Giustizia: la depenalizzazione dei reati minori? in nome della spending review di Marino Longoni Italia Oggi, 9 novembre 2015 Con tre riforme successive lo Stato rinuncia a sanzionare penalmente una serie sempre più numerosa di comportamenti dannosi. "De minimis non curat praetor". Cioè i magistrati non devono curarsi delle questioni di minor conto. Sembra questo antico brocardo il principio ispiratore di una serie di interventi che hanno tutti come minimo comune denominatore la riduzione della copertura penale. Il primo intervento è la depenalizzazione occulta derivante dalla riforma del "fatto tenue non occasionale", entrata in vigore il 2 aprile di quest’anno. Si consente in sostanza, a chi commette un reato per un fatto non grave, se non è delinquente abituale, di essere perdonato dal giudice. Di questa riforma si può fare un primissimo bilancio dopo poco più di sei mesi dalla sua entrata in vigore. Ed è quello che fa Italia Oggi Sette nell’inchiesta di apertura di questo numero. Alcune procure, come Palermo e Trento, per avere omogeneità dei criteri di applicazione delle nuove regole, hanno già emanato direttive che cercano di definirne i limiti di applicabilità, ma è evidente che una vera uniformità di giudizio richiederà anni di applicazione e forse anche correzioni della norme da poco in vigore. Quello che emerge dalla prassi è però una larghissima applicazione della scriminante, affidata alla discrezionalità dei giudici. L’applicazione è estesissima perché fa riferimento a tutti i reati puniti con pena detentiva fino a 5 anni. Nelle prime sentenze di cui si ha notizia ha riguardato reati fi scali, societari, edilizi, ambientali, contro la proprietà (esempio: furti e tentati furti al supermercato). Obiettivo del legislatore è quello di ridurre il carico sui tribunali, anche a costo di una minore tutela della persona offesa: è quanto si legge negli atti parlamentari che hanno accompagnato l’approvazione della riforma (decreto legislativo n. 28/2015). Le persone offese potranno naturalmente rifarsi in sede civile, con tutti gli ostacoli che questo comporta: un processo civile ha infatti esiti incerti e tempi e costi tali da scoraggiare la maggior parte delle vittime. Senza contare che, come succede spesso, l’autore del reato potrebbe essere poco o nulla solvibile, quindi anche una eventuale condanna al risarcimento del danno rischia di trasformarsi in una beffa per la vittima. Si passa quindi da quella che i professori definiscono panpenalizzazione (cioè copertura penale a 360°) a una situazione nella quale la tutela penale è riservata agli illeciti più gravi. Il motivo politico di fondo è l’incapacità di scardinare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale che, se messo seriamente in discussione, porterebbe alla separazione delle carriere dei magistrati, con tutto quello che questo può significare. Se il procuratore potesse scegliere quali reati perseguire non ci sarebbe infatti alcun bisogno di queste norme che limitano l’azione penale. Si tratta però di una riforma che rende evidente l’incapacità di dare piena tutela alle persone più deboli. Lo Stato se ne lava le mani. Su questa scia si preannunciano altri due interventi che saranno contenuti in due decreti legislativi previsti all’esame del prossimo consiglio dei ministri. Il primo prevede l’abrogazione di altri reati che toccano interessi privati come ingiuria, danneggiamento di beni, furto di cosa comune: saranno trasformati in illeciti civili, per cui il danneggiato potrà solo chiedere il risarcimento dei danni. E, in caso di condanna, lo Stato si riserva il diritto di incamerare una sanzione pecuniaria, sostitutiva della sanzione penale, mandata in soffitta. Il secondo intervento è una trasformazione di tutti i reati puniti con pena pecuniaria fuori dal codice penale e molti reati puniti con sanzione pecuniaria dal codice penale, che vengono trasformati in illecito amministrativo. Per esempio, il disturbo al riposo delle persone. Idem gli atti osceni. Stanno di fatto passando una serie di provvedimenti che, a passo felpato, cambiano il sistema di tutela penale: il motivo è la necessità di attuare, anche qui, una spending review. Bisogna ridurre il numero delle persone in carcere, tagliare i tempi dei processi per non pagare i risarcimento della legge Pinto, non ci sono soldi per assumere giudici o cancellieri. In sostanza lo Stato riconosce la sua incapacità di garantire la sicurezza di tutti i cittadini e decide di concentrarsi sui reati e sulle situazioni di maggior gravità. Con il rischio però di perdere il controllo delle aree più degradate del Paese. Giustizia: senza equità fiscale la democrazia rischia di morire di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Il tema del rapporto tra fisco ed etica è da sempre un tema di grande interesse, sul quale si sono esercitati filosofici e studiosi, uomini politici ed esponenti del mondo della cultura. Un tema che, se possibile, la fase di crisi che stiamo attraversando rende ancor più attuale. Da sempre, nella storia si è sempre cercato di individuare le basi etico-politiche della tassazione. Bastano pochi cenni. Nell’antica Grecia si assoggettavano a tributi i popoli vicini, che venivano domati nelle guerre. Per i Lombardi come per i Franchi il tributo rappresentava un attentato alla libertà. Nell’antica Roma, vale ricordare quello che scriveva Tertulliano, e cioè che il tributo rende vili i campi e ignobili gli uomini che vi sono soggetti: nam haec sunt notae captivitatis (poiché questi sono i segni della schiavitù). L’ordinamento ideale per la civitas era la libertà da ogni tributo. Ma è con il cristianesimo che si ha, sia pure per approcci graduali, una svolta che troverà la sua espressione in San Tommaso. I primi teologi avevano teorizzato che il tributo era dovuto dal suddito per il mero vincolo di sudditanza. Ma si deve a San Tommaso una dottrina dell’imposizione per molti aspetti nuova. L’imposta è un prelievo operato in virtù del potere sovrano per il conseguimento del bene comune. Una imposta non prelevata per fini di stretta utilità è ingiusta. Gli scolastici svilupparono ulteriormente la dottrina di San Tommaso: l’imposta per essere lecita deve essere giustificata oltre che dalla sovranità (causa efficiens) anche da uno scopo di utilità sociale (causa finalis), da un giusto rapporto tra onere e risultato utile (causa formalis) e da un’equa scelta delle persone e delle cose di cui grava (causa materialis). C’è tutto. Merita di essere segnalata l’affermazione fatta durante la Rivoluzione francese (Robespierre) che il pagamento dell’imposta non è un dovere ma un diritto, perché nel pagamento dell’imposta sta per le classi più povere la tutela della libertà e l’indipendenza politica. Ma per passare a tempi più recenti fu l’elaborazione del Codice sociale di Camaldoli del 1943, che rappresenta una sorta di "manifesto" di politica economica (curato dai Laureati cattolici) e che formulò i princìpi fondamentali della dottrina sociale del cattolicesimo, nella quale fu collocata una compiuta etica dell’imposizione. Ed ecco il punto fondamentale: la scienza dei mezzi deve prendere dalla politica una scala di fini sociali gerarchicamente ordinata. In ciò consiste il primato dell’etica sulla scienza economica e contestualmente l’autonomia disciplinare di quest’ultima. L’etica non fa riferimento a un sistema particolare, ma orienta la politica specie nella formulazione dei principi. All’articolo 92 del Codice sociale vengono indicati i limiti dell’azione finanziaria: a) i sacrifici debbono essere chiesti nei modi e nei tempi che rendono meno grave la sopportazione; b) nell’esazione e nell’amministrazione del denaro pubblico devono seguirsi i sistemi meno complessi e più economici possibili; c) l’imposizione che deve essere tale da non opprimere il soggetto e lasciargli in ogni caso la possibilità di provvedere ai bisogni suoi e della sua famiglia; d) gli investimenti della pubblica amministrazione debbono in ogni momento ispirare la loro azione al principio fondamentale che il denaro pubblico è inviolabile e alla considerazione essenziale che chi disperde, ma lo amministra o chi si appropria di denaro pubblico pecca contro la giustizia. Fu Ezio Vanoni che dall’esperienza di Camaldoli allargò i suoi orizzonti per formulare una visione completa dell’imposizione. Il primato dell’etica non vuole dire preferenza per qualche sistema. Si richiede una radicale trasformazione fra fisco e contribuente, per stabilire un clima di rispettiva fiducia. Vanoni insiste su tale aspetto morale sottolineando come ogni riforma legislativa e amministrativa rischia di avere scarso effetto qualora i cittadini non siano intimamente convinti della necessità e dell’equità dell’imposizione. "Noi diciamo (Camera dei deputati 21 ottobre 1948) che l’imposta è il fondamento primo sul quale si regge l’organizzazione dello Stato moderno, libero e democratico, è l’espressione di quella solidarietà tra individui e le classi sociali. (…) Occorre rovesciare la posizione psicologica di molti dei nostri concittadini nei confronti del fisco e creare un clima nel quale si senta che difendendo la razionale e uguale applicazione dei tributi si difende non una legge dello Stato ma l’essenza stessa dello Stato". Una democrazia non può essere tale in mancanza della giustizia fiscale e su questa incide con naturalezza una visione morale del tributo. Vanoni sapeva benissimo che gli italiani per il lungo passato di dominazioni per la mancanza di consuetudini con la democrazia non riuscivano a identificarsi con lo Stato e di conseguenza subivano il tributo. Nella memoria di Vanoni erano scolpite le parole di Pietro Gobetti: "In Italia il contribuente non ha mai sentito la dignità di partecipare alla vita statale: il contribuente paga, bestemmiando lo Stato; non ha la coscienza di esercitare, pagando, una propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta". Così Vanoni: "La più grande rivoluzione che si sia mai tentata nel nostro paese era necessariamente e soprattutto una rivoluzione morale" pertanto prima di incidere nell’ordinamento legislativo, nella struttura dell’apparato, bisognava incidere nelle coscienze. L’eredità di Vanoni è stata accolta non solo dall’Anti - l’associazione dei tributaristi nata nel 1949 proprio sotto gli auspici di Ezio Vanoni e che alcune settimane fa ha dedicato al tema dell’etica fiscale e del fisco etico il proprio 33° congresso biennale che si è svolto ad Ancona, ma anche nel documento pubblicato, a cura del centro diocesano di Milano, con prefazione del cardinale Carlo Maria Martini (Sulla questione fiscale, Milano 2000) nel quale, dopo aver sottolineato che del fisco si parla relativamente poco nelle esposizioni correnti della dottrina sociale, si invoca "un fisco equo ed efficiente nel quadro di un rapporto corretto tra fisco, cittadinanza e Stato, così da concorrere a promuovere lo sviluppo di una società adulta e solidale". Purtroppo, sono l’amministrazione e il governo che non hanno maturato una visione organica della materia e sono i partiti politici che si limitano a scelte demagogiche mettendo a tutela di un prelievo eccessivo la sanzione penale, nella quale Vanoni non credeva. Si fa demagogia sia quando si dice di non voler mettere "le mani nelle tasche degli italiani" sia quando si lusinga la gente con scelte minute (dagli 80 euro in busta paga all’esenzione della prima casa dalla Tasi). Giustizia: carceri minorili, l’Italia tra carenze e ritardi di Carmine Gazzanni L’Espresso, 9 novembre 2015 Il nostro sistema penitenziario, nonostante l’impegno di tanti direttori e associazioni, continua a presentare troppe lacune. Dalle strutture inadeguate ai servizi scolastici insufficienti fino al personale non specializzato. La denuncia del rapporto di Antigone. Quarant’anni di ritardo e di silenzi. È il lontano 1975 quando viene approvata la legge penitenziaria in Italia. E già in quella legge era previsto che fosse approvato uno specifico ordinamento penitenziario minorile, cosa chiesta più volte anche dalla Corte Costituzionale. Peccato però che l’appello sia rimasto inascoltato. E così "spesso applichiamo a ragazzi e ragazze le stesse regole detentive degli adulti", commenta Patrizio Gonnella, presidente dell’Osservatorio Antigone, che proprio oggi presenta "Ragazzi fuori", il terzo rapporto sugli istituti penali per minori. Basti questo: solo grazie ad una sentenza arrivata nel 1994 si è dichiarata l’inapplicabilità della pena dell’ergastolo per i minorenni. Una follia che è rimasta in piedi per quasi vent’anni e che è stata scongiurata solo grazie all’intervento della magistratura, nella negligenza delle istituzioni. Ci vogliono, dunque, "regole tendenziali e specifiche per i minori", continua Gonnella, a commento del rapporto di Antigone. Un rapporto in chiaroscuro, dato che a fare da contraltare ai biblici ritardi della politica c’è l’impegno concreto di associazioni e volontari che si fanno carico, giorno dopo giorno, dell’istruzione e dell’inserimento nella società di tanti minorenni o dei "giovani adulti" (i ragazzi fino a 25 anni detenuti nelle carceri minorili). Senza dimenticare le strade alternative ai penitenziari che, specie negli ultimi anni, hanno preso piede, dalle comunità fino alla cosiddetta "messa alla prova", una valida alternativa non solo al carcere ma anche allo stesso processo, come vedremo. Meno detenuti non significa più reati. Insomma, a differenza degli "eccessi di incarcerazione che ci sono stati per gli adulti", il sistema della giustizia minorile ha retto nel tempo, nonostante i ritardi accumulati. E questo proprio perché "per tantissimi ragazzi la risposta finale non è il carcere, grazie alle molteplici formule alternative che nel tempo hanno funzionato". Oggi, stando ai dati resi noti dall’Osservatorio, sono infatti solo 449 i ragazzi, dai 14 ai 25 anni, rinchiusi negli istituti penali. Un numero che si è mantenuto stabile negli ultimi 15 anni e che, tenendo a mente la serie storica, è diminuito drasticamente dagli 8.521 del 1940, sceso poi a 2.638 nel 1960 e a 858 nel 1975. Per quanto riguarda gli ingressi totali in un anno, anche in questo caso ci troviamo davanti ad un andamento decrescente, essendo passati dai 1.888 ingressi del 1988 ai 992 del 2014. I minori detenuti, dunque, restano pochi, nonostante siano circa 37 mila i procedimenti davanti al Gip o al Gup nei confronti di minorenni, frutto delle pratiche che si sono via via accumulate - altro vulnus tutto italiano - negli uffici dei tribunali. Ma dai dati forniti da Antigone emerge anche un altro aspetto molto interessante e che, forse, potrebbe essere da esempio per il sistema carcerario tout-court: non solo la carcerazione non è l’unica risposta, ma spesso non è nemmeno la più saggia. Prendiamo i collocamenti in comunità: tra il 2001 ed il 2014 si è passati da 1.339 ai 1.987 del 2014. E poi c’è la "messa alla prova", come detto. "L’istituto - dicono da Antigone - non rappresenta solo un’alternativa al carcere, ma allo stesso processo, che viene sospeso durante la messa alla prova. Se la misura avrà buon esito, alla sua conclusione il reato verrà dichiarato estinto". Si tratta di un istituto in forte espansione, tanto che si è passati dai 788 provvedimenti del 1992 ai 3.261 del 2014, con un incremento di quasi quattro volte. Ma non è finita qui. Perché la varietà di risposte differenti dalla mera carcerazione ha portato ad un altro risultato molto interessante: "meno detenuti non significa più reati", commenta l’Osservatorio. Nell’anno appena trascorso, infatti, sono stati solo 23 i reati gravi (omicidi volontari o tentati omicidi), "numeri - dice Gonnella - che dobbiamo ovviamente cercare di limitare ancora, ma che sono molto più bassi rispetto a quelli che si registrano in altri Paesi europei o negli Stati Uniti". Ragazzi di serie B. Il ricorso al carcere, dunque, è stato in qualche modo contenuto. Resta, tuttavia, l’altro lato della medaglia: proprio per la serie di risposte alternative alla detenzione, si legge nel dossier, il carcere per i minori "diviene ancor più che per gli adulti il luogo degli esclusi, di coloro che, per le più disparate ragioni, non sono riusciti ad imboccare nessuno dei molti percorsi che avrebbero consentito una alternativa all’istituto penale per minori". Veri e propri ragazzi di "serie b" se si considera che, nella maggior parte dei casi e salvo rare eccezioni, parliamo di stranieri, rom e giovani provenienti dalle periferie degradate delle grandi città del Sud: "Il profilo di fatto discriminatorio per alcuni gruppi delle alternative alla detenzione resta dunque ancora molto preoccupante". E non potrebbe essere altrimenti, dato che i minori sono costretti a vivere in strutture, nonostante l’impegno dei direttori e dell’associazionismo che gravita attorno ai penitenziari, molto carenti e concepite per una detenzione per nulla dissimile da quella per gli adulti. "Va invece costruito un nuovo modello di permanenza - sottolinea ancora Patrizio Gonnella - che poco abbia a che fare con la prigione. Il ragazzo deve poter affermare e percepire di non essere finito in un carcere". Il viaggio negli istituti per minori. Partiamo da Catania. Qui la struttura è nata fin dall’inizio per ospitare un carcere. Anche dal punto di vista urbanistico, la troviamo situata vicino alla casa circondariale per adulti. La stessa cosa avviene a Bari. L’istituto penale per minori di Cagliari, addirittura, fu pensato in origine come carcere con sezioni di alta sicurezza per adulti. E mantiene tutt’oggi quell’impostazione, tanto che anche la distanza dal centro abitato non è colmata dal servizio di trasporto pubblico urbano, disincentivando in questo modo i rapporti con il territorio circostante, con le famiglie, con gli amici, con il volontariato. La situazione non è dissimile al Nord. A Treviso, ad esempio, l’istituto è perfino una parte del carcere per adulti. Ma i problemi non sono solo strutturali. Anche i servizi, in molti casi, sono insufficienti. E così, per dire, gli istituti non offrono ai ragazzi la possibilità di collegamenti alla rete internet. Un deficit non trascurabile oggi, "quando tutto il sistema dell’informazione, del lavoro e più in generale delle relazioni e della conoscenza viaggia on-line". Ma non basta. Rispetto a quanto accade per gli adulti, dovrebbe essere concepito in maniera differente anche il rapporto con famiglie e persone care. Oggi si prevede, al pari dei detenuti adulti, un massimo di sei ore di colloquio visivo al mese con i propri parenti, un vincolo negativo rispetto agli amici, un massimo di quattro telefonate mensili di dieci minuti l’una. "Quando si tratta di adolescenti e giovani - scrive Antigone - questi limiti vanno del tutto aboliti, al fine di facilitare la permanenza di rapporti con i nuclei familiari d’origine". Ma la gravità nel concepire gli istituti penali per minori alla stregua di quelli per adulti, è evidente anche dal ricorso all’isolamento. Infatti, accanto alle decisioni meritorie dei direttori che scelgono di non applicarlo, a Roma, seppur eccezionalmente, vengono usate un paio di celle appositamente destinate all’isolamento, mentre a Catania è previsto che il ragazzo in punizione non segua nemmeno le lezioni scolastiche. La questione diventa ancora più delicata se pensiamo alla popolazione minore straniera negli istituti. "Per loro - sottolinea ancora Antigone - vanno superati tutti i vincoli previsti dalla legge Bossi-Fini sull’immigrazione in ordine al rinnovo o alla concessione dei permessi di soggiorno". Ogni offerta formativa e di recupero sociale, di fronte a una prossima espulsione, perde altrimenti di senso. Vanno liberalizzati i contatti telefonici con parenti all’estero anche se le telefonate sono dirette a cellulari (come avviene meritoriamente a Bari), per non precludere ingiustificatamente contatti con genitori e fratelli che molto spesso non hanno utenze telefoniche fisse (si pensi ai rom non italiani). Ma, soprattutto, bisognerebbe tener conto delle necessità linguistiche, culturali e sociali dei ragazzi non italiani, cosa che oggi non sempre accade. A cominciare dalla presenza di interpreti, traduttori e mediatori culturali, la cui presenza è minima. Lo staff penitenziario, nella maggior parte dei casi, non colma le lacune di comunicazione. E pochi conoscono l’inglese e il francese. Nessuno, com’è ovvio, l’arabo. Insomma, la presenza di educatori, e più in generale di operatori sociali, è del tutto insufficiente. Paradigmatica la situazione di Catanzaro, dove troviamo 36 agenti e solo 8 educatori che devono occuparsi dei 17 detenuti. Per non parlare delle carenze nell’insegnamento a causa della mancanza di personale specializzato. Basti questo: aldilà di lezioni online rintracciabili sul web, l’ultimo corso specifico attivato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, della durata di un solo mese, risale al 1987. Ed ecco che allora gli insegnanti sono spesso semplicemente volontari. Quando va bene. Perché in alcuni casi non sono affatto previsti corsi di alfabetizzazione linguistica, come nel caso di Roma e Bologna sebbene qui vi siano molti ragazzi stranieri. Gli esempi da seguire. Non mancano, però, singoli esempi meritori. Come detto, infatti, nel ritardo istituzionale che ha condannato le strutture per minori ad essere concepite come quelle per gli adulti, i singoli istituti si muovono per garantire, nei limiti delle loro disponibilità economiche, condizioni ottimali di apprendimento. A Catania è stato attivato un protocollo d’intesa con una biblioteca comunale che, oltre ad offrire il servizio di prestito libri, organizza un laboratorio di scrittura creativa; a Catanzaro i minori sono stati portati in visita al museo di Reggio Calabria dove sono conservati i Bronzi di Riace; a Palermo è stato attivato un progetto di incontri seriali tra i detenuti e diversi scrittori siciliani. Tanti sono gli esempi positivi anche per quanto riguarda l’ambito dell’inserimento lavorativo. Risulta, infatti, che "pur tra tante difficoltà, vi sono istituti con una significativa offerta formativa e con la capacità di attrarre finanziamenti da enti locali e da privati, soprattutto quando vi è carenza di fondi istituzionali, con interessanti sperimentazioni di inserimento lavorativo". E così, accanto alle collaborazioni con associazioni ed enti di formazione, ci sono veri e propri laboratori professionali, per lo più artigianali ma anche alcuni con le strumentazioni professionali di panetteria, pasticceria, cioccolateria che prevedono la vendita dei prodotti all’esterno degli istituti (soprattutto a Torino, Milano e Palermo). Alcuni istituti, ancora, offrono ai ragazzi un servizio di orientamento con l’apertura di uno sportello permanente (Milano, Torino, Roma, Potenza, Catanzaro). Senza dimenticare le interessanti esperienze di borse lavoro, tirocini, apprendistato, work experience, simulazioni di impresa, ormai una realtà consolidata in istituti come il "Beccaria" di Milano. L’ultimo atto di coraggio. Ed ecco che, allora, il cerchio si chiude. "Tutto è lasciato all’intraprendenza dei singoli istituti, ma ora è necessario fare un ultimo passo e avere coraggio", commenta ancora Patrizio Gonnella. L’atto di coraggio che si chiede è quello di onorare un impegno preso 40 anni fa, di modo da far sì che per legge gli istituti penali per minori obbediscano a regole differenti da quelle per il sistema carcerario per adulti. La palla ora è in mano al Parlamento: è infatti in discussione una proposta di legge delega di riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Tra i punti della legge delega, vi è appunto quello relativo alla previsione di nuove norme penitenziarie specifiche per i minorenni e per i giovani adulti. "Il testo della delega su questo tema - commenta Antigone - consentirebbe la costruzione di un nuovo ordinamento penitenziario minorile in sede di esercizio della delega stessa da parte del Governo". Ma ecco la domanda: a che punto siamo? La proposta di legge, dopo essere stata approvata dalla Camera e trasmessa al Senato, è ferma da settembre. Mai cominciata la discussione né mai iniziato l’esame in commissione. Nella speranza che qualcuno, prima o poi, se ne ricordi. Giustizia: liberi di leggere, un libro "sospeso" per le carceri di Stefano Rizzuti lettera43.it, 9 novembre 2015 Volumi comprati dai clienti. E destinati agli istituti penitenziari di tutta Italia. Così si arricchiscono le biblioteche in cella. L’iniziativa culturale in cifre. Un tempo era il "caffè sospeso": quello che si pagava nei bar per un amico in arrivo o per un senzatetto in cerca di qualcosa di caldo da bere. Poi è diventato il "libro sospeso": la pratica di comprare un volume in più per uno sconosciuto che lo ritira direttamente in cassa. Ora questa versione ha trovato una sua variante, nata con l’iniziativa ‘Liberi di leggerè: quello che si lascia in sospeso è sempre un libro, ma stavolta a riceverlo sono le biblioteche degli istituti carcerari italiani. A promuovere l’iniziativa a livello nazionale è stata la libreria Fanucci di piazza Madama, a Roma, grazie all’intraprendenza di Massimiliano, Mirko, Laura e Cristina. Proprio Massimiliano Timpano, uno dei librai di piazza Madama e autore per la Bompiani, racconta come è nata l’idea: "Mi è arrivato un messaggio da un amico, Michele Gentile, libraio a Polla, in Campania. Mi ha detto che stava cominciando ad allargare la pratica del libro sospeso a un carcere minorile. Da lì abbiamo pensato di provare questa iniziativa sul piano nazionale". A ottobre è iniziata la raccolta dei volumi per i detenuti italiani, prorogata fino a fine novembre grazie al successo che ha avuto finora. "Abbiamo già cassetti pieni di libri acquistati dai nostri clienti abituali", racconta Massimiliano. "Uno di loro, per esempio, ha comprato 3-4 volumi per le biblioteche carcerarie". I libri non vengono scelti dai lettori, ma sono gli stessi istituti penitenziari a indicare una lista di testi richiesti, in modo da evitare che le biblioteche si riempiano soltanto di titoli vecchi: "Quello che manca, spesso, sono le novità, libri che parlino di qualcosa di più attuale", spiega il libraio che ha lanciato l’iniziativa a livello nazionale. Non tutte le biblioteche degli istituti penitenziari sono uguali. Le dimensioni e le modalità di accesso e fruizione cambiano molto da un istituto all’altro. Un quadro lo fornisce Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: "La biblioteca del carcere di Rebibbia, a Roma, per esempio, è fondamentale per l’istituto. Si svolgono tante attività, c’è un bel gruppo di persone che lavora lì e la gestisce. In altri posti, invece, le biblioteche sono semplicemente una piccola stanza chiusa". Alessio sottolinea anche che "non sono moltissimi i detenuti interessati ai libri, ma se potessero scegliere in un catalogo più ampio, sicuramente lo preferirebbero". Ci sono poi alcuni problemi, uno su tutti riguarda i testi in lingua straniera: "Le biblioteche non comprano libri, ma ricevono donazioni. Quindi non arrivano libri in lingua araba, giusto per fare un esempio". Il numero di volumi all’interno delle biblioteche penitenziarie non è comunque basso. Basta pensare al caso della Toscana, dove nel 2014 si contavano circa 75 mila titoli, con poco più di 4 mila detenuti tra tutti gli istituti carcerari. Proprio i dati sulla Toscana, però, evidenziano maggiormente il problema dei testi in lingua straniera: più del 50% dei detenuti nel 2013 non era di origine italiana. Situazione diversa a Roma, dove le biblioteche carcerarie sono entrate a far parte - dal 1999 - della rete delle biblioteche comunali. In tutti i cinque penitenziari cittadini della Capitale sono raccolti circa 50 mila volumi, con grosse differenze tra gli istituti. Fabio De Grossi, responsabile delle biblioteche penitenziarie del Comune, racconta cosa succede a Regina Coeli: "Ogni giorno una sezione del carcere va in biblioteca e 20-30 persone al giorno possono accedere ai circa 10 mila volumi a disposizione". Ci sono, poi, le librerie di sezioni, molto più piccole e meno fornite. La richiesta da parte dei detenuti, comunque, non manca: "Su tutta Roma", continua la sua analisi De Grossi, "abbiamo circa 1.000-1.500 richieste di prestiti al mese su 3 mila detenuti". Inizialmente, ogni libreria aderente a Liberi di leggere (ce ne sono in tutta Italia: Roma, Cagliari, Catania, Venezia) si è messa in contatto con un istituto carcerario della zona per ricevere la lista dei libri da acquistare. In pochi giorni le adesioni si sono allargate e i volumi "sospesi" sono pronti a essere inviati non solo alla biblioteca del carcere di riferimento, ma anche a quelle in altre zone d’Italia, come specifica ancora Massimiliano Timpano: "Nessun libro andrà perso, se io ho testi che non vanno bene per Rebibbia, li invio ai penitenziari di altre zone. C’è chi ha bisogno di testi per minori e chi di quelli in lingua straniera. Non tutti gli istituti hanno le stesse richieste". Il successo dell’operazione si è esteso tanto da coinvolgere anche gli editori. Così Carocci, Laterza, Adelphi, Bompiani, Chiarelettere, Itaca e altri ancora hanno iniziato a donare alcuni volumi da inviare agli istituti carcerari italiani. Uno degli obiettivi iniziali di questa iniziativa è anche stato quello di "fare sistema, perché la solidarietà paga", come spiega Massimiliano. Scopo raggiunto, considerando che così "editori piccolissimi riescono a farsi conoscere, c’è un ritorno pubblicitario. Per esempio, un autore che lavora con un editore minore è stato notato e contattato da un editore più grosso". I vantaggi, ovviamente, non sono solo per gli operatori dell’editoria, ma anche per i detenuti: "Tenteremo di far loro dei regali di Natale", conclude il promotore di Liberi di leggere. "Quando propongo queste iniziative penso come reagirei se fossi al posto loro e sicuramente mi farebbe piacere sapere che qualcuno fuori dal carcere mi pensa. Non ne faccio una campagna di sensibilizzazione, lo faccio da appassionato di libri e provo a mettermi dall’altra parte". Giustizia: imprese e legalità, da Bagheria un richiamo per i media di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Una settimana fa 36 imprenditori e commercianti di Bagheria sono diventati testimoni d’accusa contro i 22 estorsori arrestati dai carabinieri di Palermo. I giornali hanno sottolineato l’importanza della "rivolta" contro il pizzo, in un territorio infestato dai mafiosi, a lungo nascondiglio di Bernardo Provenzano. I 36 imprenditori hanno manifestato sollievo per la fine del giogo economico e dello stressante senso di insicurezza, protrattisi per anni. Uno di loro ha raccontato di essere subentrato in azienda al padre che già pagava il pizzo in lire, dunque con una lunga storia di sottomissione alle spalle. Uno spunto di grande interesse su cui riflettere, specie per chi fa informazione. Accade molto di frequente, nelle regioni più a rischio, ereditare situazioni d’impresa non accettabili, perché mentalità e cultura sono cambiate, perché la crisi ha ridotto i margini non scrivibili a bilancio, perché dire "no" è diventata un’opzione esplicita, praticabile, conveniente. Accade anche, però, che i trascorsi famigliari e/o dell’impresa diventino motivo per sminuire o irridere la scelta di campo favorita dalle istituzioni e sostenuta da associazioni come Fai o Addiopizzo. Gli ambienti (anche quelli d’impresa) non ancora pronti a cambiare direzione, insinuano e gettano fango - "Bel campione di legalità! Ma suo padre… suo nonno…" - con la modalità tipica dei contesti omertosi, che temono ogni incrinatura. Chi intesse con lo Stato un rapporto nuovo anche rispetto alla propria storia viene avvertito che queste critiche circoleranno a mezza bocca e aiutato a sopportarne il peso. La situazione deflagra quando i mormorii malevoli e locali diventano oggetto di un fascicolo di Procura che in qualche modo filtra sui media e pilastro di campagne giornalistiche. Utili e legittime - ci mancherebbe - quando riferite rigorosamente ai fatti; oggettivamente dannose quando, sulla base di preconcetti ostili, non esitano a fare un tutt’uno tra vicende come quelle di Silvana Saguto o Roberto Helg e altre, tutte da decrittare, come il caso che vede al centro Antonello Montante. Vale qui ricordare, per esempio, gli attacchi a Carolina Girasole, ex sindaco di Isola di Capo Rizzuto (Crotone) e punta dell’antimafia calabrese, assolta con il marito dopo un processo per voto di scambio politico-mafioso. L’inchiesta su Girasole è stato uno shock paralizzante per la Calabria, proprio come è accaduto alla Sicilia da febbraio in avanti. I fatti dicono, invece, che la retata di Bagheria è frutto dei semi gettati anni fa anche da Confindustria Sicilia, tanto che oggi i carabinieri dicono che "nessuno di questi imprenditori si è mai sentito un Libero Grassi, perché c’è la consapevolezza di non essere lasciati soli e alla mercé delle cosche" e il presidente di Confindustria Palermo, Alessandro Albanese, può essere lapidario: "Oggi chi paga o è uno stupido o è un colluso. In entrambi i casi non può fare impresa. Lo Stato c’è, non ci si può più appellare alla paura. Chi paga vuole un beneficio, cerca una scorciatoia anziché stare nel libero mercato". Ancora in tema di responsabilità dei media, altro errore da non ripetere è quello di trasformare l’esperienza di Bagheria e i suoi protagonisti in spettacolo da contendersi tra i talk show per aumentare ascolti e lettori. La luce dei riflettori fa male a queste piantine civiche dalle radici ancora fragili, che tentano di attecchire su terreni desertificati da anni di veleni. Lo sanno molto bene i cittadini siciliani, i calabresi, i campani, in cuor loro stanchi delle mafie, ma altrettanto diffidenti dell’antimafia che produce un convegno al giorno e raffiche di commemorazioni, festival, rassegne e fiere, esibendo le fruste tipologie di imprenditori "eroi", magistrati "con la schiena dritta", ispirati "profeti" della legalità, che animano platee plaudenti. L’unica pubblicità utile a una pratica quotidiana di legalità è quella delle condanne dei mafiosi. Il resto vale se è silenzio, lavoro quotidiano, controllo severo su quanti si uniscono alle file dell’"anti", che - per fortuna - continuano comunque a ingrossarsi. Giustizia: processo Mafia Capitale, come si dice in inglese "er cecato"? di Mattia Feltri La Stampa, 9 novembre 2015 La caccia, vana, dura tutta mattina. Dov’è l’inviato della Bbc? Risulta dagli accrediti, ci deve essere, gli dobbiamo chiedere in che modo tradurrà per l’opinione pubblica britannica le espressioni capitali della mafia romana. Come verrà in inglese "t’apro come na cozza"? E "i pezzi non te li fa più nessuno"? E soprattutto "infame frascico"? E però non lo troviamo, l’inviato è sperduto dentro quest’aula del tribunale intitolata a Vittorio Occorsio, il magistrato ucciso a colpi di mitra nel 76 da Pierluigi Concutelli, l’uomo nero per auto definizione. L’aula è pure grande, è invasa, avevano cercato di stabilire le regole, gli imputati ai banchi coi legali, i parenti subito dietro, gli assistenti degli avvocati nelle poltrone a destra, il pubblico e la stampa nelle poltrone a sinistra, ma l’irresistibile attrazione per l’anarchia domina ovunque, anche nei sacri palazzi del diritto, dove va a rovescio almeno la disposizione a sedere. Già ci eravamo accalcati alla porta d’ingresso, una folla ibrida di addetti ai lavori, un carabiniere che stabiliva le precedenze aveva subito perso la pazienza: gridava alla folla "allargatevi", due, tre volte, "allargatevi", e siccome un giornalista furbetto cercava di intrufolarsi il carabiniere lo ha inchiodato: "E tu nun t’allargà". Ecco, bene, all’italiana. Allegria. Anche per questo cercavamo l’inviato della Bbc, temevamo si fosse fatto un’idea sbagliata, chissà che s’era messo in testa, forse s’aspettava un epilogo iperrealista di Gomorra, ma purtroppo in questo processo di assassini non ce ne sono, o almeno non ci sono contestazioni d’omicidio, dei quarantasei imputati uno solo è detenuto in regime di 41 bis, il carcere duro per mafiosi. Quell’uno naturalmente è Massimo Carminati, "il Samurai" secondo le trasposizioni letterarie e cinematografiche, nelle carte processuali "er cecato" (the one-eyed, se ci leggesse il collega della Bbc), In ogni caso la mattinata è stata innegabilmente scenografica a cominciare dallo stupore e dal fastidio di un pm per tutta quella canea di giornalisti, qui a perdere tempo, a fare soltanto del caos. E infatti lo abbiamo fatto, eccome. Aveva ragione il pm. Non capivamo nulla o quasi dei tecnicismi preliminari, dei richiami ai codici, cercavamo delucidazioni provocando un terribile bisbiglio, ci alzavamo intralciando le vie di passaggio, alcuni cronisti di ramo politico facevano avanti e indietro per intercettare l’arrivo di Matteo Orfini, presidente del Pd, o persino di Ignazio Marino. Si sarebbero accontentati di un assessore al demanio, e invece nulla, allora tutti addosso a Roberta Lombardi, la prima capogruppo alla Camera dei Cinque Stelle e titolare della battuta del giorno: "Onorevole Lombardi, il Pd si vuole costituire parte civile". "Il Pd dovrebbe costituirsi e basta". Comunque il pm saprà come siamo fatti noi giornalisti: se sentiamo parlare di mafia capitale, della città di Ottaviano Augusto e Giulio II in mano alla piovra, ci pare una notizia tale da meritare approfondimento e bivacco. E infatti qualcosa di notevole si è visto subito: ai lati c’erano schermi divisi in quadratini e dentro ogni quadratino c’era un illustre imputato in videoconferenza. Massimo Carminati collegato dal carcere di Parma. Salvatore Buzzi da quello di Tolmezzo (Udine). Riccardo Brugia da quello di Terni, Franco Testa da Secondigliano. Faceva tanto un’atmosfera-Buscetta. Ma l’avvocato Giosuè Naso, che difende Carminati, Brugia e Testa, non l’ha presa bene. Ha detto, ma come, celebriamo processi da trent’anni a terroristi e mafiosi e sono sempre tutti in aula, e stavolta no? Non è che volete montare un po’ la panna? Vabbè, Carminati è super-mafioso al 41 bis, ma gli altri? Soltanto ieri, ha detto Naso, nell’aula qui di fronte abbiamo cominciato un processo a una trentina di ‘ndranghetisti conclamati e nessuno era in video-conferenza. Il problema - hanno risposto accusa e presidente del tribunale - è che se trasportiamo i detenuti poi c’è rischio di fuga. Immaginarsi Buzzi che evade dal blindato impone uno sforzo, sennonché la decisione dei magistrati era sostenuta da ulteriori e complesse ragioni giurisdizionali. La discussione non è stata cosi dolce. In realtà l’avvocato Naso ha definito il processo "un processetto", facendo arrabbiare l’avvocato Franco Coppi (non esistono processoni e processetti, esistono solo processi, ha detto) e specialmente il pm Giuseppe Cascini, persuaso che parlare di processetto sia offensivo anche per gli imputati, per cui si augurava che la sbandata dipendesse "dall’emozione dell’esordio". Tutto l’elettrizzante è raccontato perché giornate cosi si chiamano di "incardinamento del processo". Roba tecnica. Lunghissima. Ore e ore per la costituzione delle parti civili, cioè di chi si sente danneggiato dalla cupola finalmente alla sbarra: lo Stato, la Regione, il Comune, le municipalizzate, associazioni antiracket, cooperative, e pure tre profughi, dieci rifugiati politici e trentasette nomadi che a causa di mafia capitale subirono il trasferimento forzoso da un campo di Tor de Cenci a uno di Castel Romano. Trasferimento o, se fa più al caso, deportazione. La Cassazione chiarisce quando il mobbing ha rilevanza penale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Con la sentenza della sezione VI, 23 giugno 2015- 7 ottobre 2015 n. 40320, la Cassazione affronta la delicata questione della rilevanza penale del mobbing in una particolare fattispecie concernente i rapporti tra medici che operavano nella stessa unità operativa. Il comportamento vessatorio e discriminatorio - Il mobbing, come è noto, consiste in un comportamento vessatorio e discriminatorio, preordinato a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro. La questione qui affrontata dalla Cassazione riguarda l’eventuale rilevanza penale di tale comportamento a titolo di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del Cp): se cioè tale reato possa essere configurato dopo le modifiche ampliative della norma operate dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172, di ratifica della convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007, con la quale, in particolare, come risulta palese dalla modifica della rubrica, il reato di maltrattamenti è stato esteso anche ai fatti commessi in danno dei "conviventi". Per il giudice di legittimità il reato di maltrattamenti può essere ravvisato solo a determinate condizioni: è necessario che le pratiche persecutorie e maltrattanti del datore di lavoro in danno del dipendente, ovvero, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto, è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzato dal tratto della "para-familiarità", che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti - Tale situazione, ha osservato la Corte, ben può configurarsi anche nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti di elevata qualificazione: conseguentemente, è stata annullata con rinvio la sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui all’articolo 572 del Cp, contestato al direttore di una unità operativa di cardiochirurgia ospedaliera cui era stato addebitato di avere posto in essere iniziative discriminatorie tendenti al demansionamento di fatto di un proprio sottoposto, dirigente medico, il quale, nel tempo, era stato destinato a un’attività di consulenza in una struttura diversa e meno importante delle precedenti, era stato escluso dalla funzione di primo chirurgo reperibile a vantaggio di colleghi con minore anzianità di servizio e, soprattutto, si era visto esautorare dall’attività di primo chirurgo, con conseguente compromissione del mantenimento delle proprie capacità operatorie, dipendenti anche dalla statistica - numero e qualità- degli interventi svolti. Il mobbing lavorativo ha particolari caratteristiche - L’affermazione della Cassazione autorizza allora la conclusione che, per converso, il reato di maltrattamenti non sarebbe configurabile, anche in presenza di un chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche: ad esempio, se la vicenda si sia verificata nell’ambito di un realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare. Gli orientamenti precedenti - In linea con questa precisazione, in precedenza, la Cassazione ha così escluso il reato, in una fattispecie in cui le condotte incriminate erano state tenute all’interno di un’azienda di grandi dimensioni, caratterizzata dalla presenza di numerosi dipendenti: ergo, in un contesto in cui era non ipotizzabile il suddetto rapporto "para-familiare" (sezione VI, 5 marzo 2014, B. e altro). In termini, ancora, sezione VI, 28 marzo 2013, parte civile in prc. S. e altro; nonché, sezione VI, 6 febbraio 2009, Proc. gen. App. Torino in proc. P. e altro, la quale ha così rigettato il ricorso del procuratore generale avverso la sentenza che aveva mandato assolto dal reato di maltrattamenti il direttore generale di una società, che si assumeva avere sottoposto una dipendente a sistematici comportamenti ostili, umilianti, ridicolizzanti e lesivi della dignità personale, tanto da averle procuratore lesioni gravi e gravissime, soprattutto a livello psichico: al riguardo, ha motivato il giudice di legittimità, pur se il comportamento contestato poteva inquadrarsi nella surrichiamata nozione di mobbing, non poteva tuttavia ravvisarsi il reato di maltrattamenti, astrattamente estensibile pure ai descritti rapporti "para-familiari", giacché un rapporto di tal genere non era ravvisabile nella vicenda in esame, considerato che la dipendente vittima della condotta incriminata era inserita in una "realtà aziendale complessa" (centinaia di dipendenti), la cui articolata organizzazione (caratterizzata dalla presenza di "quadri intermedi") non implicava una stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, sì da determinare una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare, ma anzi finiva con il marginalizzare inevitabilmente i rapporti intersoggettivi. Concorso di persone nel reato, manifestazione del contributo causale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Concorso di persone nel reato - Concorso morale - Manifestazione del contributo causale del concorrente attraverso forme differenziate ed atipiche della condotta criminosa - Manifestazione in comportamento esteriore che arreca un contributo apprezzabile alla commissione del reato - Configurabilità. Approfondendo lo sguardo sulle forme di concorso morale rappresentate dall’agevolazione alla preparazione o alla consumazione del delitto ovvero dal rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente può dirsi che il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in forza dei rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 3 novembre 2015 n. 44402. Concorso di persone nel reato - Concorso morale - Prova - Obblighi del giudice di merito - Individuazione. In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 19 febbraio 2015 n. 7643. Concorso di persone nel reato - Concorso morale - Istigazione - Prova della stessa - Obblighi del giudice di merito - Indicazione. In tema di concorso di persone, la partecipazione psichica sotto forma di istigazione richiede la prova che il comportamento tenuto dal presunto concorrente morale abbia effettivamente fatto sorgere il proposito criminoso ovvero lo abbia anche soltanto rafforzato, esercitando un’apprezzabile sollecitazione idonea a influenzare la volontà altrui. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 gennaio 2015 n. 2260. Concorso di persone nel reato - Concorso morale per istigazione nel reato di falso materiale in atto pubblico - Requisiti. Ai fini della configurazione del concorso morale è sufficiente l’incidenza dell’opera dell’istigatore sul determinismo psicologico dell’autore materiale, anche solo rinsaldando il proposito criminoso di quest’ultimo. Ne consegue che quando si tratti di reato di falso in atto pubblico, dell’attività di falsificazione rispondono, a titolo di concorso, coloro che abbiano agito per il medesimo fine, sia intervenendo con qualsiasi contributo materiale a detta attività, sia istigando il pubblico ufficiale o rafforzandone il proposito criminoso. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 novembre 2014 n. 47052. Concorso di persone nel reato - Concorso morale - Istigazione - Prova della stessa - Obblighi del giudice di merito - Indicazione. La partecipazione psichica a mezzo istigazione richiede che sia provato, da parte del giudice di merito, che il comportamento tenuto dal presunto concorrente morale abbia effettivamente fatto sorgere il proposito criminoso ovvero lo abbia anche soltanto rafforzato. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 20 settembre 2013 n. 39030. Regime penale tributario: cambiano i reati ma anche le possibilità di estinguerli di Antonio Iorio e Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Il Dlgs 158/2015, in attuazione della delega fiscale, rivisita totalmente il regime penale tributario. Cambiano così i reati ma anche le possibilità di estinguerli. Si tratta della più importante modifica al Dlgs 74/2000 (relativo ai delitti in materia di imposte dirette e Iva) dalla sua entrata in vigore. Le conseguenze sono rilevanti: da un lato alcuni illeciti penali non saranno più tali (si pensi agli omessi versamenti sotto determinate soglie o ai costi indeducibili all’interno della dichiarazione infedele), dall’altro si procede alla criminalizzazione di nuove violazioni (è il caso della omessa presentazione della dichiarazione della dichiarazione del sostituto) oltre che all’inasprimento delle pene. Da evidenziare poi nuove regole sulla rilevanza del pagamento del debito tributario costituente reato anche attraverso le rateazioni che bloccano addirittura la confisca ed è stata prevista un’aggravante che riguarda i professionisti intermediari. Tutte queste norme non solo entrano in vigore subito, ma hanno immediati effetti sia per il passato, sia per l’immediato futuro. Le dichiarazioni fraudolente - La norma (articolo 2, del Dlgs 74/2000), nella precedente formulazione, puniva con la reclusione da 18 mesi a 6 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indicasse in una delle dichiarazioni annuali elementi passivi fittizi. Commetteva, dunque, questo reato il contribuente che, ricevute fatture per operazioni inesistenti, ne tenesse poi conto ai fini della deducibilità delle imposte sui redditi e/o della detraibilità dell’Iva in sede di dichiarazione annuale. Ne consegue che il momento consumativo era rappresentato esclusivamente dalla presentazione della dichiarazione annuale che in concreto avviene nella seconda metà dell’anno successivo a quello in cui le fatture sono state ricevute e contabilizzate. In questo lungo arco temporale il contribuente, che pure avendo inserito in contabilità questi documenti non li considerava poi ai fini della dichiarazione, non commetteva alcuna violazione penale. Il decreto di riforma si limita ad abrogare la parola "annuale" dal testo. Ne consegue che il delitto scatta con l’inclusione di elementi passivi fittizi derivanti da fatture false non solo nelle dichiarazioni annuali ma in qualunque dichiarazione. Si tratta pertanto di comprendere quali possano essere queste dichiarazioni (non annuali). Dovrebbero rientrarvi (con ogni probabilità) le dichiarazioni trimestrali per il rimborso dell’Iva infrannuale o le dichiarazioni di operazioni intracomunitarie: è il caso degli elenchi riepilogativi delle operazioni intraUe (Intrastat) relativamente agli acquisti, e ancora delle dichiarazioni di acquisto intracomunitario da parte di enti, associazioni o altre organizzazioni non soggetti passivi d’imposta (Intra 13) e della dichiarazione mensile degli acquisti di beni e servizi effettuati da enti non soggetti passivi d’imposta e da agricoltori esonerati (Intra 12). Dovrebbero, invece, essere esclusi dalla rilevanza penale i documenti che tecnicamente non sono definiti "dichiarazioni" stante l’impossibilità di un’estensione analogica della norma incriminatrice. È il caso della comunicazione annuale Iva o della comunicazione delle operazioni intercorse con soggetti aventi sede in paradisi fiscali. Parimenti sarebbero escluse anche le dichiarazioni di intento degli esportatori abituali, le quali, pur potendole qualificare "dichiarazioni", non contengono l’indicazione di elementi passivi ma soltanto la volontà di acquistare in sospensione di imposta. Né la norma, né tantomeno la relazione illustrativa al decreto, hanno tuttavia chiarito esattamente cosa debba intendersi per "dichiarazione". A questo proposito, peraltro, non viene apportata alcuna rilevante modifica (a parte la specificazione che vi rientrano anche le dichiarazioni del sostituto d’imposta) all’articolo 1, lettera c), del Dlgs 74/2000 contenente proprio la definizione di "dichiarazioni", il quale stabilisce che per tali si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche. Tale definizione, che aveva un senso allorché la condotta illecita faceva esclusivo riferimento alle dichiarazioni annuali, ora pare meritevole di una maggiore specificazione. Da notare, infine, che nessuna modifica ha subito la speculare condotta di emissione di false fatture, prevista dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000. In particolare tale disposizione prevede (e prevedeva) che chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o Iva, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, sia punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. In questo caso, la violazione non riguarda chi riceve e, successivamente, utilizza in dichiarazione il documento fiscale, ma concerne il cedente o il prestatore del servizio e quindi colui che emette il documento. Occorre altresì evidenziare che l’articolo 9, del Dlgs 74/2000 esclude tuttora la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore ex articolo 2 e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione. Infatti, essendo l’emissione punita a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ritenere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta avrebbe significato, in sostanza, punirlo due volte per il medesimo fatto. Quando intervengono altri artifici - Il decreto di riforma delle sanzioni ha totalmente modificato il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3 del Dlgs 74 del 2000), dilatandone i confini applicativi. In particolare, la precedente disposizione prevedeva che fosse punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indicava in una delle dichiarazioni annuali relative alle predette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ovvero elementi passivi fittizi, attraverso una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento. Il delitto scattava per imposta evasa superiore a 30.000 euro e se l’ammontare complessivo degli elementi fittizi era superiore al 5% di quelli dichiarati ovvero a 1 milione di euro. Ora, la nuova norma punisce chiunque compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, ovvero avvalendosi di documenti falsi e di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione, congiuntamente: a) evade, con riferimento a taluna delle singole imposte, più di euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi sottratti all’imposizione, è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro 1,5 milioni, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al 5% dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila. La struttura dell’illecito si semplifica - La struttura dell’illecito viene dunque semplificata, tramite l’eliminazione dell’elemento della "falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie". In tal modo, la sfera operativa della figura criminosa risulta ampliata tanto sul versante soggettivo che su quello oggettivo. Da un lato, infatti, il delitto si trasforma da reato proprio dei soli contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, in reato ascrivibile a qualunque soggetto tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi o Iva. Dal punto di vista oggettivo, invece, viene così eliminato uno degli imprescindibili e separati elementi costitutivi della condotta (ossia la "falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie"). L’elemento soppresso, ad ogni modo, non pare affatto aver perso ogni rilievo, comunque, ai fini della nuova configurazione del reato, essendo possibile, adesso considerare che "documenti falsi" valgono a integrare la condotta del reato in quanto sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (comma 2). Viene chiarito che non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali. La nuova norma (articolo 1, lettera g-bis) precisa poi che per operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle "abusive" poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti. Il nuovo delitto non è certamente di facile comprensione e quindi occorrerà attendere le prime pronunce per comprenderne esattamente la portata. Le decisioni della Cassazione - In proposito va segnalato che recentemente la Suprema corte (sentenza 7 ottobre 2015 n. 40272) ha evidenziato che, in futuro, operazioni qualificate dalla giurisprudenza come semplicemente elusive, se dovessero integrare, in realtà, ipotesi di vera e propria evasione potrebbero configurare il nuovo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Finora, in genere, vi era la tendenza dell’amministrazione a ricondurre qualche comportamento non condiviso e da censurare nell’ambito dell’abuso del diritto. Con il Dlgs 128/2015 (più noto come decreto sulla certezza del diritto) è stato espressamente disciplinato l’abuso, evitando così almeno per il futuro, arbitrarie applicazioni. Tuttavia alla luce del "suggerimento" della Cassazione, vi è da sperare, che non avvenga esattamente l’opposto e cioè che sia escluso tutto dall’abuso per far scattare la rilevanza penale della asserita violazione. La dichiarazione infedele - Decisamente a favore del contribuente sono le modifiche contenute nel decreto sanzioni che interessano il delitto di dichiarazione infedele previsto dall’articolo 4 del Dlgs 74/2000. La precedente formulazione della fattispecie prevedeva che fosse punito, con la reclusione da 1 a 3 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indicasse in una delle relative dichiarazioni annuali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa fosse superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 50.000 euro (103.291,38 per violazioni commesse fino al 17 settembre 2011); b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, fosse superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore ad euro 2 milioni (euro 2.065.827,60 per violazioni commesse fino al 17/09/11). A seguito delle modifiche apportate dal decreto vi è innanzitutto un innalzamento delle soglie di punibilità: i 50.000 euro di imposta evasa diventano 150.000 e il valore assoluto di imponibile evaso passa da due a tre milioni. Nella norma era poi prevista un’esimente contenuta nell’articolo 7 che estendeva gli effetti non solo per la dichiarazione infedele, ma anche per la dichiarazione fraudolenta (articolo 3). Non davano infatti, luogo a fatti punibili, le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differivano in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Inoltre degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità. In ogni caso, era disposta l’irrilevanza penale delle rilevazioni e valutazioni estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati fossero stati comunque indicati nel bilancio. Il decreto conferma, ma solo per la fattispecie di dichiarazione infedele, (e non anche per quella fraudolenta): a) la "tolleranza" del 10 per cento nelle valutazioni; b) che non si debba tener conto, ai fini dell’imposta evasa, della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio ovvero, (circostanza del tutto nuova e favorevole al contribuente) in altra documentazione rilevante ai fini fiscali. Tale ultima previsione dispone, in sostanza, che degli importi compresi entro lo scarto tollerato non dovrà tenersi conto (anche quando lo scarto complessivo eccedesse il limite del dieci per cento) nella verifica del superamento delle soglie di punibilità del delitto concernente la dichiarazione infedele. La modifica è finalizzata a "neutralizzare" le errate valutazioni nei confronti dei soggetti che non hanno obbligo di presentazione del bilancio e che quindi in passato non potevano usufruire della scriminante. Da rilevare poi che in passato erano irrilevanti ai fini penali (per la dichiarazione sia fraudolenta, sia infedele) eventuali errori sulla determinazione dell’esercizio di competenza, ma solo se commessi sulla base di metodi costanti di impostazione contabile. In altre parole era necessario che l’errore di imputazione del costo o del ricavo fosse ripetuto negli anni e non commesso solo in determinate circostanze. Il decreto invece, sempre limitando la non punibilità alla sola dichiarazione infedele, non richiede più che l’errore sia effettuato sulla base di metodi costanti: la scriminante quindi scatta anche se l’errore riguarda un solo periodo di imposta. Niente reato per costi indeducibili ma reali - Sono poi esclusi dalla rilevanza penale i costi indeducibili se reali, e gli errori sull’inerenza e sulla competenza. Il decreto poi prevede espressamente che la parola "fittizi", ovunque prevista nella norma, debba essere intesa come "inesistenti", con la conseguenza che nessun costo realmente sostenuto, ancorché indeducibile, possa "alimentare" l’imposta evasa ai fini penali. Inoltre, nella quantificazione dell’imposta evasa non si deve tener conto della non inerenza dei costi e, più in generale, della non deducibilità di elementi passivi reali. Queste previsioni risolvono varie questioni dibattute negli anni: infatti, mentre per gli elementi attivi non sono sorte particolari questioni, per quelli passivi si sono sviluppati nel tempo alcuni dubbi. In particolare, sia la Gdf sia l’Agenzia, facevano rientrare tra gli elementi passivi fittizi, non solo i costi inesistenti, ma anche quelli che, pur essendo esistenti, sono considerati in violazione della normativa tributaria (in relazione appunto alla loro inerenza o alla loro deducibilità). In realtà si era più volte evidenziato che tali costi avrebbero dovuto essere esclusi dai fatti penalmente rilevanti, posto che si inseriscono all’interno di valutazioni "personali" degli organi accertatori. Il decreto, ora, ha espressamente escluso rilevanza penale per i costi indeducibili se reali, e per gli errori sull’inerenza e sulla competenza. Da ciò deriva, altresì, ad esempio, che le contestazioni sull’indeducibilità di costi in tema di transfer pricing, non dovranno essere più segnalate all’Autorità giudiziaria e, per i procedimenti pendenti, occorrerà tener conto della intervenuta irrilevanza penale della violazione commessa. Ad analoghe conclusioni si deve giungere per i casi di transfer pricing cosiddetto interno e per le rettifiche di costi sostenuti con imprese collocate in paradisi fiscali allorché l’esistenza della spesa sia provata a prescindere dalla sussistenza di economicità e/o convenienza. L’omessa dichiarazione e il nuovo reato per il 770 - L’articolo 5 del Dlgs 74/2000, nella sua formulazione ante riforma, prevedeva che fosse punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presentava, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l’imposta evasa era superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro trentamila. Le modifiche al reato di omessa presentazione apportato dal decreto delegato sulle sanzioni riguardano: • l’innalzamento della soglia di punibilità che passa da 30.000 euro di imposta evasa a 50.000 euro. A questo proposito si ricorda che le due imposte (redditi e Iva) non si sommano; • l’inasprimento delle pena: la precedente reclusione da un anno a tre anni diventa da un anno e sei mesi a quattro anni. Va da sé che per il principio del favor rei beneficeranno delle nuove norme tutti i procedimenti penali pendenti per omessa presentazione della dichiarazione se l’imposta evasa non superi i 50.000 euro. Analogamente l’inasprimento delle pene riguarda solo le omissioni successive al 22 ottobre e non anche quelle passate. A questo proposito si ricorda che, per espressa previsione normativa non si considera omessa, tra l’altro, la dichiarazione presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine. Ne consegue che anche le eventuali omissioni di Unico 2015 (da presentarsi entro lo scorso 30 settembre) verranno punite con le pene più severe, in quanto prima dei novanta giorni successivi quasi certamente entrerà in vigore il nuovo decreto. Infine, sempre ai sensi dell’articolo 5, comma 2, non si considera omessa la dichiarazione non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto. Il decreto poi introduce il reato di omessa presentazione della dichiarazione del sostituto di imposta (reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni) che scatta se l’ammontare delle ritenute non versate risulti superiore ad euro cinquantamila. In passato questa omissione non costituiva reato ma solo sanzione amministrativa. È necessario per la sua consumazione una duplice condotta omissiva: • la mancata presentazione della dichiarazione del sostituto; • l’omesso versamento di ritenute per importi superiori a 50.000 euro riferite all’anno precedente in quanto oggetto della dichiarazione (omessa) Da notare che non necessariamente la consumazione di questo nuovo delitto avverrà, per la prima volta, con l’omissione della prossima dichiarazione del sostituto di imposta (quella relativa al 2015 da presentarsi nel 2016). E infatti la data cui far riferimento per la condotta penalmente rilevante non è rappresentata dalla scadenza della dichiarazione, ma dal novantesimo giorno successivo. In concreto quest’anno la presentazione del 770 doveva avvenire entro lo scorso 21 settembre 2015. Ai fini penali la data cui far riferimento per la condotta illecita non è rappresentata dallo scorso 21/9 (in cui non era in vigore il decreto) ma dal novantesimo giorno successivo, potendo il contribuente, entro detto arco temporale, presentare validamente la dichiarazione. Ne consegue che quest’anno la data di riferimento (ai fini penali) è il 20 dicembre 2015 (90 giorni successivi al 21/9). Poiché dal 22 ottobre 2015 è entrato in vigore il nuovo reato si applicherà anche alle omesse presentazioni del 770 di quest’anno. In caso di condanna è obbligatoria la confisca di Antonio Iorio e Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2015 Il decreto di riforma del sistema sanzionatorio ha introdotto nel corpo del Dlgs 74/2000 il nuovo articolo 12-bis che contiene la previsione per cui in caso di condanna (o patteggiamento) per un illecito penale tributario è obbligatoria la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato. Sono esclusi, però, dall’ambito della misura i beni appartenenti a persona estranea all’illecito. La confisca diventa obbligatoria - La norma ha carattere solo in parte innovativo: si limita infatti a inserire nel corpo del Dlgs 74/2000 la disposizione - già contenuta nella legge 244/2007 - in tema di confisca obbligatoria per delitti tributari, dandole una collocazione più adeguata. In sostanza, dunque, continuerà a essere obbligatorio per il giudice, nel caso di pronuncia di sentenza di condanna ovvero di patteggiamento ai sensi dell’articolo 444 del Cpp, disporre la confisca di ciò che è servito a commettere il reato (prezzo del reato), ovvero che dal reato è derivato, costituendone il profitto (che coincide, in sostanza, con l’imposta evasa). Attraverso la confisca per equivalente, invece, non essendo possibile agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, si confiscano utilità patrimoniali di valore corrispondente a tale prezzo o profitto, che siano nella materiale disponibilità del reo. Momento antecedente a tale misura è il sequestro preventivo diretto o per valore, attraverso il quale, con la sottoposizione a vincolo del prezzo o profitto del reato (o dell’equivalente), si assicura la futura esecuzione della confisca all’esito dell’accertamento della responsabilità penale del soggetto indagato/imputato. In sostanza, dunque, il sequestro viene di fatto applicato nella fase delle indagini preliminari o nel corso del dibattimento di primo grado per far sì che il reo non possa disporre dei beni e, dunque, menomare l’eventuale successiva confisca. Quando la misura non opera - La nuova disposizione chiarisce poi espressamente, al comma 2, che la confisca non opererà per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. In sostanza, è stato ora "normativizzato" il principio ormai più volte affermato dalla Cassazione (si veda da ultimo la sentenza 36370/2015) per cui nell’ipotesi di pagamento rateale delle somme evase costituenti reato, la confisca (o il sequestro) va riproporzionata al debito ancora dovuto. In caso contrario, infatti, vi sarebbe una duplicazione della sanzione. Se, dunque, il contribuente, prima della sentenza di primo grado, raggiunge un accordo con il fisco per la restituzione rateale della somma evasa, la successiva confisca dovrà tenere conto di quanto già parzialmente versato, in seguito alla rateazione avviata dall’imputato, e non potrà avere a oggetto l’intero ammontare del profitto del reato. È evidente, infatti, che la misura non ha ragione di esistere laddove viene meno l’indebito arricchimento del reo. Tuttavia, nel caso di mancato pagamento la confisca sarà comunque disposta. Occultamento e distruzione delle scritture contabili - Con l’articolo 6 del decreto di riforma del sistema sanzionatorio è stata innalzata la pena (da un anno e sei mesi fino a sei anni di reclusione, contro i precedenti 6 mesi e cinque anni) per chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sull’Iva, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. L’innalzamento della pena comporta diverse conseguenze dal punto di vista processuale penale. Ad esempio, una volta che la nuova disposizione sarà entrata in vigore. In base all’articolo 266 del codice di procedura penale, infatti, le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione sono consentite, tra l’altro, nei procedimenti relativi ai delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni. In precedenza il reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili era sanzionato con la reclusione fino a 5 anni, con la conseguenza che tale attività investigativa non poteva essere svolta. Il decreto provvede ad aumentare la pena massima da 5 a 6 anni con la conseguenza che in futuro sarà possibile svolgere tali intercettazioni. Altra conseguenza di carattere pratico sarà quella di non poter più beneficiare, in caso di commissione del reato, del neointrodotto istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Si ricorda, infatti, che il Dlgs 16 marzo 2015 n. 28 ha introdotto nel codice penale il nuovo articolo 131-bis, il quale prevede che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Tale istituto, finora, poteva essere applicato anche al reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, la cui pena massima (5 anni) rientrava nei limiti di pena previsti dall’articolo 131-bis del codice penale. Con l’innalzamento della pena massima (6 anni) in futuro la fattispecie sarà fuori dai limiti applicativi dell’istituto della tenuità del fatto. L’aggravante - Scatta un aggravamento di pena (fino alla metà) se il reato è commesso dal compartecipe dell’illecito nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da professionista o da un intermediario finanziario. È necessario però che tale attività illecita avvenga attraverso l’elaborazione di modelli di evasione. Si tratterà di comprendere cosa debba esattamente intendersi per dette elaborazioni. Molise: il corso di formazione per Garante dei detenuti diventa "buona prassi" del Fse di Vincenzo Ciccone primopianomolise.it, 9 novembre 2015 Il riconoscimento da parte del Comitato di Sorveglianza per la programmazione 2007-2013 dell’Fse. Il corso di formazione per Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, realizzato dalla Consigliera di Parità della Regione Molise Giuditta Lembo, è stato individuato come buona prassi nell’ambito della programmazione regionale 2007-2013 del Fondo Sociale Europeo. "Un risultato che mi riempie di soddisfazione - afferma la stessa Lembo - soprattutto perché i Rappresentanti della Commissione Europea, presenti al Comitato di Sorveglianza che si è tenuto presso il Consiglio regionale, hanno apprezzato molto il fatto che risorse comunitarie siano state investite nella formazione di una nuova figura: quella del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ossia a formare professionisti interessati ad acquisire le necessarie competenze relative ad una figura che opera secondo una logica di mediazione, al di fuori di procedure solenni, allo scopo di allentare le tensioni nelle carceri, creare uno spazio comune di incontro e di relazione ed in via più generale, tutelare i diritti della popolazione carceraria con particolare riferimento alla salute, all’informazione, all’assistenza, alla formazione ed alla gestione dell’affettività". Padova: pagina firmata "Due Palazzi" inneggia al Duce, interrogazione di Naccarato (Pd) Il Mattino di Padova, 9 novembre 2015 Tutto questo è apparso in queste ultime settimane nella pagina Facebook di un’organizzazione comunitaria del carcere padovano (Casa Reclusione N.C. Di Padova "Due Palazzi" il nome della pagina), generando molte perplessità. Scorrendo le immagini postate, ci s’imbatte spesso in Mussolini come la foto in cui il duce è ritratto mentre conforta un malato: "I libri di storia non mostrano queste immagini, meglio non far vedere il grande cuore di sua Eccellenza" il commento alla foto dall’album di "Nuova Estrema Destra Italiana". Non è l’unico omaggio al duce. Tra le notizie pubblicate, la situazione difficile di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, foto e complimenti rivolti al leader della Lega Nord, Matteo Salvini, mentre indossa la maglietta della polizia. Sul caso, il parlamentare del Pd Alessandro Naccarato ha già interrogato il ministero dell’Interno, mentre il consigliere regionale Piero Ruzzante ha posto la questione alla commissione specifica di Palazzo Balbi. Entrambi hanno chiesto la chiusura della pagina. "Nonostante l’intervento del Ministero, in questi giorni si sono verificati alcuni fatti che destano preoccupazione" scrive Naccarato nell’interrogazione, citando il rinvenimento di 8 cellulari a disposizione dei detenuti e "il profilo Facebook dal quale si diffondono messaggi distorti e poco consoni ad un ufficio pubblico dai compiti così delicati. Appaiono immagini che inneggiano al regime fascista e scritte che negano il valore rieducativo della pena". Padova: il vescovo Cipolla porta il Giubileo in carcere, la cappella sarà "chiesa giubilare" di Cristiano Cadoni Il Mattino di Padova, 9 novembre 2015 Dietro i cancelli dannati alti due metri e mezzo, oltre i muri di cemento armato, aldilà delle sbarre rosse che separano ogni stanza, fin dentro la sala eletta a chiesa, lì dove le preghiere sembrano essere mute e inascoltate: è lì che il nuovo vescovo don Claudio Cipolla consegna il suo dono di misericordia, spalancando le porte del carcere Due Palazzi al Giubileo straordinario che comincia tra un mese esatto. "Lì dove c’è il massimo della consapevolezza dell’errore, lì dove abbonda il peccato, la misericordia è più visibile", ha detto ieri mattina don Claudio alla platea di un convegno dedicato ai conflitti, alla misericordia, ai profughi, nel teatro della facoltà di Teologia. E lì ha annunciato che una delle chiese giubilari di Padova - che saranno tre o quattro, ancora non è deciso - sarà quella del carcere. È un segnale fortissimo, quello che arriva dal vescovo e quindi dalla Chiesa padovana. Una scelta mai fatta in precedenza. E però del tutto coerente con le parole e i gesti di un parroco che arriva dalle frontiere della fede, che si è presentato alla sua nuova comunità come un povero, che ha promesso di andare a trovare prima di tutto chi non ha neppure la voce per invitarlo e che infatti nei suoi primi venti giorni alla guida della diocesi è stato due volte al Due Palazzi: la prima per celebrare una messa, la seconda, in forma privata, per parlare a lungo - più di cinque ore - con i carcerati. In particolare con un ergastolano, ha raccontato ieri, con il quale ha preso un caffè. "Con lui, e più in generale con tutti gli ospiti, ho condiviso i sentimenti di conflitto fra l’esclusione che s’impone per l’espiazione di una pena e l’inclusione necessaria perché sia concesso loro di rimediare a un errore. È all’interno del carcere che quella cultura dello scarto, di cui parla così spesso papa Francesco, si dissolve come neve al sole". E di fronte ai conflitti - ha detto ieri don Claudio, accennando a tutti gli incontri significativi fatti in queste prime settimane - bisogna imparare a dire "misericordia". E la misericordia è proprio il "tema" del Giubileo straordinario indetto da papa Francesco con la bolla pontificia "Misericordiae vultus" nella quale si evidenzia la necessità di un Anno Santo per "tenere viva, nella Chiesa Cattolica, la consapevolezza di essere presente nel mondo quale dispensatrice della Misericordia di Dio". La porta santa si aprirà l’8 dicembre, data non casuale perché ricorre il cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II. A Padova le chiese giubilari - ossia quelle nelle quali sarà possibile ricevere l’indulgenza - dovrebbero essere quattro: il duomo, il Santo, San Leopoldo e - appunto - il carcere Due Palazzi. L’apertura della prima porta santa, quella del duomo, è già fissata per il 13 dicembre, il giorno dopo è previsto l’arrivo delle prime scolaresche (si comincia con l’istituto Barbarigo). Già in calendario anche l’apertura al Santo, prevista per il 21 dicembre. A seguire dovrebbe esserci San Leopoldo - se confermata - e poi, per ultimo, il carcere. Padova: così il vescovo ha trasformato il carcere "Due Palazzi" in meta di pellegrinaggio di Don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova Il Mattino di Padova, 9 novembre 2015 Può una terra bagnata di delitti qual è il carcere diventare una terra-santa alla quale recarsi come pellegrini in cerca della Grazia? "Nessuna perla si scioglie nel fango" scriveva Victor Hugo ne "I Miserabili": nessun uomo sarà mai perduto se qualcuno gli siederà accanto per testimoniargli la variabile di Dio. Quella che, calcolata, rimette mano a strade rese impraticabili dalla menzogna, può fare di pietre scartate delle pietre angolari: pietre che sostengono gli architravi di Dio. "In carcere ho visto come lo scarto possa diventare una risorsa, come certe condizioni apparentemente inutili in quel luogo divengano una ricchezza" ha detto il vescovo Claudio annunciando la sua scelta di rendere la chiesa del carcere "Due Palazzi" una delle quattro chiese giubilari in vista del prossimo Giubileo: una chiesa che è stata prescelta come "valida" ai fini dell’assoluzione dei peccati per i pellegrini che in essa si recheranno nell’anno santo. Il peccato come incrocio di salvezza: il paradosso dei Vangeli. Il carcere, dunque, come meta di pellegrinaggio: non solo luogo nel quale espiare la pena da parte di chi è condannato, ma anche luogo in cui andare pellegrini a toccare con mano la carne di Cristo. Umanamente è un’assurdità: il carcere lo si evita, lo si denigra, lo si offende. Per tutto un anno, invece, diverrà occasione di santificazione, luogo in cui la Grazia dispensa la misericordia, una terra nella quale andare a vedere la ragione che mise sottosopra Paolo, ex-ghigliottinaio a libro paga della legge: "Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20). Lungi dall’essere una mancanza di rispetto per chi soffre a causa di responsabilità altrui, questa è una scelta di campo: è un invito a sfidare le cose illogiche degli uomini per addentrarsi dentro le cose logiche di Dio. È uno stare dalla parte dell’uomo, anche dell’uomo peggiore se proprio volete: è ricordarci che prima di ogni altro pensiero - monasteri, cattedrali, oratori e dicasteri - Dio ha pensato l’uomo. Che, anche quando offusca la sua bellezza, rimane il suo pensiero più gradito. Ecco, dunque, dove la sfida s’affina e, forse, infastidisce: che la cappella del carcere venga scelta come chiesa-giubilare non aggiunge nulla a chi, nella ferialità, già sperimenta le scorribande e le imboscate della Grazia. Servirà a coloro che, apparentemente liberi come chi scrive, si vedranno costretti ad allargare gli orizzonti, ad aprirsi all’imprevedibilità della Grazia, ad usare un pizzico di misericordia in più per le persone che sbagliano. Un’aggiunta di misericordia in più anche verso se stessi. Il Vangelo è un maestro che fa delle preferenze e che, smascherato, non prova vergogna a dare un nome ai suoi preferiti: da sempre sono rimasti i poveri, anche i poveri più dissacranti e dissoluti come possono apparire i carcerati. Per loro riserva cenni d’incomprensibile tenerezza, a loro addita quando vuol spiegare che oltre la legge può arrivare l’amore, a loro ammicca quando vuol mostrare che i suoi pensieri sono lungi da quelli umani. "Ogni volta che passeranno la porta della loro cella, rivolgendo la parola al Padre, possa questo gesto significare il passaggio della Porta Santa" scrive Francesco nella bolla di indizione per il Giubileo della Misericordia. Sono parole in agguato, sono immagini da tregenda, hanno l’eco di cose impossibili solo a pensarsi. Eppure sarà così: Dio si lascerà vedere solo attraverso le ferite, quelle ricevute e quelle date. Un Dio imbarazzante. La notizia ha colto la mia piccola comunità cristiana di sorpresa: sorpresi i detenuti dalla predilezione di Dio per loro, sorpresi i miei volontari che, all’annuncio, se ne stavano con le "mani in pasta" come da quattro anni a questa parte. Come fosse la cosa più normale di questa terra andare a curare le ferite più inguardabili, portare Dio nella terra di Lucifero. Tutti convinti che, alla fine di tutto, a dire grazie saranno coloro che, pellegrini da queste parti, rincaseranno accarezzati dalla misericordia di Dio. Con qualche certezza in meno, con qualche dubbio in più: le domande sono, da sempre, il segno di punteggiatura più ricco. Anche se lasciano sempre in apnea, quasi frastornati dal loro silenzio. Genova: detenuto albanese di 54 anni si è impiccato ieri nel carcere di Marassi Il Secolo XIX, 9 novembre 2015 Tredici anni fa, per gelosia, ammazzò a picconate la moglie; tornato libero dopo 9 anni, un anno fa a Sutri (Viterbo), uccise la nuova compagna con sette coltellate e tentò il suicidio. Ieri pomeriggio Asilan Agoj, albanese di 54 anni, si è impiccato nel carcere di Marassi. A nulla è servito il tentativo di rianimarlo degli agenti penitenziari. L’uomo si è ammazzato con l’elastico di una tuta. La notizia del suicidio è stata divulgata dal sindacato Sappe. La settimana scorsa a Marassi, uno dei carceri d’Italia dove il fenomeno del sovraffollamento è più marcato, c’è stata una maxi rissa nell’ora d’aria fra 20 detenuti albanesi e sudamericani che ha costretto il ministro della Giustizia Andrea Orlando a inviare a Genova il Capo del Dipartimento. "Questo suicidio rimarca l’emergenza carceri. Negli ultimi 20 anni gli agenti hanno sventato in carcere più di 17 mila tentati suicidi ed impedito quasi 125 atti di autolesionismo", dice il sindacato. Sassari: la proposta del Pd per avvicinare il carcere di Bancali alla città di Vincenzo Garofalo La Nuova Sardegna, 9 novembre 2015 Palazzo Ducale si mobilita per colmare i dieci chilometri di distanza che separano Sassari dal carcere di Bancali e far sentire i detenuti e gli operatori della struttura penitenziaria integrati con la città. Il capogruppo del Pd in consiglio comunale, Giuseppe Masala, ha presentato un ordine del giorno con cui, appunto, l’assemblea impegna sindaco e giunta "a promuovere iniziative per integrare sempre più la casa circondariale con la città di Sassari valorizzandola come una risorsa e sensibilizzando in tal senso i cittadini". Per fare ciò Masala suggerisce di attivare una serie di iniziative e progetti mirati ad "avvicinare il carcere alla città, dare voce ai detenuti, conoscere chi opera in carcere, comprendere realtà, iniziative e opinioni dei volontari, sensibilizzare gli studenti sul tema della devianza, attivare percorsi di reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, creare per tutti i cittadini un’occasione di conoscenza sulla realtà carceraria". A spingere il capogruppo del Partito democratico a stilare un ordine del giorno dedicato alle sorti del carcere è stato l’incontro che i consiglieri comunali hanno avuto lo scorso 22 settembre con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Sassari, Cecilia Sechi. "Da quell’incontro è emersa con forza la distanza del carcere di Bancali dalla città", spiega Masala, "una distanza intesa non solo come spazio fisico ma anche come isolamento e allontanamento dal cuore pulsante della Sassari, dalle sue attività, dai suoi rumori. Tanto da far capire al Garante che in taluni cittadini detenuti trapela quasi un rimpianto del vecchio carcere di San Sebastiano". Una situazione cui secondo l’esponete Pd il Consiglio comunale e la giunta devono porre rimedio: "è necessario che la società civile tutta, a partire da enti locali e associazioni, si impegnino per migliorare le condizioni di vita nel carcere anche implementando attività trattamentali, culturali, scolastiche, lavorative e ricreative, che riducano il tempo che i detenuti trascorrono in cella", continua Masala. L’ordine del giorno che sarà discusso in una delle prossime riunioni del Consiglio comunale, propone come primo passo per raggiungere l’obiettivo proposto, l’organizzazione di "un convegno per avvicinare la cittadinanza alla realtà carceraria di Bancali, coinvolgendo gli operatori, istituzionali e associativi, impegnati sul campo". Rovigo. il Comune ha una nuova Garante dei diritti dei detenuti, è Giulia Elisa Bellinello rovigo24ore.it, 9 novembre 2015 Giulia Elisa Bellinello è il nuovo "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Rovigo. La nomina è avvenuta con decreto del sindaco Massimo Bergamin che a palazzo Nodari, ha fatto la presentazione ufficiale. "Giulia Elisa Bellinello - ha detto il sindaco, mi è stata proposta e presentata dal consigliere Livio Ferrari (che in passato ha ricoperto lo stesso incarico). Io mi sono fidato e affidato, vagliando diversi nominativi e curriculum, ho condiviso questa scelta in considerazione anche della competenza ed esperienza maturate con attività di volontariato all’interno della Casa circondariale cittadina. Auguro buon lavoro al nuova Garante, offrendo la mia massima disponibilità per quanto di competenza". Rovigo, come ha evidenziato Ferrari, è uno tra i pochi Comuni in Italia dove è prevista la figura del Garante, inserita nel 2011 nello Statuto comunale. "È importante dare attenzione e avere sensibilità per un mondo dove c’è grande disinformazione. Soprattutto è fondamentale ridare dignità anche a chi è detenuto". "Ho accettato l’incarico - ha detto Bellinello, con il cuore in mano, perché conosco bene l’ambiente e la sua complessità. Spesso chi è detenuto ha bisogno di un sostegno e baserò molto del mio lavoro sul colloquio con i detenuti, facendomi da tramite con le varie istituzioni e con l’assessore ai Servizi Sociali". L’assessore del settore, Beatrice Di Meo, ha detto che in cantiere vi sono diversi progetti volti al recupero dei detenuti e a tal proposito, nei giorni scorsi ha incontrato il direttore del carcere. "Come Servizi sociali - ha detto - istituirò a breve un tavolo per fare rete proprio sugli aspetti riabilitativi di chi ha vissuto il carcere". Sindaco e Giunta, insieme al nuovo Garante, il 25 novembre alle 9.30 andranno in visita alla Casa circondariale rodigina. Giulia Elisa Bellinello è laureata in medicina e chirurgia, con specializzazione in igiene e medicina preventiva con orientamento di laboratorio. Ha svolto diverse esperienze di volontariato. Tra queste: dal 2003 al 2015 volontaria presso la Casa circondariale di Rovigo, con colloqui settimanali, come opera di sostegno morale, conducendo anche dal 2014 al 2015 laboratori di lavorazione di scarti di sapone; dal 2003 al 2014 volontaria e socia dell’associazione Portaverta con presenza settimanale nella casa d’accoglienza con servizio di affiancamento agli ospiti con problemi di marginalità sociale e disagio psichico. Colloqui individuali in carcere settimanali per favorire il rapporto di collaborazione tra l’associazione Portaverta e la Casa circondariale. Dal 1980 al 2002 catechista nella parrocchia di S. Francesco e dal 1972 al 1980 nella parrocchia di S. Bortolo. Firenze: i detenuti di Sollicciano scrivono a Papa Francesco "siamo persone" Redattore Sociale, 9 novembre 2015 La lettera sarà consegnata direttamente al Pontefice da un gruppo di reclusi durante la messa allo stadio che Bergoglio terrà domani pomeriggio durante la visita in città. I detenuti di Sollicciano scrivono a Papa Francesco e domani, durante la messa che il Pontefice celebrerà allo stadio di Firenze, un gruppo di reclusi consegnerà direttamente la lettera nelle mani del Santo Padre. "Noi siamo gli Ultimi - scrivono i detenuti nella lettera scritta insieme a Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere - gli emarginati da tutto, i poveri costretti a rinnovare pratiche che portano solo dolore e pena a noi e a chi ci sta attorno, i dimenticati, i segregati per dare tranquillità e sicurezza a chi sta fuori. Restiamo persone però, con gli stessi diritti, esclusa la libertà. E da qui abbiamo imparato a distinguere chi ci guarda con amore e rispetto da chi ci usa per interesse, siamo uomini e donne, magari un po’ sbagliate, ma ancora pieni/e di risorse. Noi vogliamo abbracciarti, perché sappiamo che ti piacciono gli abbracci: con essi ci si scambia forza, sostegno e affetto, vogliamo esserti vicini nei momenti di difficoltà, vogliamo sostenerti e darti forza come tu sai darla e l’ hai data a noi". E poi, nella parte finale della lettera: "Noi, ladri, assassini, rapinatori, truffatori, spacciatori, tossicodipendenti... colpevoli e innocenti, portiamo il peso delle nostre scelte, in questa occasione siamo anche così audaci da pensare a uno scambio con te perché sappiamo che ci cerchi e e ci ami, come già fece Qualcun Altro. Quando vuoi...noi siamo qui. Un abbraccio". Massa Carrara: Garante regionale dei detenuti "questo carcere è un’eccellenza toscana" Il Tirreno, 9 novembre 2015 "Finalmente è stata aperta quest’area che consente una migliore distribuzione degli spazi di tutto il carcere. In questo padiglione, dotato di refettorio per i pasti di gruppo, al piano terra sarà allestita l’infermeria mentre al primo e al secondo piano ci sono le celle, ognuna per due detenuti, con bagno". A parlare è il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone che ieri mattina ha visitato il nuovo padiglione del carcere di Massa che ospita 63 detenuti. "Rimangono - ha aggiunto il garante regionale - delle migliorie da fare, ad esempio sono presenti infiltrazioni di acqua dalle finestre". Tra i punti di forza di questo istituto ci sono il percorso trattamentale, il regime penitenziario interno aperto e la presenza di lavorazioni penitenziarie di tessitoria, lavanderia industriale, di riparazioni di macchine da caffè e la serra. "Sono 90 - commenta Corleone - i detenuti che lavorano all’interno della struttura e 15 quelli che svolgono attività di pubblica utilità in città". Corleone ha voluto complimentarsi con la direttrice del carcere Maria Martone, "attenta alle attività per i detenuti". "In questo istituto - dice - ci sono iniziative teatrali, cinematografiche, di scrittura con il giornalino e la biblioteca". Tra le lacune del carcere evidenziate da Corleone, "l’assenza di un educatore fisso e il "mancato rafforzamento degli agenti di sorveglianza, il numero dei detenuti è aumentato ma il numero di agenti no. Credo che manchi davvero poco per trasformare questa casa di reclusione in un’eccellenza toscana". Avellino: carcere di Ariano Irpino, l’Osapp chiede riapertura della cucina per i detenuti ilciriaco.it, 9 novembre 2015 L’Osapp regionale, a firma del segretario Vincenzo Palmieri, scrive al provveditorato della Campania Dott. Tommaso Contestabile, al direttore della C.C. Ariano Irpino, Dott. Gianfranco Marcello, alla segreteria generale Osapp Leo Beneduci, alla segreteria provinciale e locale Osapp di Avellino in merito all’apertura della cucina per i detenuti. "La segreteria regionale scrivente, con la presente chiede all’organo in indirizzo di conoscere i tempi di attesa nonché i chiarimenti in merito alla mancata dell’apertura a tutt’oggi della cucina detenuti del vecchio padiglione, chiusura resosi necessaria nel dicembre 2014, sebbene è stata conclusa la ristrutturazione delle aree detentive con il relativo arredamento delle camere di pernottamento. Si chiede altresì, in attesa di assegnazione futura di personale, di indire per la struttura penitenziaria di Ariano Irpino un interpello così come avvenuto con il personale femminile al fine di resistere all’emergenza continua in cui versa il predetto istituto e garantire più sicurezza, servizi e compiti istituzionali nonché evitare la negazione dei diritti del Personale di Polizia Penitenziaria che sono alla pari del dovere. La scrivente sigla auspica che, l’organo in indirizzo verso il quale presente è diretto, si attivi per la risoluzione delle problematiche strutturali rappresentate sollecitando il DAP allo stanziamento di più fondi per garantire la funzionalità, le opere ordinarie e straordinare per la riapertura della cucina in questione, non di meno importanza la funzionalità degli ascensori, e l’ammodernamento della caserma agenti come più volte segnalato e la questione idrica. Noi come Osapp, per una questione di responsabilità e di rispetto verso i nostri aderenti, continueremo ad esigere una risoluzione delle questioni irrisolte presso gli organi competenti, affinché l’istituto penitenziario di Ariano non sia considerato secondario rispetto a tanti altri istituti penitenziari della Campania". Verona: l’Associazione "Garibaldini a Cavallo" apre una scuderia tra le mura del carcere verona-in.it, 9 novembre 2015 Il progetto pilota nasce a Verona e vede protagonisti la casa circondariale di Montorio, l’Associazione Garibaldini a Cavallo e Veronafiere. Una scuderia tra le mura del carcere per aiutare il reinserimento lavorativo delle persone detenute. Il progetto pilota nasce a Verona e vede protagonisti la casa circondariale di Montorio, l’Associazione Garibaldini a Cavallo e Veronafiere che partecipa attraverso la sua manifestazione Fieracavalli. I Garibaldini a Cavallo hanno realizzato all’interno della struttura penitenziaria un’area con alcuni box per cavalli dove i detenuti possono imparare la professione di groom, grazie a un vero e proprio corso per tecnici di scuderia, per insegnare loro come accudire gli animali. La scuderia servirà, inoltre, ad accogliere i cavalli sequestrati dal Corpo Forestale dello Stato. Nei quattro giorni di Fieracavalli, i primi cinque apprendisti groom in regime di libertà vigilata hanno già assistito i Garibaldini a Cavallo nelle attività di volontariato. L’iniziativa è stata presentata sabato 7 novembre, nella casa circondariale di Montorio. Ad inaugurare le scuderie, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, il direttore del carcere di Montorio, Mariagrazia Bregoli, il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani, accompagnato dal vicedirettore, Mario Rossini. "Veronafiere è orgogliosa di essere partner di un progetto di grande valenza sociale che mira a restituire occasioni di libertà e dignità a persone che stanno scontando una pena. Daremo supporto per la formazione delle figure professionali attraverso il nostro Fieracavalli Campus" ha spiegato Mantovani. Padova: detenuto evade dal carcere grazie al permesso di lavoro di Enrico Ferro Mattino di Padova, 9 novembre 2015 Antonio Floris lavora per una coop e non è rientrato al Due Palazzi: in cella per tentato omicidio è già alla seconda fuga. Stava scontando un lungo periodo di detenzione in carcere per due tentati omicidi e grazie alla sua condotta aveva ottenuto il permesso di lavorare con una cooperativa fuori dalle mura del penitenziario. Venerdì sera, però, Antonio Floris, 61 anni, sardo, non ha fatto rientro al Due Palazzi. Subito sono state attivate le ricerche: l’indagine sulla sua fuga è stata affidata agli investigatori della Squadra mobile di Padova. Non è la prima volta che Floris scappa dal carcere. Affidato a una cooperativa. Era stato trasferito a Padova proprio per questo motivo, perché si tratta di un penitenziario di massima sicurezza. Alle spalle il pregiudicato sardo ha due tentati omicidi e una estorsione. Dopo una quindicina d’anni senza intemperanze e con una condotta esemplare era riuscito a ottenere dal giudice di sorveglianza il beneficio di un lavoro. Floris era stato affidato a una cooperativa di via Chiesanuova, dove prestava servizio dal mattino fino al tardo pomeriggio. Venerdì sera il detenuto non ha mai fatto rientro. La notizia della sua fuga è stata diramata a tutti i livelli ed è stato deciso di affidare il caso alla Squadra mobile di Giorgio Di Munno. Le ricerche. Gli investigatori della Questura di Padova stanno compiendo tutti gli accertamenti per rintracciare il latitante. Stanno cercando di risalire alla sua rete di contatti, nel tentativo di ipotizzare un nascondiglio, un tragitto, una destinazione. Pregiudicato sardo. Antonio Floris non è nuovo a fughe di questo genere. Nel 1999 la sua latitanza finì a un passo dalla casa natale. Sulla sua testa pendeva la condanna a 16 anni per un duplice tentato omicidio. Ma più che per quella condanna, Antonio Floris era diventato un "personaggio" perché da latitante scriveva i diari con un codice cifrato. Gli agenti avevano scoperto il suo segreto quando lo catturarono alla periferia di Elmas (in Sardegna): nel tascapane i diari zeppi di numeri e strani simboli. Era un codice per ricordare ogni giorno della fuga, le imprese criminali, ma anche per scrivere poesie e descrivere le emozioni provate. Antonio Floris si era dato una prima volta alla latitanza negli anni Ottanta, dopo aver intuito che sarebbe finito in cella: il cumulo delle pene per reati contro il patrimonio, voleva dire infatti carcere sicuro. Nel 1996 l’arresto alla periferia di Elmas, bloccato dagli agenti della Criminalpol. Le fucilate. Nel 1993 sparò alcune fucilate contro due agricoltori, marito e moglie, che avevano denunciato la sua presenza (era ancora latitante) vicino al loro podere. Una scarica di pallettoni per fortuna andata a vuoto, destinata a tappare la bocca a chi aveva osato tradirlo. Finito al carcere di Buoncammino e scarcerato per colpa di una custodia cautelare troppo lunga, Antonio Floris era fuggito una seconda volta pochi giorni prima di essere processato per quel tentato omicidio: sedici anni di carcere, la condanna emessa dal tribunale di Oristano il 15 ottobre 1999. Ora questa nuova fuga, che non fa che peggiorare la sua situazione. Genova: l’agente che derubava i detenuti tradito dai franchi svizzeri di Marco Grasso Secolo XIX, 9 novembre 2015 A tradirlo è stata una traccia che non poteva essere cancellata. Cinquecento franchi svizzeri che, quando ormai i sospetti su di lui erano già molto forti, erano stati affidati proprio a lui. A incastrarlo definitivamente è stato il maldestro tentativo di procurarsene altrettanti, attraverso la sua banca, una volta che lo scandalo è venuto a galla. Il retroscena emerge dall’inchiesta sull’arresto della guardia carceraria indagato per aver rubato beni dei detenuti, lasciati nella cassaforte del carcere di Marassi prima di entrare in cella. Sono oltre cinquanta i plichi scomparsi, secondo quanto ricostruito dal pubblico ministero Massimo Terrile. Il poliziotto si era anche appropriato del denaro raccolto dai colleghi dopo la morte del padre di un agente, conservato anch’esso nel luogo in cui venivano trattenuti in custodia gli effetti personali dei detenuti. L’accusa è di peculato: l’agente infatti aveva un accesso diretto a quei beni, essendo impiegato all’ufficio matricola, ovvero il servizio che si occupa del ricevimento dei detenuti, dunque anche dell’archiviazione di ciò che sono tenuti a lasciare prima di entrare. Al momento è l’unico sotto inchiesta, ma non è escluso che nel corso degli accertamenti si aggiungano altri nomi. Il sovrintendente è agli arresti domiciliari. È stato interrogato nei giorni scorsi e ha parzialmente ammesso alcune contestazioni. La giustificazione fornita riguarda difficoltà economiche legate al divorzio: "Avevo bisogno di soldi, ho fatto una stupidata". Milano: "Né sole né aria", pubblicità-progresso sui muri con le poesie dei detenuti di Oriana Liso La Repubblica, 9 novembre 2015 Si è già partiti in via Vico, di fronte alle mura di San Vittore, ma si arriverà alle affissioni nei mezzanini della metropolitana. Le opere da stampare selezionate dai curatori di un laboratorio creativo a Opera. Due grandi cartelloni pubblicitari, fondo nero, tre sbarre bianche stilizzate e il testo di una poesia. In via Vico, di fronte al carcere di San Vittore a Milano, parte il progetto "Mura trasparenti": gli autori delle poesie sono i detenuti che partecipano al laboratorio di scrittura creativa di Opera e che, in questo modo, possono comunicare i loro pensieri al mondo esterno. Un’altra forma di pubblicità progresso, insomma: il Comune mette a disposizione alcuni spazi per le affissioni di varie dimensioni e in vari luoghi - dopo via Vico toccherà ai mezzanini della metropolitana - e i curatori del laboratorio di Opera selezionano le poesie da stampare. "Scegliamo quelle che raccontano le esperienze dei ragazzi e degli uomini che, da poco o molto tempo, vengono ogni sabato al laboratorio: per loro è una possibilità di riscatto e un modo per esprimere se stessi a cui non sono abituati" racconta Carlo Lazzati, che collabora al laboratorio e ha studiato il progetto con il presidente della sottocommissione carceri, il consigliere Pd Alessandro Giungi. Una delle due poesie già affisse si chiama Né sole né aria ed è scritta da Pino Carnovale, che ha già scritto e pubblicato un’antologia di poesie, da diciotto anni frequenta il laboratorio di scrittura, da trenta è in carcere, l’anno prossimo uscirà per fine pena. L’altra, Nel silenzio, è una poesia di Giuseppe Catalano, un panettiere che, in carcere, ha scoperto la scrittura e la musica. A breve, arriveranno altre poesie sui muri della città. Acqua, sprechi, guerre. Invettiva per la Terra di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 novembre 2015 Ecco il testo che l’Unesco aveva chiesto (e che è stato poi sospeso). Maledetti. Siano maledetti gli uomini dissennati, famelici e ciechi che hanno assassinato fino all’ultimo baiji, il delfino bianco dello Yangtze. Si chiamava Qiqi e per venti milioni di anni lui e i suoi antenati avevano vissuto lì, nelle acque del Fiume Lungo che italiani e spagnoli chiamano Fiume Azzurro. E i poeti li avevano cantati per secoli vedendoli, per la dolcezza e l’eleganza, come creature femminili: le Dee dello Yangtze. Sono estinte, quelle Dee. Uccise da quattordici miliardi di tonnellate di rifiuti dell’uomo e ventisei miliardi di veleni industriali che ogni anno, nonostante il fiume regali ai cinesi oltre un terzo dell’acqua potabile, sono scaricati lungo il suo percorso. Sapevano muoversi anche nelle acque più torbide, quelle Dee. Le guidava una specie di sonar. Ma nulla poteva, coi fanghi tossici. "Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta", scrisse san Francesco nel "Cantico delle creature". E così dovrebbe essere. Sono tanti, al contrario, gli uomini che vanno maledetti per avere avvelenato quel dono prezioso. Come i responsabili della Exxon Valdez, che perdendo il carico incatramarono mille miglia di costa in Alaska, e quelli delle altre 46 petroliere o piattaforme di pompaggio che negli ultimi trent’anni han causato i più paurosi sversamenti di petrolio nelle acque del mondo. "Incidenti", dicono. E per "incidenti", accusano gli investigatori, sono stati spacciati anche i naufragi di almeno 637 navi cariche di rifiuti tossici affondate senza misteriosamente lanciare il "May Day": 88, per Legambiente, nel solo Mediterraneo. "Minchia, e u mari nostru ?", chiede incerto in un’intercettazione un boss della ‘ndrangheta. "Chi ti ni futti!", dice l’altro, "Con tutti ‘sti soldi il mare te lo fai ai Caraibi". Sono un’immensità, le acque: coprono quasi tre quarti del mondo. Ma quelle dolci sono solo il 2,5%. E di queste i tre quarti sono nei ghiacciai e nelle calotte polari. Resta nei laghi, nei fiumi, nelle falde e nei sistemi biologici, per tutti noi e le piante e la vita animale, solo una quota piccolissima. Per la stragrande maggioranza, fino al 90% nei Paesi più poveri, usata nell’agricoltura. Ne avevamo 17 mila litri pro capite, nel 1950: siamo scesi sotto i 7 mila. E sia maledetto l’abuso impazzito della nostra sorgente di vita. Abuso che ha cancellato in Russia il lago d’Aral, il quarto al mondo, ingoiando il peschereccio di Kalyeg Abzamy: "Pescavo due tonnellate al giorno, ora è insabbiato nel deserto". Ha prosciugato in Grecia il Koroneia, vicino a Salonicco, che aveva quasi la superficie del lago di Lugano e oggi si può a volte passare a piedi. Ha portato all’agonia in Africa il lago Chad, l’unica fonte di 22 milioni di persone che mezzo secolo fa era 67 volte più grande del Garda e oggi è poco più che il triplo della laguna di Venezia. Ha fatto sparire dalle mappe della Cina 28.000 corsi d’acqua e 243 laghi riducendo il vasto e nobile Poyang a una pozzanghera e costringendo gli elicotteri a levarsi in volo per buttar cibo agli uccelli migratori… E più ancora sia maledetto chi spreca l’acqua potabile, come in Italia dove gli acquedotti perdono il 39% di quanto portano. Quella che si può bere rappresenta solo lo 0,008% dell’acqua del pianeta e non è ancora alla portata, accusa l’Unicef, di quasi 750 milioni di persone. Moltissime in Paesi pieni di milionari come la Cina o ricchissimi di acqua come il Brasile che possiede un nono dell’acqua dolce della Terra ma nel 2015, a causa della siccità, ha dovuto perfino cancellare il Carnevale in vari stati del Sur. Non è "equa", la distribuzione dell’acqua. La natura ne ha regalato tantissima a qualcuno, pochissima ad altri. E mentre il mercato delle acque minerali marcia verso i 195 miliardi di dollari l’anno, miliardi di persone hanno sete. Un cittadino medio italiano consuma 19 volte più acqua d’un africano del Sahel, un americano 37. Possono poi stupirsi, le dieci gigantesche multinazionali dell’acqua, se in Bolivia scoppiano rivolte sanguinose all’idea di pagare un allacciamento lo stipendio di sei mesi? Il Pacific Institute californiano ha messo on-line i "Water conflict", le guerre per l’acqua, della storia dell’uomo. Sono state, da quando in Mesopotamia il re di Lagash Eannatum, deviò il corso delle acque per costringere alla resa la vicina Umma, 343: trecentoquarantatré. Le più terribili però, se i pazzi non ritroveranno la ragione, saranno quelle di domani. Perché solo Schengen potrà difenderci dal terrorismo di Jacques Delors e Antonio Vitorino* La Repubblica, 9 novembre 2015 Il Massiccio afflusso di richiedenti asilo nell’Ue stimola un’apprezzata solidarietà nei diretti confronti dei rifugiati e tra gli Stati, ma suscita anche alcuni importanti interrogativi riguardo alla nostra capacità di garantire il controllo effettivo delle nostre frontiere esterne e ormai comuni. Noi chiediamo ai capi di Stato e di governo di prendere in considerazione questo afflusso senza precedenti a partire da una chiara visione politica: i rifugiati sono vittime, non una minaccia, e gli europei sono forti a sufficienza da poter affrontare sul lungo periodo la sfida della loro accoglienza e integrazione. Noi chiediamo ai capi di Stato e di governo di aumentare gli aiuti destinati ai paesi che oggi accolgono la maggior parte dei richiedenti asilo siriani (Turchia, Giordania e Libano), per permettere loro di rimanere nella loro regione d’origine. Noi li invitiamo a rafforzare i controlli alle nostre frontiere, intensificando soprattutto la lotta contro le reti dei trafficanti di uomini e della criminalità organizzata, e quindi la collaborazione tra i servizi d’intelligence e le forze dell’ordine. Per perseguire questi obiettivi, i capi di governo hanno la fortuna di poter disporre di numerosi strumenti europei di cooperazione di polizia e giudiziaria (il Sistema di informazione di Schengen, Europol, Frontex, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo eccetera) per affrontare la crisi. Ricorrere a questi strumenti è indispensabile per ragioni di efficienza - un paese che agisce da solo è indifeso - ma anche per mantenere la fiducia reciproca tra gli Stati: tutti devono essere convinti che nessuno di loro trascuri la missione di sorveglianza alle nostre frontiere comuni. La recente decisione della creazione degli "hot spot", i centri europei di identificazione, ricollocamento e espulsione (per chi non ne ha diritto) dei richiedenti asilo in Grecia e in Italia, si inserisce proprio in questa logica europea: cerchiamo di essere solidali e generosi nei confronti di questi paesi, ma anche di riprendere in mano il controllo della situazione alle "nostre" frontiere. Senza altri indugi, adoperiamoci per portare avanti questo movimento di europeizzazione che prevede il dispiegamento di guardia-coste e guardie di frontiera europee; interventi marittimi sotto mandato Onu; potenziamento di Frontex, anche nelle operazioni di rimpatrio dei migranti irregolari; creazione di corridoi europei per l’immigrazione legale e così via. Se le regole di Schengen prevedono che in un periodo di crisi si possa temporaneamente tornare ai controlli alle frontiere nazionali, tuttavia non è nell’interesse di nessuno che questi siano mantenuti per sempre, soprattutto in considerazione del loro esorbitante costo in termini economici. Simili controlli sono un’opzione, non una soluzione. Trent’anni fa gli Accordi di Schengen furono firmati per non far sprecare tempo, e quindi denaro, a milioni di viaggiatori, di lavoratori frontalieri, di operai e di imprese che esportavano i loro prodotti in tutta Europa. In seguito, gli Accordi furono estesi a beneficio di ben quattrocento milioni di europea. Proprio per potenziare l’efficienza dei doganieri e delle polizie, i controlli fissi, costosi e falsamente rassicuranti sono stati riassegnati a vantaggio di controlli mobili, dello sviluppo della cooperazione tra le polizie europee e del rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Ritornando al passato, si abbandonerebbe una via certa in cambio di una ignota: se, come è sicuro, ne diventassero vittime tutti i cittadini europei, chi ne trarrebbe beneficio? Utilizzare nel migliore dei modi lo strumento Schengen significherebbe anche affrontare meglio la sfida del terrorismo. Teniamolo bene a mente: Schengen ha lo scopo di organizzare la cooperazione di polizia e organi giudiziari tra le singole autorità nazionali, una cooperazione talmente utile che hanno desiderato prendervi parte anche alcuni paesi non membri dell’Ue come il Regno Unito. Schengen vuol dire maggiore libertà e maggiore sicurezza. Subito dopo gli attentati terroristici, in genere proviamo sempre emozioni forti, tali da rilanciare la nostra voglia di sicurezza, che però può cristallizzarsi attorno al ripristino dei controlli alle frontiere nazionali, visto il peso che essi hanno nel nostro immaginario collettivo. Ma il nostro desiderio di sicurezza sarà soddisfatto nel contesto stesso dell’area Schengen. Spesso gli attentati terroristici sono commessi da cittadini che vivono in Europa e altrove, che però hanno radici internazionali: anche questi aspetti, di conseguenza, esigono risposte europee e internazionali. E frequente che la polizia e gli apparati della giustizia o dei servizi d’intelligence nazionali già conoscano questi terroristi: concedendo loro mezzi finanziari, umani e giuridici supplementari, anche tramite l’adozione di un Pnx europeo (Passenger name record, ossia un registro in codice dei nomi dei passeggeri), sarà dunque possibile evitare più efficacemente gli attentati, non destinando in modo sterile questi strumenti alla sorveglianza delle frontiere interne dell’Area Schengen per controllare centinaia di milioni di europei che ogni mese le varcano. Schengen è il requisito di fondo della nostra sicurezza: per sconfiggere il terrorismo l’unione fa la forza. La disunione ci indebolisce. Per affrontare le crisi internazionali è indispensabile quindi mantenere e, al tempo stesso, potenziare Schengen, invece di cedere alla pericolosa tentazione di rinchiudersi nelle frontiere nazionali, nuocendo all’unione degli europei, senza per altro migliorarne in alcun modo la sicurezza. Davanti ai nuovi pericoli uniamoci, dunque, con rinnovato spirito di cooperazione e di solidarietà. Viva Schengen! * Jacques Delors è stato Presidente della Commissione europea. Questo articolo è stato scritto anche dall’ex commissario Ue Antonio Vitorino e altri 37 partecipanti del Comitato Guida Europeo 2015 del Jacques Delors Institute (Traduzione di Anna Bissanti). Pinotti, droni e padri padroni di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci Il Manifesto, 9 novembre 2015 Cambia verso. Ormai è chiaro che per il Pd demolire l’Art. 11 della Costituzione sul ripudio della guerra, non solo non è più un tabù ma costituisce un elemento fondativo della sua natura. Lo stesso giorno in cui terminava la Trident Juncture 2015 - una delle più grandi esercitazioni Nato svoltasi in Italia, Spagna e Portogallo dal 3 ottobre al 6 novembre - la ministra della difesa Roberta Pinotti, appena avuta l’autorizzazione al drone dal padre padrone Usa, ha esternato, in una intervista al Corriere della Sera, il renzi-pensiero sull’uso della forza armata. La Trident Juncture - cui hanno partecipato oltre 230 unità terrestri, aeree e navali e forze speciali di 28 paesi alleati e 7 partner (tra cui l’Ucraina), con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 160 aerei da guerra - costituisce per il segretario della Nato Jens Stoltenberg, "un chiaro messaggio a qualsiasi potenziale avversario che la Nato non cerca il confronto, ma che siamo pronti a difendere tutti gli alleati". La Trident Juncture, la maggiore delle oltre 300 esercitazioni nel 2015, è stata una evidente prova di guerra contro la Russia, cui la Nato - che come patto militare offensivo si è allargata per 20 anni a est alla frontiera dell’ex Urss - capovolgendo i fatti, attribuisce la responsabilità di aver creato in Ucraina "una situazione potenzialmente più pericolosa di quella della guerra fredda". Allo stesso tempo è stata una prova generale di quella che la Nato chiama "Forza di risposta" (40 mila uomini) e in particolare della sua "Forza di punta ad altissima prontezza operativa", proiettabile in 48 ore verso Est e verso Sud (Medioriente e Nordafrica). Un ruolo chiave viene svolto dalle forze speciali che, spiega la Nato, "operano senza essere viste". La Trident Juncture è stata anche un laboratorio "dal vivo" delle maggiori industrie belliche statunitensi ed europee, che sono state "invitate a parteciparvi per trovare soluzioni tecnologiche che accelerino l’innovazione militare". Innovazione in cui l’Italia è ai primi posti: unico paese al mondo dopo la Gran Bretagna, riceverà dagli Stati uniti missili e bombe per armare i droni Predator MQ-9 Reaper made in Usa, già acquistati. Spendendo centinaia di milioni di euro che si aggiungono a una spesa militare, quella italiana, di circa 80 milioni di euro al giorno, sottratti alle spese sociali come è chiaro dalla manovra finanziaria denunciata anche dalle Regioni. Il "Predatore" Reaper (Mietitore, ovviamente di vite umane) è armato di 14 missili Hellfire (Fuoco dell’inferno) e di due bombe a guida laser o satellitare. I telepiloti, seduti alla consolle a migliaia di km di distanza, una volta individuato il "bersaglio", comandano con il joystick il lancio dei missili e delle bombe. I "danni collaterali" sono inevitabili, come hanno dimostrato i droni Usa impiegati in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen, Somalia e altri paesi. Del resto come dimenticare che quando la Mogherini prima dell’estate ha annunciato con Gentiloni la "guerra in Libia agli scafisti" subito si è affrettata a dichiarare che purtroppo non sono da escludere "dolorosi effetti collaterali". Così per colpire un presunto nemico, i droni killer distruggono spesso una intera casa, villaggi e feste popolari (soprattutto matrimoni) uccidendo donne e bambini con il "Fuoco dell’inferno" a testata termo-barica o a frammentazione. Quella termo-barica, spargendo una nube di aerosol esplosivo, provoca una sovrappressione e una ondata di calore tali da risucchiare l’aria dai polmoni e bruciare chiunque si trovi nel suo raggio. Quella a frammentazione investe l’area circostante con acuminati frammenti metallici che squarciano chiunque si trovi all’aperto e possono anche penetrare negli edifici, facendo strage di chi è all’interno. Questa è la nuova arma di cui si sta dotando l’Italia. Che non ci siano problemi ad usarla lo conferma la ministra Pinotti al Corriere. Alla domanda "Quando arriverà la decisione italiana di bombardare in Iraq?", risponde: "L’Italia ha già effettuato raid aerei in passato. Lo ha fatto nei Balcani, lo ha fatto in Libia". Al bombardamento Nato della Jugoslavia nel 1999 parteciparono 54 aerei italiani, che effettuarono 1378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando Usa. "Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra", dichiarava il presidente del consiglio D’Alema. Al bombardamento Nato della Libia nel 2011 gli aerei italiani effettuarono oltre 1.100 raid. "La missione in Libia - dichiarava il segretario del Pd Bersani - rientra nella nostra Costituzione, perché l’Art. 11 ripudia la guerra ma non l’uso della forza per ragioni di giustizia". E il presidente Napolitano assicurava: "Non siamo entrati in guerra". Sulla stessa linea, la ministra Pinotti dichiara oggi, a nome del governo Renzi, che effettuare raid aerei "non deve essere un tabù. Anzi sarebbe ipocrita pensare che possiamo fare tutto senza arrivare a quel punto". E tra poco si leveranno in volo anche i droni killer italiani con i loro missili "Fuoco dell’inferno". Ormai è chiaro che per il Pd demolire l’Art. 11 della Costituzione sul ripudio della guerra, non solo non è più un tabù ma costituisce un elemento fondativo della sua natura. Stati Uniti: intervista a Karl Guillen, ex condannato (ingiustamente) a morte in Arizona parmatoday, 9 novembre 2015 Karl Guillen, un caso di errore giudiziario americano divenuto famoso in tutto il mondo, si trova attualmente in Italia per raccontare la sua storia. Il caso: Karl Guillen alla fine degli anni 90 finì nel carcere di Florence, a sud dell’Arizona, per aver commesso un furto. Successivamente, a seguito della morte di un detenuto assassinato in quel carcere, fu accusato e condannato Karl. Essendo prevista in Arizona la pena di morte per chi si macchia del reato di omicidio, Karl venne condannato dallo Stato dell’Arizona a morire attraverso un’iniezione letale. Dopo un periodo in una cella di isolamento Guillen trascorse il suo tempo nel braccio della morte fino al 1999 quando, a seguito del patteggiamento (ndr, per un crimine mai commesso) la sua condanna a morte venne trasformata in 20 anni di carcere. Esce quindi dal carcere definitivamente, dopo aver scontato tutti i 20 anni, il 10 agosto 2013. Il caso di Karl Guillen, scatenò una vera e propria gara di solidarietà internazionale. Molti italiani contribuirono a sostenere la causa a favore di Karl e in tanti si fecero promotori della vendita di due libri scritti dallo stesso Guillen dal carcere "Karl Il Tritacarne" e "Il Sangue d’Altri" (ed. Multimage) per raccogliere fondi da destinare per un’adeguata difesa legale. Ora Karl sta girando per l’Italia per ringraziare personalmente tutti coloro che l’hanno aiutato e sostenuto durante i lunghi anni di ingiusta carcerazione. Lo abbiamo intervisto. Karl, cos’hai provato quel giorno in cui i giudici americani hanno emesso sentenza di condanna a morte nei tuoi confronti? "Ho avuto paura per la salute di mia madre e il dolore che avrebbe provato. Ero anche molto arrabbiato. Avevo visto episodi simili in precedenza, quando avevano ucciso altra gente. Quanto ho vissuto, nel complesso, mi ha reso ciò che sono, o mi ha fatto diventare ciò che sono. A volte c’è bisogno di essere impauriti, o arrabbiati, per diventare la persona che è dentro di noi". Prima del patteggiamento, hai passato anni nel braccio della morte nell’attesa di una data decisa dallo Stato dell’Arizona che avrebbe segnato la fine della tua vita. Quali erano i pensieri più ricorrenti, considerando che attendevi un’assurda punizione per un crimine mai commesso? "Il sistema di giustizia americano è uno di quelli chiaramente venduto e corrotto. Se hai soldi da pagare il Sistema, allora sarai lasciato libero. È un sistema pieno di pregiudizi. I giudici non giudicano in base al crimine, all’evidenza, ma per come si presenta una persona, la sua etnia, la sua cultura, e, se è visibile, la sua religione. La maggior parte, il 99%, è gente povera o immigrati. Immigrati nel senso che non sono di carnagione bianca". Quindi l’etnia a tuo avviso risulta fondamentale? "Guarda, la razza alla fine non è importante, i soldi invece sono importanti. È una guerra di classi sociali. Durante quegli anni ho dovuto affrontare avvocati corrotti o incapaci che semplicemente volevano che accettassi un accordo di patteggiamento che avrebbe eliminato ogni mia libertà, ma avrebbe rimosso anche la minaccia di pena di morte. Gli accordi di patteggiamento sono le nuove minacce. Facilitano gli Stati a minacciare qualcuno con la pena di morte mentre in questo modo si prendono le loro vite. Questo garantisce allo Stato un minimo di soldi all’anno. E ci sono 80.000 persone incarcerate in Arizona". Cosa pensi della pena di morte? "La pena di morte esiste per vendetta. E ora è un grande strumento per supportare le prigioni, la polizia e la magistratura. Non ci sono soluzioni come la riabilitazione in Arizona Department of corrections. Questo era stato introdotto da Terry Stewart, direttore del Adoc negli anni 90. L’Fbi afferma che il 5% di tutte le persone condannate in carcere sono innocenti. Sappiamo che hanno ucciso persone innocenti, perché è stato dimostrato. Prigioni e polizia sono assolutamente cattivi: ci sono mostri in questo mondo e io li ho visti. Esistono ovunque. Alcuni sono semplicemente individui con problemi psichiatrici, altri sono sociopatici con parecchie psicosi. Alcuni sono diabolici, come ho potuto vedere. Demoni. La pena di morte è un crimine contro l’umanità, contro i principi morali basilari. Proviene dal tempo dei barbari e del fascismo. Purtroppo, esiste in quella che molta gente chiama monarchia della democrazia e dei diritti umani. Questa è solo la facciata esterna". Cosa possono fare gli italiani per contribuire a cambiare convincimento circa la pena di morte in un sistema, quello americano, considerato spesso fra i principali paladini dei Diritti Umani? "Far conoscere la verità credo che sia la cosa più importante. Quando ho realizzato il documentario Violations su youtube, mentre frequentavo l’università quest’anno, sono stato avvicinato con pistole dalle guardi che hanno così rovinato il film, la videocamera, e ho dovuto chiamare la polizia perché una guardia mi ha riconosciuto e lui, io so, aveva fatto del male ad almeno 2 carcerati. Mostrare la verità è la filosofia migliore, perché al male non piace essere visto. Abbiamo bisogno di raggiungere le generazioni più giovani e le generazioni attuali, e supportare la gente che fa questo, così che non si perdano nel Sogno Americano… o che urlino nelle discoteche o nei night club, persi in fantasie di amore e corruzione. Corruzione delle facoltà mentali. Purtroppo, l’America è un buon difensore dei diritti umani ma il migliore truffatore è quello che si nasconde dietro le leggi mentre colpisce gli altri, sorridendo poi innocentemente quando gli viene puntato il dito contro". Come sono stati gli anni nel braccio della morte? "Terribili. Avevo bisogno principalmente di affetto. Sono stato in isolamento, senza alcun contatto umano, per 18 anni. Guardavo alla morte… a 26 anni guardavo a qualcosa che non esiste. Ho studiato e superato l’esame da avvocato. Ma potevo vedere liberi solo gli altri, dai 26 ai 60 anni. Ho cambiato molte convinzioni e visto molti uomini essere rilasciati. Non ho mai chiesto nulla, neanche un centesimo. Questo è ciò che mi ha permesso di rimanere sano. Combattendo per gli altri e per me. Ma dal punto di vista affettivo ero solo. Non potevo toccare nulla, né dare baci, nulla se non essere circondato da gelide mura". Però poi un’importante rete di solidarietà internazionale ti ha supportato… "Esatto, e per me sono stati fondamentali. In particolare i miei amici italiani hanno cominciato a scrivermi e a ringraziarmi per il libro che avevo pubblicato "Tritacarne". I miei libri in particolare sono stati pagati dai miei magnifici sostenitori al Multimage, Olivier Turquet, Daniela Annetta, Linda Ferrante, e Ilaria Cornetti. Molte persone che mi scrivevano dicevano che il libro "Tritacarne" aveva salvato la loro vita. Ricordo di aver pianto quando ho ricevuto la lettera di una ragazza abusata, che scrisse: "se puoi sopravvivere alla morte, alla tortura, e a ciò che vedi ogni giorno senza fine, anch’io posso sopravvivere a ciò che mi è accaduto dal papà del mio amico…". C’è stato un conforto reciproco. Da corrispondenti, diverse persone sono diventate veri amici che mi hanno portato la gioia. Mi hanno aiutato a non impazzire, ma soprattutto mi hanno educato nei 18 anni di buio. Mi hanno comprato libri, macchina da scrivere e tutte le piccole cose che potevo avere. E io ho sfruttato questo tempo, non è il tempo che ha usato me. Le guardie avrebbero potuto torturarmi, rompere le mie mani, uccidermi una o due volte, portarmi via le gambe, ma ora sono qui con i miei amici". Com’è la tua vita ora? "La mia vita ora… sono stressato. Sono senza nulla ad eccezione di carte di credito e beni prestati, ma sono libero. I miei amici da Pistoia mi hanno dato abbastanza soldi per permettermi di andare in Bosnia a rinnovare il mio visto per altri 90 giorni. Erano 260 €, e un altro amico mi ha dato poco di più, così ho potuto pagare hotel, benzina e cibo. Ho bisogno di medicine ogni 15 giorni, e queste medicine sono decisamente care. Non ho un posto dove stare, né una base dove potermi sedere e sentirmi a casa. Per ora ho semplicemente bisogno di poco da tutti i miei amici. 10 euro al mese da 200 amici sarebbe sufficiente per me per avere almeno una base, cibo, i soldi per pagare la benzina, internet e i telefoni, mentre lavoro. Attualmente infatti sto scrivendo un nuovo racconto, sto facendo documentari, e sto aggiornando insieme agli amici il mio sito twicealive.org". Cosa in particolare ti sei perso in quei 20 anni di carcere? "Cosa ho perso? Non ho perso nulla, anzi… ho guadagnato! Ho visto cose che altri non possono vedere, eccetto la morte. Ho visto gioie e dolori così profondi, e a meno che uno non fosse con me, non potrebbe capire, ho visto orrori e demoni. Ho visto me stesso passare da tutto a niente, e mi sono conosciuto come nessun altro potrebbe. Il tempo è qualcosa che solo il Creatore ci può togliere. Se non si usa il tempo per imparare, amare, insegnare, allora questo è perdere tempo. Io ho usato il mio, e non importa il luogo in cui ho studiato". Stati Uniti: Obama gioca l’ultima carta per chiudere Guantánamo di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 novembre 2015 Un decreto governativo per aggirare l’Opposizione repubblicana. Chiudere Guantánamo. Il presidente Obama non ha rinunciato a questa promessa fatta durante la sua campagna elettorale, e la prossima settimana il Pentagono presenterà la proposta per mantenerla. Secondo il piano anticipato dall’agenzia Ap, i detenuti rimasti che non possono essere liberati andrebbero trasferiti in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti, con il Colorado in cima alla lista. Il problema però è che ci vuole l’autorizzazione del Congresso, dove i repubblicani hanno la maggioranza, e quindi il capo della Casa Bianca potrebbe essere costretto ad usare un ordine esecutivo per aggirarlo. Il carcere nella base militare americana di Guantánamo era stato aperto dall’amministrazione Bush, per portarci i nemici catturati durante la guerra al terrorismo. Nel momento di massimo affollamento ha custodito 779 prigionieri, di cui 532 sono stati poi rilasciati dallo stesso Bush. Ora ne restano 112, di cui 53 sono già stati identificati come liberabili, se un paese terzo si assumerà il compito di accoglierli ed evi tare che tornino a combattere. Gli altri devono essere processati, o vanno tenuti in prigione a tempo indeterminato anche senza giudizio, perché sono considerati troppi pericolosi. Il piano del Pentagono Per questi il Pentagono presenterà un piano, allo scopo di trasferirli in una prigione sul territorio americano. Le strutture candidate sono sette: la U.S. Disciplinary Barracks e la Midwest Joint Regional Corrections Facility di Leavenworth, in Kansas; la Consolidated Naval Brig di Charleston, m South Carolina; il Federal Correctional Complex, che include il carcere di media, massima e supermassima sicurezza di Florence, in Colorado; e il Colorado State Penitentiary di Canon City, sempre in Colorado, anche noto come la Centennial Correctional Facility. La struttura di Florence, nota anche come la "Alcatraz delle Montagne Rocciose", ospita già terroristi come l’Unabomber Ted Kaczynski e Zacarías Moussaoui, uno degli organizzatori degli attentati di al Qaeda dell’ll settembre 2001. Per questo viene considerata come la più probabile, nonostante le proteste dei politici locali che sottolineano i rischi per la sicurezza dei loro cittadini, esposti al pericolo di attentati di ritorsione. Una volta trasferiti gli ultimi detenuti, si potrebbe chiudere il carcere, che costa 400 milioni di dollari all’anno ed è diventato uno strumento di propaganda e reclutamento per i terroristi. Il problema però è che per procedere con questo piano servirebbe l’autorizzazione del Congresso, dove la maggioranza repubblicana si oppone. Obama però potrebbe usare il potere esecutivo di emettere decreti, per aggirare l’ostacolo e chiudere la prigione. Australia: rivolta in un Centro di detenzione per migranti dopo la morte di un profugo Askanews, 9 novembre 2015 Rivolta in un centro di detenzione per migranti in Australia dove la notizia della morte di un richiedente asilo ha scatenato violenze e proteste, non ancora sedate. Il dipartimento immigrazione ha fatto sapere di non essere al corrente di feriti o vittime, ma i migranti costretti in questo centro su una remota isola del Pacifico hanno appiccato roghi e usato mazze di legno contro qualsiasi cosa si ritrovassero a tiro. "Il dipartimento conferma disordini al Centro di Detenzione Migranti dell’Isola di Natale", hanno riferito le autorità in un comunicato, "il dipartimento e gli addetti ai servizi stanno lavorando assieme per risolvere la situazione. In centri come questo (dove sono rinchiusi circa 200 profughi) il governo di Canberra fa convergere i migranti prima che arrivino sulle coste australiane". All’origine della ribellione, secondo il racconto di un detenuto a Radio Nuova Zelanda, c’è il ritrovamento del corpo senza vita di un richiedente asilo curdo-iraniano, identificato dai media come Fazel Chegeni: era fuggito sabato e non è chiaro come sia morto. Alla notizia, tuttavia, ieri mattina, i migranti chiusi nel centro hanno imbracciato bastoni, mazze, e hanno lanciato una vera e propria rivolta. Da tempo il centro detenzione è nel mirino di proteste per il trattamento riservato ai migranti, parte della linea dura in tema di immigrazione adottata dall’Australia. "Pensiamo che manderanno molte guardie, ma i detenuti sono armati di bastoni e mazze da baseball - ha affermato il migrante intervistato dalla radio - se entrano, senza dubbio ci faranno del male". Marocco: mediatori salafiti si riconciliano con casa reale dopo grazia a detenuti Nova, 9 novembre 2015 I mediatori che trattano col governo di Rabat e con i detenuti salafiti presenti nelle carceri del Marocco hanno avviato un attività di riconciliazione con la casa reale del paese. I salafiti hanno infatti apprezzato la scarcerazione di 37 detenuti islamici scarcerati in occasione del 40mo anniversario della marcia verde, che segnò la fine della dominazione spagnola. Tra i detenuti salafiti liberati c’è anche il capo degli sceicchi jihadisti Hasan al Khattab e Abdel Razzaq Sumah, i quali da tempo avevano chiesto la grazia al re Mohammed VI. Ora i mediatori salafiti sperano di poter proseguire le trattative per liberare tutti gli altri detenuti islamici. Lettere di ringraziamento e assicurazioni di aver abiurato la violenza sono giunte in questi giorni alla casa reale da parte dei detenuti salafiti. Il governo del Marocco è guidato dal premier Abdelillah Benkirane, leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo affiliato alla Fratellanza musulmana.