Nella costruzione di una nuova idea di carcere, non va demolito quel poco che funziona da Giunta e Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 10 ottobre 2015 Adesione all’appello "No al trasferimento del Direttore del carcere Due palazzi di Padova". L’Istituto "Due Palazzi" di Padova non può perdere il suo direttore, protagonista della trasformazione del penitenziario in un modello che dovrebbe essere seguito da altri. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, aderisce all’appello per non far trasferire il Direttore dell’Istituto "Due Palazzi" di Padova. La notizia, per quanto formalmente possa rappresentare un riconoscimento per il lavoro svolto, dall’altro preoccupa chiunque abbia a cuore l’attuazione dei principi espressi nella Costituzione e nelle leggi penitenziarie. In un sistema, quale quello carcerario italiano, che sconta l’assenza di effettive linee guida di politica penitenziaria, - ne è prova lo stato di degrado in cui tuttora si trovano alcuni istituti di pena - e affida alla capacità e alla sensibilità del singolo direttore di tradurre in realtà i principi di legalità della pena, la notizia desta sgomento e preoccupazione. Salvatore Pirruccio ha, pur con i limiti dovuti alla carenza di risorse, messo in atto una serie di lodevoli iniziative che necessitano della sua presenza. Se con gli Stati Generali, il Ministro della Giustizia ha voluto che ai detenuti sia riconosciuta e restituita la dignità dovuta, si consenta al Direttore Salvatore Pirruccio di continuare a Padova la sua opera. No al trasferimento del Direttore del carcere Due palazzi di Padova (Agenparl) La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, aderisce all’appello per non far trasferire il Direttore dell’Istituto "Due Palazzi" di Padova. La notizia, per quanto formalmente possa rappresentare un riconoscimento per il lavoro svolto, dall’altro preoccupa chiunque abbia a cuore l’attuazione dei principi espressi nella Costituzione e nelle leggi penitenziarie. In un sistema, quale quello carcerario italiano, che sconta l’assenza di effettive linee guida di politica penitenziaria, - ne è prova lo stato di degrado in cui tuttora si trovano alcuni istituti di pena - e affida alla capacità e alla sensibilità del singolo direttore di tradurre in realtà i principi di legalità della pena, la notizia desta sgomento e preoccupazione. Salvatore Pirruccio ha, pur con i limiti dovuti alla carenza di risorse, messo in atto una serie di lodevoli iniziative che necessitano della sua presenza. Se con gli Stati Generali, il Ministro della Giustizia ha voluto che ai detenuti sia riconosciuta e restituita la dignità dovuta, si consenta al Direttore Salvatore Pirruccio di continuare a Padova la sua opera. Giustizia: se il manifesto ideologico mina la neutralità dei magistrati di Giovanni Verde Il Mattino, 10 ottobre 2015 Sono stato invitato a presentare, con altri, un libro. Ho dovuto rinunciare per la concomitanza con altri impegni. Mi è venuta la curiosità di leggerlo, questo libro. È di Piero Tony, che lo ha scritto con la collaborazione di Claudio Cerasa. "Io non posso tacere" è il titolo. "Confessioni di un giudice di sinistra" il sottotitolo. La lettura mi ha confermato ciò che prevedevo. Si tratta di un magistrato che ha lasciato la toga, due anni prima del giorno in cui sarebbe andato in pensione, e racconta le sue personali esperienze come giudice e come pubblico ministero per dirci che le cose non vanno come dovrebbero andare. Mi è tornato alla mente, mentre leggevo, un libro del 1998, scritto da un altro magistrato, Francesco Misiani, e da Carlo Bonini: "La toga rossa. Storia di un giudice". Entrambi i libri hanno in comune una esperienza di vita: gli autori hanno fatto parte della corrente di sinistra della magistratura (Magistratura democratica) e ne sono usciti disillusi. Qualcosa non ha funzionato. Che cosa? Ho una mia opinione. Più di mezzo secolo fa, nel congresso di Gardone, i magistrati scoprirono l’importanza della Costituzione. È da quel momento che cambiò il loro modo di essere, l’ubi consistam. Era un’idea importante e affascinante insieme (e mi ha affascinato), che definiva in modo del tutto nuovo i compiti della magistratura. Ma come accade alle cascate, ci sono sempre rivoli che deviano dal corso originario, che seguono percorsi incontrollabili, spesso nocivi. E la Costituzione è come una cascata, perché descrive un mondo di valori e lascia, non può non lasciare a chi la applica il compito di svelarli. Ed è inevitabile che ciascuno lo faccia secondo il suo modo di vedere le cose. L’oggettività del giudizio giuridico, quella oggettività che fa raffigurare la giustizia come una donna bendata, perciò, si perde. Il giudizio diventa soggettivo e di un soggettivismo pericoloso quando la scelta ideologica cui ci si ispira per fare emergere i valori della Costituzione diventa la bandiera di un gruppo, la carta di identità di una corrente. Il disincanto di Misiani, ieri, e di Tony, oggi, nasce dalla constatazione che il manifesto ideologico mina la neutralità del giudice, lo rende partecipe della vicenda, nella quale il giudizio morale tende a prevalere sul giudizio giuridico. Nel 1998 Misiani ci narrava, in larga parte del libro, dei contrasti tra la Procura di Milano e quella di Roma, che si accapigliavano intorno alla competenza per indagare sui fatti di Tangentopoli, che Milano pretendeva di risucchiare in un unico calderone, quali che fossero i problemi di competenza (perché, si legge nel libro, soltanto i magistrati milanesi ritenevano di possedere l’autorità morale per investigare). E a conclusione c’è un’importante ammissione: "Quel che si ripropone agli occhi di Misiani, ancora una volta, è la constatazione della sostanziale discrezionalità del’azione penale, nonostante il dato costituzionale che ne impone l’esercizio obbligatorio". Se, però, Misiani ci narra soprattutto la sua vicenda, Tony, si serve della sua esperienza per dare uno sguardo ai complessi problemi della magistratura. Sono di estremo interesse le pagine dedicate al processo palermitano sulla collusione tra Stato e mafia, là dove è evidente che non si porta dinanzi al giudice il fatto-reato, ma un fenomeno, nell’intento di riscrivere un pezzo della nostra storia. Abuso di potere? In qualche pagina del libro questo giudizio è adombrato. E non meno interessanti le pagine che cercano di spiegare lo strano rapporto tra politica e magistratura, nel quale la prima chiede alla seconda appoggio e finisce con il rimanerne fortemente condizionata. O quelle per le quali il processo è diventato una gogna mediatica. Questi libri servono a qualcosa? Comincio a dubitarne, ricordando ciò che nel 1955 ebbe a scrivere nel "Diario di un giudice" un altro magistrato, Dante Troisi, che per averlo scritto dovette abbandonare la toga. Leggiamo insieme: "La nostra sembra una giustizia a cui importa sospettare e non provare, minacciare e non punire, incriminare e non giudicare. Ogni giorno cresce il numero di indiziati di reato. Presto saremo un popolo di imputati, ma al giudizio, se ci sarà un giudizio, arriveremo già convinti di avere già espiato con la lunga attesa ed esigeremo innocenza e risarcimento". Parole profetiche. Ma tutti abbiamo le nostre colpe. Ci sono alcune pagine del libro di Misiani che mi fanno venire i brividi: è là dove ricorda l’interrogatorio cui fu sottoposto Mauro Leone, che giaceva nel letto di un ospedale. È la folla ululante, che circonda Di Pietro, che lo osanna come una divinità, come una sorta di vendicatore disceso dal cielo ciò che mi spaventa. E mi spaventa il processo penale che libera, purtroppo anche ad opera dei mezzi di informazione compiacenti, gli istinti perversi che albergano in ciascuno di noi. È da tempo che mi ostino a scrivere che occorre mettere un freno. Giustizia: la magistratura italiana e quel disturbo passivo-aggressivo di Guido Vitiello Il Foglio, 10 ottobre 2015 Carofiglio scopre il conflitto tra le "pulsioni arroganti" del magistrato e "l’entità impersonale" dell’obbligatorietà dell’azione penale. I manuali di scrittura si somigliano un po’ tutti. Invitano alla semplicità, alla concisione, alla chiarezza, all’eleganza; sono imbottiti di epigrafi e citazioni da autori più o meno illustri; ammiccano di continuo al lettore con quel caro, affabile, professorale spirito di patata che risveglia anche nel più mite l’ombra vendicatrice di Franti; citano compulsivamente Italo Calvino - la maledetta leggerezza di Italo Calvino. Per fortuna citano anche quel magnifico articolo del 1965 sull’antilingua, ossia l’italiano di chi non sa dire "ho fatto" ma deve dire "ho effettuato", la lingua sepolcrale e dilatoria delle burocrazie, piena di circonlocuzioni e di termini astratti e di subordinate che si annodano in serpentoni sintattici indistricabili. La peste dell’antilingua ha molti focolai, e ogni manuale pesca i suoi esempi nel lazzaretto più familiare all’autore: nei comunicati aziendali, nelle circolari ministeriali, nella prosa accademica. Davanti al breviario di scrittura di un magistrato, capirete bene, mi si sono subito drizzate le antenne. "Con parole precise" (Laterza) di Gianrico Carofiglio somiglia a molti altri manuali, ma prende il grosso dei suoi esempi da sentenze, verbali d’interrogatorio, trascrizioni di intercettazioni. Ebbene, com’è fatta l’antilingua giudiziaria? L’aspetto esteriore non è così originale - come i manuali di scrittura, i dialetti dell’antilingua si somigliano un po’ tutti - ma sulla sua ragione profonda Caro-figlio ha un’idea formidabile. La caratteristica principale dell’antilingua, scriveva Calvino, è il "terrore semantico", la fuga davanti a ogni vocabolo immediatamente comprensibile; e la sua radice psicologica è la mancanza di un vero rapporto con la vita. Si fugge dalle parole semplici per fuggire a sé stessi, perché si è tristi o disgustati. Diagnosi molto penetrante, ma siamo sicuri di poterla applicare al magistrato che scrive (cito uno degli esempi di Carofiglio) "va pertanto accertato se siano stati adempiuti da parte della banca gli obblighi di comportamento gravanti sulla medesima"? L’autore fa un’altra congettura: "La predilezione del linguaggio giuridico e burocratico per i verbi in forma passiva fa pensare a quella che gli psicologi chiamano la personalità passivo-aggressiva. Un atteggiamento che dietro una apparente remissività nasconde pulsioni arroganti, minacciose e di sfida". Nella forma passiva, aggiunge, "ogni opinione è attribuita a una entità impersonale (deve ritenersi, non può non considerarsi)". Carofiglio la lascia cadere nel vuoto, quasi sbadatamente, ma è un’idea che vale un libro intero. Titolo provvisorio: "La magistratura italiana e il disturbo passivo-aggressivo. Un’analisi psicolinguistica". Temi del libro: il ricorso a forme impersonali come sintomo nevrotico in cui si rispecchia il conflitto tra le "pulsioni arroganti" del magistrato e l’"entità impersonale" dell’obbligatorietà dell’azione penale; l’oggettiva "cattiva fede" in cui è costretto a vivere il pm che si dibatte tra l’esercizio di un amplissimo potere personale e la finzione anonima dell’"atto dovuto"; la psicopatologia delle carriere unite. Citazioni, esempi? Per il momento ne ho solo uno, un rapporto di polizia giudiziaria del 1983 che suona decisamente passivo-aggressivo: "Si vuole che sia dedito allo spaccio delle sostanze stupefacenti nell’ambiente artistico da lui frequentato". Il lui in questione era Enzo Tortora. Giustizia: pm europeo, scontro Italia-Germania sull’uso delle intercettazioni di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2015 Andrea Orlando batte i pugni sul tavolo del Consiglio dei ministri Ue della Giustizia contro chi, Germania in testa, vorrebbe comprimere l’utilizzo delle intercettazioni da parte della Procura europea. Se non verranno superate queste posizioni, il guardasigilli minaccia una exit strategy" dell’Italia, perché "il gioco non varrebbe la candela": il rischio, dice "brutalmente", è infatti "costruire una struttura senza alcuna funzione e alcun potere", cioè "la frustrazione di un’ambizione, che può pregiudicare la credibilità complessiva dell’Unione". Orlando propone quindi un "compromesso", dicendosi disponibile "a individuare le fattispecie di reato la cu i gravità giustifica l’utilizzo delle intercettazioni". "Discutiamone, ma è assolutamente imprescindibile - ribadisce - che questi strumenti siano nella disponibilità della Procura". Lo scontro consumatosi ieri a Lussemburgo vede dunque l’Italia nei panni di paladina delle intercettazioni contro il governo tedesco, insofferente a strumenti di indagine invasivi della privacy. E cade proprio mentre da noi il governo è invece accusato di voler ridurre il ricorso dei magistrati alle intercettazioni e la loro pubblicazione sui giornali, in nome della privacy. Perciò, se a Lussemburgo Orlando la spunterà (sia pure "al prezzo" di limitare l’utilizzo degli ascolti soltanto per alcuni reati), in Italia la sua vittoria potrebbe diventare anche un argomento politico per smentire le accuse al governo al tempo stesso dimostrare la tendenza europea a privilegiare la privacy. "Da Lussemburgo non giunge un buon segnale" commenta Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, secondo cui "è paradossale che, mentre in Italia si discute se ampliare l’ambito delle intercettazioni con riferimento ai reati di corruzione, si voglia inibire alla Procura europea di utilizzare quest’importante strumento investigati vo per perseguire i reati di frode comunitaria". "Aspettiamo di vedere il progetto organico sulla creazione della Procura europea e i suoi poteri - dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ricordando che essa "deve occuparsi di frodi contro gli interessi dell’Ue e dev’essere dotata di poteri molto efficaci: non possiamo immaginare che si debbano ridurre le condizioni per procedere all’attività dì intercettazione, figuriamoci la sua impossibilità". Orlando ha chiesto ai colle-gnidi non sottovalutare la "ramificazione di organizzazioni criminali potentissime, che proprio attraverso le frodi all’Ue hanno rafforzato il loro potere e la loro capacità di influenzare i traffici finanziari e di alterare le dinamiche di mercato". Di qui la necessità di dotare il Pm europeo di "sufficienti strumenti" che evitino "il fallimento" di questa struttura. Già rappresentano un "compromesso", ha detto Orlando, le "eccezioni e i limiti" alla previsione secondo cui la Procura Ue può operare in un unico spazio giuridico, impiegando forme dirette di cooperazione delle indagini transfrontaliere e in cui le prove raccolte sono sempre utilizzabili davanti ai Tribunali degli Stati membri, a prescindere dal luogo in cui sono state acquisite. Ma non è accettabile la proposta di comprimere l’uso delle intercettazioni, "unico strumento attraverso cui si possono realizzare indagini in questo campo", perché ciò farebbe del Pm europeo "poco più che un soggetto ornamentale". Lettere: attenzione ai luoghi comuni della "fauna carceraria" da Voce Libera* Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2015 Bisogna canzonare ogni forma di ipocrisia, con sguardo critico. Occorre molta attenzione a non farsi ingannare dai luoghi comuni, ne deriverebbe un occultamento della verità. Quelli che sono ossessionati da muscoli, dieta e palestra. Si pavoneggiano, nelle rare occasioni in cui passeggiano all’aria invece di fare jogging, raccontando di come sono riusciti a scolpire il fisico statuario. Nessuno ha mai avuto il coraggio di spiegare ai palestra-dipendenti che, spesso, un aggettivo azzeccato è molto più erotico della tartaruga che coltivano con tanta cura? Quelli che si ostinano a parlare in stretto dialetto calabrese o siciliano, anche se vivono al Nord ormai da decenni. Quelli che, la maggior parte, sono innocenti, non hanno fatto nulla, si tratta di un errore e la prossima settimana andranno a casa. Quelli che, appena tornati dal colloquio con l’educatrice, raccontano in sezione di come per l’ennesima volta l’hanno presa per i fondelli recitando la parte del povero padre di famiglia che: "Dottoressa, con i bambini piccoli che hanno fame, cosa dovevo fare? Sono dispiaciuto, mi rendo conto dell’errore, sto cercando un lavoro qualsiasi, purché onesto, anche a pulire i cessi, ma ho bisogno di un’altra opportunità". "Ragazzi! Ci è cascata come una pera cotta. Volete sapere cosa faccio appena esco? Faccio il giro dei bar dove mi conoscono, lascio pagate alcune bottiglie di champagne in modo che si capisca che è tornato ‘il magò. Quello che mi rompe veramente le scatole è che mi hanno sequestrato bilancia e pressa e le dovrò ricomprare". Quelli che: "La prima cosa che faccio quando esco è di andare a prendere a quello che mi ha infamato, ed è per colpa sua che io mi sto facendo la galera". Quelli che: "Io non sono come tanti altri morti di fame che lasciano i figli e la famiglia senza un soldo, a casa da me, mia moglie qualsiasi nascondiglio apre trova mazzette di soldi; è così che si lavora, pensando al futuro". Quelli che: "Io sono un duro, a me non me la fa nessuno", sono gli stessi che poi si vendono per un ciuffo di tabacco. Quelli che: "Il segreto di un buon criminale è quello di lavorare da solo. Oggi come oggi non puoi avere fiducia di nessuno, perchè - caro mio - ti cantano"! Quelli che quando arriva la spesa si accorgono che: "Quei bastardi non mi hanno caricato soldi. Eppure io nella mia vita di soldi ne ho girati tanti. Mi trovo così per colpa degli amici, sono troppo buono". Quelli che: "Ho dieci figli, tre matrimoni alle spalle, ho già scontato trent’anni di galera e ne devo fare altri quindici", che dovrebbe avere l’età di matusalemme e invece ne ha meno di cinquanta. Quelli che: "Ho già tutto pronto, c’è la casa, c’è il lavoro, il mio avvocato è culo e camicia con il giudice". Da più di sei mesi vanno ripetendo: "Domani esco, me l’hanno garantito". Quelli che: "Affronterò il processo a piede libero. Mio padre, l’avvocato e il giudice sono andati a cena ieri sera per mettersi d’accordo". Al processo, ovviamente, gli hanno rigettato la richiesta di domiciliari. Quelli che: "Che cosa ti lamenti per due anni di galera che devi fare? Se li avessi io me li farei al cesso". Quelli che: "Sono arrivato all’Aeroporto della Malpensa con una valigia, senza sapere cosa contenesse. Quando gli sbirri mi hanno fermato, hanno bucato la valigia. Bianco Natale". Quelli che, seduti sui gradini delle scale, in attesa che venga aperto il cancello che porta al piano socialità si guardano in faccia e: "Ma noi, che cosa ci facciamo in mezzo a tutti questi delinquenti?". Uno ha ammazzato il padre, ma si è trattato di un incidente, è caduto sulla lama del coltello; l’altro, se non fosse partito accidentalmente il colpo, non avrebbe ammazzato l’uomo che era andato a minacciare * Magazine della Casa Circondariale di Busto Arsizio Lettere: appello per Giulio Petrilli "difendiamo la giustizia sociale e chi la pratica" di Giovanni Russo Spena, Italo Di Sabato e Marcello Pesarini abruzzoweb.it, 10 ottobre 2015 Giulio Petrilli è stato condannato dalla Corte di Cassazione dell’Aquila a otto mesi senza condizionale per abuso di ufficio per avere regolarizzato 5 dipendenti part time quand’era presidente dell’Aret (azienda regionale economia e territorio) dal 2006 al 2008, e siglato un nuovo contratto con il direttore, riducendone il compenso da 110.000 euro annui a 39.000. Quello che sarebbe stato un esempio di buon governo, proiettato verso il territorio da governare, diventa abuso di ufficio; eppure i cinque dipendenti sono ancora al loro posto. Noi che abbiamo conosciuto l’accusato, sosteniamo che, oltre alla persona, si sia voluto punire di nuovo un uomo che ha già pagato in termini di giustizia trovandosi poi prosciolto. Petrilli non ha potuto usufruire del risarcimento entrato in vigore nel 1989 per chi è stato condannato ingiustamente, perché la legge non è retroattiva. Era stato condannato a 18 con l’accusa di essere uno dei capi di Prima Linea. Ha passato 5 anni e 8 mesi in carcere, che non gli saranno mai restituiti. Su questa difformità nell’applicazione della legge egli ha costruito una lunga battaglia politica, rilevando che su ben 4 milioni e mezzo di persone vittime di errori giudiziari, solo 25.000 hanno ottenuto il risarcimento. Dopo l’iter di una proposta di legge promossa dal Partito Radicale, ed una ristretta applicazione all’interno della finanziaria 2012, Petrilli si è visto negare qualsiasi riconoscimento al risarcimento perché, date le sue frequentazioni, non è stato ritenuto dalla Giustizia pentito di ciò per cui era stato accusato. Una legge che avrebbe potuto dare il suo contributo al superamento del clima instauratosi in Italia negli anni di piombo, non ha mai visto la luce. Ora noi, lavoratori, cittadini, impegnati nella costruzione della reciproca convivenza basata sulla giustizia amministrativa e sociale, chiediamo alla Giustizia Italiana ma anche alla Politica di prendere la vicenda di Giulio Petrilli come momento per rifiutare la colpevolizzazione dell’impegno politico e sociale nel paese, attraverso reprimende e condanne fuorvianti, e di approfittare del caso singolo per riprendere il percorso di superamento delle asperità degli anni di piombo. Revisione del processo e riconsiderazione politica dell’azione dell’imputato. Veneto: il Presidente Zaia "la Regione sarà parte civile al processo Mose" di Filippo Tosatto Il Mattino di Padova, 10 ottobre 2015 Scelto un penalista esterno al Palazzo. L’eventuale richiesta risarcitoria a Galan legata al verdetto della Corte dei Conti Il 22 ottobre, all’udienza inaugurale del processo Mose, la Regione Veneto non farà da spettatrice distratta. In mattinata, il governatore leghista Luca Zaia ha proposto alla Giunta la costituzione di parte civile dell’amministrazione, raccogliendo il consenso unanime degli assessori. Un atto doveroso, conseguente agli effetti devastanti dello scandalo che ha investito direttamente l’istituzione regionale, con l’arresto dell’assessore Renato Chisso (Forza Italia), del consigliere del Pd Giampietro Marchese e dei dirigenti del Balbi Giuseppe Fasiol e Giovanni Artico, "Come avevamo garantito fin dall’inizio, la Regione si tutelerà in sede civile in questa vicenda giudiziaria", le parole di Zaia "è il completamento di un percorso in cui ci eravamo già dichiarati parte offesa il giorno dopo l’avvio dell’azione pena le che ha toccato da vicino ex amministratori regionali e anche il territorio. Adesso, terminate le fasi discrezionali, si va al processo e noi ci saremo, non con la presenza dell’Avvocatura Regionale che ha comunque tutta la nostra fiducia sul piano delle capacità professionali, ma attraverso un penalista esterno appositamente incaricato perché non ci siano dubbi di sorta sulla nostra volontà di andare fino in fondo. Il nostro non è un gesto simbolico, se ci saranno condanne chiederemo i danni, una volta capito nella fase processuale quali siano stati quelli diretti e indiretti". Il riferimento corre sia agli eventuali ammanchi materiali che alla lesione d’immagine derivante da una vicenda di malaffare detonata il 4 giugno 2014, con la retata scandita dall’arresto del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dall’incriminazione dell’ex ministro Giancarlo Galan, finita in prima pagina sui giornali di mezzo mondo. Una decisione nell’aria, insomma, sollecitata nei mesi scorsi, anche m toni pungenti, da esponenti dell’opposizione dem quali il capogruppo Alessandra Moretti e il consigliere Piero Ruzzante: "Che volete che vi dica, qualche disperato, non sapendo più come nascondere la polvere sotto il tappeto del suo partito, ha fatto polemica", lo stizzito commento zaiano. Controreplica del Pd: "Un fatto positivo, perché la Regione non poteva non schierarsi m modo deciso dalla parte di quanti chiedono verità, trasparenza e giustizia", dice Andrea Zanoni "ora auspico che vengano avanzate richieste proporzionate al grave danno patito e che il Consiglio regionale venga informato sulle prossime decisioni, compresa la scelta riguardante il legale". Tornando al processo, il governatore non figura nell’elenco dei testimoni citati: "Ma non escludo che in aula qualcuno chieda di ascoltarmi, io sono pronto e disponibile. In ogni caso, occorre una rivoluzione etica nelle coscienze, altrimenti continueremo a produrre nuove regole e nuovi ladri". In tribunale sfileranno figure della politica (Orsoni, Lia Sartori, Altero Matteoli); manager come Giancarlo Ruscitti, Corrado Crialese e Lino Brentan; alti funzionari dello Stato (Maria Giovanna Piva, Vittorio "Verificheremo la portata dei danni materali e di quelli all’immagine del Veneto il governatore leghista Luca Zaia ha deciso la costituzione di parte civile della Regione Giuseppone); fino alla triade rappresentata da Giovanni Mazzacurati (Venezia Nuova) Piergiorgio Baita (Mantovani) e Claudia Minutillo (Adria Infrastrutture) già segretaria galaniana. A proposito: l’ex Doge ha patteggiato la pena in fase di indagine preliminare e la circostanza (ai sensi dell’articolo 447 del codice penale) impedisce la costituzione di parte civile della Regione, che può avvenire solo in fase dibattimentale; non è detta l’ultima parola, però: la Corte dei Conti contesta a Galan un danno erariale di 5 milioni e l’Avvocatura regionale ha già preso contatto con la Procura contabile: se la responsabilità del parlamentare sarà accertata, allora diventerà possibile un "atto di intervento" del Balbi con richiesta risarcitoria. Sembra facile, già. Parma: "l’agente mi picchiava con la stampella", i pm indagano sui pestaggi in carcere di Giovanni Tizian L’Espresso, 10 ottobre 2015 La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu", ammetteva un poliziotto. Un’inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l’anno scorso da "l’Espresso", sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all’abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all’interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da "l’Espresso", e acquisiti dai magistrati su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l’indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. "Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall’ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella". Nell’album fotografico mostrato ad Assarag durante l’interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall’ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c’è l’abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all’interno delle celle esistesse un’unica legge, non scritta: "Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...", spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: "Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente". Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a "legnate" inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine "da infame": ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: "Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!". Il funzionario replica laconico: "Perché ti devi comportare bene". Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: "Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?". "Sì, ho visto", conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: "Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici", dichiara un agente: "Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...". Assarag è assistito dall’avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: "Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro". Il legale, in una memoria, scrive: "A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni". Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani. M5s: situazione carceri allarmante, fare luci su abusi a Parma "Il sistema di omertà e abusi nelle carceri italiane deve essere assolutamente fermato. Quanto emerge dall’inchiesta di Giovanni Tizian per l’Espresso è inquietante, ma non deve far retrocedere dal cercare la verità, per la dignità dei detenuti in primis, e di tutti gli agenti penitenziari e operatori che lavorano con serietà e dedizione in ambienti estremante difficili non per questo uscendo dalla legalità". I membri M5S della commissione Giustizia esprimono forte preoccupazione in merito al sistema di omertà e violenze uscito dalle denunce di Rachid Assarag assistito dall’avvocato Anselmo, gli audio sono agghiaccianti: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu", è esemplificativo del sistema di tranquillità con cui le violenze vengono perpetrate nella assoluta indifferenza di chi dovrebbe denunciare questo tipo di abusi. Chiediamo al Ministro Orlando di intervenire con un’azione di inchiesta urgente per verificare che queste catene di violenza e mancato controllo non si verifichino più. Venezia: interrogazione sul carcere dei deputati del Pd, il ministro promette attenzione La Nuova Venezia, 10 ottobre 2015 È stata un’estate molto calda a Santa Maria Maggiore, culminata il 29 luglio nell’aggressione di un agente da parte di un detenuto; 6 giorni di proteste con battitura delle sbarre e 2 giorni di sciopero della fame in solidarietà con Marco Pannella per un provvedimento di clemenza; in un giorno ad altissima tensione (11 settembre) con il lancio di indumenti, giornali, lenzuola incendiati. Rispondendo a un’interrogazione dei deputati Pd veneziani Murer, Mognato, Martella, Moretto, Zoggia, il ministro della Giustizia Orlando conferma situazioni di disagio, assicura "un attento monitoraggio e controllo dell’istituto", promette a novembre un aumento nel numero degli agenti oggi sotto organico (156 sui 181 in pianta organica) in occasione del termine del corso di formazione in atto, ma nel complesso usa toni tutto sommato rassicuranti e dissonanti con le voci dal carcere che parlano di sovraffollamento, mancanza di opportunità di lavoro, difficoltà burocratiche per i colloqui e le telefonate. Così - scrive Orlando - i detenuti sono sì in esubero (257 il 2 ottobre, contro i 180 previsti), ma ognuno ha almeno 3 metri quadrati a testa di spazio vitale a Santa Maria Maggiore. L’atto di violenza contro un agente? Autore un detenuto con problemi psichiatrici conosciuti e ora trasferito a Verona in osservazione psichiatrica. Così come sono stati trasferiti altri 11 detenuti, per alleggerire un po’ la popolazione del carcere. Nella sua risposta, Orlando sostiene anche che nell’istituto operino 87 volontari, che mediamente 40 detenuti (a rotazione) siano impegnati al lavoro nei laboratorio di serigrafia (2 posti) e pelletteria (6), più un laboratorio di recupero bici per i detenuti con regime di lavoro esterno e alcune borse di studio. Novantuno i detenuti che nel 2014-2015 hanno seguito i diversi corsi di studio (per lo più, alfabetizzazione alla lingua italiana, educazione alla cittadinanza). "Quest’insieme di attività costituisce un patrimonio irrinunciabile per l’intera comunità veneziana", commentano ora i parlamentari del Pd, "va assolutamente implementato e non può essere messo in discussione da situazioni di tensione interne all’istituto. Il ministro assicura un attento monitoraggio e controllo: per quel che ci riguarda continueremo ad assicurare la nostra attenzione alle condizioni di vita e lavoro dei detenuti e del personale di polizia giudiziaria dell’Istituto". Milano: nasce "Avvocati per Milano", tutti i servizi al cittadino dell’ordine degli avvocati milanotoday.it, 10 ottobre 2015 Un modo per avvicinare i milanesi al mondo dell’avvocatura ma soprattutto per offrire servizi utili e accessibili al maggior numero possibile di persone: questo è il senso del nuovo portale AvvocatiPerMilano.it, presentato il 7 ottobre. I servizi pensati - con il sostegno delle istituzioni locali, a partire dal comune e dalle zone - sono davvero tanti. Obiettivo, aiutare i cittadini a far valere il proprio bisogno di giustizia e di legalità. "Vogliamo parlare alle persone di diritti, dignità umana, etica, rispetto, lotta alle diseguaglianze. L’educazione alla legalità è il punto di partenza: non possiamo limitarci ad incidere sulla violazione dei diritti umani, dobbiamo essere concreti nel rimuovere le cause e diffondere l’etica del rispetto degli altri, il valore della solidarietà, la concretezza dell’aiuto reciproco", ha dichiarato Remo Danovi, presidente dell’ordine milanese degli avvocati. Sportello del cittadino. Nasce per fornire informazioni sugli adempimenti necessari per avviare una causa, sugli strumenti alternativi, sui costi e i tempi della giustizia, sulla difesa d’ufficio e il patrocinio a spese dello Stato. Inoltre si possono ricevere indicazioni sui professionisti a cui rivolgersi per ogni settore specifico con apposite liste di avvocati divisi per competenza. Lo sportello si trova a Palazzo di Giustizia, al primo piano, ingresso da corso di Porta Vittoria, presso l’Urp, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13. Avvocati in zona. Insieme al comune di Milano, continua l’iniziativa nata nel 2010 che prevede un servizio di orientamento al percorso legale, concentrato sulle tematiche sociali: dallo stalking alle violenze. Il servizio offre un ampio ventaglio di consulenza ed è accessibile su appuntamento, contattando il consiglio di zona. Orientamento contro la violenza di genere. Si tratta di uno sportello attivo ogni due giovedì pomeriggio, dalle 14.30 alle 16.30, presso la Casa dei diritti di via De Amicis, realizzato dal comitato pari opportunità dell’ordine degli avvocati, su appuntamento. Sportello diritto donna. È uno sportello simile al precedente ed è attivo in zona 4, in via Oglio 18. Per appuntamento si può contattare il consiglio di zona. Lo sportello è attivo ogni due mercoledì. Sportello carcere. In collaborazione con le carceri milanesi, l’ordine degli avvocati ha attivato un orientamento al percorso legale. L’accordo per l’attivazione dello sportello a Bollate, Opera e San Vittore è stato siglato con la regione, il Tribunale di sorveglianza e la Camera penale. Educazione alla legalità. Gli avvocati entrano a scuola con questo progetto che riguarda gli istituti di Milano e della provincia per trattare tematiche particolarmente delicate per i giovani: dall’alcol alle droghe, dal bullismo al vandalismo, dalla violenza allo stalking, dall’uso sicuro di internet all’educazione stradale. Le scuole interessate devono contattare l’ordine degli avvocati per avviare il progetto. Sportello reati informatici. Informazione e orientamento indirizzato alle vittime di reati informatici, come il furto d’identità, le truffe online, le violazioni di account. Lo sportello apre il 20 ottobre 2015, su appuntamento, ogni quindici giorni di martedì pomeriggio presso la sala avvocati dell’ordine, a Palazzo di Giustizia (primo piano dall’atrio centrale). Milano: in prigione per errore, non riesce a uscire per una questione di competenze di Luigi Gambacorta Avvenire, 10 ottobre 2015 Piccolo spacciatore aveva obbligo di firma che rispettava al commissariato invece che in questura. Arrestato, ora la sua sentenza è in giudicato. Diallo A. può aspettare. In cella, a San Vittore. Ci era ritornato il 30 luglio per un "disguido d’ufficio" ammesso da Maurizio Azzolina, dirigente della Divisione Anticrimine della questura. Rischia di rimanerci ancora per un disguido di giustizia". Ventotto anni, originario delle Guinea, regolare in Italia, di lingua francese, col suo improbabile italiano ha impiegato due mesi prima di capire il mistero del secondo arresto e per trovare in Antonio Nebuloni un avvocato che volesse ascoltarlo. Diallo fu arrestato in flagranza (spaccio di droga leggera) il 24 maggio. Il primo luglio fu condannato a un anno e 200mila euro di multa. Il giudice Micaela Curami commutò la pena in "obbligo di firma, lunedì, mercoledì e venerdì presso gli uffici della polizia giudiziaria". Da mercoledì primo luglio sino all’arresto Diallo "non ha mai saltato un giorno il suo obbligo. Ha firmato al commissariato di Porta Genova a insaputa della questura dove era stato invitato. Solo dalla consultazione degli atti dell’archivio generale è stata rinvenuta una nota del commissariato all’anticrimine. Sfuggita all’attenzione degli operatori è stata trattata come tutta la corrispondenza che perviene all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione". Nel frattempo, già lunedì 6 luglio (terza firma) era partita la segnalazione dell’anticrimine che faceva di Diallo un "renitente all’obbligo". Con la stessa rapidità il 10 luglio il Tribunale "ripristinala custodia cautelare in carcere". Il 30 luglio, nel corso di un controllo cui Diallo si sottopose senza timori, scattò l’arresto. Azzolina, un dirigente che non cerca cavilli, ha subito inviato la nota di chiarimento alla Procura e al Tribunale delle "direttissime". Ci si poteva aspettare un fax a San Vittore con l’ordine di scarcerazione immediata. Con la solerzia adotta, per fare un esempio, con alcuni illustri personaggi cui fu impedito di farsi aprire il portone di Piazza Filangieri per scontare la sua pena. Invece lo stesso giudice Micaele Curami, che convertì il carcere in obbligo di firma, ha eccepito la sua incompetenza, visto che la sentenza di condanna è ormai definitiva. E all’avvocato Nebuloni non risulta che l’ufficio esecuzioni della Procura si sia pronunciato. Sicché non gli resta che meditare una richiesta di risarcimento danni per ingiusta detenzione. E anche una causa di responsabilità civile. Ma contro chi? Treviso: "fatemi accudire il mio bambino di 5 anni", detenuto ricorre in Cassazione La Tribuna di Treviso, 10 ottobre 2015 Chiede i domiciliari per poter accudire il figlioletto di cinque anni. Un papà 57enne di Susegana, arrestato nel 2010 per aver venduto un chilo di marijuana a un pusher e detenuto a Santa Bona, ha presentato ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che nel 2014 aveva già respinto una prima volta la sua richiesta di poter rimanere vicino al bambino. La Suprema Corte romana ha parzialmente accolto il ricorso, annullando l’ordinanza del Tribunale e rinviando il caso per un nuovo esame. Alla base della decisione, l’impossibilità di capire con chiarezza chi si stia occupando, in questo momento, del bambino, perché la madre (la compagna del detenuto) lavora a tempo pieno in un locale pubblico, e la rete familiare che potrebbe prendersi cura del minore non è stata ancora ricostruita. Lo spacciatore, con una lunga serie di precedenti penali alle spalle prima dell’arresto, aveva chiesto i domiciliari per la prima volta nel 2013, spiegando che la compagna era titolare di un esercizio commerciale che la impegnava dalle 6 alle 21. I carabinieri di Susegana avevano controllato l’idoneità dell’alloggio del bambino, confermato il lavoro della madre ma, allo stesso tempo, ritenuto il padre pericoloso sulla base dei suoi precedenti. Nonostante il loro parere favorevole, il Tribunale di Sorveglianza respinse la richiesta, sottolineando che l’attività lavorativa della madre non determina, di per sé, l’impossibilità di accudire la prole, esistendo altri familiari che possono rimanere con il figlio per il tempo necessario. Indicazioni troppo generiche, secondo la Cassazione: "Di tali condivisi principi il Tribunale di Sorveglianza ha fatto applicazione solo formale" ribadisce la sentenza della Corte "limitandosi a osservare che l’impegno lavorativo della madre del figlio di tre anni non può integrare l’assoluto impedimento richiesto dalla norma indicata, senza analizzare la fattispecie concreta". Ora, quindi, il Tribunale dovrà appurare che davvero quel bimbo abbia altri parenti che si prendano cura di lui. Roma: arriva detenuto psichiatrico, la scorta sbaglia ingresso e finisce al pronto soccorso tiburno.tv, 10 ottobre 2015 Scene da panico per le vie di Palombara Sabina (Rm) martedì scorso per l’arrivo di un altro detenuto-paziente nella struttura Rems all’ospedale "Santissimo Salvatore". In pratica, in pieno giorno, verso l’ora di pranzo a ridosso della scuola dell’Infanzia, i cellulari della Polizia penitenziaria, scortati dai Carabinieri, hanno fatto irruzione all’ingresso del Primo soccorso della Casa della Salute, sbagliando l’ingresso della struttura adibita da quest’estate alla Rems. In poche parole il decimo detenuto doveva passare dalla parte bassa della nuova Residenza psichiatrica giudiziaria, nell’area parcheggio di piazza Salvo d’Acquisto accanto alla Camera mortuaria. Il paziente scambiato inizialmente per un detenuto evaso. L’errore, però, ha generato nella zona paura e terrore tra alcuni passanti, attoniti ed incuriositi da tanto personale delle Forze dell’ordine sceso in massa al Primo soccorso, il cui personale nel frattempo stava svolgendo le proprie attività medico-sanitarie. A mettere a tacere le voci che in questi giorni circolavano in paese, la versione ufficiale del sindaco di Palombara Sabina, Alessandro Palombi, che ha dichiarato a margine del consiglio comunale di giovedì 8 ottobre che "in molti hanno pensato che si fosse trattato di una fuga finita male di un detenuto-paziente, mentre è stato solo un mero errore da parte di chi scortava il nuovo ospite nella Rems", ha tranquillizzato il primo cittadino di Palombara Sabina. Va ricordato, inoltre, che ufficialmente dal 18 agosto scorso è stata attivata la Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza provvisoria, per volontà della Asl Roma G nella "Casa della Salute" di Palombara Sabina denominata "Merope" che ospiterà in tutto venti utenti uomini che hanno compiuto reati contro la persona. La realizzazione delle strutture per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive risponde ad una necessità di cure per utenti psichiatrici autori di reato. E alla esigenza di ottemperare a quanto previsto dal Decreto ministeriale del primo ottobre 2012, emanato in applicazione dell’articolo 3, comma 2 del Decreto legge 22.12.2011, convertito con la Legge 17.02.2012, concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari in Rems. San Cataldo (Cl): grande successo per il progetto di giustizia riparativa Il Fatto Nisseno, 10 ottobre 2015 Essere impegnati in lavori di pubblica utilità in città piuttosto che rimanere nel buio della detenzione, acquisendo professionalità e recuperando autostima: è lo spirito di un progetto che vede attualmente coinvolti due detenuti della locale Casa di Reclusione. Uno spirito, che è stato ribadito in occasione dell’incontro che s’è svolto al Comune alla presenza del sindaco Giampiero Modaffari, dell’assessore alle Politiche Sociali Salvatore Sberna, del tutor comunale dott. Calogero Spezio, dell’ex direttore del penitenziario (che ha avviato l’iter del progetto) dott.ssa Nunziella Di Fazio, del responsabile dell’area educativa Michele Lapis; del comandante di Polizia penitenziaria Alessio Cannatella, del cappellano del carcere padre Enrico Schirru e del nuovo direttore reggente del penitenziario, dott.ssa Francesca Fioria. L’incontro è servito per fare il punto sul progetto già avviato da metà settembre. Due detenuti sono impegnati in attività quali manutenzione di aree a verde presenti in città, piccoli lavori di riparazione e quant’altro. Ciò, nell’ambito di una convenzione, sottoscritta tra Comune, Casa di Reclusione e Ufficio di esecuzione penale esterna di Caltanissetta, in applicazione a quanto stabilito in materia di Giustizia riparativa, la quale prevede che gli ospiti del penitenziario possono essere assegnati ad attività a beneficio della collettività, a titolo gratuito. "Con questo progetto - ha dichiarato il sindaco Modaffari - si sono creati i presupposti per dare la possibilità a chi ha commesso un torto verso la società di reinserirsi a livello sociale. I detenuti coinvolti stanno svolgendo un lavoro encomiabile in ambiti in cui il Comune non poteva intervenire per mancanza di personale". La dott.ssa Di Fazio ha ringraziato l’Amministrazione per la realizzazione fattiva di un progetto che, per la sua impostazione rappresenta un caso unico in Italia e che vuole dare ai fruitori l’opportunità di restituire quanto tolto alla società". Brindisi: "io sposa in carcere, matrimonio triste davanti a mia figlia di quattro anni" di Stefania De Cristofaro brindisireport.it, 10 ottobre 2015 "Nozze alla presenza di dieci agenti penitenziari: zero sensibilità, un trauma per la bimba". Il racconto di una brindisina che il 7 ottobre ha detto sì al compagno, condannato per droga in primo grado: "Due giorni prima mi hanno fatto cambiare testimoni". "Mi sono sposata nel carcere di Brindisi, dove il mio compagno era detenuto, ed è stato il giorno più brutto della mia vita perché è stato di una tensione estrema: mi sono sentita umiliata davanti a mia figlia di quattro anni, dopo una serie di peripezie, visto che il matrimonio è stato celebrato alla presenza di dieci agenti della polizia penitenziaria che non ci hanno lasciato neppure il tempo dello scambio delle fedi. La bimba si è spaventata a tal punto che me ne sono andata via subito, senza neppure parlare con chi nel giro di qualche minuto è diventato mio marito". Racconta le sue nozze con gli occhi gonfi di lacrime, Margherita: il matrimonio, con rito civile, è stato celebrato il 7 ottobre scorso nella sala colloqui del carcere di via Appia, dove il suo compagno era ristretto dal 7 aprile, con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, reato per il quale è stato condannato in primo grado alla pena di quattro anni e due mesi, impugnata con ricorso in Appello depositato dall’avvocato Gianvito Lillo. Lo sposo detenuto, il giorno dopo aver pronunciato il sì, è stato trasferito nel penitenziario di Bari. "È stato un vero incubo per nostra figlia, nei cui confronti non è stato dimostrato un briciolo di sensibilità: non parliamo di chissà cosa, ma di semplice umanità. È pur sempre una bambina di quattro anni appena che non può e non deve scontare lo sbaglio di suo padre e invece è stata costretta a vedere una squadra di guardie schierate davanti a lei, sei delle quali, donne, ci hanno perquisito all’ingresso del carcere, dopo un’attesa di mezz’ora fuori" racconta. Per quel giorno, lei e la piccola si erano vestite a festa: la bimba sembrava una bambolina, la sposa è arrivata in abito lungo. "L’ho vista che stava per scoppiare a piangere, si avvicinava a me e allora le ho dato il bouquet di fiori e le ho detto che era per lei, sono scappata via con una fitta al cuore: ha dovuto assistere a una scena che non auguro a nessuno, dire brutta è poco", dice mentre sistema la cucina. "Gli ufficiali del Comune si sono preoccupati per noi, ma non potevo restare lì. Mentre andavamo via la bambina mi ha chiesto: ‘Mamma, allora papà sta in carcere?’. E io le ho risposto: "Sta facendo dei lavori qui, questi sono colleghi operai". "Lui, mio marito, in carcere ci è finito e pagherà per i suoi sbagli, così come per il battibecco che sembra abbia avuto con gli agenti di polizia, ma la bimba che c’entra? È proprio per dare sicurezza a me e ai nostri figli che ha voluto il matrimonio, visto che in Italia la convivenza non ha alcun valore. Non chiedeva niente di più che sposarmi alla presenza della piccola e degli altri figli (maggiorenni,ndr) e per questo abbiamo chiesto una regolare autorizzazione per far entrare le bimba nel carcere. Oggi dico, l’avessimo mai fatto". "Se ho voluto raccontare questa storia, questa bruttissima storia, è perché non voglio che accada un’altra volta: nelle strutture penitenziarie qui vicino, come Lecce o Trani, non si è mai vista una cosa del genere. Innanzitutto le nozze civili non vengono celebrate nella sala colloqui: mi sono meravigliata che ci stavano portando lì, visto che ci andavo per incontrare mio marito ogni martedì. Ma non potevo fare domande: c’erano tutti quei poliziotti, per cui io, i mie figli e i quattro testimoni li abbiamo seguiti". "Anche per i testimoni ci sono stati problemi: due giorni prima del matrimonio ho dovuto cambiarli perché è arrivata una nota della direzione del carcere di rigetto dell’autorizzazione che pure ci era stata rilasciata il 28 settembre, dopo aver informato il giudice del Tribunale di Brindisi. Ma è stato proprio il giudice a pronunciarsi sostenendo che due delle persone scelte non potevano fare da testimoni perché erano pregiudicati", continua a raccontare la donna. "A quel punto mi sono rivolta all’avvocato Lillo, ho cambiato i testimoni e ho comunicato tutto. La cosa che non capisco è per quale motivo abbiano contestato la scelta. E poi io stessa avevo chiesto un incontro con il direttore della struttura carceraria il venerdì precedente per avere la conferma che fosse tutto a posto e cosa potessi portare, se cioè oltre alle fedi era possibile autorizzare il bouquet. Mi ha ricevuta fuori e mi sono sentita dire: "si rivolga al suo avvocato". Il penalista ha fatto tutto quello che poteva. Lillo il 18 settembre scorso ha anche ottenuto una procura speciale per consentire la celebrazione della "promessa" in Comune. "Non avrei mai immaginato che il giorno delle nozze fosse così: da dimenticare. Non ho una foto, neanche una stretta di mano con mio marito, niente di niente, se non tanta amarezza e delusione per come è stata considerata nostra figlia. E questo nessuno lo potrà mai cancellare, neppure il tempo: continuo a rivedere quella scena, di lei, piccola, che guarda i poliziotti e mi cerca". Lamezia: il 20 ottobre incontro al ministero per vagliare ipotesi di riapertura del carcere lameziainforma.it, 10 ottobre 2015 Ipotizzata struttura come carcere femminile o per altri detenuti. Piccioni (Lamezia Insieme) riporta in auge la chiusura del carcere cittadino avvenuta sotto la precedente amministrazione "senza che né la magistratura o il sindaco abbiano dato parere positivo come erroneamente scritto nel decreto del ministro", arrivato però un anno dopo l’effettiva chiusura dell’istituto penitenziario. Il primo cittadino ribadisce, come già fatto sulla stampa, che ormai il tempo è scaduto per i ricorsi: "il problema poteva essere risolto a monte in precedenza fornendo un terreno per la costruzione di un nuovo istituto, soluzione ora non più perseguibile. A maggio non si è impugnato alcun provvedimento in giunta, si era ancora alla fase di valutazione con parere negativo da parte dell’ufficio legale essendo una vicenda nata nel 2012, ora la battaglia passerà da un appuntamento con il sottosegretario il 20 ottobre per riaprire la struttura come carcere femminile o per altri detenuti". Tale ipotesi si comunica sarà appoggiata anche dall’amministrazione di Catanzaro, che così potrebbe contemporaneamente non perdere il Provveditorato rimarca Piccioni. Lecco: al carcere di Pescarenico continua l’esperienza di Bambinisenzasbarre resegoneonline.it, 10 ottobre 2015 L’associazione segue i bambini e i loro familiari durante il difficile periodo di detenzione di uno o entrambi i genitori. È possibile sostenere questa realtà con una donazione. Prosegue la presenza del modello di accoglienza "Spazio Giallo" nel carcere di Lecco, dedicato ai bambini che ogni giorno entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà detenuti. L’intervento di Bambinisenzasbarre, associazione che da 13 anni si occupa della cura delle relazioni familiari in detenzione, segue i bambini e i loro familiari durante il difficile periodo di detenzione di uno o entrambi i genitori, attraverso quotidiane attività di colloquio, consulenza, laboratorio genitori-figli. L’estensione del Modello Spazio Giallo alla Casa Circondariale di Lecco, sperimentata grazie a questo progetto a partire dal 2013 ha permesso di: creare e allestire spazi e strutture adeguate: creazione di uno Spazio Giallo in sala d’attesa; creazione di momenti di festa nelle ricorrenze, contatto con i bambini e le loro famiglie; creare percorsi sulla genitorialità con i genitori detenuti, sia individuali che di gruppo; Sensibilizzare il personale del carcere e condividere il percorso in atto. A Lecco per tutto il corso del progetto son state presenti allo Spazio Giallo 2 volte a settimana un’operatrice e una volontaria. I bambini incontrati nell’arco di quest’anno sono stati circa 30 di cui 15 vengono regolarmente, 8-10 almeno 1 volta a settimana e con i quali si è creato un vero e proprio rapporto con le famiglie. Il nuovo spazio è stato gradito e ben utilizzato sia dai bambini che dalle mamme, nonche´ apprezzato anche da altri parenti in visita dato che rende più accogliente la sala d’attesa. Per ciascun anno sono state organizzate 3 feste : Natale, festa del papà e Pasqua con laboratori e decorazioni nello Spazio Giallo e decorazioni e dolci all’interno della sala colloqui. Anche quest’anno la Fondazione della Provincia di Lecco ha destinato un contributo di 5.000 Euro per il progetto di Bambinisenzasbarre, ma con il vincolo di ricevere il 50% di tale somma dal territorio. Per questo l’associazione invita tutta la comunità di Lecco a sostenere lo Spazio Giallo e le sue attività entro il 20 novembre, partecipando così alla costruzione della rete penitenziaria nazionale di cui la Lombardia è la Regione pilota. Lecce: Osapp; ancora problemi con i detenuti affetti da disturbi psichiatrici corrieresalentino.it, 10 ottobre 2015 La polizia penitenziaria non sa più a chi rivolgersi: a mettere a dura prova la sicurezza nel carcere ci sono i malati psichiatrici. Un tempo esistevano delle strutture apposite, con personale preparato per questi casi delicatissimi. Torna a far parlare di sé il trentenne marocchino che qualche giorno fa aveva tentato il suicidio e poi si era scagliato contro gli agenti che tentavano di bloccarlo. Ieri, l’uomo ha messo a soqquadro la sua cella ed è stato necessario un trattamento sanitario obbligatorio per sedarlo. Il trentenne ora è ricoverato in un reparto speciale del Vito Fazzi. "Ci vuole una struttura apposita con personale specializzato - spiega Ruggiero Damato, responsabile provinciale dell’Osapp - noi non siamo preparati per i pazienti psichiatrici, anche se mi complimento per la capacità dei miei colleghi e per il sangue freddo, che ha consentito di evitare guai più seri". Il marocchino che ha dato in escandescenze era stato trasferito in diversi istituti, fino a giungere a Lecce, dopo una serie di disordini procurati in giro per l’Italia. La polizia penitenziaria, ancora una volta, chiede alle istituzioni di trovare una soluzione per questa particolare categoria di detenuti. Un grido d’aiuto che per ora viene lanciato nel vuoto. Napoli: i reclusi diventano "architetti", così hanno arredato i corridoi del carcere di Giuliana Covella Metropolis, 10 ottobre 2015 Hanno arredato insieme i corridoi fuori alle celle, incrociando per una mattinata, destini, storie e passioni. Studenti dì Architettura e detenuti del carcere di Poggioreale hanno allestito gli spazi esterni alle "gabbie" in cui vivono ogni giorno migliaia di reclusi nell’ambito di un progetto fortemente voluto dalla Garante dei detenuti della Campania Adriana Tocco, dal dipartimento di Architettura dell’Università Federico II e dal direttore del penitenziario Antonio Fullone, Si tratta di un workshop organizzato dai docenti Marella Santangelo e Paolo Giardiello, dell’ateneo federiciano. Alla presentazione dell’iniziativa hanno partecipato, oltre a Fullone e Tocco, Tommaso Contestabile, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, Carmine Antonio Esposito, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Francesco Cascini, vice capo del Gabinetto del ministero della Giustizia e Francesco Rispoli del dipartimento di Architettura della Federico II. L’idea del progetto è nata da un convegno sull’architettura penitenziaria organizzato tre anni fa dal Garante dei detenuti della Regione Campania: Da qui la proficua collaborazione tra il dipartimento di Architettura della Federico II di Napoli e l’amministrazione penitenziaria. In particolare con il carcere di Poggioreale si è creata un’intensa collaborazione sfociata in un workshop organizzato dai docenti universitari e dal direttore dell’istituto di pena. Ma in cosa è consistito il workshop? In pratica 15 detenuti hanno lavorato fianco a fianco con gli studenti per organizzare gli spazi dei corridoi in maniera da renderli fruibili nelle ore da trascorrere fuori dalle celle. L’iniziativa, che si è conclusa con un convegno, ha presenta molti elementi di positività poiché ha visto una progettazione partecipata e una responsabilizzazione dei detenuti, in controtendenza con l’atmosfera deresponsabilizzante del carcere. Per gli studenti ha costituito una presa di coscienza della realtà penitenziaria e sulla necessità dell’umanizzazione della pena, finalità perseguita dal ministro Orlando attraverso la convocazione degli Stati generali della detenzione. Un progetto che punta a incrementare le attività per i carcerati, grazie alle tante iniziative promosse dall’amministrazione del penitenziario di Poggioreale. Proprio qui infatti nel giugno scorso si è concluso un laboratorio di cucina e di pasticceria coordinato da Samuele Ciambriello, che ha visto i reclusi cimentarsi nella preparazione dei piatti tipici della tradizione gastronomica partenopea, insieme ai dolci tipicamente napoletani. Progetti che - si spera - saranno rinnovati per un concreto reinserimento dei reclusi. Enna: partita-solidarietà alla Casa circondariale, tra giocatrici di calcio a 5 e detenuti Ansa, 10 ottobre 2015 Una partita all’insegna della fratellanza e della solidarietà. Così si sono affrontate le due squadre di calcio composte dai detenuti della casa circondariale Luigi Bodenza di Enna e le giocatrici della squadra femminile di calcio a 5 dell’Uisp, in un match che si è disputato nel cortile del carcere. Squadre miste con detenuti a fianco alle calciatrici. Al torneo, denominato "Oltre le mura..." ha partecipato il presidente dell’Uisp, promotrice dell’evento, Vincenzo Bonasera. "È stata una bella esperienza di vita per noi organizzatori, ma anche per le giocatrici, che testimonia come lo sport non ha confini e unisce persone di tutte le nazionalità e le estrazioni sociali - dice Bonasera - Abbiamo giocato con sportivi corretti e con tanta voglia di vivere. La realtà carceraria, a noi sconosciuta, ci ha impressionato positivamente tanto che abbiamo pensato di attivare tutta una serie di progetti all’interno del carcere. Tra questi i corsi di arbitro ai quali parteciperanno i detenuti. Poi la prossima edizione di Vivicittà, in programma il 3 aprile 2016, prevedrà una tappa proprio dentro il carcere". "Accogliamo sempre con piacere le iniziative costruttive che giungono dall’esterno - dice il direttore del carcere Letizia Bellelli. Questa è una città che con il suo forte tessuto sociale ha sempre sostenuto la casa circondariale e i suoi ospiti con progetti di valore. Accogliamo con grande piacere le proposte della Uisp che coinvolgono i detenuti in attività sportive. Un’opportunità che ricerchiamo da sempre, certi che lo sport è un percorso educativo importante nel processo rieducativo". Nobel per la pace alla forza viva del Quartetto tunisino di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 10 ottobre 2015 "Il mio primo pensiero va ai martiri della rivoluzione, a Chokri Belhaid, Mohamed Brahmi e a tutte le vittime del terrorismo. Siamo fieri che i nostri sforzi siano stati riconosciuti, sono gli sforzi del Quartetto e di tutto il popolo tunisino", questa la reazione immediata di Ali Zeddini dell’Esecutivo della Lega tunisina per i diritti dell’uomo alla notizia del Premio Nobel per la pace. Il premio al Quartetto tunisino va persino al di là delle motivazioni degli assegnatari di Oslo "per il suo contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralistica dopo la rivoluzione cosiddetta dei "gelsomini" del 2011". Per i tunisini è un premio alla loro rivoluzione, ai tentativi di salvarne di obiettivi nonostante tutti gli ostacoli. Tra le rivolte arabe quella tunisina è stata infatti l’unica a intraprendere una strada per la transizione alla democrazia e a resistere in una regione infuocata: dalla Libia alla Siria passando per la Palestina. Sono ormai lontani i tempi in cui il premio per la pace veniva assegnato ad Arafat e Rabin (1994) per un accordo che non ha mai portato a una soluzione di quel conflitto. Anzi. La Tunisia è però un’altra storia, anche se non è stata risparmiata dagli attacchi terroristici. Proprio alla vigilia del premio Ridha Charfeddine, deputato di Nidaa Tounes (il partito laico di centro), è sfuggito miracolosamente a un attentato. Il ruolo del Quartetto - composto dall’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt), dall’Unione tunisina dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (Utica), dalla Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh) e dall’Ordine nazionale degli avvocati, formato nell’estate del 2013 in un clima di forti tensioni politiche, è stato decisivo per evitare che il paese precipitasse in una guerra civile. La troika, al potere dal dicembre 2011, aveva perduto ogni legittimità a causa del suo malgoverno e dei continui abusi di potere. Composta dagli islamisti di Ennahdha, che avevano vinto le elezioni e che guidavano il governo, dai laici del Congresso per la repubblica (presidenza della repubblica) e da Ettakatol (presidenza dell’assemblea costituente), aveva un anno di tempo per varare una nuova costituzione. Ma i lavori della costituente non avanzavano e la troika non voleva lasciare il potere. La crisi economica e politica era precipitata dopo gli assassini dei leader della sinistra (Chokri e Brahmi) e aveva spinto i tunisini a scendere in piazza con sit-in davanti all’Assemblea costituente durati settimane. Alla fine la costituente sospendeva i lavori. Gli islamisti si erano organizzati per scontrarsi con l’opposizione laica, dotandosi della Lega per la protezione della rivoluzione (che con la rivoluzione non aveva nulla a che vedere), braccio armato di Ennahdha. Per far fronte a questa situazione si era formato il Quartetto, con un ruolo importante del sindacato già punto di riferimento nella rivoluzione. L’obiettivo: sostituire il governo della troika con uno tecnico per arrivare alle elezioni e nel frattempo accelerare l’elaborazione della costituzione. Il Quartetto aveva preparato una road map ma il premier islamista Ali Larayedh e il presidente Marzouki hanno tergiversato per settimane, poi forse è stato l’effetto Egitto (dove l’esercito aveva preso il potere) a farli cedere e in dicembre è stato nominato il governo di transizione guidato da Mehdi Jomaa. Gli islamisti hanno dovuto cedere le loro posizioni anche all’interno dell’Assemblea costituente dove volevano imporre alcuni principi della sharia (la legge coranica) e soprattutto riconoscere i diritti delle donne solo complementari a quelli dell’uomo. Questi tentativi sono stati battuti e la costituzione è stata finalmente varata (gennaio 2014). Il compito del Quartetto si è concluso con le elezioni nell’autunno del 2014: il 25 ottobre le politiche hanno visto la vittoria di un partito laico, Nidaa Tounes, seguito da Ennahdha, mentre gli alleati della troika sono praticamente scomparsi. Alle presidenziali il presidente uscente Moncef Marzouki (appoggiato dagli islamisti) ha perso il ballottaggio (22 dicembre) vinto dal leader di Nidaa Tounes, Beji Caid Essebsi. Quello che non aveva fatto il Quartetto l’hanno decretato le urne. Il premio Nobel per la pace è un riconoscimento a organizzazioni della società civile, per usare una definizione abusata, o alle forze vive della società, per utilizzare un termine più tunisino, che subito hanno voluto estenderlo a tutti i tunisini, a tutte quelle forze che continuano a lottare per la democrazia e per i diritti di uomini e donne. E devono fare i conti con attacchi terroristici che mirano a sovvertire la fragile democrazia, minacciata anche da quelle forze, come Ennahdha, che si rifiutano di riconoscere il carattere repubblicano dello stato tunisino. Forse con il Nobel i democratici tunisini si sentiranno un po’ meno soli. Da Oslo una luce speciale su un paese che lotta per far vivere la Primavera di Tahar Ben Jelloun (Traduzione di Elda Volterrani) La Repubblica, 10 ottobre 2015 Il Comitato del Nobel dà anche un segnale forte all’Occidente invitandolo a investire nello Stato strangolato dal terrorismo. Finalmente la "Rivoluzione dei gelsomini", il germoglio della " Primavera araba ", è stata riconosciuta e ricompensata. Il Comitato del Nobel di Oslo ha fatto una scelta inaspettata e coraggiosa: premiare la società civile di un paese in cui una rivoluzione è riuscita a trasformare una dittatura in una democrazia è una risposta formidabile al terrorismo e alle forze della regressione. La Tunisia, che si è provvista di una costituzione unica nel mondo arabo e musulmano (libertà di coscienza, uguaglianza dei diritti di uomini e donne), vive sotto la minaccia del terrorismo. Ricordiamo l’attentato del 18 marzo scorso al Museo del Bardo (22 morti di cui 21 turisti), quello del 26 giugno nello stabilimento balneare di Sousse, sul litorale orientale (38 morti di cui 30 britannici), e la settimana scorsa il tentato assassinio di un deputato del partito Nidaa Tounes, la prima forza politica del paese, sempre a Sousse. Questi attentati sono stati rivendicati dai partigiani dello "Stato islamico", più conosciuto con il nome di Daesh. Una guerra diretta contro il popolo tunisino che aspira a vivere in pace. Il Nobel non fermerà questa guerra, ma getta una luce speciale sulla volontà di un popolo che lotta per concretizzare il sistema democratico nelle istituzioni e nelle mentalità, che si impegna per realizzare "la sua primavera" e portarne avanti lo sviluppo. La " primavera araba" continua anche attraverso le tragedie, come in Siria e in Libia. L’Egitto, invece, pur continuando a condurre una lotta senza quartiere ai Fratelli musulmani, si è riallacciato al sistema di Mubarak. Ma questa primavera non è ancora finita. Non ha ancora detto l’ultima parola. È notizia recente che i libici si sono messi d’accordo per un governo unico. Forse l’attribuzione del Nobel alla nuova Tunisia cambierà lo sguardo che il mondo posa sul mondo arabo in crisi. Il fatto è che, premiando sia un sindacato che gli imprenditori, sia un’associazione di avvocati che la lega per i diritti umani, il comitato del Nobel contribuisce a valorizzare la società civile in tutte le sue componenti e nella sua varietà, una società che ha contribuito all’instaurazione della democrazia nel paese malgrado le resistenze della componente islamista e dei partiti conservatori. Questo probabilmente scatenerà una crisi di nervi nei ranghi del Daesh. Si tratta di un segnale forte inviato a tutto il mondo e in particolare ai paesi arabi che imbavagliano la loro società civile, composta per la maggior parte da donne. È anche un segnale ai paesi europei che esitano a investire e ad aiutare la Tunisia, la cui economia è stata assassinata dal terrorismo. È un premio talmente carico di simboli che dà speranza a un popolo che ha sofferto sotto Ben Ali e che sta imparando un giorno dopo l’altro l’esercizio della democrazia. Questo apprendistato ha bisogno di tempo e di stabilità. La Tunisia ha bisogno di essere protetta e soccorsa, perché i suoi nemici radicali e barbari non mollano la presa. D’altronde anche l’Académie Goncourt, che attribuirà il suo premio annuale a Parigi il prossimo 3 novembre, per spirito di solidarietà con la Tunisia ha deciso di tenere a Tunisi la riunione del 27 ottobre in cui verrà stabilita la short list dei finalisti. Anche spostare a Tunisi la giuria del premio letterario più prestigioso di Francia è un simbolo che esprime sostegno e solidarietà per la giovanissima rivoluzione tunisina. L’Italia dei Tornado cancella la diplomazia di Francesco Martone (Comitato Nazionale "Un Ponte Per") Il Manifesto, 10 ottobre 2015 Bombardare in Iraq è una pessima idea che precluderebbe un’eventuale soluzione politica spesso evocata, ma mai messa in pratica. Azzerando ogni possibile intervento sulla crisi mediorientale che la guerra occidentale ha esteso. E condannando alla dimenticanza e al silenzio la questione palestinese. Il semi-scoop, poi ridimensionato, sull’eventuale uso dei Tornado italiani di stanza in Kuwait per bombardare Daesh (Isis) in Iraq solleva questioni cruciali. Certamente è imperativo richiamare il governo ai suoi doveri istituzionali di coinvolgere il Parlamento in decisioni più che sensibili per la politica estera del paese. Ormai è un dato di fatto, certo da contrastare politicamente, che le decisioni di politica estera "hard", ossia sull’uso della forza militare, siano sottratte al Parlamento che si limita ad avallare decisioni già prese. O a sottostare ad interpretazioni discutibili sulla legittimità politica della decisione in questione: basti pensare a come il governo ha deciso sul l’invio di armi ai peshmerga iracheni, e sulla relativa risoluzione delle Commissioni Esteri e Difesa riunite nell’ estate 2014, di avviare l’ escalation con l’invio di Tornado e drone da ricognizione. C’è certo una questione di metodo da stigmatizzare, ma soprattutto di merito. Bombardare in Iraq è una pessima idea che precluderebbe un’eventuale soluzione politica spesso evocata, ma mai effettivamente messa in pratica. Sostenere e assecondare le richieste del governo Abadi, nel quale Al Maliki resta vicepresidente rischierebbe di rafforzare gli sciiti piuttosto che spingerli verso un compromesso con i sunniti, elemento centrale per un governo inclusivo. Anche perché questo governo poco o nulla ha fatto per ripagare quel debito storico di Maliki verso i sunniti, fatto di minacce, repressione e violenza, che ha assicurato un terreno fertile per Daesh. Contribuire all’escalation delle operazioni della coalizione internazionale contro l’Isis in Iraq - dove il conflitto è interno, a differenza della Siria dove il conflitto è una guerra per procura tra varie potenze vecchie o aspiranti tali - sortirebbe poi l’effetto perverso di deresponsabilizzare quegli attori regionali, quali Iran, Turchia ed Arabia Saudita, che dovrebbero decidersi a rinunciare alle proprie aspirazioni geopolitiche e impegnarsi a contrastare Daesh contribuendo alla ricostruzione di un assetto politico stabile nella regione. Per quanto riguarda l’Italia, questo episodio pare l’ennesima riprova di mancanza di prospettiva strategica. E nel caso dell’Iraq come della Libia o dell’Afghanistan, si supplisce affidandosi allo strumento militare - oltre che su alleanze discutibili quali l’asse creato da Matteo Renzi con Al-Sisi e Netanyahu - scelta che preclude la possibilità di pensare ad una politica estera "altra", in un contesto reso ancor più intricato dall’entrata in gioco della Russia. Scelta scellerata quella che riguarda il Medio Oriente, che rimanda alla necessità di rompere il silenzio sulla tragedia palestinese - un popolo senza diritti e sotto occupazione militare, senza Stato e terra insidiata e negata dalla strategia colonizzatrice israeliana - che si consuma nel sangue sotto i nostri occhi. Per quanto riguarda l’Iraq, è evidente che Daesh non potrà essere sconfitto con le armi (a maggior ragione 4 Tornado non faranno la differenza), ma con una politica di contenimento e di ricostruzione di una cornice di governo che sia inclusiva dei sunniti, rinnovata e credibile. Ipotesi del tutto remota con questo governo a Baghdad, al centro di mobilitazioni di piazza senza precedenti. Che fare allora? Una politica estera di costruzione attiva della pace dovrebbe fondarsi su quattro pilastri: diplomazia, negoziato, aiuti e embargo delle armi. Ovvero rilancio dell’iniziativa diplomatica con chi sostiene l’Isis, stop all’invio di armi e de-escalation, sostegno per un governo inter-religioso e plurietnico in Iraq, che riconosca autonomia ai kurdi e recepisca le istanze della società civile e dei movimenti che di recente hanno partecipato a Forum Sociale Iracheno. Eppoi sostenere Libano e Giordania oggi in grande difficoltà nella gestione dell’enorme massa di profughi siriani, rafforzando con gli strumenti dell’intelligence il controllo delle frontiere locali, non per arginare l’esodo dei profughi, ma per prevenire lo spostamento delle milizie Isis da un teatro all’altro, come avviene ancora oggi sulla frontiera tra Turchia e Rojava. Ma forse la boutade sull’Iraq era solo tale, per sondare il terreno, e capire dove poter cercare di mettersi in evidenza, provare ad essere invitati nei tavoli che contano. Se così fosse oltre dalla mancanza di prospettiva strategica o di un’ipotesi politica di gestione e soluzione della crisi, la Farnesina e Palazzo Chigi sembrano essere condannati all’irrilevanza sugli scacchieri internazionali, in particolare su quello libico. Un altro dossier ancor più delicato ed urgente dopo l’annuncio fatto a fine mandato dall’ormai ex-inviato speciale Onu Bernardino Leon di un fragile accordo tra Tobruk e Tripoli, che apre allarmanti prospettive per un’avventura militare italiana in Libia. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso. La droga non teme la pena di morte: legalizziamo la prima e aboliamo la seconda di Marco Perduca (già Senatore Radicale, rappresentante all’Onu del Partito Radicale) L’Huffington Post, 10 ottobre 2015 Il 10 ottobre si celebra la giornata mondiale contro le esecuzioni capitali, il tema scelto per il 2015 dalla Coalizione mondiale di Ong contro la pena di morte era la sua applicazione nella guerra alla droga. Secondo l’organizzazione Harm Reduction International, i Paesi che mantengono la pena di morte per reati legati alle droghe sono 32 dei quali 12 la prevedono obbligatoriamente solo in alcune circostanze. Si tratta di Brunei Darussalam, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Siria, Sudan, Sudan del Sud e Yemen. Nella maggior parte dei casi le esecuzioni sono estremamente rare. Quattordici, tra cui gli Stati Uniti e Cuba, la prevedono sulla carta per i trafficanti di droga ma non la applicano nella pratica. Sono sette invece i Paesi dove le esecuzioni per reati di droga sono effettuate di routine - Arabia Saudita, Cina, Indonesia, Iran, Malesia, Singapore e Vietnam, mentre in Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan, Sudan del Sud e Siria le informazioni sono difficili da raccogliere. Il diritto internazionale parla chiaro a proposito dell’applicabilità della pena di morte: secondo l’articolo 6(2) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena capitale sono previste delle eccezioni al godimento del diritto alla vita altrimenti garantito dall’Articolo 6(1), queste eccezioni riguardano i "reati più gravi". La giurisprudenza internazionale s’è talmente e comunque evoluta e consolidata che le Nazioni Unite hanno più volte affermato che i reati di droga non possono esser considerati "reati più gravi", cioè reati "con conseguenze letali o estremamente gravi". Le esecuzioni connesse a questo tipo di reato, già di per sé sui generis perché senza vittima, violano quindi le norme internazionali sui diritti umani. Oltre alla giornata mondiale contro la pena di morte, esiste anche la giornata mondiale contro il narcotraffico. Negli anni scorsi, grazie anche a una gestione delinquenziale di certi programmi, il 26 giugno veniva dedicato tanto alla distruzione delle tonnellate di droghe proibite confiscate, quanto a punire in maniera esemplare i trafficanti catturati - spesso con esecuzioni pubbliche come a Teheran o Pechino. Oggi, dopo anni di conclamati fallimenti del proibizionismo e a fronte di un graduale abbandono della pena di morte da morte da parte di decine di paesi, le Nazioni unite che gestiscono i programmi di "controllo delle droghe" hanno modificato il loro approccio. Nel 2011, l’Ufficio delle Nazioni Unite di Vienna contro la Droga e il Crimine (Unodc) ha deciso di cessare gli aiuti ai Paese che potrebbero approfittarsene per giustificare delle esecuzioni sospette. Nonostante ciò, la dirigenza dell’Unodc non ha smesso del tutto di destinare fondi a governi, in particolare all’Iran, che, come riportano Ong come Iran Human Rights, li utilizza per catturare, condannare a morte, e spesso anche giustiziare, presunti trafficanti di droga. Nel marzo dell’anno scorso, il Direttore esecutivo dell’Unodc, Yury Fedotov, aveva detto che anche la sua agenzia era contraria alla pena di morte ma che, allo stesso tempo, "l’Iran svolge un ruolo molto attivo nella lotta contro le droghe illecite" perché al confine con l’Afghanistan - il maggior produttore di oppio per eroina del mondo - per cui non si prevedeva il blocco dei finanziamenti a Teheran nel timore di una "possibile reazione da parte dell’Iran" per cui "l’enorme quantità di droga, che ora sono sequestrate dagli iraniani, inonderebbero liberamente l’Europa." Diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Reprieve, Human Rights Watch, Harm Reduction International, il Drug Policy Consortium International, e Nessuno Tocchi Caino hanno invitato più volte l’Unodc, e i Paesi donatori, a porre fine al sostegno a certi paesi per non contribuire indirettamente all’incremento delle esecuzioni in paesi come Iran, Vietnam e Pakistan. Uno studio sull’operato dell’Unodc evidenzia come negli ultimi anni l’agenzia abbia dato più di 15 milioni di dollari per "il sostegno delle operazioni di controllo" della polizia anti-droga iraniana e che ciò ha prodotto "un aumento dei sequestri di droga e una migliore capacità di intercettare trafficanti". Come denunciato da numerose associazioni per i diritti umani questi aiuti hanno anche contribuito a un "aumento di condanne legate alla droga". Per il quinquennio 2012/17, gli aiuti dell’Unodc al Vietnam, altro paese che prevede la pena di morte per il traffico di sostanze illecite, superano i 5 milioni di dollari. Nel dicembre 2014, il Pakistan, altro paese che giustizia in ossequio alla guerra alla droga, ha revocato una moratoria delle esecuzioni capitali che durava da sei anni. Tra gli oltre 500 detenuti a rischio di esecuzione, almeno 112 sarebbero trafficanti di droga arrestati anche grazie al sostegno internazionale. Negli ultimi tempi il Regno Unito, la Danimarca e l’Irlanda hanno ritirato i loro finanziamenti ai programmi dell’Unodc in Iran; la Francia, la Germania e la Norvegia non hanno fatto altrettanto e non escludono di contribuire a un nuovo fondo di finanziamento segreto dell’Unodc alla Polizia Anti Droga (Pad) iraniana. Una ricerca dell’associazione britannica Reprieve dimostra che la Francia negli ultimi anni ha fornito più di 1 milione di euro alla Pad, mentre la Germania ha contribuito a un progetto di 5 milioni di euro dell’Unodc per la formazione e le attrezzature della stessa polizia. Il Regno Unito ha cessato il finanziamento al Fondo anti-droga per l’Iran ma non a quello per il Pakistan. La strategia del governo britannico per l’abolizione della pena di morte ritiene il Pakistan un "paese prioritario" ma Londra ha contribuito con più di 12 milioni di sterline alle operazioni anti-droga in quel paese. In aggiunta alle diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani causate dalla guerra alla droga, e ampiamente documentate dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, il proibizionismo continua a dare un contributo consistente alla pratica della pena di morte nel mondo. Secondo il rapporto annuale della pena di morte pubblicato a luglio scorso da Nessuno Tocchi Caino, nel 2014 ben 414 esecuzioni in 4 Paesi sono da ascrivere al narcotraffico, almeno 41 in Arabia saudita, un numero sconosciuto in Cina, 371 in Iran e due a Singapore. Al 30 settembre del 2015, almeno 615 persone sono state giustiziate per reati connessi alla droga in quattro Paesi: 55 in Arabia Saudita, un numero imprecisato in Cina, 14 in Indonesia e almeno 546 in Iran. Nel 2014 e nei primi mesi del 2015, condanne a morte per droga sono state inoltre pronunciate, ma non eseguite, in altri nove Stati: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Malesia, Pakistan, Qatar, Sri Lanka, Tailandia e Vietnam. Secondo le statistiche fornite dal Ministero dell’Interno del Pakistan, il 70% delle condanne a morte comminate dai giudici di primo grado per traffico di droga viene poi annullato dai tribunali superiori. Nel marzo 2014, l’India ha sostituito la pena di morte obbligatoria per i recidivi per droga con una condanna a morte discrezionale. Ogni anno le Nazioni Unite certificano che la produzione, il consumo e il commercio degli stupefacenti proibiti non accenna a diminuire, un’ulteriore riprova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la pena di morte non è un deterrente, neanche nella guerra alla droga. Droghe: come si riducono i danni (e le morti) di Alessandro De Pascale Left, 10 ottobre 2015 A due mesi dalla chiusura del Cocoricò, siamo andati a vedere come lavorano gli operatori che si occupano di riduzione del danno in un rave in Val d’Orcia. Ma per il prefetto di Siena rimangono "interventi marginali" Quest’estate ci eravamo occupati di "riduzione del danno", in seguito a una serie di casi di cronaca, per spiegare come quelle morti, forse, si sarebbero potute evitare. Ora siamo invece andati a vedere come lavora chi questi interventi li mette in pratica. Le politiche di riduzione del danno non sono tuttora riconosciute dal nostro ordinamento, nonostante le prime sperimentazioni risalgano a oltre due decenni fa, e malgrado siano fra i pilastri fondamentali dell’Unione europea in materia di droghe. I governi targati Berlusconi hanno tagliato i fondi e, per anni, l’espressione stessa "riduzione del danno" è stata perfino eliminata dai documenti ufficiali governativi. È il weekend del 18-20 settembre 2015. In Val d’Orcia, un’ampia valle toscana patrimonio dell’Unesco situata quasi al confine con l’Umbria, va in scena un rave party al quale accorrono circa 3mila persone, anche dall’estero. "Si è svolto in una diga, progettata negli anni Ottanta per sbarrare il fiume Orcia e mai terminata. Un canalone in cemento armato, stretto e lungo. Uno dei tanti scempi incompiuti che ci sono in Italia", racconta a Left il sindaco di Radicofani, Francesco Fabbrizzi (centrosinistra). Essendo un raduno non autorizzato, le forze dell’ordine hanno bloccato l’accesso all’area fin dall’inizio: "Quando non riusciamo a prevenire, adottiamo un sistema che minimizza i danni", spiega il prefetto di Siena, Renato Saccone. "Cerchiamo cioè di bloccare, laddove è possibile, ulteriori afflussi. Poi cinturiamo l’area, mettendo insieme un sistema di intervento che coinvolge non solo le forze dell’ordine ma anche il sistema sanitario. Perché l’obiettivo prioritario diventa la salute degli occupanti, tra cui potrebbero esserci minori". Anche gli operatori del progetto di riduzione del danno Extreme vengono fermati all’ingresso dalla polizia, sono a bordo del loro camper "messo a disposizione dal Comune di Firenze per consentirci di lavorare a questi eventi", dice l’operatrice Sara Contanessi. "Nonostante il foglio di progetto e i nostri tesserini, siamo stati un’ora e mezzo ad aspettare di poter entrare e allestire lo spazio di soccorso". Ne chiediamo conto al prefetto che, oltre a non saperne nulla, riferendosi agli operatori, afferma: "Sono attività collaterali che danno qualche risultato, ma molto marginali". A causa del blocco, in prossimità degli ingressi ci sono persone e mezzi dappertutto. Pur di entrare cercano accessi alternativi, invadono le proprietà private, guadano il vicino torrente. E, così, aumentano i rischi per i partecipanti e i disagi per i residenti. "La nostra preoccupazione è stata proprio quella di non riuscire a monitorare tutta l’area e che qualcuno cadendo si potesse far male senza che noi ce ne rendessimo conto", continua Sara. Che aggiunge: "L’altra grossa criticità è che, con un tale quantitativo di forze dell’ordine dispiegate, nessuno si è potuto muovere con i mezzi durante la festa per gli approvvigionamenti di generi di prima necessità, come acqua e cibo". A queste critiche, il prefetto risponde: "È molto semplice evitare di restare senza cibo, basta andarsene qualche ora prima. Inoltre chi è dentro può tranquillamente uscire per recarsi nei paesi vicini ad acquistare quello che gli serve". Anche se, poi, è lui stesso a spiegare il perché non lo fanno: "Ci saranno almeno 400 sanzioni, sulla base delle identificazioni fatte e delle auto rilevate all’uscita, cui si aggiunge l’attività di indagine su eventuali organizzatori". Quindi meglio non farsi vedere in giro. Stessa cosa per le ambulanze e per la mediazione svolta dagli operatori della riduzione del danno, non visti di buon occhio dai ragazzi: "Gli amici di solito sono molto preoccupati dal fatto che un compagno venga portato in ospedale, perché temono molto quello che può succedere se vieni ricoverato a causa delle sostanze", aggiunge Sara di Extreme. Alla fine, gli operatori riescono a entrare, e a montare il loro gazebo. "Come vedi abbiamo coperte, molta acqua, succhi, frutta e caramelle, per evitare tutti i casi di disidratazione dovuti al consumo di eccitanti, ma anche gomme da masticare, materiale informativo sulle sostanze e le malattie a trasmissione sessuale, quindi anche profilattici gratuiti", illustra Sara. La loro equipe è formata da 6-8 persone, tutti operatori specializzati nel campo delle sostanze e del primo soccorso, a cui si aggiunge un medico. "È fondamentale, soprattutto negli eventi illegali dove è difficile arrivare anche per le ambulanze". Durante il loro turno (8-10 ore), intervengono su 4 casi. Uno dei quali, appare preoccupante fin dall’inizio. "Ha la saturazione molto bassa, come del resto tutti gli altri parametri, respira male", dice il medico, mettendolo in posizione di sicurezza. "Spesso la modalità di assunzione non è più legata a una sostanza ma a una poli-assunzione", aggiunge Sara. Poi ancora: medicazioni per traumi dovuti al terreno accidentato e un intervento su un ragazzo disidratato che si era addormentato al sole. Poco distante c’è un’altra area chil-out, il servizio di bassa soglia del Lab57: 5 operatori attivi per tutta la durata dell’evento, dal venerdì fino al lunedì mattina. Il loro camper fa anche riduzione del rischio, attraverso l’analisi delle sostanze. "Abbiamo trovato anche delle cose nuove", spiega Max, storico attivista del Lab, "la qualità media delle sostanze nei free-party è molto più elevata, perché in un evento in cui quasi tutti sanno che c’è qualcuno che le analizza, le schifezze che ci sono in giro non le vendono". Cosa hanno trovato? "Francobolloni di Lsd con 6 volte il dosaggio normale, quindi sconsigliatissimi da prendere interi", prosegue Max. "E abbiamo riscontrato anche un altro cristallo che non siamo riusciti a identificare, ne abbiamo sconsigliata l’assunzione e lo hanno gettato via. Noi le analisi le facciamo anche per dare indicazioni a chi consuma, riguardo dosi e quantità, per non fare dei mix sbagliati. Infine, c’era parecchia ketamina, anche di qualità medio alta: il problema è quando la mischiano agli oppiacei o al metadone". Proprio quello che ha detto di aver fatto il ragazzo assistito da Extreme, un mix che può essere letale. A lui è andata bene, e in poco tempo è tornato a ballare con gli amici. Ma se non ci fossero stati questi servizi di riduzione del danno? Forse ci troveremmo di nuovo a parlare, su giornali e tv, dell’ennesima morte. Medio Oriente: manifestazioni e attacchi, il bilancio è da Intifada di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 ottobre 2015 Oltre 270 feriti in un giorno, un palestinese ucciso vicino Hebron. Manifestazioni ovunque, l’esercito apre il fuoco. In territorio israeliano marce anti-palestinesi. Ramallah, Hebron, Betlemme, Nablus, Tulkarem, Salfit, Jenin, Qalqiliya: tutta la Cisgiordania è in fiamme. Al di là del muro attacchi a Gerusalemme, Dimona, Afula e manifestazioni a Haifa e Taibeh. La situazione tra Israele e Territori Occupati è esplosiva: le immagini che ieri riempivano le tv palestinesi mostravano proteste in decine di città in Cisgiordania e raccontavano delle violenze in Israele e a Gerusalemme. Nei social network si susseguivano immagini di morti e feriti, una sollevazione che dalle strade finisce in rete. Il bilancio è da Intifada: in una settimana 14 morti palestinesi in una settimana, 4 israeliani. Quasi mille i feriti tra i palestinesi, negli scontri con le forze militari israeliane; una decina quelli israeliani colpiti da coltelli o da lancio di pietre. Uno stillicidio ricominciato ieri mattina con l’accoltellamento di 4 lavoratori palestinesi nella città meridionale israeliana di Dimona. L’israeliano responsabile, 24 anni, è stato arrestato dalla polizia. Che non ha aperto il fuoco contro l’aggressore, come successo poche ore dopo a nord, ad Afula: una palestinese di Nazareth, Esraa ‘Abed, 30 anni, è stata centrata da sei colpi di pistola nella stazione degli autobus. Brandiva un coltello - dice la polizia - e voleva colpire una guardia privata. I video girati da testimoni la mostrano immobile, con un oggetto in mano e le braccia alzate, circondata da poliziotti. Poco dopo, gli spari. È ora ricoverata in ospedale. Due pesi e due misure. Lo stesso si è verificato nei Territori Occupati: Muhammad Fares Abdullah al-Jaabari, 19 anni, è stato ucciso nella colonia di Kiryat Arba vicino Hebron dopo aver accoltellato un poliziotto di frontiera, ricoverato per ferite lievi. Simile la situazione a Gerusalemme, nei giorni scorsi ed ancora ieri mattina: un palestinese ha accoltellato un adolescente israeliano di 14 anni, mentre la polizia riceveva l’ordine di blindare la città e dispiegava agenti nei quartieri di Ras al-Amud e Wadi al-Joz. La Spianata delle Moschee è stata chiusa ai fedeli musulmani sotto i 45 anni e in moltissimi si sono ritrovati alla porta di Damasco per pregare in strada. Nella notte erano migliaia i palestinesi scesi in strada a Shuafat, Gerusalemme Est, per i funerali di Wissam Faraj, ucciso il giorno prima mentre difendeva la casa di Subhi Abu Khalifa (responsabile di un accoltellamento in Città Vecchia) dalla demolizione. In serata, secondo i residenti, le autorità israeliane hanno cercato di compiere un raid nella tenda posta fuori dalla casa di Faraj. Scontri sono esplosi in molti dei quartieri di Gerusalemme Est. Manifestazioni partecipate in Cisgiordania, a cui l’esercito israeliano ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri: 272 i feriti totali, di cui 24 da pallottole, secondo la Mezza Luna Rossa. Ad Hebron un paramedico ha perso un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre aiutava alcuni manifestanti. A Tulkarem è stata la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese a fermare la protesta diretta alla fabbrica chimica israeliana Kashouri, costruita su terre palestinesi: Ramallah lo ha detto chiaramente, non permetterà una sollevazione e non metterà in pericolo il coordinamento alla sicurezza con Israele, prodotto degli Accordi di Oslo da sempre avversato dal popolo palestinese. La notte precedente all’atteso venerdì di violenze, le strade delle principali città israeliane erano state teatro di marce anti-palestinesi: gruppi estremisti ebraici, molti legati a squadre di calcio, a partire dal Beitar, camminavano per Gerusalemme, Netanya e Afula cantando cori anti-arabi e aggredendo i pochi palestinesi presenti. La polizia israeliana è intervenuta per sedarli, stringendo le manette ai polsi di sei leader degli ultrà israeliani del gruppo Lehava. Ieri gruppi di coloni hanno compiuto raid nei quartieri di al-Ras e al-Jaabari a Hebron e nella vicina città di Yatta, con lancio di pietre contro le case. Una violenza individuale che preoccupa le stesse autorità israeliane incapaci di gestire sia gli attacchi dei giovani palestinesi, non membri di organizzazioni politiche o armate, né tanto meno quelli degli estremisti ebraici. Una galassia di gruppi ingestibili, lasciati crescere e maturare da un governo ora incapace di tenerli a bada. Tanto da far dire al ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, che Israele "non tollererà che nessuno prenda la legge nelle proprie mani, anche i terroristi ebraici stanno compiendo attacchi". Stati Uniti: il giudice ferma 8 esecuzioni capitali in Arkansas La Repubblica, 10 ottobre 2015 Ricorso di un gruppo di condannati a morte contro la legge che impedisce la diffusione di informazioni sulle aziende che producono medicinali per l’iniezione letale. Un giudice dell’Arkansas ha fermato otto esecuzioni capitali dopo che i detenuti condannati a morte hanno contestato una recente legge introdotta nello Stato americano. Gli otto - che dovevano essere uccisi il 21 ottobre - si sono rivolti alla giustizia pretendendo di sapere quali sostanze letali sarebbero state usate per l’esecuzione. I detenuti contestano la normativa che consente alle autorità di impedire la diffusione di informazioni utili per identificare le aziende che producono e distribuiscono i medicinali utilizzati per l’iniezione letale. Il giudice, Wendell Griffen, ha sostenuto che il condannato ha il diritto di essere informato. Secondo uno degli avvocati dei detenuti la nuova legge aumenta il rischio di sottoporre i condannati a sofferenze durante l’esecuzione a causa di medicinali non controllati, incorrendo così in una pratica incostituzionale. Sempre il giudice Griffen era intervenuto nel 2014 fermando la condanna a morte di nove detenuti in nome dell’ottavo emendamento che impedisce punizioni "crudeli". Nello stesso anno un’esecuzione capitale si era trasformata in un’agonia di 40 minuti per un condannato, a causa di un’iniezione sbagliata. La scelta di Griffen si inserisce in un ampio dibattito, in corso negli Stati Uniti, sugli errori nella preparazione delle sostanze letali. Le prigioni americane sono poi spesso costrette a fare i conti con una penuria di farmaci mortali, vista la crescente opposizione delle aziende europee alle richieste di acquisto. Brasile: la denuncia dell’Onu "esecuzioni di ragazzini di strada per mano della polizia" di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 10 ottobre 2015 Le Nazioni Unite denunciano le forze di polizia in Brasile per "l’elevato numero di esecuzioni extragiudiziali di bambini", lanciano l’allarme per l’impunità "generalizzata" nel Paese ma anche per la violenza fisica e l’uso sproporzionato di gas urticanti e lacrimogeni durante gli sgomberi forzati in vista delle Olimpiadi 2016. Il Comitato per i diritti dei bambini, con sede a Ginevra, in un rapporto pubblicato giovedì si dice "seriamente preoccupato per la violenza diffusa per mano della polizia militare - l’Unidade de Policia Pacificadora e il Batalhào de Operacoes Policiais Especiais, in particolare contro i bambini che vivono in strada o nelle favelas" di Rio de Janeiro, citando anche torture e sparizioni. La vicepresidente del Comitato dell’Onu Renate Winter, intervistata dal quotidiano Estadào di San Paolo, ha aggiunto: "È in corso un’ondata di pulizia in vista dei Giochi olimpici, per mostrare al mondo una città senza problemi". Secondo il quotidiano, gli estensori del rapporto denunciano che le esecuzioni extragiudiziali e le detenzioni arbitrarie sono aumentate proprio in occasione di mega-eventi sportivi. Il rapporto sottolinea che il Brasile ha uno dei più alti tassi di omicidio di giovani nel mondo, vittime della polizia, del crimine organizzato e dei gruppi paramilitari. "La sfida per le autorità è enorme" ha concluso il presidente del Comitato, Benyam Mezmur, secondo cui gran parte dei bambini finiscono in cella senza mandato d’arresto. Anche il perito dell’Onu Gehad Madi ha confermato "l’operazione pulizia". "L’abbiamo già visto per la Coppa del mondo nel 2014". Filippine: rogo dormitorio del carcere massima di sicurezza di Leyte, 10 detenuti morti Ansa, 10 ottobre 2015 Dieci detenuti filippini sono morti in un incendio scoppiato ieri sera in un dormitorio del carcere di massima di sicurezza di Leyte, nel centro dell’arcipelago. Lo ha riferito la polizia nazionale. Il rogo, che secondo le prime ricostruzioni è stato causato da un cortocircuito, è il secondo in due anni a colpire il penitenziario. Secondo il portavoce Roberto Olaguer, il fatto che le porte fossero chiuse a chiave ha trasformato il dormitorio in una trappola mortale. Le carceri filippine sono famigerate per il loro costante sovraffollamento. Secondo l’Ufficio per le carceri di Manila, il penitenziario di Leyte ha in teoria una capacità di 500 detenuti, ma al momento ne contiene 1.895. Le strutture della prigione vengono descritte "sotto lo standard" sullo stesso sito dell’Ufficio.