odissea. Moghimi è stato a sua volta arrestato per un gesto bollato dagli inquisitori come "al limite dell’adulterio" e rimesso in libertà nel giro di tre giorni solo dopo aver pagato una cauzione pari a 60.000 dollari, ma resta sotto accusa. Come la sua assistita, che rischia un’ulteriore condanna, senza contare l’umiliazione del "controllo" sulla sua illibatezza. Per Amnesty ce n’è più che abbastanza. L’opinione pubblica internazionale, si legge nell’appello, deve unirsi nel chiedere all’Iran che Atena Farghadani "sia rilasciata e restituita alla famiglia. Perché lei non ha commesso alcun crimine". Iran: il giornalista americano Jason Rezaian condannato per spionaggio Agi, 12 ottobre 2015 Un tribunale iraniano ha condannato il giornalista americano Jason Rezaian, capo della redazione del Washington Post a Teheran, in carcere da un anno per accuse di spionaggio. "Non ho i dettagli della sentenza", si è limitato a dire il portavoce della procura generale, Gholamhossein Ejei, a chi gli chiedeva quale sia l’entità della pena. Sia gli Stati Uniti sia il quotidiano per cui lavora il reporter hanno sempre affermato che le accuse mosse contro Rezaian sono prive di fondamento. I suoi legali hanno adesso 20 giorni di tempo per ricorrere in appello. La sentenza è destinata a mettere in imbarazzo la Casa Bianca, che dopo l’accordo on Teheran sul nucleare si aspetta dalla Repubblica islamica un atteggiamento morbido e diplomaticamente disponibile a sanare le ferite nelle relazioni tra i due paesi. Proprio un mese fa era stato il potente Ali Larijani, presidente del parlamento, a lasciar intendere che Rezaian, che ha la doppia nazionalità, sarebbe potuto diventare oggetto di uno scambio con prigionieri iraniani negli Stati Uniti. Ali Rezaian, fratello del giornalista, aveva fatto notare venerdì corso che i giorni trascorsi in carcere dal reporter erano 444, ovvero la stessa durata del sequestro di personale diplomatico avvenuto a Teheran nel 1979 con la presa dell’ambasciata americana. Ancora oggi il Dipartimento di Stato aveva chiesto che decadessero le accuse contro Rezaian e che il giornalista trentanovenne, imputato di aver passato informazioni confidenziali a nazioni ostili all’Iran, fosse "immediatamente rilasciato". Altri due cittadini americani sono nelle mani delle autorità di Teheran: Saeed Abedini, pastore cristiano e Amir Hekmati, ex sergente dei marines. Dal 2007 si sono perse, invece, le tracce di Robert Levinson, investigatore privato. Mauritania: ispettore generale delle carceri visita i detenuti salafiti in sciopero della fame Nova, 12 ottobre 2015 L’ispettore generale delle carceri mauritane, Sidi Mohammed Aal Lasafr, ha fatto visita ieri ai detenuti salafiti in sciopero della fame da una settimana. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa mauritana "Ani", l’ispettore si è trattenuto a lungo con i detenuti salafiti per discutere delle loro richieste anche se non sono mancati omenti di tensione dopo l’intervento del capo delle guardie di sicurezza. L’ispettore ha però chiesto all’ufficiale di uscire dalla cella ed ha chiesto alla direzione del carcere di rispettare i diritti dei detenuti. Da giorni le Ong mauritane chiedono alle autorità di intervenire mentre i detenuti salafiti sono in sciopero della fame non solo per chiedere migliori condizioni carcerarie ma anche una revisione dei loro processi.