Giustizia: i volontari delle carceri "è necessario far diventare la pena un’altra cosa" di Davide Dionisi Radio Vaticana, 8 novembre 2015 Si è concluso oggi a Roma il 48° Convegno nazionale promosso dal Coordinamento Enti e Associazioni Volontariato Penitenziario (Seac). Le nuove sfide di un organismo che dal 1967 costituisce una presenza attiva nel volontariato delle carceri e della giustizia. Definizione di un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere. Sono questi i principali temi discussi dai volontari del Seac, nella due giorni che si è conclusa ieri a Roma. Al centro dei dibattiti, le riforme, la giustizia e la misericordia dietro le sbarre e, non ultima, l’importanza del ruolo di chi sceglie di aiutare chi ha sbagliato e lo accompagna nel reinserimento nel tessuto sociale. Sono trascorsi 40 anni dalla legge penitenziaria, una legge avanzata e orientata a principi di umanità. Ma, tenuto conto della condizione degli Istituti di pena e delle condanne da parte della Corte Europea nei confronti del nostro sistema, cosa non ha funzionato? Risponde Luisa Prodi, presidente del Seac: "Non ha funzionato la capacità di far diventare fatto concreto il dettato di legge, che invece era un dettato molto aperto, anche molto umano. Un po’ di cose sono cambiate, perché sono cambiati i tempi: in questi 40 anni noi abbiamo maturato l’idea che la pena non necessariamente deve coincidere con il carcere, a livello teorico; a livello pratico non ci siamo ancora. Quindi, siamo ancora ancorati ad una visione che vede il carcere al centro e eventualmente delle pene alternative. Dovremmo cambiare il paradigma, rovesciandolo completamente, vedendo delle pene svolte all’interno della comunità, della società e nei casi più gravi ricorso al carcere. Questo rimane ancora un po’ troppo nella sfera dei buoni propositi… Non stiamo facendo passi concreti per arrivare, invece, a farlo diventare prassi". A proposito del volontariato, cosa spinge una persona a maturare una scelta così importante al fianco dei detenuti? "L’idea e il desiderio di cambiare qualcosa nella società in cui vive probabilmente. Partire da motivazioni, che possono essere le più diverse: motivazioni di fede, motivazioni di un senso civico, di un senso umano. Quello che accomuna i volontari è il desiderio di accompagnare delle persone verso un cambiamento. Quando le persone sono persone che hanno sbagliato o che hanno contravvenuto a regole della vita sociale, questo è particolarmente impegnativo. Noi lo vediamo come un accompagnamento della persona in un percorso di cambiamento personale, ma anche un accompagnamento della società a una maggiore apertura e a un maggior senso dell’inclusione, che direi in questo momento è completamente assente dalla nostra visione". Barriere e pregiudizi. Quale contributo può dare il volontario per abbatterli? "Mostrare che, in qualche modo e in qualche esperienza concreta, è possibile. Quando noi - per esempio nelle scuole - facciamo qualche giornata o qualche ora di riflessione con i ragazzi, magari invitando a parlare una persona in permesso, loro vedono che è una persona umana - che magari è un padre, che è una persona come loro - e questo cambia molto. Finché c’è questo isolamento del carcere, rispetto all’esterno, i pregiudizi rimarranno fortissimi. In questo senso, è necessario far diventare la pena un’altra cosa, perché la persona che ha sbagliato non sia isolata dalla società, ma sia dentro la società e faccia un percorso di restituzione - chiaro, visibile - assieme alla comunità che lo deve accogliere". Giustizia: inchieste-spettacolo, il teorema di Thomas e l’indagato in mutande di Francesco Petrelli (Segretario Unione camere penali) Il Tempo, 8 novembre 2015 William Isaac Thomas fu un grande sociologo americano, fondatore della scuola di Chicago, il quale elaborò nel 1928 un famoso "teorema": il "Teorema di Thomas" appunto. Secondo il suo assunto, mentre nelle scienze fisiche è piuttosto pacifica la differenza fra l’oggetto in sé e l’oggetto come percepito, nelle scienze sociali non è affatto detto che esistano un mondo oggettivo ed un mondo percepito, così che "se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze". Il grande successo riscosso dal "Teorema di Thomas" nell’ambito delle scienze sociali è dovuto al fatto che nella moderna comunicazione, come è noto, si attribuisce una rilevanza centrale a ciò che viene rappresentato ed a ciò che assume pertanto consistenza di "rappresentazione sociale". Questo "oggetto virtuale" costruito dalle circostanze, dalla comunicazione, dai media, e che prescinde dalla realtà oggettiva dell’evento e del contesto reale di un qualsiasi fenomeno, si sostituisce lentamente all’oggetto in sé. Se vogliamo provare ad applicare il "Teorema di Thomas" al processo penale, troviamo subito, nella cronaca più recente, esempi clamorosi. Mandiamo in onda ripetutamente il video del furgone del signor Bossetti che passa e ripassa come un "falco in cerca della preda", ed avremo certamente ottenuto una fantastica "rappresentazione" di qualcosa che forse non è mai accaduto. Quella rappresentazione può essersi sedimentata inesorabilmente nella nostra mente, convincendo tutti noi della verità dell’accusa oltre ogni ragionevole dubbio. Salvo poi venire a sapere dall’autore di quel video (un assai qualificato Ufficiale dei Ris) che si trattava di una "rappresentazione" ad uso dei media, richiesto e diffuso dalla Procura, di una "rappresentazione" che per l’appunto finiva con il sostituire il fatto in sé con un fatto percepito comunque come vero dall’opinione pubblica. Credo che a prescindere da ciò che ciascuno di noi pensi della colpevolezza o meno dell’imputato, dovremmo tutti noi, "innocentisti" e "colpevolisti", operatori del diritto o comuni cittadini, essere indignati da simili esempi. Dallo scempio di un processo trasformato in un talk show nel quale le parti discutono per il pubblico su canovacci artefatti, su dati costruiti in maniera provvisoria ed imperfetta. Sui quali nessun giudice ha interloquito e sui quali nessun giudice potrà interloquire perché non di atti del processo si trattava, ma di un "processo parallelo", il processo dei TG, costruito ad uso dei media e di un pubblico che non ha più bisogno di verità, ma di una qualsiasi verità, sempre più spesso di una verità di comodo, la più scontata, la più fruibile, quella che fa più audience. Tiriamo al più presto, con mano ferma, una linea netta, fra quello che è il processo e quello che l’onnivoro circuito dei media quotidianamente divora. Restituiamo al processo quel minimo di dignità e di sacralità che, non solo la vita dolente degli accusati e l’umanità delle stesse vittime pretendono. Ma anche per la dignità di tutti noi che dobbiamo rifiutarci di essere vittime quotidiane di questo circo, fatto di uomini messi alla gogna sotto il faro di arresti spettacolari, di video di indagati in mutande nell’androne di un pubblico ufficio, e che dobbiamo chiedere anche all’informazione di continuare ad essere sempre, con autorevolezza e rigore, il "cane da guardia del potere", ma senza dimenticare che anche quello giudiziario è un potere, ai cui eventuali abusi ed eccessi occorre fare la guardia con la medesima severità. Giustizia: anticorruzione e magistratura, un conflitto da evitare di Marco Demarco Corriere della Sera, 8 novembre 2015 Nei giorni scorsi, Raffaele Cantone ha sospeso i poteri di nomina di Mario Oliverio, governatore della Calabria, ed era la prima volta che firmava un provvedimento di questo tipo. Su sollecitazione di Oliverio, però, il Tar del Lazio, secondo un balletto procedurale tipicamente italiano, ha poi sospeso, in via provvisoria, la sospensione. In piena legittimità, Oliverio è dunque tornato a scegliere i suoi nominati. Nel merito della vicenda - locale ma simbolicamente significativa - i giudici amministrativi entreranno tra tre mesi, non prima; ma nel frattempo la partita si è chiusa così: Oliverio batte Cantone 1 a 0. Per il presidente dell’Anticorruzione, avvolto finora da un’aura di infallibilità, non è un bel risultato. E viene subito da chiedersi che senso abbia dotarsi di Autorità speciali se poi sempre nei labirinti dei corsi e ricorsi amministrativi bisogna passare. Tuttavia le regole sono queste. Punto. A scatenare l’ennesimo conflitto all’interno dello Stato e a riportare alla mente l’imbarazzante garbuglio provocato, per altri versi, dalla legge Severino, è stata la nomina del commissario dell’Asl di Reggio Calabria. Oliverio aveva scelto Santo Gioffrè, che però anni addietro si era candidato a sindaco di Seminara, Comune della stesa area. Da qui lo stop di Cantone sulla base della legge che vieta, appunto, simili salti di ruolo. Colpito e quasi affondato, Oliverio ha fatto però valere la sua: la legge interdice la nomina di presidenti, non di commissari, quale appunto Gioffrè è, e dunque dove il dolo o la colpa? Non ci sono, dice il Tar. Così il quasi affondato ora è Cantone. Ma la lezione vale per tutti. Uno Stato non può reggere a lungo a continue forzature verticistiche. E dunque chi si illude di governare tutto dall’alto è avvisato. Le scorciatoie, e la storia calabrese insegna, nascondono spesso qualche insidia. Meglio la strada maestra del buonsenso e dell’equilibrio istituzionale. Giustizia: carceri e "torture", a volte l’Italia insegna alla Ue di Francesco Floris linkiesta.it, 8 novembre 2015 Non solo scuola Diaz: la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato decine di volte gli Stati membri del Consiglio d’Europa per "torture e trattamenti inumani e degradanti", non solo in Grecia, Polonia, Turchia o Russia, ma anche Regno Unito, Francia e Spagna. Nel trattamento che riserviamo ai detenuti, in Europa, nessuno può dare lezioni. Ad aprile di quest’anno ha fatto giustamente molto scalpore la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, che condannava l’Italia per i fatti avvenuti alla scuola Diaz di Genova, durante il G8, la notte del 21 luglio 2001. La Corte con sede a Strasburgo condannava l’operato delle forze dell’ordine parlando di "tortura" - in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, meglio conosciuta con l’acronimo di Cedu. Articolo 3 che proibisce i "trattamenti inumani e degradanti". Sono numerosi anche i richiami e le multe europee per la condizione delle carceri italiane: il più noto e principale problema rimane quello del sovraffollamento, legato alla carenza di strutture e a un codice penale da rivedere. Tuttavia, per quanto riguarda le "torture" e "i trattamenti inumani e degradanti" dentro le carceri, c’è da constatare che nel Vecchio Continente quasi nessuno può impartire lezioni: a leggere la "black list" della Corte europea per i diritti dell’uomo e i procedimenti contro gli stati membri del Consiglio d’Europa (che non combacia con la Ue-28, al suo interno sono ospitati 47 Stati ndr), per violazione dell’articolo 3 e dell’articolo 2 - "diritto alla vita" - della Cedu, c’è da impallidire. Molte condanne vanno a punire Paesi dalla democrazia recente - come nei casi di Grecia o Polonia - nazioni che non hanno mai del tutto ripulito le proprie forze dell’ordine da un passato autoritario. Ma altrettante sono le condanne nei confronti di Paesi che del loro ordinamento giuridico e di una tradizione liberale e garantista hanno fatto una bandiera: nel 2004 a Birmingham, Regno Unito, veniva arrestato un 34ennne, le cui iniziali sono M.S., in stato d’agitazione mentre suonava all’impazzata il clacson della propria macchina. La polizia inglese lo tiene rinchiuso in una cella per tre giorni, senza mai accompagnarlo in ospedale, mentre l’uomo si denuda, sbatte la testa contro i muri e mangia le proprie feci, in preda a un raptus di follia. Erano autorizzati a farlo dal Mental Health Act approvato più di vent’anni prima. Oppure in Francia, dove una donna di nome Virginie Raffray Taddei, con alle spalle più di venti reati fra furti e rapine dopo il 1994, viene spostata fra le diverse strutture carcerarie della nazione in attesa che giudici e magistrati diano un parere definitivo sulle sue condizioni fisiche e mentali. Nel frattempo alla donna vengono diagnosticate asma, insufficienza respiratoria cronica, anoressia - arrivando a pesare solo 35 kg - e sindrome di Munchausen. In entrambi i casi raccontati, Francia e Regno Unito sono stati condannati da Strasburgo, ma di esempi simili se ne trovano a dozzine. Queste vicende non riabilitano le manchevolezze italiane - che sono molte e per lo più note sia all’opinione pubblica che alla classe dirigente - ma aiutano a mettere in prospettiva alcune critiche che vengono mosse quotidianamente. Senza lasciarsi andare a slogan nazionalisti o a un ritrovato spirito iper-patriottico e revanscista, la realtà di un Paese è come al solito più sfaccettata di un titolo da giornale. Giustizia: Anm, riparte da Napoli il dialogo Orlando-toghe di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 8 novembre 2015 Riforma del Csm, il vice presidente Legnini: "Arginare le correnti, impossibile abolirle. Il primo pensiero va ai magistrati della Procura antimafia impegnati sul fronte del contrasto alla camorra: "Voglio rivolgere un plauso per i progressi fatti nella lotta alle organizzazioni criminali in merito alle dinamiche che hanno dilaniato Napoli negli ultimi mesi", dice il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una premessa importante: l’offensiva giudiziaria in risposta alla faida di Forcella che negli ultimi ha seminato morti e feriti nel centro storico di Napoli ha dato ottimi risultati. Lo Stato c’è, è presente e forte nel capoluogo campano. Il Guardasigilli è a Napoli, nello storico maniero di Castelcapuano già sede del vecchio tribunale partenopeo, per partecipare a un convegno nazionale organizzato da "Unità per la Costituzione" sul Consiglio superiore della magistratura in vista della sua imminente riforma. Un’occasione per ragionare sui temi più scottanti che investono il pianeta giustizia in una stagione di profondi cambiamenti: dai rapporti tra politica e magistratura alla funzione civile e sociale di chi indossa e soprattutto di chi indosserà la toga; dalla qualità dei servizi forniti ai cittadini al peso delle correnti interne alla magistratura. Subito dopo gli interventi di saluto del presidente della Corte d’Appello Antonio Buonajuto e del procuratore generale Luigi Riello, la tavola rotonda moderata dal vicedirettore dell’Espresso Marco Damilano alla quale - oltre ad Orlando - hanno partecipato anche il componente togato del Csm Francesco Cananzi, il vicepresidente di Palazzo dei Marescialli Giovanni Legnini e il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli. Quale futuro per l’organo di autogoverno dei giudici? La riforma della giustizia, sottolinea Orlando, "è stata già realizzata in larga parte, parliamo ormai di 21 provvedimenti approvati da quando governo insediato. Ora si apre il confronto sul tema del funzionamento dell’autogoverno, unico capitolo non ancora affrontato tra tutti i punti indicati come prioritari". Sulle recenti polemiche con l’Anm il ministro è netto: "Mi pare - dichiara - che uno stemperamento del clima d sia già stato a Bari. Oggi credo si debba guardare avanti confermando l’esigenza di una profonda riforma del nostro impianto istituzionale che debba riguardare anche il funzionamento della Giustizia. Sono convinto del modello Csm così com’è adesso: trovo questo modello da difendere e rivitalizzare, e credo che ci siano tutte le condizioni politiche per farlo". "Il nuovo Consiglio - conclude Orlando - non può non tenere conto di due direttrici: una verso l’alto, rafforzando la propria dimensione internazionale e i rapporti con gli organismi sovranazionali; l’altra verso il basso rafforzando il collegamento con i consigli giudiziari". Orlando raccoglie poi l’appello lanciato dal consigliere togato Francesco Cananzi sul recupero dello storico tribunale ormai dismesso. "Castelcapuano - ricorda Cananzi - non è solo "il palazzo del diritto" a Napoli: a pochi metri dalle strade in cui fino a pochi giorni fa imperversavano le baby gang e da Forcella che fu scenario dell’omicidio di Annalisa Durante c’è questo che resta il luogo di una bellezza speciale che non può e non deve andare dispersa. Per tali motivi auspico che questo edificio storico possa diventare a tutti gli effetti la sede secondaria, dopo la sede fiorentina di Villa Castelpulci, della Scuola Superiore della Magistratura". Ed ecco la replica del ministro: "II progetto sta andando avanti, abbiamo dato la nostra disponibilità a cooperare in questa direzione. C’è già stato un tavolo istituzionale che ha prodotto una serie di approfondimenti di carattere tecnico. Ritengo che la cosa possa dare dei frutti in un tempo congruo". Rispetto alla riforma del Csm, per il vicepresidente di Palazzo dei Marescialli Giovanni Legnini (accompagnato dai consiglieri laici e togati Paola Balducci, Maria Rosaria San Giorgio, Elisabetta Alberti Casellati, Renato Balduzzi, Luca Palamara) "se l’obiettivo di una modifica del sistema elettorale del Csm è sopprimere le correnti, questo obiettivo sarà vanificato; se invece l’obiettivo è arginare, allora qualcosa di serio si può fare". Concorda il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli: "Il Csm deve restare un presidio di garanzia dell’indipendenza della magistratura. In ogni caso va escluso qualsiasi intervento che tenda a sottrarre l’organo disciplinare al circuito del governo autonomo e ad alterare l’equilibrio nel rapporto tra componente laica e togata". Giustizia: patrimoni illeciti, misure di prevenzione anche per corruzione e concussione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2015 Diritto penale. Da domani al voto della Camera il disegno di legge che estende sequestri e confische. Rendere più efficace e tempestiva l’adozione delle misure di prevenzione patrimoniale (sequestro e confisca); allargare il perimetro dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione; garantire una maggiore trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari, con garanzia di competenze idonee allo svolgimento dell’incarico e di rotazione negli incarichi caso Palermo, docet). Ma anche estendere i casi di confisca allargata per esempio all’auto-riciclaggio e introdurre misure di contrasto al "caporalato". Sono questi i contenuti principali del disegno di legge "legalità" che da domani è all’esame dell’Aula della Camera. Un testo corposo (30 articoli) che, attraverso una serie di modifiche al Codice Antimafia, punta a rafforzare l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e la repressione di forme criminali a elevata pericolosità. Così, sin dal primo articolo si prevede l’estensione delle misure di prevenzione personali (sorveglianza speciali, obbligo e divieto di soggiorno) agli indiziati di prestare assistenza agli associati di organizzazioni a delinquere ma soprattutto di tutti i principali reati contro la pubblica amministrazione, dalla corruzione alla concussione, passando per il peculato e l’induzione indebita. Oltre al sequestro dei beni di cui l’interessato risulta poter disporre in misura sproporzionata al reddito, è previsto che il decreto del tribunale possa disporre anche l’amministrazione giudiziaria di aziende e di beni strumentali all’esercizio delle relative attività economiche. Analogamente, in presenza dei presupposti, può essere disposto il controllo giudiziario dell’azienda, mentre il sequestro di partecipazioni sociali totalitarie si estende a tutti i beni aziendali. Quanto alla confisca, il disegno di legge prevede che la persona interessata non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia frutto di evasione fiscale. Se il tribunale poi non dispone la confisca, può applicare anche d’ufficio, se ne ricorrono i presupposti, l’amministrazione giudiziaria di aziende e beni strumentali e controllo giudiziario. La confisca allargata che è prevista in tutti di casi di sproporzione tra patrimonio e reddito si estende poi a un nuovo catalogo di reati, tra cui il disastro ambientale, l’associazione a delinquere allo scopo di commettere delitti ambientali, associazione illecita e sfruttamento del lavoro, auto-riciclaggio, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. La disciplina dell’amministrazione giudiziaria dei beni collegati ad attività economiche viene modificata ed estesa anche alle aziende. In particolare, la misura sarà possibile anche in presenza di indizi da cui risulta che il libero esercizio di attività economiche può agevolare l’attività di soggetti cui è applicata una misura di prevenzione patrimoniale o che, mancando i presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione, abbiano in corso un procedimento penale per specifici reati contro la pubblica amministrazione. Viene previsto, inoltre: il raddoppio della durata massima dell’amministrazione giudiziaria (da 6 mesi a 1 anno) e la possibile proroga della misura per sei mesi e non più di due volte (quindi 24mesi di durata totale). Scatta invece il controllo giudiziario in tutti i casi di occasionalità dell’attività d’impresa indirizzata ad agevolare soggetti spetti di aderire a organizzazioni criminali. Per la nomina degli amministratori giudiziari si affida al ministero della Giustizia la definizione dei criteri di trasparenza che assicurino la rotazione degli incarichi, ma nello stesso tempo si stringe il regime delle incompatibilità, stabilendo, per esempio, che la nomina non può coesistere con altro incarico in corso di svolgimento. La confisca allargata è considerata una delle misure più efficaci per favorire la caccia ai patrimoni illeciti; scatta solo per alcuni reati, ritenuti dal legislatore di massimo allarme sociale, ed è prevista in caso di sproporzione tra beni posseduti e reddito dell’interessato. Di recente è stata prevista anche per i principali reati contro la pubblica amministrazione, mentre il disegno di legge intende allargarla anche ad altre fattispecie di delitti, come quelli ambientali e l’auto-riciclaggio. I punti chiave. Le principali misure di prevenzione personale che vanno dalla sorveglianza speciale al divieto/obbligo di soggiorno potranno essere applicate anche nei confronti degli indiziati peri principali reati contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione, induzione peculato; colpiti anche i sospettati di prestare assistenza agli associati ad associazioni a delinquere Le misure patrimoniali avranno un perimetro di applicazione più esteso. In particolare la forma "per equivalente" potrà essere applicata più agevolmente mentre la confisca allargata (in caso di sproporzione tra reddito e beni) potrà essere applicata anche a nuovi reati come i principali delitti ambientali e l’auto-riciclaggio. Le misure su partecipazioni societarie si allargano poi a tutti i beni aziendali Anche sulla scia del caso Palermo viene rivisto il procedimento di selezione degli amministratori giudiziari e di affidamento degli incarichi. Il ministero della Giustizia dovrà provvedere a individuare i criteri di trasparenza per assicurare la rotazione, mentre tra le incompatibilità è previsto che chi già è assegnatario di un incarico non potrà vedersene assegnato un altro. Si punta a impedire il fallimento delle aziende sottratte alla criminalità organizzata, istituendo anche u n Fondo di garanzia. In campo anche un pacchetto di misure per evitare ricadute occupazionali e assicurare il più possibile la prosecuzione dell’attività anche sotto la guida dell’amministratore giudiziario. Spazio infine a una maggior specializzazione dell’autorità giudiziaria e a corsi e preferenziali nella trattazione dei procedimenti. Giustizia: tutti sul carrozzone di Mafia Capitale Il Tempo, 8 novembre 2015 Associazioni, istituzioni, partiti, privati cittadini, nomadi e rifugiati Sono oltre 60 i soggetti che hanno fatto richiesta per le parti civili. Avvocatura dello Stato. Per conto del ministero dell’Interno e degli amministratori giudiziari delle 5 coop un tempo riconducibili alla galassia Buzzi: Eriches 29, 29 giugno Onlus, 29 giugno Servizi, Formula Sociale, Abc. Istituzioni. Regione Lazio; Roma Capitale; Camera di commercio di Roma; Comune Sant’Oreste. Società. Ama ("Perché l’azienda - ha spiegato il legale - ha subito direttamente le conseguenze patrimoniali e gestionali delle condotte contestate dal 2009 al 2013"); Eur spa. Confederazioni Cooperative e Consorzi. Confindustria; Lega coop nazionale; Lega coop sociali; Consorzio nazionale di servizi, Uils; Consorzio nazionale Coin cooperativa sociale. Associazioni dei consumatori. Assoutenti; Movimento nazionale consumatori; Fisa Confederazione esercenti; Forum antiusura; Casa del consumatore; Confconsumatori Lazio; Assoconsum; Movimento difesa del cittadino; Codacons; Codici; Codici Lazio. Associazioni antimafia antiracket e antiusura. Associazioni Ambientaliste. Legambiente; Legambiente Lazio. Associazioni per lo studio e i diritti dei migranti. Associazione italiana studi giuridici sull’immigrazione; Lunaria associazione di promozione sociale; Consorzio Calatino Terra D’accoglienza; Capodarco; Io migro; Laboratorio 53. Altre Associazioni e consorzi. Cittadinanza attiva onlus; Forum Terzo Settore Lazio; Consorzio Castel Porziano 98; Centro di iniziativa per la legalità democratica. Nomadi. 37 nomadi del campo di Castel Romano (perché "l’associazione mafiosa e la corruzione - ha spiegato l’avvocato richiedente - ha dissipato fondi che sarebbero dovuti servire per espandere l’area "f" del campo dove forzosamente sono stati trasferiti dal campo di Tor dè Cenci"). Profughi e rifugiati. Dieci rifugiati ("entrati nel meccanismo infernale dell’accoglienza romana - ha spiegato il loro legale - un sistema che li ha privati dei sistemi più basilari"); tre profughi del Darfur; due ex minori stranieri non accompagnati passati per i centri accoglienza del comune di Roma che ("hanno vissuto sulla loro pelle questo sistema criminale - ha detto il loro avvocato. Uno dei due è stato espulso a seguito di un secondo accertamento posto dal Comune di Roma perché dichiarato maggiorenne, mentre poi la Questura ha poi verificato essere minorenne e adesso ha permesso di soggiorno"). Partiti o singoli politici. Pd unione regionale Lazio; (perché le "condotte attribuite ad alcuni esponenti, se accertate, avrebbero recato danno in senso lato al partito"); M5S nelle persone di Roberta Lombardi, deputato M5S; Marcello De Vito ex consigliere comunale M5S; Danilo Barbuto ex consigliere del municipio IV M5S; Silvia Crescimanno ex consigliere del Municipio XII M5S; Maria Agnese Catini ex consigliere M5s al Municipio IV; Alessio Marini ex consigliere M5S al Municipio XI; Daniele Diaco ex consigliere M5S al Municipio XII; Riccardo Magi, ex consigliere comunale Radicali ("perché - ha spiegato il suo legale - concretamente leso e danneggiato nell’esercizio delle sue funzioni"). Lavoratori, consorzi e curatori fallimentari. Mario Di Mare curatore del fallimento Unibar srl; Armando Filotello, ex lavoratore di una cooperativa (perché "è stato dipendente delle coop che facevano capo a Sandro Coltellacci- ha spiegato il suo legale - decadute per colpa del suo comportamento mafioso e lui rimasto senza lavoro); cinque consorziati che gestivano i chioschi delle spiagge degli ex cancelli di Ostia. Cittadini di roma. Una cittadina che, sottolineando la sua correttezza nel pagare le tasse, si è sentita danneggiata dalla presunta organizzazione criminale che avrebbe mandato in tilt il sistema dei rifiuti creando conseguentemente disagi nelle strade da lei frequentate o al mare. Giustizia: Mafia capitale, le minacce a un teste prima del processo di Francesco Salvatore e Giuseppe Scarpa La Repubblica, 8 novembre 2015 Le intimidazioni a un imprenditore in mano agli usurai: "Tu non devi costituirti parte civile". "Tu non ti preoccupare. Non ti costituire parte civile, ti diamo un consiglio". Non stiamo parlando di anni fa. L’avvertimento ricevuto da uno degli imprenditori vittima di Mafia Capitale, compiuto da due figure, risale appena alla fine del settembre scorso, il 24. Teatro della vicenda è via Cassia, Roma Nord, il luogo da dove Massimo Carminati e soci gestivano gli affari del "Mondo di mezzo". Chiaro e sibillino allo stesso tempo, disarmante e sorprendente, il messaggio ricevuto da una delle persone già "strozzate" da alcuni componenti dell’organizzazione è tanto più grave non solo per il contenuto, - con cui si "consiglia" di non costituirsi parte civile al processo imminente - ma anche per la tempistica e la modalità con cui è avvenuto. L’uomo è stato seguito da due persone mentre accompagnava la figlia a scuola. Dopo averla lasciata è stato avvicinato e minacciato: "Come andiamo? Non ha importanza se non ci conosciamo - gli hanno detto due uomini mai visti prima dall’imprenditore. Tu sei andato a parlare con la polizia tu devi sapere che sei amico di Roberto, di Giovanni non pensare neanche di costituirti parte civile. Ti diamo un consiglio noi, tu sei amico di queste persone". L’imprenditore, inoltre, ha riferito ai carabinieri di un episodio estraneo all’inchiesta, ma altrettanto singolare: di aver conosciuto un uomo, genitore di un’amica della figlia, tale Massimo, il quale avrebbe millantato di essere stato il braccio destro del sindaco Ignazio Marino, "e di custodire alcuni documenti che l’avrebbero messo nei guai". Che Mafia Capitale avesse messo le radici a Roma Nord, e che lì facesse i propri affari emerge anche da un’altra informativa del Ros dello scorso novembre, agli atti dell’inchiesta dei pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli. Nelle carte viene ricostruita la vicenda relativa ad un altro imprenditore attivo nel campo caseario e del trasporto merci, vittima anche lui di Carminati e soci. L’uomo, dopo aver ricevuto un prestito dal benzinaio Roberto Lacopo, ex gestore della pompa Eni di corso Francia, si è trovato impantanato nella rete intessuta intorno a lui. A liberarlo dalle pressanti richieste di alcuni sodali di Carminati, Riccardo Brugia e Matteo Calvio, sono stati gli arresti eseguiti nel dicembre dello scorso anno dai carabinieri. È in un incontro al distributore di benzina, nel giugno del 2013, che l’imprenditore si è reso conto di chi aveva davanti. È Riccardo Bruggia (detenuto in carcere ndr) a chiedere l’appuntamento all’uomo per il saldo. Una telefonata intercettata immortala le sue parole: "Fai una cosa - dice Brugia all’interlocutore - vieni un attimo da Bobo (Roberto Lacopo, il benzinaio, detenuto ndr.) che parliamo di quella situazione". "Sto fuori Roma, ma chi sei, scusa?" risponde l’imprenditore. "Non mi ridomandare chi sono". Giustizia: gestione dei beni della mafia, indagato un magistrato di Roma di Silvia Barocci Il Messaggero, 8 novembre 2015 Un altro magistrato, il sesto, finisce nell’inchiesta di Caltanissetta che la scorsa settimana ha portato il Csm a sospendere dalle funzioni e dallo stipendio Silvana Saguto e, ieri, alla rimozione del prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Nel mirino degli inquirenti nisseni e del pg della Cassazione, che ha avviato accertamenti disciplinari, è finito anche il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma Guglielmo Muntoni. Nelle oltre 400 pagine di intercettazioni, molte delle quali ampliamente omissate, che Caltanissetta ha inviato al Csm e ai titolari dell’azione disciplinare (pg della Cassazione e ministro della Giustizia) ci sono diverse conversazioni agli atti tra Muntoni e il giudice Saguto. L’ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo risulta indagata per corruzione, abuso d’ufficio, riciclaggio e induzione alla concussione per una gestione familistica dei beni confiscati alla mafia. Quando la scorsa primavera alcuni servizi tv cominciano a denunciare lo scandalo, Lorenzo Caramma, marito della Saguto, è costretto ad abbandonare l’incarico di coadiutore delle cave Butitta. La giudice il 21 luglio si reca a Roma. "Vado a parlare con Muntoni per fare lavorare a Lorenzo (il marito ingegnere, ndr)", spiega al collega Fabio Licata, anche lui indagato per concorso in corruzione. "Potrebbe interessargli un incarico per il Cara di Mineo?", chiederà poi Muntoni alla collega. Nei giorni scorsi, in una lettera inviata al Csm, Muntoni ha rivendicato la "massima correttezza" del suo operato. Ora però rischia l’avvio di un procedimento disciplinare, assieme ad altri quattro magistrati di Palermo: Fabio Licata, Lorenzo Chiaromonte (indagato per abuso d’ufficio), Dario Scaletta (rivelazione del segreto d’ufficio) e Tommaso Virga (induzione alla concussione). Lettere: i detenuti giocano a calcio per i diritti dei propri figli di Agnese Moro La Stampa, 8 novembre 2015 Mercoledì 11 novembre nelle carceri delle città dove si svolge il campionato di Serie B - Ascoli Piceno, Avellino, Bari, Brescia, Cagliari, Cesena, Como, Crotone, Latina, Livorno, Modena, Novara, Perugia, Pescara, Vercelli, Salerno, La Spezia, Terni, Trapani, Vicenza, Chiavari, Lanciano - si terranno 22 partite di calcio. In campo si sfideranno detenuti con figli e detenuti senza figli. Arbitri: giocatori professionisti e vecchi campioni della Lega Nazionale Professionisti B. L’evento, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è organizzato dall’associazione Bambinisenzasbarre Onlus (www.bambinsenzasbarre. org) con la Lega Nazionale Professionisti B e Lega B solidale. "I detenuti con figli e detenuti senza figli - spiega Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre - scenderanno in campo, in questa occasione, per ribadire il diritto al mantenimento del legame affettivo figlio-genitore e il diritto di quest’ultimo alla genitorialità". Un luogo importante perché questo si realizzi è lo Spazio Giallo dove, all’interno del carcere, i bambini, i ragazzi e le famiglie possono attendere più serenamente il colloquio con il genitore detenuto. Per costruirne di nuovi Bambinisenzasbarre ha organizzato una Campagna di sensibilizzazione e di raccolta fondi - "Non un mio crimine, ma una mia condanna. I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini" - alla quale non è mancato l’appoggio del nostro calcio. Dice il presidente della Lega Nazionale Professionisti B Andrea Abodi: "Sostenere progetti come quello di Bambinisenzasbarre è lo strumento tramite cui B Solidale intende comunicare la valenza sociale del calcio". Un invito a sostenere il progetto "Lo spazio giallo nel grigio del carcere", inoltre, viene e verrà rivolto nelle prossime giornate di campionato della Serie B ConTe.it dai maxischermi degli stadi, nei messaggi audio nel prepartita e nell’intervallo, sulle riviste dei club, sui siti web delle squadre, di B Solidale e sui social network. Possiamo tutti dare il nostro contributo da domani al 28 novembre: 2 euro inviando un sms da cellulare al 45503 (Tim, Vodafone, Wind, 3, Poste Mobile Coop Voce, Tiscali); 2 o 5 euro da telefono fisso (Tim, Fastweb, Vodafone, Twt e Tiscali). Sono in gioco i nostri bambini e i nostri ragazzi. Aiutiamoli a vivere meglio momenti tanto difficili. Lettere: il terrore (e qualche risposta) di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 8 novembre 2015 Vivere al tempo del terrorismo. Sembra quasi certo che sia stata una bomba a fare esplodere sul Sinai l’aereo russo che riportava a casa i turisti da Sharm el Sheikh. Ma se anche così non fosse (se anche, a dispetto degli indizi, fosse stato un incidente), non avrebbe più molta importanza: lo Stato islamico, l’organizzazione che al momento batte qualunque altra per capacità propagandistica, e che si è attribuito - ufficialmente per rappresaglia contro la presenza militare russa al fianco della Siria - la responsabilità dell’attentato, ha ottenuto una vittoria (contro l’Egitto). Il presidente Putin, bloccando i voli russi per quel Paese, ha fatto ad Al Sisi, il nuovo rais, una richiesta che sembra un ultimatum: rimetti sotto controllo il Sinai, riporta la sicurezza negli aeroporti e nei cieli o pagherai un conto economico salato. Se Al Sisi vuole continuare a usare il rapporto con i russi per non ritrovarsi alla mercé degli americani, dovrà darsi molto da fare. Magari anche chiedendo l’aiuto degli israeliani per tentare di riprendere il controllo del Sinai. Nonostante i tentativi egiziani di negare l’attentato, la mossa russa, che segue la cancellazione dei voli per Sharm decisa da molte compagnie europee, colpisce al cuore l’industria turistica egiziana. Rimediare non sarà facile. Il Califfato si è dunque aggiudicato il round. Contro lo Stato islamico le chiacchiere sono tante ma i fatti degni di nota pochissimi. Più il tempo passa, più sarà arduo toglierlo di mezzo. È difficile che l’inerzia americana termini prima che ci sia un cambio della guardia alla Casa Bianca. Per conseguenza è quindi difficile che la grande (sulla carta) coalizione contro il Califfato riesca a sconfiggerlo. Nato dalla confluenza di due Stati in cui i sunniti erano sottomessi agli sciiti da sempre (Siria) o dal momento della fine di Saddam Hussein (Iraq), lo Stato islamico, con la sua stessa esistenza, segnala l’impossibilità di tornare alla situazione precedente, quella di Stati artificiali i cui confini vennero tracciati nel ventesimo secolo dalle potenze europee. E se così è, il quesito diventa: sarà possibile che in quell’area i sunniti riescano a darsi un regime e un volto diversi da quelli dello Stato islamico, rinunciando al radicalismo e alla guerra santa? Se anche questo prima o poi accadrà, dovrà comunque passare molto tempo. Nel frattempo, il mondo sarà costretto a convivere a lungo con una minaccia ancor più grave di quella a suo tempo rappresentata da Bin Laden e da Al Qaeda. Si tratti di giustiziare con spettacolare ferocia gli infedeli, schiavizzare migliaia di donne, distruggere patrimoni artistici, resistere sul terreno a una coalizione che se esistesse di fatto, e non solo nominalmente, dovrebbe averlo già spazzato via da un pezzo, lo Stato islamico continua a fare proseliti e a far sognare giovani musulmani insoddisfatti della propria condizione in ogni parte del mondo. Eccellenti qualità propagandistiche a parte, per il solo fatto di durare, dimostrando la sua capacità di resistere ai nemici, lo Stato islamico diventa un moltiplicatore di minacce terroriste. Come sempre è avvenuto quando le minacce si fanno gravi è la libertà che ci va di mezzo. Non solo la libertà di movimento ma anche quella libertà - dai controlli del governo - che le democrazie liberali ben funzionanti un tempo tutelavano. Danilo Taino (sull’ultimo numero di Sette, i l supplemento settimanale del Corriere) elenca varie proposte di legge avanzate in Germania, Austria, Finlandia e altri Paesi, tese a limitare la privacy e a rendere pervasivi i controlli governativi sui cittadini in funzione antiterrorismo. Lasciamo da parte il fatto che da noi, in Italia, quelle proposte di legge non possono fare una grande impressione: la nostra infatti, retorica a parte, è una democrazia poco liberale nella quale gli abusi delle intercettazioni giudiziarie hanno da tanto tempo spazzato via il diritto alla privacy. Specificità italiana a parte, resta però vero, come scrive Taino, che le minacce spingono a rinunciare a molte libertà le quali, in seguito, quando la minaccia sarà svanita, diventerà difficile riprendersi. L’alternativa è purtroppo chiara: o si riesce a riportare a livelli relativamente bassi la minaccia oppure sarà difficile impedire una sensibile contrazione degli spazi di libertà. Anche in un Paese apparentemente spensierato come il nostro non si potrà continuare a fingere a lungo che il problema non ci riguardi. Un campanello d’allarme deve pur suonare anche in Italia nel momento in cui fallisce la mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino León in Libia, e il León medesimo, nella costernazione (si spera almeno che siano costernati) di coloro che qui da noi tanto mitizzano l’Onu, va a farsi stipendiare dagli Emirati, una delle parti in causa nel pasticcio libico. A partire da novembre, Roma dovrà vedersela con il Giubileo straordinario voluto da papa Francesco. Il Giubileo precedente, quello del 2000, fu gestito con successo dallo Stato italiano e dal Comune di Roma in accordo con il Vaticano. Allora però non c’erano i problemi di sicurezza di oggi. Persino un Paese spensierato dovrebbe rendersene conto. Lettere: lei è già stato corrotto? non ancora, ma finché c’è vita c’è speranza di Eugenio Scalfari La Repubblica, 8 novembre 2015 Sul nostro giornale di ieri Marc Lazar ha scritto un articolo di grande interesse intitolato "Il virus dell’antipolitica e il rischio autoritario". Il 3 novembre Ilvo Diamanti ne aveva scritto un altro dal titolo "La contro-democrazia". Tuttavia entrambi affrontano lo stesso tema, desumendolo dall’orientamento della pubblica opinione che si manifesta da qualche anno in tutti i paesi europei senza alcuna eccezione: la gente è stufa dei partiti politici. In Italia, in particolare, nei sondaggi, già da tre anni e forse anche più, viene negata quella fiducia nei partiti dal 97 per cento degli interpellati, e solo il 3 per cento dunque concede il proprio consenso. Di fatto significa fiducia nei partiti zero. Ho affrontato anche io questo tema molte volte, insieme ad altri osservatori, tra i quali appunto Diamanti e Lazar, ma ora quel tema ha assunto caratteristiche che stanno generando comportamenti abbastanza diversi l’uno dall’altro. La negazione della fiducia ai partiti può infatti avere come effetto le seguenti decisioni da parte dei cittadini che messi insieme costituiscono il cosiddetto popolo sovrano: 1: astensione dal voto. 2: voto in favore di movimenti o partiti che si oppongono senza eccezione alla situazione politica esistente ma non propongono alternative concrete. 3: odio verso la democrazia e consenso ad un leader che ha o mira di avere pieni poteri. 4: odio verso ogni fase di immigrazione e misure per impedire l’accesso. 5: desiderio d’una rivoluzione che mandi a gambe all’aria tutte le istituzioni. Ma non con il voto, bensì con la violenza rivoluzionaria, per instaurare al loro posto una dittatura di sinistra radicale oppure di destra reazionaria, soluzioni che del resto si sono verificate in Europa nella prima metà del Novecento in Russia, in Italia, in Germania, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Ungheria, in Serbia, in Grecia, cioè di fatto in tutta Europa con le sole eccezioni di Francia e Inghilterra. Questa fu la parte più tragica della nostra recente storia, ma ora si stanno creando condizioni che in qualche modo ci riportano ad una fase che rimette in discussione la democrazia, sia pure (e per fortuna) senza quei pericoli di estrema tragedia che caratterizzarono l’epoca del fascismo, del bolscevismo, del nazismo, del franchismo, del salazarismo e delle dittature militari. Questa nuova fase coinvolge, anche questa volta, molti paesi europei, ciascuno con proprie caratteristiche ma tutti in presenza di una situazione mondiale totalmente diversa da quella novecentesca: la società globale, le grandi potenze continentali, la tecnologia estremamente avanzata, un capitalismo strutturalmente diverso da quello di mezzo secolo fa. Ma poiché ogni paese ha le sue proprie caratteristiche e i suoi propri problemi, esaminiamo ora la situazione italiana che direttamente ci interessa, senza mai dimenticare però che facciamo parte dell’Europa e dei suoi specifici problemi. Ho più volte scritto che il nostro paese politicamente è caratterizzato da un forte partito di centro, con alle ali formazioni sbriciolate che hanno quote di potere molto modeste. Questa situazione non esiste in nessun altro paese europeo dove governano partiti di destra oppure di sinistra mentre il centro praticamente non esiste. Il Partito democratico renziano sostiene, nel cerchio magico del suo segretario Matteo Renzi, che il Pd è un partito di centrosinistra e anche la minoranza di Bersani e di Cuperlo lo sostiene, ma non è così. Il famigerato partito della Nazione è ormai il partito renziano e il governo che ne risulta - guidato appunto dal partito renziano - gestisce quella situazione centrista che esiste soltanto in Italia. Renzi, segretario e premier, riscuote un notevole consenso nella pubblica opinione, è bravo, sa parlare, persegue e in parte attua riforme. La sua parola d’ordine è: "cambiamento". Governa da solo. Quest’ultimo particolare gli procura quella notevole fiducia di cui gode proprio perché molti italiani detestano i partiti e molti se ne infischiano perfino della democrazia. Dunque: scarsa fiducia al Pd, molta fiducia al premier. È un fatto strano? Certamente lo è, ma questa è la situazione. Del resto non è una novità, in Italia è avvenuto spesso e l’esempio più recente è stato Berlusconi: per vent’anni - sia pure con alcune interruzioni - ha avuto un consenso personale di massa. Nel suo caso il partito Forza Italia di fatto non esisteva sul territorio, non faceva quasi mai congressi, gli organi collegiali non avevano alcun peso, Berlusconi decideva tutto, consultando non più d’una dozzina di persone. In questo il caso di Renzi presenta una notevole differenza: il Partito democratico esiste e lui in qualche modo deve tenerne conto. La cosa strana è proprio in questa contraddizione: lui comanda da solo come premier e in quanto tale gode di ampio consenso dei cittadini, ma ha dietro di sé un partito che riscuote assai minore fiducia ma è quello che gli assicura il potere parlamentare. Alla Camera con una maggioranza assoluta, ottenuta con una legge elettorale fornita di un premio; al Senato invece ha bisogno di altri voti perché non c’è premio e la sua minoranza spesso gli vota contro; Renzi la contrasta ottenendo i voti d’una parte della destra che sale sul carro vincente. Comunque, dover gestire un partito o pezzi di partiti non è il forte di Renzi e mette comunque in discussione quel comandare da solo che sta bene a molti italiani ma non ai partiti che gli si oppongono in Parlamento né alla sua minoranza. Per questo ha abolito il Senato, dove elettoralmente non esiste il premio di maggioranza. Ha vinto per il rotto della cuffia riuscendo ad ottenere anche il voto della sua minoranza teoricamente dissidente ma di fatto consenziente avendo ottenuto molto poco in contropartita. Tuttavia le elezioni ancora esistono, la democrazia c’è ancora, sia pure in forma alquanto attenuata. Ci sono elezioni amministrative imminenti ed ecco che si sta facendo largo una tentazione del tutto nuova nella fervida mente di Renzi: ricorrere a figure indipendenti dai partiti, funzionari dello Stato (prefetti), tecnici di provata competenza, manager di importanti imprese. Per ora è una tentazione, peraltro abbastanza comprensibile e forse perfino buona. In un capitalismo nuovo e in un mercato che esercita un peso notevole, l’esperto proveniente da una classe dirigente basata sulla competenza non è una soluzione da scartare. Ma ci sono anche altri fattori da considerare, anche questi dovuti al peso del capitale, della società globale, da un’Europa confederata, guidata dai ventotto paesi che la compongono. Questi fatti richiedono governi che decidano rapidamente, dotati pertanto di poteri forti. Richiedono un esecutivo assai più potente del legislativo e un comandare da soli abbastanza diffuso. Una situazione del genere dà a Renzi una valida motivazione (o se volete una valida giustificazione) al suo potere tendenzialmente autoritario. Questo significa condannare a morte la democrazia, al di là delle apparenze? Significa allinearsi all’astensione di molti italiani o alla simpatia di molti altri verso un potere personale e autoritario? No, così non si può e non si deve fare per chi sente la necessità che l’interesse generale sia tutelato e quello personale giustificato ma controllato. La strada da seguire è abbastanza chiara, se non facile, in un paese come il nostro. Occorre rafforzare i contropoteri che già esistono e crearne anche altri la cui funzione non dipenda da chi esercita a piena forza il potere esecutivo personalizzato. La Corte costituzionale dovrebbe essere eletta in un modo diverso, individuando i suoi grandi elettori non tanto nel Parlamento quanto nel presidente della Repubblica, nei magistrati della Cassazione e in quelli della magistratura amministrativa e del Consiglio superiore della magistratura. Un nuovo organo di controllo dovrebbe essere istituito, che esercitasse tale controllo sulla coerenza, l’efficacia e la legalità dell’azione di governo, affidando i risultati del proprio lavoro al presidente della Repubblica, al presidente della Camera e ai senatori o deputati nominati dal capo dello Stato. Pareri non vincolanti ma resi pubblici e nelle mani di presidenti di istituzioni dotate di prerogative costituzionali. Insomma un esecutivo personale e dotato di poteri forti per essere controllato da un organismo neutrale e terzista, che assicuri una funzione moderna della democrazia. Naturalmente bisognerebbe anche puntare sulla trasformazione dell’Europa da Confederazione in federazione. Tutte le forze vive e consapevoli dovrebbero battersi per questo obiettivo e così dovrebbero operare le istituzioni che hanno il diritto di farlo. Includo tra queste ovviamente il presidente della Repubblica, il presidente della Camera e quello del Senato (fin quando esisterà), il presidente del Consiglio (che però non lo farà perché non vuole essere declassato). Ma anche gli organi di stampa e i "media" in generale, che condividano questo obiettivo e lo accreditino nella pubblica opinione. Ci vorrebbe un’intesa tra i "media" di tutta Europa che condividano l’evoluzione europea; un’intesa che di fatto realizzi un fronte di stampa e televisione europeista che stimoli efficacemente istituzioni, opinione pubblica, forze sociali ed economiche su quell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa che non è soltanto opportuno ma indispensabile. Nel frattempo un’istituzione e in particolare una persona ci sono e già stanno operando su questa linea. La Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi. Il presidente della Bce ha pronunciato due discorsi nei giorni scorsi, uno a Francoforte, giovedì e l’altro il giorno seguente all’Università Cattolica di Milano, dinanzi ad un folto pubblico di economisti, operatori finanziari, rappresentanti e manager di imprese e anche di una nutrita rappresentanza studentesca. Ha affrontato il tema della debolezza dei prezzi dovuta ad un’inflazione troppo bassa ma le sue affermazioni più importanti sono state tre. La prima riguarda la sua decisione di proporre a tutti i paesi europei, anche a quelli che sono fuori dall’Eurozona, di garantire i depositi bancari di tutti i 28 paesi. Una garanzia che la Germania ha già (ma non ufficialmente) respinto, ma che gli altri e la Commissione europea hanno (non ufficialmente) visto con favore. Uno dei membri della Commissione, per convincere la Germania, ha anche proposto una riassicurazione da parte della Bce, garantita dal suo portafoglio titoli. Insomma la discussione è aperta è sarà affrontata tra pochi giorni. La seconda: Draghi ha affermato che sono soprattutto i giovani a soffrire di più della mancata occupazione stabile e quindi privi di speranze del futuro. "A questa situazione bisogna che con urgenza i governi interessati mettano riparo". La terza infine è del tutto eccezionale: "La Bce ha preservato l’integrità della moneta, ha raggiunto la quasi parità del tasso di cambio euro-dollaro con notevole incoraggiamento delle esportazioni europee verso l’area del dollaro. Ma questi risultati non sono sufficienti a raggiungere prosperità e piena occupazione. L’Europa ha bisogno di un nuovo patto per impedire che la crisi si ripresenti e deve rafforzare l’architrave istituzionale dell’euro senza ritardi ingiustificati e dandosi un’agenda celermente definita". Da queste parole e dagli interventi effettuati si vede che Draghi vola alto ed ha in mente un obiettivo politico molto preciso, usando gli strumenti in suo possesso monetari e finanziari. Ha in mente un obiettivo politico ma vede anche la necessità che quest’operazione compia un salto vero e proprio in avanti. Un nuovo patto politico, questa è la sua definizione. Forse un’Europa a due velocità? Sarebbe un modo per smuovere la Germania e agganciare sempre di più all’Ue i paesi fuori dall’euro. Vedremo in futuro. Intanto è cominciato il processo a "Mafia Capitale" e sono stati repressi o indagati molti altri casi di corruzione che riguardano perfino ufficiali della Guardia di Finanza, questori, funzionari pubblici e, in Vaticano, vescovi ed altre cariche religiose. "Dalle stelle alle stalle". Oppure, come dice Altan nel suo disegno pubblicato nell’ultimo numero dell’Espresso facendo parlare due suoi personaggi: "Lei è già stato corrotto?", dice uno, e l’altro risponde: "Non ancora, ma finché c’è vita c’è speranza". Lecce: ergastolano in fuga, continua la caccia all’uomo di Luisa Amenduni Ansa, 8 novembre 2015 Aveva saputo trasferimento da carcere in ospedale la sera prima. La caccia all’uomo continua: non c’è traccia finora di Fabio Perrone, l’ergastolano 42enne salentino evaso ieri mattina dopo aver ferito in maniera lieve tre persone utilizzando una pistola sottratta ad uno dei due agenti di polizia penitenziaria che lo avevano condotto al terzo piano dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce per essere sottoposto ad un esame medico, una colonscopia. Lo stanno cercando in centinaia, tra poliziotti, carabinieri e anche agenti di polizia penitenziaria. Vengono setacciati litorali, campagne, casolari, soprattutto a nord di Lecce. Non è stata trovata neanche la vettura, una Yaris, sottratta durante la rocambolesca fuga ad una donna alla quale ha puntato la pistola alla tempia, nel parcheggio dell’ospedale. L’uomo avrebbe agito senza premeditazione: infatti sebbene la visita specialistica fosse da tempo fissata, nella casa circondariale di Borgo San Nicola, dove era detenuto Perrone, era stato comunicato solo la sera prima che la mattina seguente sarebbe stato condotto in ospedale. L’uomo, quindi, avrebbe agito al momento, approfittando di alcune circostanze; così come è certo che qualcuno lo sta ora aiutando nella fuga. Si è saputo, tra l’altro, che il trasferimento dal carcere all’ospedale è avvenuto insieme con un altro detenuto destinato ad accertamenti al reparto oncologico, a bordo di un unico furgone cellulare, con quattro agenti, due per ogni detenuto. Un accorpamento dettato dalla carenza di personale, come da tempo denunciato dai sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. Una situazione di difficoltà estrema ribadita oggi anche dal segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti che, tra l’altro, ha indetto per il 19 novembre una giornata di ‘luttò e protesta invitando tutti gli agenti penitenziari della Puglia ad indossare un piccolo bottone nero sulla divisa. Poiché - sottolinea - "quella stessa amministrazione, dopo aver creato i presupposti perché accadano tali fatti, pretende oggi anche di verificare e giudicare". Solidarietà e vicinanza agli agenti di polizia penitenziaria anche da parte della Fp Cgil di Lecce: "continuare a penalizzare e a tagliare sul settore della sicurezza - sottolinea - non risponde a nessuna logica di risparmio se si traduce in situazioni di rischio per la cittadinanza e per gli stessi agenti della polizia penitenziaria". Dove si trova l’ergastolano? L’uomo vicino alla Sacra Corona Unita? L’assassino che nel marzo del 2014 ha freddato un uomo nel bagno di un bar? "Al momento - dice il procuratore di Lecce, Cataldo Motta - non possiamo escludere alcuna ipotesi, neppure quella che possa essersi rifugiato oltre Adriatico". "Quello che sappiamo - aggiunge - é che in realtà sapeva bene a che ora sarebbe stato condotto in ospedale, perché il giorno prima aveva dovuto sottoporsi alla fase di preparazione propedeutica alla colonscopia, ma da qui a dire che avesse progettato la fuga ce ne passa. Diciamo che ha avuto del tempo per pensarci, sfruttando poi al momento le condizioni favorevoli venutesi a creare". Per il procuratore leccese, almeno nella fase iniziale della fuga, Perrone non dovrebbe aver avuto alcun appoggio esterno nella fuga, trovando però subito il modo di comunicare e trovare appoggio su una "catena di fiducia". Lecce: continuano le ricerche dell’ergastolano evaso, ma forse è già all’estero Il Messaggero, 8 novembre 2015 La caccia all’uomo continua: non c’è traccia finora di Fabio Perrone, l’ergastolano 42enne salentino evaso venerdì mattina dopo aver ferito in maniera lieve tre persone utilizzando una pistola sottratta ad uno dei due agenti di polizia penitenziaria che lo avevano condotto al terzo piano dell’ospedale di Lecce per essere sottoposto a una colonscopia. Lo stanno cercando in centinaia, tra poliziotti, carabinieri e anche agenti di polizia penitenziaria. Vengono setacciati litorali, campagne, casolari, soprattutto a nord di Lecce. Non è stata trovata neanche la vettura, una Yaris, sottratta durante la rocambolesca fuga ad una donna alla quale ha puntato la pistola alla tempia, nel parcheggio dell’ospedale. L’uomo avrebbe agito senza premeditazione: infatti sebbene la visita specialistica fosse da tempo fissata, nella casa circondariale di Borgo San Nicola, dove era detenuto Perrone, era stato comunicato solo la sera prima che la mattina seguente sarebbe stato condotto in ospedale. L’uomo, quindi, avrebbe agito al momento, approfittando di alcune circostanze; così come è certo che qualcuno lo sta ora aiutando nella fuga. Si è saputo, tra l’altro, che il trasferimento dal carcere all’ ospedale è avvenuto insieme con un altro detenuto destinato ad accertamenti al reparto oncologico, a bordo di un unico furgone, con quattro agenti, due per ogni detenuto. Un accorpamento dettato dalla carenza di personale, come da tempo denunciato dai sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. Una situazione di difficoltà estrema ribadita oggi anche dal segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti che, tra l’altro, ha indetto per il 19 novembre una giornata di protesta invitando tutti gli agenti penitenziari della Puglia ad indossare un piccolo bottone nero sulla divisa. Poiché - sottolinea - "quella stessa amministrazione, dopo aver creato i presupposti perché accadano tali fatti, pretende oggi anche di verificare e giudicare". Dove si trova l’ergastolano? L’uomo vicino alla Sacra Corona Unita? L’assassino che nel marzo del 2014 ha freddato un uomo nel bagno di un bar? "Al momento - dice il procuratore di Lecce, Cataldo Motta -non possiamo escludere alcuna ipotesi, neppure quella che possa essersi rifugiato oltre Adriatico. Quello che sappiamo è che in realtà sapeva bene a che ora sarebbe stato condotto in ospedale, ma da qui a dire che avesse progettato la fuga ce ne passa. Diciamo che ha avuto del tempo per pensarci, sfruttando poi al momento le condizioni favorevoli venutesi a creare". Genova: rubava ai detenuti, arrestato agente polizia penitenziaria Secolo XIX, 8 novembre 2015 Gli agenti della polizia penitenziaria hanno arrestato un loro collega, un sovrintendente in servizio al carcere di Marassi. Secondo quanto scoperto dagli investigatori, il sovrintendente da mesi avrebbe rubato beni che i detenuti lasciavano all’amministrazione prima di entrare in cella: collanine d’oro, anelli, orologi. Al momento dell’arresto (ora è ai domiciliari) l’uomo si è giustificato dicendo di essere indebitato a causa della separazione e di aver commesso una stupidaggine. L’inchiesta era partita dalla segnalazione del direttore del carcere. All’ufficio dove i beni vengono custoditi possono accedere solo pochissime persone, tra le quali il sovrintendente a carico del quale sono emerse prove di responsabilità. Nel corso delle indagini è stato accertato che per non fare scoprire gli ammanchi, in alcuni casi, venivano modificate le schede con gli elenchi degli effetti personali depositati. Genova: Marassi, l’alta cucina arriva dal carcere di Stefano Origone La Repubblica, 8 novembre 2015 Inaugurato il nuovo centro cottura: i prodotti realizzati dai detenuti-chef venduti agli alberghi. Detenuti-chef. Torte salate, polpettoni, troffie al pesto. I prodotti realizzati nella casa circondariale finiscono sulle tavole degli alberghi. È stato inaugurato il nuovo centro di cottura, che permette di preparare prelibatezze fresche, sottovuoto (conservate anche in azoto) e cotte con un’innovativa procedura a bassa temperatura. La nuova struttura, di 400 metri quadrati, si trova accanto al panificio e affianca altre attività come il laboratorio per protesi mobili e di lenti per i detenuti più bisognosi, la falegnameria, la bottega solidale e il teatro. Viterbo: in scena l’omicidio del bandito Giuliano rappresentato da compagnia di detenuti viterbonews24.it, 8 novembre 2015 In scena "La verità nell’ombra". Lo spettacolo interpretato dalla compagnia stabile Assai verrà messo in scena all’Auditorium Unitus e all’ex tribunale di piazza Fontana Grande. Patrizio Pacioni riporta all’ex tribunale di Viterbo il dramma di Portella della Ginestra. L’adattamento è di Antonio Turco e la regia di Francesco Cinquemani. Il celebre processo di Viterbo all’assassino di Salvatore Giuliano, il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, è il contenitore nel quale si dipana una storia non solo processuale. Il ritratto dell’Italia nella ricostruzione post bellica corrisponde a definire personaggi appartenenti a un’epoca molto confusa e contradditoria in cui si è andata consolidando il rapporto di potere tra stato e mafia. L’eccidio di Portella della Ginestra, la Sicilia contadina e incapace di ribellarsi a un destino scritto da altri, l’enigmatica figura di Pisciotta e quella carismatica di Salvatore Giuliano, il ruolo dei capi mafia Minatola e Miceli e quello del colonnello Luca, sono definiti in una opera caratterizzata da una riduzione in chiave di drammaturgia penitenziaria, come nello stile più classico della Compagnia Stabile Assai. Il più antico gruppo teatrale carcerario italiano che mette in scena sempre testi inediti, attribuisce ai detenuti componenti il gruppo, un ruolo non solo attoriale ma anche e soprattutto di presenza attiva nella riduzione scenica. Dopo l’esordio, nella scorsa primavera, nell’ambito della prestigiosa Stagione Teatrale 2014 - 2015 del C.T.B. Teatro Stabile di Brescia, "La verità nell’ombra", di Patrizio Pacioni, inizia la tournée che porterà il dramma in diverse piazze italiane. Tra gli appuntamenti spicca quello assolutamente eccezionale di Viterbo. Alla rappresentazione serale di lunedì 16 novembre, sul grande palcoscenico allestito presso l’Auditorium dell’Università della Tuscia, il mattino seguente, martedì 17, seguirà la messa in scena nell’aula del Vecchio Tribunale di Viterbo, vale a dire esattamente dove fu celebrato il processo che scrisse un’importantissima pagina della storia nazionale. "Una suggestione assolutamente unica - ha sottolineato Pacioni -: la magia della storia che si fa spettacolo e dello spettacolo che racconta la storia. Un privilegio per chi questa storia racconterà e per coloro che dopo oltre sessant’anni, a questa storia diventata teatro-verità, avranno l’occasione e la fortuna di assistere". Immigrazione: Parigi si sente assediata e sospende il patto Schengen di Massimo Nava Corriere della Sera, 8 novembre 2015 La Francia annuncia il ripristino dei controlli alle proprie frontiere per trenta giorni. Nel giorno in cui la Francia annuncia il ripristino dei controlli alle proprie frontiere per trenta giorni, come misura d’emergenza transitoria in vista della conferenza internazionale dell’Onu sul clima (Parigi, 30 novembre - 11 dicembre), l’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors pubblica una tribuna su Le Monde per ricordare il significato autentico del trattato di Schengen. Spesso percepito nell’opinione pubblica come un "colabrodo" da sospendere alla prima avvisaglia d’invasione o di pericolo per la sicurezza (dai terroristi ai black bloc, dai profughi alle tifoserie), il trattato dovrebbe in realtà favorire una più forte collaborazione fra polizie per il controllo delle "frontiere" europee esterne e non interne fra i singoli Paesi membri. È stato concepito per migliorare gli scambi e la circolazione di quattrocento milioni di europei. Per questo lo spazio Schengen si è allargato, comprendendo anche Paesi che non fanno parte dell’Unione. Gli strumenti di controllo degli ingressi illegali e d’identificazione esistono e dovrebbero funzionare in stretta collaborazione fra governi. Tornare indietro avrebbe un costo economico catastrofico e non risolverebbe il problema, come ricorda Delors. Intanto la Francia sospende. Lo fa in vista di un importante avvenimento, come del resto hanno fatto in passato altri Paesi che hanno alzato barriere per il G8 o per manifestazioni sportive. E come hanno deciso recentemente Germania, Austria, Slovenia, per fronteggiare la crisi dei migranti, fino ai fili spinati in Ungheria. L’impressione è che si mescolino rischi e problematiche diverse. Le polemiche politiche favoriscono gli equivoci. I black bloc o le tifoserie aspettano un momento-vetrina, con conseguenze purtroppo note. È giusto ristabilire filtri e misure di sicurezza temporanee. Il ristabilimento dei controlli come misura d’emergenza è anche previsto dal trattato, ma ha offerto il pretesto per costruire nuovi muri e per respingere. Proprio la Francia, con i suoi gendarmi schierati a Ventimiglia, offrì il poco nobile spettacolo di un dolente bivacco d’immigrati sugli scogli. L’invasione di profughi è un fenomeno permanente con cui l’Europa dovrà fare sempre più i conti. Tutta insieme, anziché in ordine sparso, come sta avvenendo ora, lasciando soli i Paesi più esposti. Il dispositivo di ricollocamento è rimasto sulla carta. È di ieri, la valutazione della Commissione europea sui flussi migratori: tre milioni entro il 2017, sempre che le aree di conflitto non si estendano ancora di più. Schengen non è solo un trattato. È un progetto alla base della costruzione europea. Va maneggiato con cura. Non è il problema, come si sente dire, ma la soluzione. Non va sospeso, ma rafforzato perché funzioni meglio. Myanmar: oggi si vota, ma la strada per la democrazia è lunga di Ilaria Benini Il Manifesto, 8 novembre 2015 Le strade birmane sono affollate di pavoni combattenti e dorati, ricamati sulle bandiere rosse del partito di opposizione al governo. Oggi si celebrano le prime elezioni presidenziali relativamente libere e imparziali in molti anni per il Myanmar. Il paese, che era conosciuto in precedenza come Birmania, è stato governato da una giunta militare per quasi cinquant’anni. Le precedenti elezioni del 2010 erano state boicottate dalla National League for Democracy (Nld), il partito guidato dal Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, la daw, "the Lady". All’epoca infatti l’icona della democrazia conosciuta da tutto il mondo era ancora agli arresti domiciliari e sarebbe stata liberata solo una settimana dopo le consultazioni. In seguito al colpo di stato militare del 1962 si erano tenute altre elezioni soltanto nel 1990 quando l’Nld ottenne una vittoria schiacciante, inspiegabilmente inaspettata dalla giunta militare, che aveva negato il risultato e mantenuto un governo dittatoriale. Oggi per la prima volta ci saranno 150 osservatori dall’Unione Europea per monitorare che il processo elettorale avvenga regolarmente. I partiti in corsa sono novantuno: il vasto numero è dato dall’esigenza di rappresentanza manifestata dalle numerose minoranze etniche del Paese. Il Myanmar è infatti una nazione che sorge dall’Impero coloniale britannico, che pose sotto un’unica amministrazione territori abitati da popoli con culture profondamente diverse una dall’altra: la maggioranza bamar e poi i karen, i kayah, i kayin, i kachin, gli shan, i chin, i mon, i rakhine (questi i gruppi etnici riconosciuti ufficialmente), e ancora i birmani di etnia cinese, i panthay, i birmani di origine indiana, gli anglo-birmani e i gurkha, per nominarne altri numericamente rilevanti. Il Paese è stato attraversato da sanguinose guerre civili sin dalla sua indipendenza, ottenuta nel 1948, le quali vedevano l’esercito centrale birmano in opposizione ai popoli minoritari e ai loro gruppi armati. Dopo lunghe trattative, supportate con insistenza dagli Stati uniti, il 15 ottobre è stato firmato un cessate il fuoco nazionale con alcuni dei gruppi armati. L’ambizione è di rendere possibile una convivenza pacifica tra questi popoli all’interno di uno Stato federale, nel rispetto delle specificità di ognuno. Ma questo obiettivo non convince tutti, sia per interessi particolari (alcuni gruppi armati controllano preziosi traffici di droga e risorse naturali) sia per sfiducia nella reale possibilità che il governo birmano centrale sia intenzionato a rispettate i diritti di tutti. Ai confini tra i vari territori continua quindi la guerra. Se anche le elezioni si svolgeranno regolarmente, c’è un altro grosso ostacolo alla base della loro capacità di rappresentare l’intera popolazione: molti candidati della minoranza musulmana del Paese non hanno infatti ottenuto il diritto a registrarsi per correre nelle elezioni. Negli anni di cosiddetta "transizione verso la democrazia", molti conflitti sociali si sono acuiti: tra questi quelli tra la maggioranza buddhista e la comunità musulmana. L’associazione di monaci Ma Ba Tha, che ha grande ascendente sulla popolazione, ha assunto un orientamento integralista rispetto alle questioni della convivenza tra religioni, ottenendo dal governo di imporre restrizioni ai matrimoni tra persone di religione diversa. Oggi e nelle settimane che porteranno alla comunicazione dei risultati ufficiali e nei mesi in cui si determinerà la composizione del governo, l’attenzione sarà polarizzata tra i due principali partiti in corsa: lo Union Solidarity and Development Party (Usdp), attualmente in carica ed emanazione militare, e l’Nld di Aung San Suu Kyi. I principali analisti credono che la maggioranza dei 498 seggi distribuiti tra camera alta e bassa del Hluttaw, il parlamento birmano, verranno conquistati dall’Nld. Ma è imprevedibile la reazione dell’Usdp, così come è ancora un’incognita il candidato alla Presidenza del partito della Lady. Lei stessa infatti non potrà essere nominata a causa dell’articolo 59 (f) della Costituzione varata nel 2008, una precisa norma "su misura" - confermata - per impedire al suo popolo di eleggerla: la presidenza non è una carica che può assumere chi abbia legami familiari con stranieri e i suoi due figli sono cittadini britannici. La tensione è alta, come dimostrano alcune aggressioni violente a candidati dell’Nld avvenute nelle scorse settimane. "Si tratta di un lungo cammino", come si ripete a ogni occasione a Yangon quando si parla di futuro, e ci vorrà tempo per capire cosa sarà di questo prezioso angolo di mondo stretto tra India e Cina, al crocevia di importanti trasformazioni asiatiche e globali. Droghe: liberalizzare la cannabis? ascoltare il parere degli esperti di Rosario Sorrentino (Neurologo) Corriere della Sera, 8 novembre 2015 La spinta impressa da un numero consistente di parlamentari per giungere a una più rapida liberalizzazione-legalizzazione della cannabis rappresenta, a mio avviso, un modo di procedere tipicamente "all’italiana" e l’ennesimo dito nell’occhio della scienza del nostro Paese. Non mi ritengo un proibizionista e non sono pregiudizialmente contro questa iniziativa ma ne contesto il metodo e la modalità. La cannabis è una droga a tutti gli effetti, le cui concentrazioni, tasso di principio attivo, sono notevolmente cambiate nel tempo mostrando di avere soprattutto sui giovani effetti potenzialmente deleteri e dannosi per il loro cervello. Questo andrebbe sempre detto e ripetuto da chi, forse troppo preso dalla foga di conquistare il consenso, si dimentica spesso di dirlo. Anche perché siamo passati dallo slogan della fine degli anni Sessanta di Woodstock: "un po’ di erba non ha mai fatto male a nessuno", al "super-spinello" del terzo millennio che di danni ne fa eccome, soprattutto per quanto riguarda, per esempio, alcuni disturbi neurologici e psichiatrici: attacchi di panico e psicosi. Ma la lista sarebbe lunghissima. Ora se si vuole così frettolosamente sdoganare la cannabis a furor di popolo, promuoviamo almeno una campagna di informazione istituzionale per avvertire soprattutto gli adolescenti sui rischi che corrono. Usciamo poi, una volta per tutte, dall’ambiguità e dall’ipocrisia che si fa tra l’utilizzo di cannabis per fini terapeutici e l’assunzione di questa droga per uso ricreativo e socializzante; le due cose sono evidentemente diverse. Sono convinto che il pluralismo di idee e di opinioni rimanga il sale della democrazia ma alla fine le decisioni più delicate, soprattutto quelle che riguardano la nostra salute, andrebbero sempre confrontate con chi ha la competenza e soprattutto l’esperienza sul campo. Si può fare tutto, liberalizzare e non solo, tanto alla fine, al di là delle dispute e contrapposizioni di carattere politico, sono sempre i nostri neuroni a decidere e stabilire quello che è buono o no per il cervello di ognuno di noi. Iraq: 8 detenuti fuggono da carcere Is, jihadisti pubblicano foto online Aki, 8 novembre 2015 Otto prigionieri del sedicente Stato Islamico (Is), arrestati perché accusati di lavorare con le forze della sicurezza irachena, sono riusciti a fuggire da un carcere segreto che i jihadisti gestiscono nella provincia di Salahadin, nell’Iraq settentrionale. Lo riferiscono fonti militari citate dall’emittente turca di Rudaw, spiegando che i prigionieri sono fuggiti dal carcere che si trova vicino alla città di Shargat e sono riusciti ad arrivare nelle zona controllate dall’esercito iracheno. "L’Is ha messo molti posti di blocco sulla strada principale e pubblicato i nomi e le foto dei prigionieri su Internet", ha riferito una fonte ufficiale del Commando di Salahadin. Gli ex detenuti fuggiti, "impiegati delle forze di sicurezza irachena", "sono ora in salvo", ha detto la fonte. Gli uomini hanno raccontato ai militari che l’Is aveva intenzione di decapitarli.