Di un carcere così provo eufemisticamente terrore don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) La Difesa del popolo, 11 ottobre 2015 Quella italiana è la Costituzione più bella del mondo. Quando parla dei detenuti, l’umano più detestabile, sembra quasi superarsi: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27). Che sia la più bella non significa, però, che sia la più rispettata: siamo davvero convinti che la sfida che abita le galere sia quella di rieducare il detenuto? Rieducare è un verbo bellissimo che odora di manovra e di manovalanza, di rischio e di profezia, di avvedutezza e di trama, di passione e di umanità. Far diventare storia questo verbo dentro le galere, non è da tutti: occorre essere umani fino in fondo, spassionatamente poeti più che generali d’armata. Uomini di cuore, non caporali d’esecuzione. Il carcere "Due Palazzi" di Padova, negli anni, da Costituzione è diventato storia feriale, grazie alla guida di un uomo, Salvatore Pirruccio, che ha saputo coniugare il rispetto della giustizia con l’intuito della misericordia. Un uomo la cui furbizia non è stata tanto la logica del sotterfugio e del carrierismo quanto l’aver ceduto la scena alla fantasia della carità. Rimanendo dietro le quinte, ha diretto e messo in scena il buon cuore di uomini e donne che, assieme a lui, negli anni hanno condiviso un sogno da giganti: l’uomo, ovunque esso si sia ficcato, è una scommessa che si può addirittura vincere, non solo giocare. Il carcere, a Padova, nell’immaginario collettivo non è più solo una galera: è un incrocio di scuole, un panettone fragrante, una parrocchia-ospedale-da-campo. Oltre ancora: storie riconciliatesi con le vittime, riconciliatesi anche con Dio, riconciliatesi soprattutto con se stesse. Storie rieducate, nel senso più nobile. C’è un mondo che guarda a tutto ciò come ad una speranza che rimane quando tante speranze sono morte: non è più impossibile, qualcuno ci riesce, proviamoci! È il tam-tam dell’emulazione, del contagio di una passione. In un carcere così, non sembra nemmeno d’essere in carcere: lo dicono le migliaia di persone che ci entrano a far visita, lo dicono i generali "a spasso" sotto le elezioni, lo dicono loro, soprattutto: i detenuti che, sentendosi valorizzati, mettono in libertà il meglio di loro stessi. È lo spettacolo più bello da vedere: l’uomo che si rialza, il peccatore che si redime, il lupo fregato dalla bellezza. Un direttore-educatore come Salvatore Pirruccio dev’essere tolto dalla circolazione, con effetto immediato. È deleterio al sistema: c’è il rischio che altri lo prendano come modello, investendoci davvero nell’uomo, non per finta. È anche l’occasione per una lezione da lasciare ai suoi seguaci: la bontà, dietro le sbarre, ha le ore contate. Qui l’uomo deve patire e abbruttirsi il più possibile. Con buona pace di chi pensava che la Costituzione più bella fosse anche la più praticata. Giustizia: noi e la paura di una guerra mondiale di Franco Venturini Corriere della Sera, 11 ottobre 2015 La formula di papa Francesco sulla Terza guerra mondiale "a pezzettini" si dimostra ogni giorno più tragicamente esatta. L’ultimo pugno nello stomaco ci viene da Ankara, in Turchia, con la strage di giovani che ieri manifestavano per la pace. Molti di loro avevano l’età dei nostri figli. Ma serve davvero a qualcosa domandarsi chi abbia indottrinato e armato chi ha causato la strage? I siriani che hanno ogni interesse a destabilizzare la Turchia, gli iraniani per lo stesso motivo, la fazione più dura dei curdi in lotta con quella più moderata, gli agenti di Erdogan, che spera di strappare la maggioranza assoluta alle elezioni del primo novembre? L’impressione, piuttosto, è che in una ampia zona del mondo che chiamiamo Medio Oriente ma che tocca l’Europa e l’Africa i "pezzettini" di Francesco si stiano ricompattando in una guerra globale a noi vicinissima, che sarebbe autolesionista tentare di ignorare o di sminuire. Il rapporto tra civiltà occidentale e civiltà islamica non è diventato complesso e conflittuale per una deriva storicamente fatalista come quella prevista da Huntington, ma piuttosto perché in entrambi i campi la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’ordine dei blocchi ha fatto esplodere crisi interne di cui non si vede la fine. L’Occidente ha "perso" il nemico sovietico (anche se ora tenta di ritrovarlo con la generosa complicità dal Cremlino) e fatica a mantenersi unitario in un mondo che spinge piuttosto alla competizione economica e strategica. Fenomeno questo aggravato dal palese indebolimento della leadership americana e dal fallimento delle ambizioni europee sulla "voce unica" in politica estera. Ma la crisi del mondo islamico è molto più grave della nostra: è guerra senza quartiere tra sunniti e sciiti, è corsa alle interpretazioni più estreme del Corano, è odio incrociato tra fazioni e Stati (anche se il Nobel alla Tunisia segnala l’esistenza di eccezioni). Le due crisi, quella occidentale e quella islamica, si scontrano confusamente in una partita che ha per posta la difesa per gli uni, e la distruzione per gli altri, dell’ordine geografico e politico che i colonizzatori occidentali credettero di poter imporre dopo la caduta dell’impero ottomano. Con l’aggravante che oggi sono ben più chiare, oltre alle contrapposizioni religiose, anche le mappe di enormi ricchezze. E che nei decenni si sono aperte ferite che paiono insanabili almeno fino a quando sulla scena globale non arriveranno statisti di levatura diversa rispetto a quelli che oggi non riescono a tenere il timone degli equilibri mondiali. È in questa cornice che i "pezzettini" di guerra interagiscono e creano le premesse di un grande, tragico falò. In Siria si spara e si polemizza, ma si tende spesso a dimenticare che lì nasce la minaccia che sta agendo da grimaldello guerrafondaio nei confronti di tutte le altre parti: l’Isis, il nemico numero uno, ma di chi? Dell’Europa di certo, anche per la paura di nuovi attentati terroristici. Della Russia al pari di altri, visto che i molteplici obbiettivi di Putin sono salvare Assad, colpire i jihadisti provenienti dal Caucaso e piantare la bandiera per eventuali negoziati oppure, più probabilmente, in vista di una eventuale spartizione territoriale della Siria. Degli Stati Uniti l’Isis è il nemico principale, ma nemico è anche Assad (e qui le due strategie diventano incompatibili) ed è nemica strategica una Russia che ha occupato fulmineamente lo spazio vacante lasciato dagli Usa. E che dire degli altri, mentre piovono bombe che non si sa bene chi colpiscano e volano missili che non si sa bene dove cadano? La Turchia colpisce i curdi più dell’Isis ed è contro Assad. Dunque è contro l’Iran, che non vuole stare con la Russia, ha rapporti ancora guardinghi con gli Usa, ma sta con Assad perché pensa alla difesa dello schieramento sciita. Per il motivo opposto l’Arabia Saudita sta con i sunniti dunque contro Assad, e ha inizialmente finanziato l’Isis. Fermiamoci qui, per la Siria, anche se si potrebbe continuare. E in Iraq? I fronti schierati contro il Califfato sono più chiari, ma spesso divisi al loro interno tra componenti sciite e componenti sunnite impegnate comunque contro l’Isis. È nell’aiuto a queste ultime che bisognerebbe fare di più, perché soltanto una maggioranza di sunniti può davvero sconfiggere i sunniti estremisti dell’Isis. E se l’Italia manterrà le promesse fatte agli Usa i nostri Tornado potranno dare un piccolo contributo in questo senso, oltre a confermare l’appoggio ai curdi. Nel frattempo il Libano e la Giordania sono stati resi più fragili (come la Turchia) dall’enorme afflusso di profughi siriani. Nello Yemen avvengono massacri circondati dalla disattenzione generale. Israele non vuole una terza Intifada, ma i palestinesi sembrano invece decisi ad attuarla anche per bilanciare l’estrema debolezza di Mahmoud Abbas. E l’ombra più cupa che si avvicina è una nuova guerra di Gaza, combattuta sulle macerie di quella precedente. La Libia che ospita un avamposto dell’Isis ci impone di attendere, anche se una eventuale ratifica del governo di unità nazionale risulterà utile (forse) al Consiglio di sicurezza più che sul terreno dal quale ci giungono, quando riescono a giungere, tanti migranti. E se poi la scelta si orientasse verso l’imposizione militare di una pace inesistente, rischieremmo di commettere un grave errore di calcolo. Ne abbiamo trascurati parecchi di "pezzettini", a cominciare dalla crisi Ucraina che entro gennaio dovrà sciogliere il dilemma tra congelamento sulle posizioni attuali e scontato rinnovo delle sanzioni anti Russia, oppure cantonizzazione del Donbass, accordo sul confine Ucraina-Russia e difficile confronto euro-americano sulle sanzioni. In Europa oggi l’arrivo dei migranti pare più grave e urgente di un possibile ritorno alla Guerra fredda. Brutto segnale anche questo. Giustizia: Codice antimafia, arriva la correzione sugli appalti di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2015 Dove non giunge l’intera Commissione bicamerale antimafia arriva il singolo parlamentare. Dopo la denuncia del capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) Franco Roberti sulla falla del codice antimafia (lettera b dell’articolo 85) che spalanca alle mafie le porte dei consorzi che partecipano alle gare di appalto. La senatrice Lucrezia Ricchiuti (Pd) metterà una toppa alla dimenticanza della Commissione. Ricchiuti, dopo l’allarme risuonato nel pezzo del Sole-24 Ore di ieri, ha infatti deciso di presentare nella prossima settimana una proposta di legge secondo la quale la documentazione antimafia, se si tratta di associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese, deve riferirsi anche "alle società di capitali anche consortili ai sensi dell’articolo 2615 ter del codice civile, per le società cooperative, di consorzi cooperativi, per i consorzi di cui al libro V, titolo X, capo II, sezione II, del codice civile, al legale rappresentante e agli eventuali altri componenti l’organo di amministrazione, nonché a ciascuno dei consorziati ed ai soci o consorziati per conto dei quali le società consortili o i consorzi operino in modo esclusivo nei confronti della pubblica amministrazione". In questo modo, secondo la firmataria, si ricuce quella smagliatura denunciata da Roberti, secondo il quale si può entrare in un consorzio con una partecipazione inferiore o pari, salvo i patti parasociali, al 10% e non si è tenuti alla documentazione antimafia. Un varco attraverso il quale - e le indagini che la stessa Dnaa sta conducendo lo dimostrano, al punto da aver allertato già una direzione distrettuale alla quale altre ne seguiranno - si sono inseriti innanzitutto le cosche calabresi calabresi e i Casalesi, attraverso il ricorso a prestanome. L’intervento di Ricchiuti sana la dimenticanza della Commissione parlamentare, elegantemente sottolineata da Roberti nell’audizione del 17 settembre. "C’è un punto del codice antimafia - disse con tatto - che mi sembra non sia stato oggetto delle vostre analisi e delle vostre proposte, che invece ci sta molto a cuore". La Commissione, infatti, il 20 novembre 2014, presidente Rosy Bindi (atto Camera 2737, in Commissione Giustizia dal 3 marzo 2015) e il 24 novembre 2014 con il senatore Pd Franco Mirabelli (atto senato n.1690, in Commissione Affari costituzionali e Giustizia dal 29 aprile 2015), aveva presentato due disegni di legge che, nelle modifiche al codice antimafia, non avevano proposto di sanare questa ferita normativa che lo stesso Roberti ha definito disarmante. Giustizia: ultimatum dal Pd "via subito". E adesso Marino rischia l’avviso di garanzia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 ottobre 2015 La guerriglia delle dichiarazioni e dei rinvii, delle dimissione annunciate ma non presentate, non è ancora finita. Ma domani sera alle 19, orario di chiusura dell’Ufficio protocollo in Campidoglio, qualcosa potrebbe cambiare. O Ignazio Marino avrà formalizzato la propria uscita di scena, oppure lo faranno gli assessori che già hanno manifestato la loro indisponibilità a proseguire. Come da indicazioni arrivate da Palazzo Chigi. Dal vicesindaco Causi in giù. Compreso Alfonso Sabella, il magistrato antimafia chiamato dal sindaco a ripristinare nell’immagine e nei fatti la legalità al Comune di Roma. Finora è rimasto ad osservare gli sviluppi per non "tradire" chi gli ha affidato un incarico tanto importante quanto delicato, ma da quando la Procura di Roma ha aperto l’indagine per peculato e falso sulle spese di rappresentanza del primo cittadino non può rimanere al suo posto se il sindaco non fa un passo indietro; in concreto, e non solo con un video-messaggio. Sabella l’ha già ribadito a Marino, che s’è risentito quando il magistrato ha giudicato improponibile, sul piano politico, l’ipotesi di un ritiro delle sue dimissioni, che per legge diventeranno operative solo venti giorni dopo l’atto ufficiale. "Ma con tutto l’affetto, di fronte ad ipotesi di reato così pesanti dalle quali è molto difficile difendersi, io non ho altra strada", ha spiegato Sabella al sindaco. Sollecitandolo a protocollare in fretta la consegna dell’assegno da 19.704,36 euro per restituire i soldi delle spese sostenute con la carta di credito comunale. Almeno questo è atto è stato compiuto; una mossa che dovrebbe servire a stoppare gli accertamenti della Corte dei conti e la procedura per danno erariale, oltre che a mantenere la promessa fatta pubblicamente ai romani. Anche sul fronte dell’inchiesta giudiziaria, domani potrebbe essere una giornata di svolta. È infatti possibile che la Procura proceda senza altri indugi a iscrivere il nome di Ignazio Marino sul registro degli indagati per i due reati ipotizzabili a suo carico. E se pure si trattasse di un atto tecnicamente "dovuto", per procedere alle necessarie verifiche, è chiaro che la credibilità del sindaco ne risentirebbe ulteriormente. Al punto da rendere vano quel traguardo tanto agognato da Marino, che pare essere il vero motivo dei suoi tentennamenti: potersi presentare il 5 novembre al palazzo di giustizia, con la fascia tricolore indosso, per costituirsi parte civile nel processo contro "Mafia capitale". Ma ammesso che ci riesca, che valore avrebbe quell’immagine se nel frattempo dovesse arrivare un avviso di garanzia per peculato e falso? O, peggio ancora, qualche eventuale misura interdittiva? L’appuntamento in tribunale è stato evocato dallo stesso Marino nei convulsi contatti dei giorni scorsi con il vertice del Partito democratico: Matteo Orfini, che ha fatto da ponte con Matteo Renzi. "Se mi ostacolate dirò che il Pd non vuole che la città di Roma sia parte civile contro i mafiosi", si racconta che abbia minacciato il sindaco. Facendo infuriare sia Orfini che Renzi. Il quale aveva già preso molto male l’intervista a La Stampa in cui Marino ha accusato: se non c’erano le ricevute dei ristoranti mi avrebbero messo la cocaina in tasca; con intuibile riferimento ai responsabili del Pd che volevano farlo fuori a tutti i costi. Insinuazioni che hanno determinato l’ultimatum di Renzi: o le dimissioni (a questo punto lunedì), o martedì mattina i consiglieri comunali democratici presenteranno una mozione di sfiducia al sindaco. Pure di fronte a questa evenienza, tuttavia, Marino e i suoi fedelissimi avrebbero pronta la contromossa: la discussione nell’aula Giulio Cesare andrebbe calendarizzata con congruo anticipo, il che consentirebbe di guadagnare il tempo necessario a far rientrare l’inizio del processo negli ulteriori venti giorni concessi al sindaco dimissionario. A quel punto però, Marino arriverebbe al sospirato appuntamento da sfiduciato (nonostante il sostegno dei consiglieri democratici che non vogliono lasciare il Campidoglio anzitempo), oltre che da probabile indagato. Il gioco vale ancora la candela? Solo rispondendo a questa domanda il primo cittadino della capitale potrà prendere le sue decisioni. Intanto ha rinunciato ad andare ieri sera in tv, a Che tempo che fa; anche perché stasera sarà Renzi a presentarsi nello stesso studio: rischioso attaccare sapendo che l’indomani il premier avrebbe restituito i colpi con gli interessi. Ecco perché le dimissioni formalizzate domani restano l’ipotesi più gettonata. Gli hanno chiesto di definirle "irrevocabili", sebbene ormai siano rimasti in pochi a fidarsi degli annunci. Giustizia: Mafia Capitale. La protesta dei penalisti "il maxi processo bloccherà tutto" di Vincenzo Imperitura Il Tempo, 11 ottobre 2015 Il vicepresidente della Camera penale contro Mafia Capitale: troppe udienze "Se fai l’avvocato non puoi abbandonare i processi previsti in contemporanea". "Avremmo potuto iniziare il processo già all’inizio di giugno: avremmo già alle spalle 6 mesi di udienze. Si è perso tanto tempo prima e ora invece si è deciso di correre a più non posso". Non riesce a non essere critico Cesare Placanica, vice presidente della Camera Penale di Roma e avvocato difensore di uno degli imputati nel processo al "Mondo di mezzo". Il provvedimento del tribunale che ha fissato il calendario al ritmo di 4 udienze la settimana non è andato giù agli avvocati. La camera penale ha disposto l’astensione per almeno quattro udienze a partire dal 9 di novembre. Cosa mai una protesta così clamorosa? "L’astensione è un mezzo di protesta estrema, da anni ormai la camera penale non metteva in campo questo genere di protesta: un metodo estremo di fronte a un fatto estremo. Così come sono state disposte le cose, siamo di fronte ad una seria violazione dei diritti della difesa". Quali sono le maggiori criticità che avete riscontrato nelle decisioni prese dal collegio che giudicherà gli imputati di Mafia Capitale? "Ci sono due ordini di problemi: da una parte il provvedimento ordinatorio con cui è stato stilato il calendario dalla X sezione che ha determinato 4 udienze consecutive ogni settimana, rendendo di fatto impossibile per chiunque faccia l’avvocato, seguire quel processo. Il collegio si è fatto esonerare dal resto dei procedimenti in quel lasso di tempo, ma se fai l’avvocato non puoi abbandonare tutti gli altri processi che si svolgono contemporaneamente e che sono già stati presi in carico, magari da mesi". E il secondo problema? "Non possiamo accettare la scelta di celebrare l’intero processo nell’aula bunker di Rebibbia. Il tribunale ha addotto problemi di sicurezza con possibilità di evasione ma qui stiamo parlando di un unico imputato recluso in regime di carcere duro. E nonostante quasi tutti gli altri imputati siano incensurati si è scelta la video conferenza, tenendo gli stessi lontani dal processo nelle carceri dove sono detenuti. Bisogna riportare il dibattimento a piazzale Clodio dove quasi ogni giorno si celebrano processi, ad esempio quelli per narcotraffico, che costituiscono un allarme sociale ben più grave. Basti pensare che lo stesso processo alla banda della Magliana è stato celebrato nella cittadella giudiziaria". Siete al muro contro muro o esistono ancora margini di trattativa per fare rientrare la protesta? "I margini di discussioni ci sono, nessuno chiede l’impossibile. È sufficiente concordare un calendario che sia compatibile anche con gli impegni degli avvocati e serve riportare il processo a piazzale Clodio. D’altronde sia l’aula Occorsio che l’aula Europa nella sede della Corte d’Appello hanno tute le caratteristiche per ospitare un processo normale ma che è stato disegnato come la madre di tutti i processi. La legge è uguale per tutti e a tutti conviene avere un processo con un accusa forte e con una difesa altrettanto forte". Nuoro: la Polizia penitenziaria denuncia la carenza di mezzi di trasporto a Mamone admaioramedia.it, 11 ottobre 2015 La segreteria regionale Federazione nazionale e sicurezza della Cisl ha proclamato lo stato di agitazione del personale di Polizia penitenziaria in servizio nella Casa di reclusione di Mamone. Decisione seguita alle innumerevoli segnalazioni fatte dal Sindacato e rimaste inascoltate da parte delle autorità, specialmente negli ultimi mesi, riguardanti la situazione dei mezzi di trasporto. Il Sindacato denuncia la carenza dei mezzi di trasporto adoperati non solo per il trasporto dei detenuti, ma anche per la consegna del vitto, senza tener conto minimamente delle normative in materia di sicurezza ed igiene. "Ad oggi - evidenzia la Cisl - i mezzi idonei, e non tutti, per il trasporto dei detenuti sono quelli assegnati all’Ntp, una macchina a targa PP e un furgone in prestito dall’Istituto Ettore Scalas di Uta. Una situazione questa che ha veramente del ridicolo e che mette alla berlina lo stesso corpo di Polizia penitenziaria e tutta l’Amministrazione". Il Sindacato evidenzia che un furgone è da tempo fermo presso un’autofficina e non viene ritirato, pare, in quanto non ci sono le risorse finanziarie: "Alla fine si pagherà di più per l’occupazione del posto macchina che non per la riparazione del danno, alla faccia della spending review. Altri tre fuoristrada, sono ricoverati presso l’officina dell’Istituto, che assomiglia sempre più a uno sfasciacarrozze, e non si possono sistemare sempre per le risicate disponibilità economiche". Un clima di lavoro insostenibile, secondo la Cisl, perché il personale è praticamente costretto a subire pressioni psicologiche, non di poco conto. Gli agenti si devono scontrare giornalmente con l’addetto all’officina, che indirizza le lamentele al settore ragioneria, che a sua volta rimanda al mittente le richiesta di intervento di riparazione sempre per mancanza di liquidità. Da alcuni giorni è stato sospeso anche il servizio di controllo sia interno che esterno alla Colonia. Oggi si rischia la chiusura della diramazioni più lontane, come quella della "Santissima Annunziata": il personale assegnato, senza un mezzo idoneo al trasporto dei detenuti, non può garantire altre tipologie di interventi. Se un detenuto, ad esempio, si sente male o si infortuna mentre svolge un’attività lavorativa si deve percorrere una distanza di circa 15 chilometri per essere condotti nella sede centrale dove c’è l’unica infermeria di tutta la colonia. Con il trasporto del ferito inoltre si bloccherebbero anche altre attività come la consegna del vitto e l’accompagnamento dei reclusi nei diversi uffici o per sostenere i colloqui. Anche le altre diramazioni di "Nortiddi" e "S’Alcra", rispettivamente a 4 e 2 chilometri di distanza dalla sede principale della Colonia, rischiano la chiusura. Il Sindacato chiede al provveditore della Polizia penitenziaria, Enrico Sbraglia, un intervento per reperire le risorse necessarie alla sistemazione dei mezzi che si trovano presso le varie officine o di prodigarsi affinché vengano acquistati nuovi veicoli: "In caso di mancata risoluzione urgente delle nostre richieste inaspriremo le forme di protesta", conclude la Cisl. Frosinone: Fns-Cisl; detenuto armato di lametta ferisce tre agenti di Polizia penitenziaria Ansa, 11 ottobre 2015 Ha aggredito tre agenti di polizia penitenziaria, ferendoli. È accaduto stamattina nel carcere di Frosinone. Lo ha reso noto la Fns-Cisl. Protagonista dell’aggressione un detenuto marocchino, che si trova in sezioni comuni a regime di vigilanza dinamica. I tre agenti sono stati accompagnati all’ospedale di Frosinone. Uno di loro, colpito con una lametta, come riferisce il sindacato, ha avuto una prognosi di dieci giorni, mentre gli altri due dieci e sette giorni per contusioni varie. "Innumerevoli, in questo anno, le aggressioni avvenute a danno del personale di polizia penitenziaria. A nulla - dice il segretario generale aggiunto della Fns-Cisl Lazio, Massimo Costantino - son serviti i rinforzi di polizia penitenziaria, considerato il numero eccessivo di detenuti presenti in tale carcere". Per il sindacato è necessario, a questo punto, "prendere provvedimenti per far si che detenuti sottoposti a vigilanza dinamica non possano più beneficiare di tale detenzione con apertura della cella". Pena di morte: gli studenti si scoprono favorevoli, l’indagine realizzata da "Skuola.net" Gazzetta del Mezzogiorno, 11 ottobre 2015 Uno su due d’accordo anche se il colpevole è minore o incapace di intendere. "Nessuno tocchi Caino? Non proprio, o almeno non per gli studenti: 1 su 2 è a favore della pena di morte, spesso anche in casi in cui la colpa non ha nulla a che fare con l’omicidio". Lo rende noto Skuola.net, nella Giornata mondiale contro la pena di morte (indetta da Amnesty International) con un’indagine realizzata su un panel di 2mila studenti. Ma, è anche il caso di dire, tra gli intervistati c’è anche un 39% che applicherebbe la pena capitale soltanto per casi "veramente gravi". Il giudizio favorevole sulla pena di morte contempla anche i casi in cui il colpevole dovesse essere un minorenne (almeno per 2 ragazzi su 5) o una persona non in grado di intendere e di volere (43%). Il tutto nella logica del "se ha sbagliato merita la morte". Ma, evidenzia Skuola.net, gli studenti che si dicono contrari non sono più morbidi, infatti il 32% del campione ammette di vedere di buon occhio l’ergastolo in carcere duro, stile 41 bis, rispetto alle altre condanne. Il 39% applicherebbe la pena di morte solo per casi veramente gravi, mentre il 10% la applicherebbe in ogni caso. Fatto sta che i teenager vanno di mano pesante quando si tratta di infliggere punizioni esemplari. Tanto che condannerebbero ad esalare l’ultimo respiro gli autori di omicidi di ogni ordine a grado, una sorta di legge del taglione da infliggere a chi si è macchiato di aver ucciso, a partire dai pluriomicidi (1 favorevole su 3). Il 15% applicherebbe la condanna definitiva in casi di omicidi a scopo terroristico e un altro 12% solo quando ad essere colpiti sono i bambini. Ma i giudizi dei ragazzi sono duri anche quando la colpa non ha visto nessun morto sulla coscienza del condannato, così chi stupra o commette atti di pedofilia non merita in ogni caso di vivere per il 14% degli intervistati. Poi si torna di nuovo a voler punire l’omicidio, che la vittima sia una donna (6%) o chiunque altro (5%). Inoltre, solo il 3% dei teenager sostenitori della pena di morte abbasserebbe il pollice in casi di omicidio a stampo mafioso. Ma nemmeno chi si dichiara contrario alla pena capitale ha la mano leggera: il 32% degli studenti intervistati darebbe il carcere duro (41 bis) in casi particolarmente gravi e violenti, mentre il 29% "concederebbe" l’ergastolo "semplice". Più magnanimo il 28% dei contrari, che infliggerebbe ai condannati per crimini particolarmente pesanti un carcere lungo accompagnato da una rieducazione. Inoltre, uno su 10 sarebbe ancora favorevole ai lavori forzati e, addirittura, un 2% infliggerebbe pene corporali in pieno stile medievale. Ma forse i ragazzi, osserva Skuola.net, parlano in questi termini "perché non sono abbastanza informati sul tema. Colpa della scuola? Forse. A non averne mai parlato tra i banchi è circa il 60% degli intervistati, anche se il 63% vorrebbe affrontare di più l’argomento". La lotta alla droga "arma" il boia di Luca Miele Avvenire, 11 ottobre 2015 Crescono le esecuzioni per i traffici: Cina, Iran e Arabia le "maglie nere". È l’ultima, inquietante, frontiera grazie alla quale la pena di morte prolifera: "travestirsi" da strumento utile nella cosiddetta "guerra alla droga", in palese violazione del diritto internazionale che limita il ricorso al boia ai "reati più gravi". Con almeno undici Paesi - tra i quali campeggiano Cina, Indonesia, Iran, Malaysia e Arabia Saudita - che sembrano ricorrere a questo "strumento" in maniera sistematica. I reati legati alla lotta alla droga, che possono includere accuse che vanno dal traffico al possesso personale, sono punibili con la morte in più di trenta Paesi. A denunciarlo Amnesty International, Nessuno Tocchi Caino e la Comunità di Sant’Egidio, in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, celebrata ieri. "È sconfortante - ha fatto il punto Chiara Sangiorgio, di Amnesty International - che tanti Paesi siano ancora attaccati all’idea sbagliata che uccidere le persone possa in un modo o nell’altro porre fine alla tossicodipendenza o ridurre la criminalità. La pena di morte non fa nulla per affrontare il crimine o permettere alle persone che hanno bisogno di aiuto di accedere ai trattamenti per la disintossicazione". I dati sono allarmanti. Nel 2015, al 30 settembre, almeno 615 persone sono state messe a morte per reati connessi alla droga in quattro Paesi. La grande parte delle esecuzioni sono avvenute in Iran: almeno 546, circa l’89 per cento del totale mondiale. Seguono l’Arabia Saudita (55 condanne) e l’Indonesia (14). E non ci sono, all’orizzonte, segni che lascino sperare in una inversione di tendenza. Secondo il rapporto 2015 della Ong Harm Reduction International, 900 persone sono nel braccio della morte per reati legati alla droga in Malaysia, Indonesia, Tailandia e Pakistan, e molte centinaia in Cina, Iran e Vietnam. Teheran è al secondo posto per numero di esecuzioni al mondo, dietro la Cina. Negli ultimi decenni, si legge nel rapporti di Amnesty ha messo a morte migliaia di persone per reati di droga. Le leggi sulla droga nel Paese sono estremamente dure: una persona può essere condannata a morte per il possesso di 30 grammi di eroina o cocaina. Come denuncia ancora Amnesty in Arabia Saudita le esecuzioni per reati legati alla droga sono aumentate vertiginosamente. Nel 2014, quasi la metà delle 92 persone messe a morte erano state condannate per reati legati agli stupefacenti. Il sistema giudiziario di Riad "manca delle garanzie più elementari per garantire il diritto a un processo equo. Spesso le condanne a morte sono inflitte dopo procedimenti iniqui e sommari che si tengono, in alcuni casi, in segreto". Altro buco nero è la Cina. Nel 2014, Pechino ha messo a morte più persone rispetto al resto del mondo messo insieme, ma con i "dati sulla pena di morte trattati come segreto di stato il numero esatto è impossibile da determinare. Sulla base dei dati che si è in grado di confermare, le persone condannate per reati legati alla droga costituiscono una percentuale significativa di coloro che sono messi a morte". La Cina ha compiuto timidi passi avanti per ridurre il ricorso alla pena di morte negli anni recenti, anche riducendo i reati punibili con la morte. I reati legati alla droga, tuttavia, continuano a causare condanne ed esecuzioni. Nobel alla civile quotidianità, la novità del premio ai tunisini di Tania Groppi Avvenire, 11 ottobre 2015 Per la prima volta, un premio Nobel per la pace è stato dunque assegnato a un processo costituente: quello che ha portato all’approvazione, il 27 gennaio 2014, della prima costituzione democratica della Tunisia. Una grande novità, ma che le Costituzioni contemporanee possano svolgere un ruolo importante nel mantenimento della pace non è cosa nuova. A partire dal secondo dopoguerra del Novecento, le Costituzioni sono chiamate a individuare il punto di equilibrio tra le diverse componenti della società pluralista, sancito attraverso l’accordo, nel momento costituente, intorno a princìpi condivisi, che dovranno ispirare la vita in comune e l’agire politico negli anni a venire. Princìpi che saranno sottratti alle decisioni delle maggioranze politiche elettorali, che dovranno rispettarli: qualora non lo facessero, i loro atti potranno essere annullati dai "guardiani" del patto costituzionale, ovvero dai giudici costituzionali. Anche la Costituzione italiana appartiene a questa tipologia di costituzioni e, come molte di esse, si è dimostrata capace di orientare l’evoluzione della società, adattandosi al contempo ai mutamenti di essa, senza perdere di vista i valori fondanti del patto costituzionale, i princìpi supremi che hanno aiutato a superare anche i momenti più difficili. Quel che c’è di ulteriore e diverso in Tunisia è che per la prima volta il tentativo di regolare il conflitto intorno ai valori attraverso un patto costituente è avvenuto in un contesto arabo-musulmano, segnato dalla contrapposizione tra le mire espansive dell’islam politico, da un lato, e settori della società fortemente laicizzati, dall’altro. In molti Paesi musulmani, è stato detto, esiste uno sfasamento spazio-temporale nella popolazione: una parte (gli islamisti) vorrebbe vivere in un’altra epoca (il medioevo), una parte (i laici) in un altro luogo (l’occidente). L’unicità dell’esperienza tunisina, che la distanzia dagli altri Paesi della regione, consiste nel ricorso alla Costituzione per trovare un compromesso stabile e duraturo tra tali due settori della società. Come è facile comprendere, le difficoltà non sono mancate già nella fase costituente, ed è proprio qui che si colloca un altro aspetto di novità. La dura contrapposizione tra le forze politiche (segnata dall’assassinio di importanti leader dell’opposizione laica e dal conseguente abbandono dei lavori dell’assemblea costituente da parte dei partiti laici, nell’estate del 2013), che rischiava di far naufragare il processo, ha trovato soluzione grazie alla mediazione del "quartetto" (sindacalisti, imprenditori, giuristi e difensori dei diritti umani) premiato con il Nobel. A testimonianza del fatto che il protagonismo della società civile può a volte dare risposte allorquando la politica partitica sembra incapace di reagire. Tuttavia, le Costituzioni contemporanee, più che un punto di arrivo, esito di un momento magico e irripetibile, rappresentano un punto di partenza, verso una quotidianità costituzionale improntata ai principi del dialogo e del pluralismo: è questa la vera sfida che attende oggi la Tunisia, in un contesto economico, internazionale e securitario assai difficile, che necessita del supporto di tutti coloro che, nel Paese e fuori, credono nella democrazia costituzionale. Più che un riconoscimento per quanto compiuto, il Nobel, assegnato nelle difficili temperie del 2015, va letto, quindi, come un incoraggiamento ad andare avanti con speranza e convinzione sul percorso intrapreso, nella consapevolezza che è nella quotidianità, come sempre, che si svolge la partita decisiva. Migranti o rifugiati, tutti cittadini "in attesa" di Guido Rossi Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2015 Il capitalismo finanziario e la globalizzazione del libero mercato hanno trascinato, aggravandolo, un fenomeno che, con motivazioni diverse, regole diseguali, effetti economici e sociali a volte opposti, coinvolge quasi tutti i paesi del mondo e, in qualche misura più o meno profonda, la nostra vita quotidiana. È l’immigrazione. Quelle migrazioni, che hanno costituito l’elemento essenziale della storia e contribuito alla formazione dei popoli dell’Europa, dell’America, dell’Asia e di tutte le altre parti del mondo, presentano problemi e soluzioni diverse. Lo scontro fra la protezione di diritti umani - si ricordi la Convenzione di Ginevra del 1951, ispirata a universali principi di solidarietà - e le polemiche sfrontatamente populiste che agitano ancora oggi le opinioni pubbliche, ha creato una babelica confusione nell’affrontare adeguatamente una situazione originaria di tragedia a cui altre se ne sono aggiunte: basti pensare al cimitero marino del Mediterraneo. Le associazioni private di carità e solidarietà hanno spesso sconfitto e sconfessato la politica, la cui generale fragilità e inconsistenza ha dato, anche in questo caso, le dimensioni della sua assoluta intollerabile modestia. Gli inconvenienti che l’immigrazione comporta nei paesi di accoglienza sono ben noti. E così, i sentimenti anti immigranti stanno proliferando nel continente europeo, tanto che i relativi movimenti che li sostengono, nelle elezioni dello scorso anno, hanno avuto un’allarmante affermazione al Parlamento europeo. La "necessità" invece delle migrazioni, rivendicata da Christine Lagarde del Fmi a causa dell’evidente invecchiamento della popolazione mondiale, oltre che dell’enorme diversità tra i Paesi emergenti e i Paesi benestanti, dove si rovescia l’approdo dei migranti, contribuisce sia al Pil sia ai principali indici economici ed è, nonostante la a volte scarsa credibilità statistica, comunque del tutto fuori discussione. Rimane peraltro aperto il dibattito se si tratti di crisi di "migranti" o di "rifugiati", quelli cioè che godono del diritto d’asilo e di protezione dal diritto internazionale. I rifugiati sono definiti dalla Convenzione di Ginevra soprattutto come coloro che fuggono le "persecuzioni" dovute alla razza, alla religione, alle nazionalità, alle opinioni politiche. I "migranti economici" scappano invece dai pericoli della guerra, della fame e di depravazioni d’ogni genere, sicché risulta tra l’altro spesso assai difficile distinguere gli uni dagli altri. Nei vari Paesi la situazione è affrontata secondo lo schema di Giano bifronte: a chi giustamente sottolinea il fattore economico positivo per l’economia, come più volte ha fatto il ministro Pier Carlo Padoan, ricordandone il vantaggio che ne ricavano particolari settori della manodopera, altri han posto invece brutalmente l’accento sul possibile effetto negativo sui conti pubblici e sulle difficoltà sociali, di integrazioni sovente respinte dai residenti. La Cina, ad esempio, ha la più alta popolazione del mondo ed ha una continua e disagiata migrazione interna, dalla popolazione rurale a quella urbana e con effetti non sostanzialmente diversi da ciò che avviene nei Paesi occidentali. L’istituto nazionale di statistica cinese ha stimato, a fine del 2013, che i migranti interni erano 425 milioni, cioè il 18% dell’intera popolazione. Per fermare questo esodo dalle campagne e creare una più equilibrata situazione economica del Paese, fin dal 1958 fu introdotto un sistema di registrazione della residenza, creando una stretta correlazione fra i diritti (sanità, educazione e assistenza sociale) e il luogo di nascita. Gli inconvenienti gravi e i disagi che si sono creati, oltre ai vari tentativi di rimediarvi, sono ben descritti nel volume di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio (Il Mulino, 2015). Negli Stati Uniti invece, dove la situazione economico - sociale e politica è ben diversa, il fenomeno degli "unauthorized immigrants" esiste fin dalle origini. Il problema è ancora attuale, e non è risolto se persino a Papa Francesco è stato consigliato di evitare, come invece avrebbe voluto, di entrare dagli Stati Uniti attraverso la frontiera messicana, dalla quale arriva la maggior parte della "Immigration Outside the Law". È questo il titolo dell’ultimo libro di H. Motomura (Oxford, 2014), che fa seguito ad un suo precedente del 2006, da un analogo provocatorio titolo "Americans in Waiting". La Corte Suprema degli Stati Uniti, da cui sono partite spinte favorevoli alle migrazioni, nella famosissima decisione Plyler v. Doe del 1982 annullò il tentativo dello Stato del Texas di escludere dalle scuole pubbliche i ragazzi immigrati senza autorizzazione in base alla semplice giustificazione etica che i giovani avrebbero sopportato il peso, senza né colpa né possibilità di controllo, di una violazione di legge compiuta dai genitori, considerando invece al contrario essenziale l’aiuto che essi possono dare ai loro parenti ai fini di un’integrazione linguistica e culturale nella società americana. Ancor più impressionante è certamente la recentissima decisione In re Garcia del 2014 della Corte Suprema della California, che ha deciso che immigranti non autorizzati possono ottenere il titolo per la pratica legale nonostante la mancanza di autorizzazione a vivere e lavorare negli Stati Uniti. La conclusione molto approfonditamente documentata dal prof. Motomura è che tutti i migranti debbono essere trattati come "Americans in Waiting". Sulla dicotomia giovani - adulti è da tempo in discussione al Congresso un disegno di legge dall’acronimo significativo: "Dream act" (Development, Relief and Education for Alien Minors), che ha dato origine ad una serie di provvedimenti che lo anticipano, in attesa che, senza distinzione di età, tutti i migranti diventino Americans in Waiting. E in Europa? La Convenzione di Ginevra è stata ripetutamente ripresa nel 1990, nel 2003 e poi con altre modifiche nel 2013 (Trattato di Dublino III), la cui regola fondamentale è che i migranti possono chiedere il diritto d’asilo solo al Paese di ingresso. A Dublino è dunque mancata l’Europa nell’interesse provinciale dei vari Paesi e ciò ha creato gravi problemi di ordine pubblico e disagi non lievi che hanno colpito soprattutto l’Italia e che solo il piano Ue e le varie proposte di regolamentazione europea sull’immigrazione e i rimpatri possono parzialmente correggere. Un clamoroso evento, una sorta di déjà vu, si è però appena verificato all’Europarlamento di Strasburgo, con l’intervento comune della cancelliera Angela Merkel e del Presidente François Hollande, i quali hanno finalmente dichiarato "obsoleto", per quel vincolo al Paese di ingresso, il Trattato di Dublino. Più che obsoleto l’avrei definito anti europeo, di quell’Europa in costruzione che l’asse franco - tedesco aveva già 26 anni fa disegnato, con un identico doppio intervento al Parlamento, di Helmut Kohl e di François Mitterand; preceduti dal famoso "te deum" di ringraziamento nella Cattedrale di Reims, alla presenza del generale De Gaulle e di Konrad Adenauer, l’8 luglio del 1962. È questo a mio parere un evento simbolico della faticosa ripresa dell’Europa; può forse significare in sintesi che da parte di tutti si debba cominciare a considerare i migranti "Europeans in Waiting". Dall’Italia nobile degli antichi Comuni anche ognuno di noi è in fondo un migrante. Riforma della cittadinanza, martedì il via libera alla Camera con diretta tv di Carlo Lania Il Manifesto, 11 ottobre 2015 Lega nord e Fratelli d’Italia daranno battaglia, sfruttando la diretta tv che farà da palcoscenico alle loro proteste. Forza Italia è divisa, e non è escluso che molti deputati azzurri preferiranno disertare l’aula piuttosto che rendere visibile la spaccatura. Fatto sta che martedì alla Camera verrà approvata la riforma della cittadinanza che manda in soffitta lo "ius sanguinis" per offrire finalmente la possibilità a circa 700 mila ragazzi figli di immigrati ma nati in Italia o che vi sono arrivati dopo la nascita, di diventare cittadini italiani. Un passo in avanti importante, atteso da anni dalle seconde e terze generazioni che adesso diventa realtà. Un’opportunità per ragazzi cresciuti negli stessi quartiere dei coetanei italiani, seduti negli stessi banchi scolastici e che parlano gli stessi dialetti. Uguali in tutto e per tutto tranne che per una cosa: la possibilità, per l’appunto, di essere considerati anch’essi cittadini di questo paese. Il testo che verrà approvato martedì - e che ha avuto come relatrice la democratica Marilena Fabbri - è un mix tra "ius soli" temperato e "ius culturae". Prevede che a poter avere la cittadinanza sia chi nasce in Italia da e ha almeno uno dei due genitori residente legalmente nel nostro paese da 5 anni, oppure un genitore nato anch’esso in Italia e residente legalmente da almeno un anno. Non solo, Potrà essere riconosciuto cittadino italiano anche il minore arrivato entro il dodicesimo anno di età che abbia frequentato un ciclo scolastico. Un emendamento di Scelta civica approvato prima dell’arrivo in aula del Pdl, prevede che il minore abbia avuto l’idoneità alla scuola elementare. Cittadinanza prevista anche per minori che abbiano almeno un genitore sia in possesso del permesso di soggiorno permanente riservato ai cittadini comunitari (inizialmente il testo prendeva i considerazione solo gli extra comunitari). La norma transitoria consente di diventare cittadino italiano anche a chi all’entrata in vigore della legge abbia superato il limite di età di venti anni ma sia comunque in possesso di tutti i requisiti richiesti. Una volta approvate anche dal Senato, le nuove norme potrebbero interessare più di 700 mila nuovi italia. È stato calcolato che siano 600.000 i minori con un genitore residente legalmente da più di 5 anni. A questi vanno aggiunti 177.525 nati all’estero ma che hanno terminato un ciclo di stdi e almeno altri 590 mila nati i Italia ogni anno e quelli nati all’estero ma che completano i cinque anni di studi richiesti. Tra le novità inserite nella legge una riguarda gli incapaci di intendere e di volere, per i quali la domanda per ottenere la cittadinanza potrà essere presentata da un tutore o, a seconda dei casi, da un amministratore di sostegno e per i quali non è obbligatorio il giuramento. E la seconda concerne invece la possibilità per i genitori stranieri di iscrivere il all’anagrafe il figlio nato in Italia anche se non sono in possesso del permesso di soggiorno. Critiche alle nuove norme sono state avanzate dalla campagna "L’Italia sono anch’io" che avrebbe preferito un testo che riguardasse anche gli adulti (esclusi dall’attuale testo e dal previsto obbligo di aere una carta di lungo soggiorno, obbligo ritenuto discriminante. Ma nel complesso è unanime il riconoscimento di trovarsi comunque di fronte a un passaggio importante per il nostro paese. Ora anche la Merkel vuole redistribuire i profughi di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2015 Ancora in occasione del vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione di fine settembre, la Germania difendeva il Principio di Dublino, vale a dire l’assetto di norme che oggi regolamenta l’immigrazione in Europa. A sorpresa, mercoledì la cancelliera Angela Merkel ha definito "obsoleto" il regolamento. "Chiedo - ha detto a Strasburgo - una nuova procedura" per redistribuire in tutta Europa "con equità" i richiedenti l’asilo. Ormai, anche a Berlino fa comodo istituzionalizzare una redistribuzione dei migranti in Europa. Il regolamento di Dublino prevede tra le altre cose che un rifugiato debba chiedere asilo nel paese di primo sbarco. Oberati dall’arrivo di migliaia di migranti, Italia e Grecia hanno ottenuto di introdurre eccezioni a questo principio, ricollocando in tutta Europa 160mila persone arrivate nei due paesi. Nel chiedere per il futuro una redistribuzione equa dei migranti che si stanno trasferendo in Europa, la Germania non vuole solo venire incontro a Roma o ad Atene; vuole anche aiutare eventualmente se stessa. Oggi, la prevista redistribuzione di 160mila persone deve servire ad alleviare le pressioni migratorie sui paesi del Sud o dell’Est, quelli alla frontiera esterna dell’Unione. Domani, il principio del ricollocamento potrebbe servire ad alleviare anche paesi come la stessa Germania. Secondo gli ultimi dati dell’Ufficio federale per la migrazione e i profughi, tra gennaio e settembre il paese ha ricevuto 303.443 domande di asilo, con un aumento annuo del 123%. La situazione internazionale fa pensare a nuovi arrivi nel prossimo futuro. La politica rumoreggia. La popolazione frena. La società tedesca è in genere d’accordo con la strategia dell’accoglienza decisa dalla signora Merkel, ma teme di non riuscire a gestire una sfida, paragonata da molti commentatori con quella dell’unificazione. In una recente intervista a Bild, il leader del partito cristiano-sociale bavarese e alleato della signora Merkel Horst Seehofer ha detto che la capacità di accoglienza della Germania è "limitata". I socialdemocratici, anch’essi al governo, chiedono il numero chiuso. La cancelliera è in difficoltà. L’ultimo sondaggio Forsa mostra che la popolarità della signora Merkel è al 47%. Era al 75% in aprile. Pensare di fare marcia indietro sull’accoglienza dei rifugiati è difficile, tanto più che la scelta è strategica, oltre che umanitaria: il paese deve ringiovanire la sua popolazione. Una riforma del Principio di Dublino, introducendo una suddivisione più equilibrata e solidale dei rifugiati, diventa a questo punto una valvola di sfogo, uno strumento concreto per riequilibrare la presenza migratoria e una risposta politica per rispondere alle angosce nazionali. La Commissione europea ha già annunciato che intende presentare a breve nuove ipotesi di riforma. Si deve presumere che quest’ultime si baseranno su qualche forma di ricollocamento dei rifugiati. Potrà contare sull’appoggio della Germania; ma il tema rimane controverso, come ha dimostrato il difficile negoziato sulla redistribuzione di 160mila profughi appena concluso (nel vertice europeo della settimana prossima i Ventotto ribadiranno di voler attuare la decisione rapidamente). Avverte un diplomatico del Nord Europa: "Ricollocare i rifugiati arrivati in Italia e in Grecia già non è facile: quanti di loro sono pronti ad andare in Slovacchia o nei paesi baltici? Possiamo immaginare la difficoltà a costringerli a lasciare la Germania per un altro paese". Droghe: il Sottosegretario Ferri "serve visione meno carcerocentrica e più di recupero" Ansa, 11 ottobre 2015 Nel contrasto e nella repressione del fenomeno della tossicodipendenza, per cui si registra "una spesa media di 1,4 miliardi di euro, pari allo 0,8 del Pil", occorre puntare su una azione preventiva e riabilitativa adottando una visione meno "carcerocentrica, più di recupero e terapeutica". È quanto sostenuto dal sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, intervenuto ai ‘WeeFree Days’ nella Comunità di San Patrignano. "La droga - ha osservato in un passaggio del suo intervento ad uno dei convegni in programma - ha un costo economico e sociale per il nostro Paese e non possiamo restare inermi di fronte a questi fenomeni. I dati statistici stimano che lo Stato italiano spende oltre un miliardo di euro tra i costi dell’ attività di indagine da parte delle Forze dell’Ordine, quelli relativi ai procedimenti giudiziari e quelli per la detenzione nelle carceri. Grazie ai provvedimenti del Governo - ha aggiunto - abbiamo reintrodotto facilitazioni per l’accesso alle misure alternative, poiché riteniamo che la detenzione non possa essere la migliore soluzione per il reinserimento di questi soggetti nella società". Per questo, ha sottolineato Ferri, "è indispensabile agire con campagne di informazione che coinvolgano e stimolino alla riflessione i nostri giovani e li sensibilizzino sui temi legati alla droga e ai suoi effetti", oltre che attraverso percorsi di recupero. "I risultati positivi raggiunti in termini di costi economici ma anche sociali - ha aggiunto - devono indurre a pensare ad una visione meno carcerocentrica, più di recupero e terapeutica. Recuperare, lavorare su programmi seri di reinserimento e terapeutici significa, da una parte, non perdere il valore della certezza della pena, dall’altra - ha concluso - consentire di scontarla pensando a come recuperare e guarire chi ha commesso reati legati ad una dipendenza da droghe". Turchia: strage ad Ankara, bombe sulla sinistra filo-kurda di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 11 ottobre 2015 Almeno 86 morti e 186 feriti. Censurate immagini e social network. Demirtas: "Il partito di Erdogan ha le mani sporche di sangue". Almeno ottantasei vittime e 186 feriti raccontano una strage. La terza in quattro mesi a dilaniare la Turchia. E tutto questo solo per un calcolo politico: il voto del prossimo novembre. Ma in verità c’è qualcosa di più. Il sostegno che le autorità turche hanno assicurato ai jihadisti di Isis in Siria è chiaramente sfuggito loro di mano. Ora i terroristi che sono in Turchia possono fare quello che vogliono: anche colpire nella capitale per vendicarsi dei raid russi in Siria. Guardando le immagini della strage di Ankara che sono state censurate dalle autorità turche, insieme a blog, Twitter e Facebook di chi ha provato a diffonderle (sono mesi che i kurdi denunciano le policy filo-Ankara dei grandi social network), torniamo al cinque giugno scorso quando eravamo al grande comizio del leader carismatico della sinistra filo-kurda (Hdp), Salahettin Demirtas, e due bombe sono esplose a pochi metri da noi uccidendo quattro persone nel quartiere Stadio. La logica era quella criminale del duplice attentato per colpire il più alto numero di persone possibile che restano spesso coinvolte dalla seconda esplosione mentre tentano di fuggire. Ad Ankara è successo lo stesso. Scene di panico e sangue dovunque hanno coperto gli striscioni della pace della piattaforma che include Hdp organizzata anche da partiti ed esponenti della società civile a due passi dalla stazione ferroviaria. "Ho sentito una prima grande esplosione e ho cercato di coprirmi mentre le finestre dell’edificio vicino a me andavano in frantumi", ha raccontato un testimone. "La gente intorno a me gridava e piangeva. Sentivo un inteso odore di fumo", ha aggiunto Ahmet Onen. Bulent Tekdemir, presente al momento delle esplosioni, ha ammesso che la polizia ha immediatamente lanciato gas lacrimogeni e non "ha permesso alle ambulanze di raccogliere i primi feriti". Il premier Ahmet Davutoglu ha parlato di "indizi seri" a carico di due kamikaze. E così anche quest’occasione è servita per continuare a censurare i media. Dopo l’aggressione ad Ahmed Hakan, il noto giornalista di Hurriyet colpito da sostenitori di Akp, lo scorso venerdì. Bulent Kenes, direttore del giornale di opposizione Zaman, è stato arrestato per un tweet critico nei confronti di Erdogan. Anche l’ex presidente Abdullah Gul aveva denunciato la pressione che gli islamisti moderati stanno esercitando sui media turchi. La richiesta dei manifestanti di Ankara era anche di mettere fine alle violenze e agli attacchi contro il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), avviati lo scorso 24 luglio in una campagna ufficialmente anti-Isis, che ha invece provocato centinaia di vittime tra i kurdi in Turchia e Iraq. Il partito di Ocalan in una nota ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale in vista del voto. Adducendo ragioni di sicurezza, la Commissione elettorale aveva proceduto a contestate revisioni nella distribuzione dei seggi che renderanno più difficile per i kurdi delle città dove vige il coprifuoco di recarsi alle urne. Erdogan ha strappato i dieci punti della dichiarazione di Dolmabahce, annunciata alla vigilia del voto di giugno, che voleva mettere fine al conflitto tra Ankara e Pkk e chiudere la stagione della lotta armata. Puntando su continue provocazioni, il partito di Erdogan è arrivato alle parlamentari della scorsa estate in un’atmosfera incandescente che è andata avanti per mesi in seguito al fallimento dei colloqui per la formazione di un governo di unità nazionale. Il tentativo è deragliato per la manifesta avversione a qualsiasi compromesso di Akp, come confermato dal leader del partito repubblicano (Chp), il kemalista Kilicdaroglu. "Un grande massacro", ha definito il leader di Hdp, Demirtas, il duplice attacco di ieri. Il politico che ha portato per la prima volta la sinistra filo-kurda in parlamento non ha dubbi: "Il partito di Erdogan ha le mani sporche di sangue". "Alcuni poliziotti hanno attaccato chi soccorreva i feriti e le vittime", ha aggiunto. Solo poche settimane fa, decine di sedi di Hdp sono state date alle fiamme da sostenitori di Akp. "Ci vogliono far tacere, ma noi continueremo la nostra lotta pacifica", ha concluso il politico. In Turchia è in corso una tempesta perfetta che apre la strada al terrorismo islamista, come è avvenuto con gli attacchi al Consolato Usa della scorsa estate. Erdogan è sempre più isolato. Da una parte, Washington ha assicurato con non poche remore il suo supporto al piano per la formazione di safe-zone turche in Siria, dall’altra, Mosca, violando lo spazio aereo turco con i recenti raid in territorio siriano, ha mostrato una certa disaffezione per le ambigue politiche degli islamisti moderati turchi nei confronti dello Stato islamico. Dopo l’attentato di ieri, le autorità russe hanno subito richiamato Ankara alle sue responsabilità chiedendo di "consolidare gli sforzi per combattere il terrorismo e abbandonare interessi opportunistici". Un chiaro riferimento al sostegno di Akp ai jihadisti e contro i raid russi in Siria. Tutto questo mentre sale la tensione per i respingimenti di profughi siriani che raggiungono la Turchia sia per stabilirsi (quasi due milioni di siriani vivono in Turchia in seguito alla guerra civile) sia per andare in Europa. Il tentativo di conquistare il voto degli ultranazionalisti ha spinto Erdogan anche a trovare un accordo con l’Ue con un piano di azione congiunto che di fatto permetterà ad Ankara di respingere i profughi e sigillare le frontiere come sta già facendo. Medio Oriente: sei morti palestinesi in 24 ore, adolescenti in prima linea di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 ottobre 2015 Uccisi a Gerusalemme e Gaza in attacchi e manifestazioni pacifiche. Quattro israeliani accoltellati. La politica non sa reagire. La rivolta che attraversa i Territori Occupati e Israele è diversa dalle precedenti sollevazioni popolari. Lo si vede tra la gente, per le strade della Cisgiordania. Negozi aperti, suq affollati, atmosfera "normale". Se non fosse per le parole che si sovrappongono: tutti parlano degli attacchi, degli scontri. Tanti i ragazzini con la kefiah al collo. Ma la partecipazione di massa alle proteste che esplodono improvvise a ogni ora del giorno e della notte non c’è. Gli shebab tirano pietre lungo il muro tra Betlemme e Gerusalemme. I più grandi li richiamano, chi ha vissuto la Seconda Intifada e la sofferenza che portò con sé: "Ho trovato mio cugino al muro, lanciava pietre - ci dice Hassan, 27 anni - L’ho riaccompagnato a casa. Quando scoppierà qualcosa di grosso, popolare, lo porterò io stesso a manifestare. Ma ora è un gioco al massacro". Un’opinione che alcuni adolescenti non condividono, quelli che si fanno uccidere dalle pallottole israeliane per portare avanti un’azione che sa di disperazione. Ieri altri due casi di accoltellamento sono finiti con la morte dei responsabili. Il bilancio di ieri è sanguinoso: sei palestinesi uccisi, tre a Gaza. Jihad Salim al-Ubeid, 22 anni, morto ieri per le ferite riportate venerdì durante la manifestazione nella Striscia al confine con Israele. Lo stesso scenario si è ripetuto ieri: due ragazzini, Marwan Barbakh, di 13 anni, e Khalil Othman, 15, sono stati ammazzati alla frontiera dal fuoco a distanza di Israele. La notte scorsa a perdere la vita è stato Ahmad Salah, 24 anni, del campo profughi di Shuafat. È stato ucciso durante scontri con la polizia israeliana. Secondo un leader di Fatah, Thaer al-Fasfous, "le forze di occupazione hanno sparato a distanza ravvicinata", impedito all’ambulanza di soccorrerlo "e lasciato a terra a dissanguarsi". Gerusalemme ieri ha pagato lo scotto della violenza di questo ottobre: ieri alla Porta di Damasco Eshak Badtan, 16 anni di Kufr Aqab, ha accoltellato un israeliano di 65 anni, ferendolo lievemente. La polizia lo ha circondato e, quando ormai non rappresentava più un pericolo, come mostrano le foto scattate da testimoni, lo ha ucciso. Sono scoppiati scontri alla Porta di Damasco, fino ad un nuovo accoltellamento: un secondo palestinese, Mohammed Saeeb, di Shuafat, ha ferito tre poliziotti prima di essere ucciso. Un’ondata di aggressioni individuali che Israele non sa gestire. Come non sa gestire il razzismo violento dei suoi cittadini. Si moltiplicano le ronde punitive: agli slogan "Morte agli arabi" segue l’azione. Ieri la polizia ha arrestato 5 israeliani che avevano organizzato nei social network attacchi contro palestinesi nella città costiera di Netanya. Una trentina di persone hanno risposto all’appello e si sono presentate in Piazza Indipendenza con coltelli e catene. Tre palestinesi sono stati aggrediti: due sono riusciti a fuggire, un terzo è stato linciato dalla folla. Fino all’arrivo della polizia. In Cisgiordania a subire la vendetta dei coloni sono state le comunità palestinesi della zona di Hebron: attaccate abitazioni a Wadi Hussein, dietro la protezione dell’esercito che, invece di intervenire per fermare i coloni, ha lanciato gas lacrimogeni e acqua chimica sulle case. Per molti osservatori l’intervento israeliano si traduce in punizioni collettive contro la popolazione civile, aperta violazione del diritto internazionale. La demolizione delle case dei responsabili di attacchi o i raid nei quartieri e nei villaggi hanno provocato la protesta di organizzazioni per i diritti umani, a partire da Amnesty International che accusa Israele di "eccessivo uso della forza e di omicidi ingiustificati". Le 20 vittime palestinesi erano tutte evitabili: chi è stato ucciso mentre manifestava pacificamente e chi, dopo aver aggredito con un coltello, poteva essere fermato con altri pezzi. Dopotutto gli israeliani fermati per atti simili non sono stati uccisi, ma solo arrestati. Hamas per ora resta a guardare: con una mano fa appello alla sollevazione, con l’altra frena spaventato dalla possibile reazione di Israele contro Gaza, ancora non ricostruita e dove il consenso verso il movimento islamista si abbassa. Consenso ai minimi anche per l’Anp che a Ramallah si trincera dietro deboli dichiarazioni mentre i palestinesi esplodono. Il presidente Abbas non sa che fare e, se al telefono con il segretario di Stato Usa Kerry dice che la colpa è "delle provocazioni dei coloni e del governo di occupazione israeliana", nella realtà è schiacciato tra le necessità di frenare l’insurrezione e il timore di un crollo di Fatah tra la gente. Medio Oriente: la nuova Intifada porta in strada i palestinesi d’Israele, cittadini di serie B di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 ottobre 2015 A Nazareth, nei villaggi e nelle cittadine arabe in Galilea e del Neghev migliaia di palestinesi manifestano sull’onda della rivolta nei Territori occupati e contro con uno Stato che anche più di prima li considera cittadini di seconda classe e una "quinta colonna". È una sfida anche per Lista Unita Araba. Gli israeliani di Serie B sono scesi in strada. I palestinesi con cittadinanza israeliana, chiamati arabo israeliani, alzano la voce sull’onda dell’Intifada di Gerusalemme. Da Nazareth a Rahat nel Neghev, da Giaffa sulla costa a Umm el Fahem a ridosso della "linea verde" con la Cisgiordania, migliaia di palestinesi israeliani, in buona parte ragazzi, hanno sfilato e protestato, spesso scontrandosi con la polizia. Scene che non si vedevano dalla seconda Intifada. Non è solo solidarietà con le ragioni della nuova (possibile) Intifada. È anche, se non soprattutto, una protesta contro lo Stato di Israele di cui si sentono parte solo sulla carta, che continua a inquadrarli come una estensione del "nemico palestinese" nei Territori occupati. Una porzione consistente di israeliani ebrei non nasconde di guardare ai cittadini arabi come a una "quinta colonna", "traditori" pronti a fare il gioco del "nemico". "E la polizia non manca di farcelo capire in questi giorni", ci dice Mohammed Kabha un giovane attivista della zona di Ara-Araba, nella bassa Galilea. "Compie arresti preventivi ovunque, qui due sere fa sono stati presi sei giovani, tutti con meno di 18 anni", continua Kabha, "più di tutto ha un atteggiamento intimidatorio, lancia pesanti avvertimenti agli abitanti. Le autorità ci vedono come un pericolo perché siamo palestinesi come quelli dei Territori occupati. Il nostro passaporto è solo un libretto inutile, non saremo mai considerati cittadini veri di questo Paese". In questi giorni per vendicare gli accoltellamenti compiuti da palestinesi, gruppi di estremisti sono impegnati in una vera e propria una caccia all’arabo, di cui la stampa israeliana riferisce, anche se in modo insufficiente, mentre è ignorata dai media internazionali. La polizia ha arrestato ieri cinque dei 30 abitanti di Netaniya, a nord di Tel Aviv, che volevano linciare tre cittadini palestinesi. Due dei presi di mira sono riusciti a scappare, il terzo, Abed Jamal, è stato picchiato dalla folla inferocita che gridava "Morte agli arabi" e "A Netaniya gli arabi si falciano". Si è salvato solo grazie all’arrivo della polizia che, comunque, lo ha ammanettato, nonostate fosse la vittima dell’aggressione, per interrogarlo. "Anche se solo alcuni palestinesi (d’Israele) hanno commesso violenze, alla maggioranza degli israeliani ebrei bastano uno o due episodi per mettere sotto accusa tutti i cittadini arabi" spiega Wadie Abu Nassar, un analista di Haifa, "gli israeliani ebrei non capiscono che per i palestinesi qualsiasi tentativo di danneggiare i loro luoghi sacri, in particolare la moschea di al Aqsa, rappresenta il superamento di una linea rossa". I palestinesi israeliani, aggiunge Abu Nassar, "simpatizzano con i palestinesi dei Territori occupati non solo perché sono fratelli ma anche perché vedono Israele come una potenza occupante". Dieci giorni fa in diversi villaggi palestinesi e a Nazareth hanno commemorato le 13 vittime del fuoco della polizia durante gli scontri divampati in Galilea tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2000, all’inizio della seconda Intifada. Una tragica ripetizione dei colpi che il 30 marzo del 1976 uccisero sei palestinesi durante le manifestazioni contro la confisca delle terre arabe. Morti, quelli del 2000, che sono una ferita mai rimarginata e anche uno spartiacque politico interno, tra coloro che ritengono possibile un riconoscimento pieno della minoranza araba nello Stato di Israele e altri (sempre più numerosi) che chiedono la creazione di uno Stato unico democratico, non sionista. Uno Stato che non approvi più leggi, come quelle promosse dalla destra al governo in questi ultimi anni, destinate a colpire direttamente l’identità e i diritti dei cittadini palestinesi. Sullo sfondo di questo dibattito ci sono i due movimenti islamici (del Nord e del Sud), divisi sul rifiuto/integrazione nel sistema politico israeliano. Ayman Sikseck ieri spiegava su Ynet l’importanza degli eventi del 2000 per la formazione dell’identità degli arabi di Israele "Dopo la delusione generata dal fallimento degli accordi di Oslo - ha scritto - la loro solidarietà con i palestinesi nei Territori occupati è cresciuta… la loro rabbia (di questi giorni) deriva dalla percezione di un destino comune delle due popolazioni discriminate e dalla sensazione di ingiustizia". Di fronte a ciò le formazioni politiche arabe in Israele sono in affanno. La scelta unitaria (Lista Unita Araba, Lau) fatta all’inizio dell’anno per affrontare insieme le sfide lanciate a tutti gli arabi dalla legislazione aggressiva del governo e dei partiti di destra, pur avendo ottenuto un discreto successo elettorale non ha poi portato a nulla di concreto nella vita quotidiana, nella condizione di villaggi e città con minori risorse pubbliche rispetto ai centri abitati ebraici, non ha contribuito ad eliminare le discriminazioni e neppure a fermare il Prawer Plan per il "ricollocamento" (transfer forzato) di decine di migliaia di beduini del Neghev. "Molti dei palestinesi che ora sfilano nelle strade della Galilea non appartengono ad alcun partito, laico o islamista" afferma Mohammed Kabha "anzi, guardano a tutte le forze politiche, di qualsiasi orientamento, come figlie di un fallimento, della mancata comprensione della realtà israeliana. Il partito Jabha (comunista, parte della Lau) organizza iniziative con slogan come "Ebrei ed Arabi rifiutano di essere nemici". Ma più passano gli anni e più la società israeliana e il sistema politico ci considerano corpi estranei, nemici da isolare". Secondo Wadie Abu Nassar la Lista Unita Araba rischia di frantumarsi, di essere sommersa dall’onda dell’Intifada di Gerusalemme. "Mai come in questi giorni sono emerse nella Lista le differenze tra il binazionalismo di Jabha e il nazionalismo del partito Balad (Tajammo). Uno scontro - prevede l’analista - che potrebbe mettere fine all’esperienza unitaria". Afghanistan: il Pentagono pronto a risarcire Medici senza Frontiere per vittime di Kunduz La Repubblica, 11 ottobre 2015 Washington annuncia "una compensazione" per i feriti e i familiari delle persone uccise nell’ospedale di Medici senza Frontiere. Il Pentagono è pronto a offrire risarcimenti ai parenti delle persone uccise nell’ospedale afghano di Kunduz, bombardato dagli americani, e ai feriti. "Il Dipartimento della difesa - ha detto il portavoce Peter Cook - crede che sia importante lavorare alle conseguenze del tragico incidente". Il bilancio ufficiale della strage, avvenuta in una struttura gestita da Medici senza frontiere, è di 22 morti e 33 dispersi. "Uno dei passi che il Dipartimento potrebbe fare - ha aggiunto Cook - è una "compensazione adeguata per i civili non combattenti feriti e le famiglie dei civili non combattenti uccisi" da determinare attraverso contatti con coloro che sono rimasti coinvolti nella tragedia. Già nei giorni scorsi il presidente Obama aveva chiesto scusa a Medici senza frontiere e telefonato al presidente afghano per le condoglianze. L’iniziativa del Pentagono non ferma la richiesta di un’indagine internazionale indipendente, avanzata da Medici senza frontiere in virtù della Convenzione di Ginevra sui crimini di guerra. Washington però, sembra voler ignorare questo passaggio e procedere a una propria inchiesta interna, che si aggiunge a quelle della Nato e del governo afghano. In queste ore presidente afghano Ashraf Ghani ha appunto incaricato una commissione di condurre un’indagine autonoma sull’attacco aereo.