Giustizia: il Dap "a inizio 2016 cancellato il sovraffollamento in carcere" di Luca Liverani Avvenire, 7 novembre 2015 I volontari: ma investire sulle misure alternative alla detenzione riduce recidiva e costi del sistema penitenziario. Dopo la scudisciata di Strasburgo sul sovraffollamento delle carceri, l’Italia è corsa ai ripari. Ma ora che il pareggio tra detenuti e posti disponibili è dietro l’angolo - il Dap annuncia che ci arriveremo entro il 2016 - il volontariato penitenziario non festeggia. "È ancora un sistema "carcero-centrico" - dice la presidente del Seac Luisa Prodi - più interessato a imprigionare che a reinserire. Dunque costoso e con tassi di recidiva troppo alti". Alla vigilia della chiusura dei lavori dei Tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, i volontari indicano "la distanza a volte enorme" tra "questi bei documenti e quello che si sperimenta nella realtà detentiva". E per "colmare in concreto questa lacuna" è "necessario ascoltare il volontariato, che rivendica il suo ruolo: non solo nella gestione della quotidianità penitenziaria, ma anche nella progettazione e nelle scelte. È sussidiarietà". Il 48° convegno nazionale del Seac, il Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario, arriva a pochi giorni dalla chiusura - prevista per il 20 novembre - dei 18 Tavoli di consultazione. Magistrati, avvocati, docenti universitari, operatori penitenziari, esponenti del volontariato hanno lavorato su misure alternative, lavoro in carcere e fuori, affettività, educazione dei minori, giustizia riparativa. Per fornire contributi a chi dovrà scrivere i decreti legislativi della riforma dell’ordinamento penitenziario e del codice penale, approvata alla Camera e ora all’esame del Senato. La legge da cambiare è quella del 1975: "Una delle leggi più progredite d’Europa - constata amaramente Luisa Prodi - ma con una delle prassi più arretrate sul piano di diritti, efficacia delle pene, utilità sociale". Il sovraffollamento però, assicura il Dap, è quasi risolto. Tre anni fa la popolazione carceraria era di 67mila detenuti per 45mila posti. Oggi i detenuti sono 52.434 mila a fronte di una capienza regolamentare di 49.640 posti. Gianfranco De Gesu, direttore generale risorse materiali, beni e servizi dell’Amministrazione penitenziaria, assicura: "L’anno prossimo conseguiremo sicuramente il pareggio tra posti e presenze, già entro il primo semestre. Recupereremo la differenza dei 2mila posti sia da nuove strutture che dal miglioramento della manutenzione. Un anno fa il 10% risultava in manutenzione, oggi siamo al 7,5: abbiamo recuperato 1.200 posti". Bene, ma non basta. "Spero che tra Stati generali e Anno della Msericordia ci sia una bella commistione", provoca monsignor Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani penitenziari: "Il Papa dice infatti che per i giuristi è ora che riscatto, reinserimento, riconciliazione diventino strumenti giuridici". E allora servono più misure alternative, ribadisce la presidente del Seac, "che devono diventare regola, non eccezione: così il tasso di recidiva diventa bassissimo, cioè non si torna a delinquere. Lo Stato deve muoversi per potenziarle. Aumentare il numero di carceri o la durata delle pena detentiva è miope, oltre che molto più costoso". Stefano Anastasia, presidente emerito di Antigone, indica la contraddizione insita nella delega al governo di riforma di ordinamento e codice penale: "Nella stessa delega si convocano gli Stati generali per incentivare le pene alternative, ma si vogliono alzare i minimi di pena perché non vi si ricorra". E non è l’unico timore. Tra i volontari c’è chi è preoccupato che il potenziamento del lavoro in carcere nasconda il rischio dell’offerta di manodopera a bassissimo costo alle aziende. Timori eccessivi? Forse. Di sicuro c’è che la "mercede", lo stipendio dei "lavoranti", i detenuti lavoratori, è ferma ai due terzi del contratto nazionale equivalente. Quello del 1993, cioè 2 o 300 euro al mese. Invece un decreto ministeriale ha da poco raddoppiato la diaria che il lavorante paga allo Stato per il suo mantenimento: 3,62 euro al giorno tolti dalla busta paga. La metà. Giustizia: abolire l’appello, ecco la vera riforma di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2015 Molti commenti al mio intervento sul Fatto del 31 ottobre ("Garantisti come noi nessuno mai") hanno riguardato la separazione delle carriere fra pm e giudice e il processo d’appello. Il primo tema vorrei impostarlo adattando all’indipendenza della magistratura una frase di Calamandrei sulla libertà: "È come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare". Il magistrato italiano che abbia la schiena dritta, l’indipendenza la respira e la vive come elemento naturale. Per contro, la realtà di tanti altri paesi è diversa. Anni fa, incontrando a Vienna alcuni pm anticorruzione, li trovai in un momento di grande euforia per una novità giudicata "rivoluzionaria". Dipendevano dal ministro della Giustizia e le direttive di questi andavano pur sempre osservate: ma gli "ordini" - ecco la grande novità - dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale. Il fatto (sintomatico di una certa mancanza…d’aria) mi viene in mente quando si discute di separazione delle carriere. Perché questa è praticamente sinonimo di dipendenza del pm dal potere esecutivo: nel senso che in tutti i paesi in cui (con modalità che possono essere diverse) c’è la separazione, il pm - per legge - deve ottemperare a ordini o direttive. Vale a dire che poco o tanto, per un verso o per l’altro, non è indipendente. Sicuramente non è mai indipendente come nel nostro Paese. È vero: ciò accade, senza scandalo né scompensi, anche in paesi di autentica e robusta democrazia. Perché? Perché la classe politica possiede anticorpi capaci di isolare ed espellere le "mele marce"; capaci (per parafrasare Piercamillo Davigo) di allontanare dalla tavola coloro che vengono scoperti a rubare le posate, senza che possano continuare a banchettare come niente fosse e senza attendere un’eventuale condanna penale definitiva. Viceversa è proprio questo, purtroppo, che spesso succede da noi. E allora, se con la separazione delle carriere si finisce per conferire, a una classe politica che continua a "ospitare" al suo interno soggetti fortemente ambigui se non peggio, il potere di condizionare o pilotare le indagini penali -che so -per fatti di corruzione o mafia, quando si sa che in tali fatti possono essere spesso implicati anche politici, l’opzione della separazione equivale a un suicidio. E la domanda finale è questa: conviene o no alla democrazia? Qualcuno (lo so bene) obietterà che anche Falcone era per la separazione. Ma le sue riflessioni riguardavano, più che la separazione delle "carriere", la separazione delle "funzioni" fra pm e giudice: soluzione ontologicamente diversa, che ormai il nostro sistema ha adottato. Secondo tema. Sui problemi della giustizia italiana grava un macigno, un arretrato colossale: circa nove milioni di cause fra civile e penale. Se non ci si libera da questo peso, qualunque riforma rischia di fallire. Occorrono scelte radicali e la mia idea è abolire il grado di appello. Innanzitutto perché fra tutti i paesi di democrazia occidentale che hanno un sistema processual-penale di tipo accusatorio (com’è diventato anche il nostro a partire dal 1989) siamo l’unico che ha più gradi di giudizio, invece dell’unico grado - con eventuale possibilità di ricorrere a una corte suprema - che altrove è praticamente la regola. È una questione di sistema, che non si risolve tenendo i piedi in due staffe. Poi perché con l’abolizione dell’appello si potrebbe appunto sperare di cancellare l’arretrato. Se i magistrati e il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto sull’arretrato, questo sparirebbe in due/tre anni. Dopo di che i magistrati e il personale amministrativo del "defunto" appello potrebbero essere convogliati sul primo grado, accelerando i tempi del processo che, con un grado in meno, sarebbero già di per sé molto abbreviati. Così, l’altro gravissimo male della nostra giustizia, la durata interminabile dei processi, avrebbe finalmente qualche prospettiva di miglioramento. La mia idea - mi rendo conto - è assolutamente minoritaria, osteggiata da un bel po’di gente (gli avvocati soprattutto), con l’argomento che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera, autentica garanzia uguale per tutti sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali, opponibili a piene mani da chi - potendosi permettere difese agguerrite e costose - punta all’impunità attraverso la prescrizione. Mentre sono di fatto arretrate le garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli. Giustizia: Zagrebelsky "questa magistratura è sempre più corporativa" di Angela Leucci Gazzetta del Mezzogiorno, 7 novembre 2015 "Le correnti hanno fossilizzato le strutture organizzative". Libertà, potere e umanità. Gustavo Zagrebelsky ha presentato agli studenti del Liceo scientifico "Leonardo da Vinci" di Maglie il suo libro "Liberi servi". L’incontro ha inaugurato il progetto "Peccatori Sì, Corrotti No. Il Grande Inquisitore e il peso della libertà", con il patrocinio del Comune di Maglie, della Provincia di Lecce, della Regione Puglia, dell’Università del Salento e dell’Accademia Russa delle Scienze di Mosca. Zagrebelsky, di cosa parla il libro del quale ha discusso con gli studenti? "Il libro prende spunto da un capitolo de "I fratelli Karamazov", in cui c’è un dialogo tra il Cristo e il grande Inquisitore. Solo l’Inquisitore parla e fa una requisitoria contro il Cristo che sarebbe venuto a portare sulla terra la libertà. La tesi dell’Inquisitore è che gli esseri umani non amano la libertà, per l’umanità la libertà è un peso, una responsabilità, e gli uomini sono disposti quasi per natura a mettersi nelle mani di qualcuno che pensa e decide per loro". Cristo quindi non parla mai. "Il silenzio è un grande tema di queste pagine. Che cos’è il silenzio? Io ho contato una cinquantina di significati. Può sembrare il vuoto, un recipiente che non contiene nulla, ma non è così. Nei campi di sterminio nazisti, il popolo ebraico formulò un’accusa parlando del "silenzio di dio". C’è poi il silenzio della disperazione o il silenzio del terrore. Come nelle trincee della Prima Guerra Mondiale nel tempo che precedeva l’ora dell’assalto: quel silenzio tombale era il terrore della morte. C’è poi il silenzio della speranza, il silenzio dell’attesa, che poi è il tipico silenzio amoroso. Infine c’è il silenzio dialettico: il Cristo, tacendo, non fa altro che provocare il suo interlocutore". In Italia oggi abbiamo bisogno di libertà? "Si potrebbe dare ragione all’Inquisitore: la libertà non è un bisogno. Noi abbiamo bisogno di sicurezza: nelle strade, nel futuro, in un impiego. La libertà non va confusa con la giustizia anche se spesso i due concetti si avvicinano e si toccano. La libertà è una conquista, non un’esigenza naturale, ma è un’aspirazione che si può avere ma si può anche non avere. Secondo l’Inquisitore gli esseri umani sono animali, che non vivono in libertà ma vivono nel branco, sotto strutture sociali. Il loro vivere in società è espressione di un’esigenza naturale, ma gli esseri umani hanno qualcosa in più, non sono solo animali. Questo qualcosa è ciò che ci spinge all’aspirazione della libertà". L’Italia si fida del potere, in particolare del potere giudiziario? "All’epoca di Mani Pulite, il potere giudiziario era sostenuto dal consenso popolare: era un’epoca in cui la magistratura stava agendo in consonanza con una parte dell’opinione pubblica. Bisogna considerare che la magistratura è un corpo professionale, che negli ultimi decenni si è corporativizzata: le correnti hanno fatto sì che le strutture organizzative all’interno della magistrature si siano fossilizzate. In pratica sono diventate macchine di potere, non macchine ideologiche. Questo ha minato la fiducia nella magistratura, che tra l’altro patisce nell’opinione pubblica la cattiva qualità della legislazione". Giustizia: corruzione in sanità, il manuale di Cantone Roberto Turno Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2015 I contratti d’acquisto e gli appalti con l’imbroglio incorporato, le deroghe infinite o che lasciano tutto sempre nelle stesse mani anche con mini frazionamenti di gare per nascondere che i vincitori sono sempre gli stessi. Gli incarichi e le nomine di primari con le spalle ben coperte, i loro collaboratori immeritevoli, perfino le commissioni di valutazione dei professionisti addomesticate. Ma anche la libera professione senza veri controlli dei medici e delle strutture, le liste d’attesa che fanno la fortuna dei soliti noti e mai dei pazienti. I rapporti con i privati accreditati. La spesa farmaceutica da tenere più al guinzaglio, le ricette non raramente facili dei medici di medicina generale che magari prescrivono non casualmente sempre uno stesso prodotto o una ditta. Anche i dispositivi medici o il filone della ricerca. E il profumo che fa girare la testa a tanti delle sponsorizzazioni. Il conflitto d’interessi che resta una pietra miliare del sistema. Perfino la fabbrica del caro estinto, con gli operatori sanitari in ospedale pronti a fare da agenti "a percentuale" per le ditte di onoranze funebri presso le famiglie afflitte di un paziente deceduto. Tu chiamalo se vuoi malaffare. Per semplificare, anzi per mettere le cose al posto giusto, chiamiamola senza possibilità di equivoci per quella che è: corruzione. E la sanità pubblica è non raramente la fabbrica per eccellenza e la casa della corruzione in Italia. Con tutte le eccellenze e i lodevoli meriti del caso di tantissimi operatori, sicuramente la maggioranza. Certo è che ieri la conferenza stampa convocata in comune da Beatrice Lorenzin, ministra della Salute, e Raffaele Cantone, presidente Anac, non è stata un caso per denunciare una volta di più il fenomeno in casa Ssn. E mettere sul tavolo - con la collaborazione preziosa di Agenas che ha anche realizzato una modulistica ad hoc per la dichiarazione pubblica "di conflitto di interessi" degli operatori Ssn - con l’aggiornamento del Piano nazionale anticorruzione, il capitolo nuovo di zecca proprio sulla sanità. Con tanto di perimetro da controllare, situazioni da monitorare, fenomeni da raddrizzare e proposte specifiche d’intervento. Regole che Asl, ospedali ed enti non potranno d’ora in poi aggirare con un’alzata di spalle o nascondendo l’inerzia sotto i tappeti. O magari copiando (ma senza nulla realizzare) progetti di altri ospedali o Asl. A questo punto, dovranno seguire le regole del gioco. Che sono in campo. E predisporre piani operativi concreti, aprire le finestre alla trasparenza. Ma, ha puntualizzato Lorenzin, formando e preparando gli operatori. Ma, ha detto la ministra, "ogni euro va dedicato ai pazienti: la trasparenza e la tracciabilità dei dati sono indispensabili. Dobbiamo dire basta a sprechi e mala gestio, illeciti di varia natura e soprattutto basta alla corruzione in un sistema che è prezioso per tutti gli italiani". Di sicuro Cantone non s’è rifugiato dietro le virgole nel presentare il suo "manuale per l’uso". La corruzione in sanità presenta "una grandissima pervasività", ha detto subito. "Questa è una piccola rivoluzione copernicana", ha aggiunto, indicando i danni da comparaggio ("è corruzione"), conflitto d’interessi, liste d’attesa gonfiate per spingere i pazienti verso il privato. E farli pagare di più. E il virus corruttivo delle gare e degli appalti in sanità "con proroghe che durano da un decennio per favorire chi sta dentro e non ne esce più". Con danni "collaterali da corruzione incalcolabili" per i pazienti, ha concluso. Giustizia: e meno male che il processo contro Mannino è stato un "rito abbreviato…" di Francesco Damato Italia Oggi, 7 novembre 2015 Il problema di e attorno all’ex ministro democristiano Calogero Mannino, appena assolto in primo grado dall’accusa di avere voluto, anzi imposto alle autorità militari e civili dello Stato nel 1992, una trattativa con la mafia per salvarsi la vita, e salvarla ad altri minacciati da stragi, sta nella distinzione fra una minuscola e una maiuscola. La minuscola sta nel fatto che Mannino non ha commesso, come ha sentenziato la giudice di Palermo Marina Petruzzella dopo ben 23 mesi di processo con rito abbreviato, bocciando la richiesta di una condanna a 9 anni di carcere chiesta dai pubblici ministeri. Che sono gli stessi del processone in corso con rito ordinario, sempre a Palermo, e sempre per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, contro altri imputati. Fra i quali il ministro democristiano dell’epoca, Nicola Mancino, poi presidente del Senato e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, due generali e fior di mafiosi. La maiuscola sta nel Fatto, giornale quotidiano, che guida la schiera dei cronisti, commentatori e analisti giudiziari solidali con l’accusa, convinti - come ha scritto Marco Travaglio senza avere potuto leggere la motivazione della sentenza, come i pubblici ministeri che hanno già annunciato il ricorso all’appello - che "il fatto sussiste", per quanto la giudice di Palermo abbia stabilito che a commetterlo non sia stato Mannino. È una tesi, questa, sostenuta sulla Stampa anche dal mafiologo Francesco La Licata, reduce da uno scontro a più riprese, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a La 7, in collegamento con Mannino, e fra le contestazioni di buon senso e di buon gusto di Antonio Polito, vice direttore del Corriere della Sera. Una tesi contraddetta onesta- mente e autocriticamente su Repubblica anche dal non sospettabile Attilio Bolzoni, che ha scritto di una sentenza "implacabile". Con la quale "crolla il pilastro della trattativa", ha titolato il Manifesto, anch’esso non sospettabile certamente di pregiudizio nei riguardi della magistratura inquirente di Palermo. E memore della natura centrale attribuita dall’accusa, ai fi ni della presunta trattativa, all’azione promotrice di un minacciato e impaurito Mannino, in grado di contare anche sulla comprensione e sulla solidarietà del collega di partito Mancino, insediato forse apposta al Viminale, subentrando a Vincenzo Scotti, nel passaggio dall’ultimo governo di Giulio Andreotti al primo di Giuliano Amato, nella torrida primavera del 1992. Che fu contrassegnata dalla strage mafiosa di Capaci, dove persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, e da quella successiva di via d’Amelio, a Palermo, dove persero la vita, su ordine sempre della mafia, il magistrato Paolo Borsellino e la scorta. Di "mosaico illeggibile" ha infine scritto sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi riferendosi a quello proposto da pubblici ministeri nel processone ancora in corso contro gli altri altolocati imputati. Ma imputati poi di che cosa, non esistendo un reato di trattativa? Imputati, come lo era il povero Mannino, e tornerà probabilmente ad essere in appello, di violenza e minaccia a corpo politico, o qualcosa di simile, avendo l’accusa rispolverato un vecchio articolo del codice penale che non fu adoperato neppure dal regime fascista contro i suoi avversari, com’è stato fatto giustamente rilevare da fi or di giuristi scambiati dai travagli di turno per collusi, o quasi, con mafiosi e simili. La sentenza della coraggiosa giudice di Palermo Marina Petruzzella ha avuto il merito, fra l’altro, di avere smascherato con le loro reazioni il livore e il pregiudizio - essi sì - dei sostenitori ad ogni costo, anche a quello della irrazionalità, di quanti vorrebbero riscrivere la storia del Paese sostenendo, fra l’altro, che la cosiddetta prima Repubblica di stampo andreottiano, forlaniano e craxiano e la seconda di stampo berlusconiano si siano avvicendate in un impasto di sangue, di corruzione e di ricatto mafiosi. Un altro merito della giudice Petruzzella è di avere un po’ infranto un vecchio e consolidato schieramento mediatico e persino giudiziario, visto che il capo della Procura di Palermo, Francesco Lo Voi, si è ben distinto dai suoi aggiunti e sostituti riservandosi di attendere il deposito della sentenza, e di leggerne bene il contenuto, prima di esprimersi e di prendere le decisioni di sua competenza. È una posizione, questa del procuratore capo di Palermo, non a caso succeduto fra le proteste e i malumori dei giustizialisti a Francesco Messineo, protagonista con Antonio Ingroia del clamoroso scontro con l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, davanti alla Corte Costituzionale, sempre a proposito delle indagini sulla presunta trattativa di più di vent’anni fa; è una posizione, dicevo, questa di Lo Voi, civile e rispettosa delle regole e dei buoni rapporti fra organi e uffici dello Stato in un Paese normale. Quale purtroppo l’Italia non sembra essere, visto un ricorso già annunciato da altri pubblici ministeri in un silenzio quasi generale. Giustizia: all’Ospedale di Lecce detenuto ruba pistola spara e fugge, è caccia all’uomo di Antonio Della Rocca e Vito Fatiguso Corriere del Mezzogiorno, 7 novembre 2015 Ha rubato un’auto e ha ingranato la marcia sfondando le sbarre all’ingresso. Ferite tre persone: non sono gravi. Chi è "Triglietta, il criminale evaso". Non hanno ancora avuto esito le ricerche dell’ergastolano 42enne Fabio Perrone, che ieri mattina è evaso mentre si trovava all’ospedale "Vito Fazzi" di Lecce per un esame endoscopico. L’uomo, dopo essersi impossessato della pistola di ordinanza di una delle guardie carcerarie che lo accompagnavano, ha sparato diversi colpi, uno dei quali ha ferito alla gamba destra un agente penitenziario, ora ricoverato in Rianimazione, ma non in pericolo di vita. All’imponente dispositivo di ricerca, coordinato dalla questura di Lecce, partecipano, oltre alla polizia di stato, anche carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria. Vengono usati anche elicotteri che sorvolano, oltre al territorio della provincia di Lecce, anche quelli delle province limitrofe. Fabio Perrone, originario di Trepuzzi (Lecce), stava scontando l’ergastolo nel carcere "Borgo San Nicola" di Lecce, in quanto condannato per l’omicidio del montenegrino di Fatmir Makovic e per il tentato omicidio del figlio di quest’ultimo, avvenuti a Trepuzzi nella notte tra il 28 e il 29 marzo 2014. La ricostruzione. L’uomo doveva sottoporsi ad una colonscopia. Scortato dai quattro agenti di polizia penitenziaria è salito al terzo piano dell’ospedale e quando le guardie gli hanno tolto le manette, Perrone ha sfilato la pistola dalla fondina di uno degli agenti e ha cominciato a sparare. Poi ha raggiunto l’area di parcheggio e ha rubato un’auto alla cui guida si trovava una donna. Si è quindi allontanato sfondando le sbarre che si trovano all’ingresso della struttura ospedaliera. Ricerche sono in corso da parte delle forze dell’ordine che hanno istituito posti di blocco in tutta la zona. Queste prime notizie si sono via via arricchite di dettagli grazie alle parole dei testimoni oculari. Fabio Perrone, prima di impossessarsi della pistola dell’agente penitenziario, aveva avuto una colluttazione con l’agente nella sala endoscopica, appena tolte le manette per l’esecuzione dell’esame diagnostico. Poi i tentativi di fermare il fuggitivo si sarebbero protratti nel corridoio dove il detenuto ha esploso diversi colpi di pistola. Alcuni proiettili sono rimasti incastrati nei muri e nelle porte, mentre nella sala endoscopica è rimasta una chiazza di sangue per terra accanto al lettino operatorio. Perrone è poi scappato attraverso le scale ed ha raggiunto il piano terra. Nel parcheggio dell’ospedale, arma in pugno, ha sottratta una Toyota Yaris di colore grigio ad una donna ed è fuggito al volante dell’auto sfondando le barriere poste al varco di uscita. Perrone sarebbe rimasto ferito ad un occhio. Al massiccio dispositivo di ricerca, coordinato dalla polizia, partecipano anche carabinieri, polizia penitenziaria e guardia di finanza. Il precedente. Perrone, ritenuto esponente di spicco della criminalità locale, venne arrestato dai carabinieri poco dopo l’omicidio di Fatmir Makovic, originario del Montenegro, ma domiciliato nel campo rom leccese in località "Panareo". Al momento dell’arresto ed era ancora in possesso della pistola di fabbricazione serba con la quale aveva esploso numerosi proiettili calibro 9 x 21, svuotando l’intero caricatore, nella sanguinosa sparatoria avvenuta all’interno del "Gold bar music restaurant". La condanna al carcere a vita nei confronti di Perrone, accusato di omicidio volontario aggravato per futili motivi, è stata pronunciata dal giudice Simona Panzera nel corso dell’udienza del 23 giugno scorso. L’omicida, infatti, secondo la sua stessa versione, avrebbe sparato dopo un litigio avvenuto all’interno del locale con alcuni slavi, tutti residenti nel campo rom di Lecce. Il bilancio: tre feriti. Il bilancio è di tre feriti: un poliziotto penitenziario, un vigilante e un paziente del nosocomio. Inizialmente si era saputo che i feriti erano due agenti della polizia penitenziaria. Non corre pericolo di vita l’agente penitenziario. L’agente, raggiunto da un proiettile alla coscia destra, dopo le prime cure è stato ricoverato in via precauzionale nel reparto di Rianimazione dell’ospedale leccese ed ha una prognosi di 30 giorni per la lesione muscolare provocata dal proiettile che è entrato e uscito dalla gamba senza produrre lesioni ossee e gravi danni vascolari. Un anziano di 68 anni di Lequile, che si trovava sul luogo della sparatoria per assistere un parente, è rimasto ferito in modo lieve alla gamba destra da un proiettile. L’uomo, dopo le cure in Pronto soccorso, è stato dimesso con una prognosi di cinque giorni. In Pronto soccorso sono stati assistiti anche cinque infermieri, tutti in stato di choc. I sindacati: "Episodio annunciato". Il pericolo di fuga dei detenuti dalle strutture sanitari e salentine è stato sollevato più volte dai sindacati della polizia penitenziaria. E il sindacato di polizia Osapp ha attaccato: "Siamo pochi: ministro Orlando si dimetta". Per il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) l’evasione è "un episodio annunciato". Intervenendo con una dura nota, il segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti, afferma: "Lo abbiamo denunciato in tutti i modi possibili; abbiamo avuto incontri con autorità politiche ed istituzionali a partire dai presidenti della Regione, agli assessori alla Sanità per rappresentare la gravità della situazione legata all’accompagnamento di detenuti pericolosi fuori dal carcere per effettuare visite specialistiche". Il sindacato ha assunto da tempo una posizione assai critica sulla presunta inadeguatezza degli ambulatori del carcere "Borgo San Nicola" di Lecce, dove era rinchiuso Perrone per scontare una condanna all’ergastolo. Tale situazione, infatti, secondo il Sappe, provocherebbe l’accompagnamento negli ospedali di numerosi detenuti, anche pericolosi, talvolta affetti da patologie non gravi che potrebbero essere curate negli ambulatori dell’istituto di pena se adeguatamente attrezzati". L’amministrazione penitenziaria avvia un’inchiesta. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha avviato, a quanto si apprende, subito dopo l’accaduto, un’indagine amministrativa sull’episodio avvenuto a Lecce, dove un detenuto portato all’ospedale per una visita medica si è impossessato dell’arma di un agente penitenziario di scorta e ha sparato, ferendo tre persone. Gli accertamenti mirano ad avere informazioni dettagliate sulla dinamica e ad appurare eventuali negligenze. Tra gli elementi che il Dap deve acquisire, uno riguarda la tipologia della visita che il detenuto doveva effettuare e cioè se si trattasse di una visita programmata o d’urgenza, le due tipologie previste dall’ordinamento penitenziario per le quali i detenuti possono essere condotti in ospedale. La valutazione sull’urgenza è affidata al medico. Un altro elemento è legato al numero di uomini di scorta. In questo caso - a quanto risulta - oltre ai due agenti che accompagnavano il detenuto, era presente l’autista e normalmente la presenza di tre unità risulta regolare per la scorta di soggetti che non siano detenuti in particolari regimi di sicurezza, come il 41bis. L’indagine dovrà poi fare luce sulla dinamica, visto che a un agente è stata sottratta l’arma d’ordinanza con la quale, poi, il detenuto evaso ha sparato. Il Dap: "La scorta era adeguata". Era accompagnato "da adeguata scorta in conformità alla disciplina vigente" Fabio Perone, l’ergastolano evaso dall’ospedale di Lecce dove con una "repentina azione" e "con improvvisa violenza" è riuscito a impossessarsi dell’arma di ordinanza di uno degli addetti alla scorta. "Sulla vicenda - afferma il Dap in una nota - vi è stata da subito massima attenzione dell’Amministrazione Penitenziaria e, su immediata disposizione del Capo Dipartimento Santi Consolo, sul posto stanno seguendo l’evoluzione della vicenda il Direttore generale dei detenuti e del trattamento Roberto Piscitello e il Provveditore regionale della Puglia Giuseppe Martone. Coordinate dalla Procura della Repubblica di Lecce, le forze di polizia coinvolte nelle indagini sono Polizia Penitenziaria, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza". Il Dap esprime poi vicinanza all’Assistente capo Antonio Caputo rimasto ferito durante l’evasione. Il sottosegretario Ferri: "Un fatto gravissimo". "La fuga di un uomo condannato all’ergastolo per un omicidio dall’ospedale di Lecce rappresenta un fatto gravissimo. Ancora più sconcertante è il fatto che la sua fuga abbia implicato il ferimento di tre persone. Mi auguro che l’uomo, autore di questo terribile gesto, sia consegnato alla giustizia il prima possibile. Alle tre persone ferite, ai loro familiari e alla polizia penitenziaria esprimo la mia sincera vicinanza". Lo ha detto Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, in relazione alla vicenda del detenuto in fuga dall’ospedale di Lecce. Giustizia: caso Budroni; troppi dubbi sulla morte, intervenga il ministro Il Garantista, 7 novembre 2015 Interrogazione al ministro della Giustizia presentata da Tancredi Turco (deputato Gruppo Misto). Per sapere - premesso che: la cronaca si è occupata da diversi anni ormai del caso dell’uccisione del signor Bernardino Budroni occorso per mano di un agente della polizia di Stato sul grande raccordo anulare in Roma, il 30 luglio 2011, al chilometro 11, nei pressi dello svincolo per via Nomentana; uno dei due proiettili calibro nove esplosi dall’agente, che viaggiava sulla Volante 10, ha attinto il veicolo Ford Focus sul quale viaggiava il signor Budroni, pressoché fermo contro il guard-rail, e lo ha trapassato dal fianco sinistro, perforando i polmoni e il cuore e provocandone il decesso in pochi istanti; lo stesso agente avanti il pubblico ministero che lo ha interrogato due giorni dopo i fatti, riferiva di aver esploso due colpi dopo un inseguimento durato dieci minuti; nell’inseguimento, avvenuto intorno alle ore 5 del mattino del sabato 31 luglio 2011, erano stati coinvolti anche altri due veicoli delle forze dell’ordine: Beta Como della Polizia e una gazzella dei carabinieri, quest’ultima nelle fasi finali dell’inseguimento era riuscita a sorpassare l’auto inseguita, a farla rallentare ed infine a mettersi in diagonale impedendo alla vettura dei signor Budroni di poter proseguire la marcia; l’agente che ha sparato riferisce che prima dell’inseguimento, quella notte, era stato parecchio occupato dall’una meno un quarto a cercare il signor Budroni che sotto l’abitazione della sua ragazza, aveva posto in essere schiamazzi ed il danneggiamento di porte e cancelli che avevano quindi necessitato l’intervento delle forze dell’ordine le quali hanno quindi iniziato una ricerca dell’uomo poi sfociata nell’inseguimento sulla tangenziale romana; l’agente scelto Michele Paone, che ha sparato, riferisce che da un controllo effettuato durante le ricerche dell’uomo, prima dell’inseguimento, era emersa una pendenza per il possesso di una balestra e di un fucile ad aria compressa, poi, durante il successivo inseguimento, ha ritenuto di dover estrarre la sua pistola d’ordinanza per fare fuoco in direzione dello pneumatico posteriore sinistro e così tentare di fermare l’auto del signor Budroni; secondo la parte civile che assiste i familiari del signor Budroni, invece, il comportamento dell’agente non sarebbe compatibile con quanto dallo stesso dichiarato, sia per l’esito luttuoso che ha avuto il tentativo di sparare allo pneumatico della vettura del Budroni, sia perché apparirebbe che i colpi di pistola ed in particolare il secondo, quello mortale, siano stati esplosi quando il veicolo dell’inseguito fosse ormai fermo contro il guard-rail ed ostacolato dalla posizione della gazzella dei carabinieri che lo aveva bloccato, pertanto impossibilitato a proseguire nella fuga; ciò nonostante, il giudice di primo grado ha assolto l’agente che materialmente ha aperto il fuoco contro il veicolo del signor Budroni poiché non ha ritenuto fosse stata accertata la sua responsabilità penale per omicidio colposo, o meglio omicidio dovuto ad eccesso colposo nella scriminante dell’uso legittimo delle armi, poiché ha riconosciuto l’uso legittimo delle armi e pertanto ha assolto l’agente imputato per aver agito in presenza della scriminante di cui all’articolo 53 del codice penale; secondo il giudice monocratico di primo grado del tribunale di Roma "l’iniziativa assunta dall’agente appare adeguata e proporzionata", l’uso delle armi sarebbe insomma stato giustificato dal voler interrompere una "grave e prolungata resistenza"; ?in linea teorica questa causa di giustificazione all’articolo 53 del codice penale, permette al pubblico ufficiale di fare uso delle armi o di mezzi di coazione fisica, per impedire una serie di reati tassativamente codificati (ma non è questo il caso, poiché non vi era alcun rischio del genere), o per respingere una violenza o vincere una resistenza; nel caso di cui ci si occupa, si assume che l’imputato abbia sparato in direzione delle portiere dell’auto della vittima, ferendola a morte, in un contesto fattuale coperto dalla scriminante (l’arma sarebbe stata usata per costringere il signor Budroni a ottemperare all’ordine degli operanti di fermarsi) di cui però a giudizio degli interroganti vengono ecceduti i limiti per colpa, così che l’evento finale risulta la morte della vittima; tuttavia, sebbene il giudice di primo grado non abbia riconosciuto un eccesso colposo, la difesa dei familiari del sig. Budroni sostengono che il momento nel quale sono stati esplosi i colpi non poteva più rientrare nell’uso legittimo delle armi poiché non vi era più alcuna necessità di vincere la resistenza dell’inseguito in quanto il suo veicolo di trovava già pressoché fermo, e senza possibilità di riprendere la fuga; tecnicamente non vi sarebbe più il requisito della "attualità" della resistenza; questa teoria è supportata dalle risultanze della perizia richiesta dal pubblico ministero, la quale riconosce che l’impatto contro il guard-rail della vettura di Budroni a velocità non minime avrebbe provocato danni alla carrozzeria ben diversi dal graffio che invece è stato registrato, il consulente del pubblico ministero, infatti, sostiene che al momento del primo colpo la Focus di Budroni aveva una velocità terminale residua, prossima allo zero, in rapida fase di esaurimento e di avvicinamento al guard-rail, quindi di inizio arresto; al momento del secondo colpo, la Focus ormai accostata a ridosso del guard-rail metallico di destra, veniva attinta dal secondo proiettile, esploso dall’agente Paone, passeggero della "Volante 10", con traiettoria obliqua a sinistra quando la stessa Volante era in stato di quiete, ferma; non vi sarebbe più stata alcuna resistenza da vincere, cioè il non aver ottemperato all’ordine di fermarsi, poiché la resistenza è stata vinta senza l’uso di armi bloccando il veicolo con la gazzella dei carabinieri: mancherebbe pertanto un presupposto applicativo dell’articolo 53 codice penale dell’uso legittimo delle armi che porterebbe a riconoscere la responsabilità dell’agente se non altro per omicidio colposo; ulteriormente la difesa della famiglia Budroni rileva che nell’imputazione era presente l’articolo 575 del codice penale che punisce l’omicidio, reato per il quale la competenza a decidere andrebbe attribuita alla corte d’assise e non al giudice monocratico qual è quello che ha giudicato i fatti in primo grado; la difesa dei familiari del signor Budroni ha svolto appello avverso la sentenza di assoluzione, così come lo stesso pubblico ministero, e la data della prima udienza del processo d’appello è stata fissata per il prossimo 4 aprile 2016; al di là dell’esito che avrà il processo di appello la stampa segnala sullo stesso caso una ulteriore particolarità: il signor Budroni è stato condannato per altri reati nonostante fosse già deceduto; nel 2010 la magistratura, infatti, avviò un’indagine per rapina, nei confronti del signor Budroni accusato di aver rubato la borsa alla sua ex-compagna, per costringerla a tornare a casa; la borsa è poi stata effettivamente ritrovata in casa dell’uomo, e nel corso della perquisizione è stata rinvenuta anche una carabina ad aria compressa con dei piombini, ed una balestra; l’8 luglio 2013 il signor Budroni viene, quindi, condannato dal tribunale di Roma a due anni e un mese di reclusione per rapina e detenzione illegale di armi; parallelamente il tribunale di Tivoli ha recentemente notificato ai familiari del signor Budroni un decreto di condanna al pagamento di una pena pecuniaria di 150 euro per i medesimi fatti riportati nella sentenza di condanna; il procedimento, svoltosi in aula con rito ordinario, sebbene l’imputato fosse contumace, risulta radicalmente viziato a causa dell’intervenuto decesso, medio tempore, dell’imputato stesso, poiché a norma dell’articolo 69 del codice penale si sarebbe dovuto estinguere il procedimento con sentenza di non luogo procedere ex articolo 129 codice di procedura penale; ai sensi dell’articolo 150 codice penale, la morte dell’imputato è, infatti, causa di estinzione del reato; ci si augura che la magistratura possa fare chiarezza su questa vicenda poiché appare densa di aspetti che meritano un approfondimento maggiore, stanti anche i numerosi dubbi sollevati riguardo alle valutazioni che sono state rese e che hanno determinato la situazione paradossale nella quale una persona ormai deceduta, ed in codeste circostanze, possa essere condannata dallo stesso tribunale, e dallo stesso giudice persona fisica dottor Polella che ha processato per omicidio colposo l’agente che gli ha sparato causandone la morte: se ritenga opportuno valutare la sussistenza dei presupposti per inviare gli ispettori ministeriali presso il tribunale di Roma ai fini dell’esercizio dei poteri di competenza in merito ai fatti di cui sopra. Giustizia: processo Ruby ter, archiviazione per i legali di Berlusconi, Ghedini e Longo di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 7 novembre 2015 Erano accusati di corruzione in atti giudiziari. Archiviata anche la posizione dell’ex europarlamentare di Forza Italia Licia Ronzulli e quella del deputato Valentino Valentini. È stata archiviata la posizione dell’avvocato Niccolò Ghedini, storico legale di Silvio Berlusconi e parlamentare di Forza Italia, che era indagato con un’altra dozzina di persone nell’inchiesta Ruby ter con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, per le presunte false dichiarazioni di alcuni testimoni al processo Ruby. Con quella di Ghedini è stata archiviata anche la posizione di altre 12 persone, tra cui l’altro avvocato di Berlusconi, Piero Longo, l’ex europarlamentare di Forza Italia Licia Ronzulli, il deputato di Forza Italia Valentino Valentini, l’ex viceministro degli Esteri Bruno Archi, il geometra "di fiducia" Francesco Magnano e il padre di Karima El Mahroug. La decisione è del gip Stefania Donadeo su richiesta dei pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio. "Niente prove certe". Pur "avendo raccolto numerosi elementi indiziari che indicano come, forse, in diverse occasioni" i legali Niccolò Ghedini e Piero Longo abbiano "superato il limite imposto dalla deontologia professionale", non si è "giunti all’acquisizione di prove certe", o quanto meno ad "indizi univoci e concordanti" di un "ruolo attivo di concorso in corruzione". Lo si legge nel decreto di archiviazione del gip Stefania Donadeo, che riporta la richiesta dei pm per i due storici difensori di Silvio Berlusconi. La corruzione dei testimoni. Per Berlusconi ed altri, invece, si va verso la richiesta di processo. È attesa per la settimana prossima la presentazione da parte della procura delle richieste di rinvio a giudizio. L’inchiesta ha origine dalle motivazioni delle sentenze di due processi di primo grado: il processo "Ruby" a carico di Silvio Berlusconi (assolto con sentenza passata in giudicato) e il "Ruby bis" a carico di Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Nelle due sentenze il Tribunale rinviò gli atti alla procura perché procedesse per valutare un eventuale condizionamento dei testimoni. L’ipotesi dell’accusa è che siano stati versati circa 10 milioni di euro per corrompere testimoni, di cui 7 alla sola Ruby, dal 2011 al 2015. Tutti gli indagati hanno sempre respinto ogni addebito. L’intervista alla Polanco. Nel decreto di archiviazione si legge che Marysthelle Polanco, una delle più assidue ospiti delle serate di Arcore, ha prima "riferito" in un’intervista ad una giornalista inglese "di contatti con gli avvocati di Berlusconi", e in particolare con Niccolò Ghedini, con tanto di indicazioni sul fatto di rendere falsa testimonianza, e ha poi scritto alla Procura che, però, aveva fornito quella "ghiotta notizia" al solo "scopo di lucro". Le dichiarazioni rese dalla Polanco nell’intervista e acquisite non sono credibili perché, si legge nel decreto, "l’inequivocabile avidità che contraddistingue l’indagata Polanco rende credibile che ci si trovi di fronte ad un ennesimo tentativo di guadagni illeciti". Polanco, tra l’altro, è stata convocata dagli inquirenti per chiarire la situazione, ma vive all’estero e "non si è mai presentata". Per pm e gip, inoltre, non vale come prova nemmeno un messaggio agli atti inviato dalla giovane a Ghedini "con toni alterati e minacciosi", anche perché il legale ha risposto in un modo assolutamente non "compromettente". Le dichiarazioni di Imane Fadil e la lettera di Risso. Nemmeno alcune dichiarazioni della teste-chiave Imane Fadil possono provare il ruolo dei due avvocati, perché la modella ha riferito di "proposte" di Emilio Fede in relazione alla famosa riunione ad Arcore "e di sue congetture", ma "non vi è prova" che Ghedini e Longo "ne fossero realmente al corrente". Sono "insidiose" anche le dichiarazioni dell’agente Francesco Chiesa Soprani e neanche una lettera "indirizzata a Silvio Berlusconi" da Luca Risso, ex compagno di Ruby, dà "elementi certi ed utili ad individuare una responsabilità" dei due legali. E gli incontri di Ghedini e Longo con alcuni degli indagati, tra cui l’avvocato Luca Giuliante, ex legale di Ruby, sono "riconducibili" al loro mandato difensivo, "in assenza di prova contraria". Infine, "non sono emersi elementi probatori - si legge ancora - se non indizianti della mera presenza dei difensori alla riunione" a villa San Martino. Per Ghedini e Longo, dunque, come per le altre 11 posizioni archiviate, il giudice scrive che "sulla base degli elementi acquisiti ed attentamente valutati non appare allo stato utile l’esercizio dell’azione penale né si prospetta l’utilità di ulteriori indagini". Lettere: giustizia per Cucchi, necessità per tutti di Domenico Bilotti politicamentecorretto.com, 7 novembre 2015 È difficile stabilire se l’Italia sia un Paese di scarsa memoria o di grossa ingiustizia. Tendiamo a rimuovere episodi anche percepibilmente gravi dal nostro immaginario e dalle nostre discussioni, ma è arduo comprendere se ciò derivi dalla frequenza di questi episodi (per cui ne diventiamo in qualche modo tacitamente avvezzi) o dalla nostra generica propensione a rimuovere le ferite e le cicatrici - soprattutto, beninteso, quelle altrui. Proprio perché il contesto del dibattito è essenzialmente questo, appare una ottima cosa che Rizzoli pubblichi il toccante volume di Ilaria Cucchi “Vorrei dirti che non eri solo”, dedicato alle tragiche vicende che riguardarono il fratello dell’Autrice e redatto con l’apporto di Giovanni Bianconi. Un volume prezioso proprio perché, accanto alla delicatezza che traspare nel ricostruire il dolore e l’affettività, non c’è spazio per quella pratica del raccontarsi che implica distanziamento dalla verità e dall’analisi e, invece, esclusiva rappresentazione dei propri singolarissimi sentimenti. Nient’affatto: il volume di Ilaria Cucchi potrà anche avere scopo commemorativo e segnare il filo della dolcezza familiare e fraterna, ma il suo contenuto è di quelli che sanno radicarsi nella natura ruvida ed essenziale della fattualità. La storia è nota nei suoi lineamenti. Stefano Cucchi fu fermato nell’ottobre del 2009, a seguito di un atto che parve corrispondere alla cessione di sostanza stupefacente. Di là dall’episodio, quanto si ritrova presso il ragazzo sembrerebbe non giustificare la specificità di un inasprimento cautelare, almeno in riferimento al quantitativo e alla tipologia di sostanze rinvenute. Ragioni di salute rendono il giovane, per altro verso, verosimilmente poco indicato ad una custodia intramuraria: soffre di epilessia, l’indice di massa corporea indica un probabile quanto sistemico stato di malnutrizione (che si aggraverà ulteriormente nel corso della vicenda). Oltre a ciò, si rende presto necessario un ricovero ospedaliero. Nel quale gli sono riscontrate lesioni che non dovrebbero essere compatibili con la fisiologia (?) della custodia: ecchimosi, emorragie, fratture. La famiglia del giovane, dopo la prima udienza, aveva espresso la volontà di potere almeno riscontrare le condizioni fisiche del congiunto. L’esito è, però, di quelli che ricordano le pagine più cupe della narrativa sartriana: l’ultimo “contatto” formale tra i familiari e l’autorità, in merito alla conoscenza delle condizioni fisiche del giovane, è la notifica dell’autorizzazione all’autopsia. Non è questa certamente la sede per rientrare nel merito della vicenda giudiziaria-processuale propriamente detta, anche perché mancano ancora i tasselli conclusivi del controverso episodio. E perché sarebbe a dir poco inavveduto volersi spingere a preconizzare esiti o a smentire quelli, parziali, cui la giurisdizione -a volte opinabilmente- è già giunta nei mesi e negli anni passati. Mette conto, però, di sottolineare che la vicenda di Stefano Cucchi racconta una certa Italia molto, molto, attendibilmente. Non solo perché si sono moltiplicati i riscontri giudiziari che hanno frammentato l’idea stessa di responsabilità, in modo che non si comprende in quale segmento della storia umana debba sorgere una colpa (mentre appare originaria e costitutiva quella della vittima). Ma anche perché le cronache recenti ci riportano troppe pagine di drammi evitabili e per i quali c’è da augurarsi la pacatezza e la costanza dei familiari delle vittime continuino ad essere pari a quelle di Ilaria Cucchi. Ricordiamo, ad esempio, la storia di Federico Aldrovandi e il modo sin troppo violento con cui si è spesso apostrofata la madre del giovane, forse perché “colpevole” di ricercare il “bandolo della matassa”, un fondamento di attendibilità nella morte del giovane -giunta dopo che questi era stato meramente fermato nel 2005. O quella, più recente, dell’ex calciatore Riccardo Magherini, dopo una notte certo convulsa ma che non dovrebbe giustificare la morte, in circostanze e a seguito di colluttazioni ancora da chiarire. Ilaria Cucchi non esemplifica il disagio che viene da storie di questo tipo. Non lo esemplifica, perché in tragedie simili nessun dolore diventa “rappresentativo”: tutti sono parimenti testimoni di un abbrutimento delle condizioni di vita. Non c’è spazio per l’analisi comparativa: quella spetta all’analisi giuridica, sociologica, giornalistica. Ciascuno cercando di fare il proprio lavoro: chi individuando le disfunzioni del singolo caso, chi (e sarebbe ora!) cercando di suggerire e approntare soluzioni normative più eque e rispondenti; chi investigando sul campo il rapporto tra cittadino e forza pubblica, ma forse ancor più la soggezione che segue alla restrizione della libertà; chi facendo informazione senza scandalismi ma anche senza sciatta apologetica. Chi scrive è convinto, senza istituire parallelismi rispetto ad alcuna delle vicende ricordate, che casi simili (e, chissà?, questi tre in particolar modo?) non si sarebbero verificati con: 1-una legislazione più adeguata in materia di sostanza stupefacenti, meglio attenta alla repressione dei gangli centrali del sistema, ma non draconiana a danno del consumatore (che non esce né tutelato, né ravveduto, né convertito); 2-una progressiva decarcerizzazione di tutte le misure antecedenti al giudizio; 3-con un contenzioso giurisdizionale meno schiacciato sulla responsabilità medica (percepita come alternativamente radicabile nell’alveo civilistico o penalistico, ma sin troppo inflazionata e “oscurante” rispetto a tutte le altre, previe, problematiche); 4-con un qualitativamente più avvertito investimento sulla formazione della pubblica sicurezza. In assenza di questi quattro, documentabilissimi, presupposti, rischia di non riuscire a spiegarsi perché quella proposta ragionevole, e pur da precisare -in Italia lasciata sostanzialmente alle rivendicazioni del tifo sportivo, di codici identificativi su caschi e divise venga continuamente rigettata o, peggio, nemmeno presa in considerazione. Il timore di una loro contraffazione non è, forse, del tutto peregrino, ma in altri Paesi sono stati approntati con buon successo, senza che venissero percepiti come svalutativi e denigratori dai loro interessati. Lettere: al giudice piace il giallo di Salvatore Merlo Il Foglio, 7 novembre 2015 Tribunale che vai scrittore che trovi. Da Carofiglio a De Cataldo, non si contano i magistrati prestati alla letteratura. Le indagini nella realtà zoppicano, ma nella fiction tutto si risolve. La dimensione letteraria e la dimensione giudiziaria, due fiamme che si compenetrano per ardere unite. "Leggo di Mafia Capitale, osservo le prime immagini di questo processo così suggestivo, e sempre più mi chiedo se per caso non si sia scatenato un meccanismo di osmosi alla rovescia", dice per esempio Emanuele Trevi, con il tono dello scrittore che coltiva il dubbio, complessa e non sempre vantaggiosa ginnastica di libertà. "Di solito è la realtà giudiziaria che influenza la letteratura poliziesca. Ma nel caso di Mafia Capitale, con questa parola così evocativa, ‘mafià, applicata alla criminalità becera e un po’ spavalda di Roma, all’universo dei grassatori e dei cravattari della suburra, mi chiedo se il procedimento non si sia rovesciato: se cioè non sia la letteratura noir a influenzare la realtà". Il punto di vista è interessante perché come scrisse Carlo Ginzburg in "Miti emblemi spie", il conoscitore d’arte, in questo caso lo scrittore, "è paragonabile al detective che scopre l’autore del delitto sulla base di indizi impercettibili ai più". E allora è forse necessario chiedersi se ci sia un collegamento tra questa suggestione e il fatto che l’Italia pulluli di magistrati, e persino di poliziotti, che scrivono romanzi gialli, che si abbandonano a stupori e riti letterari capaci di attrarre con un fascino proporzionale alla loro verosimile irrealtà. Giancarlo De Cataldo e il romanzo criminale, e poi Gianrico Carofiglio, Domenico Cacòpardo, ma anche i meno noti Targetti, Cannevale, Sottani, Simoni, Stefani, Caringella, dunque il magistrato dell’omicidio Ambrosoli e delle indagini del caso Sindona, e poi il giudice che firmò il mandato di cattura nei confronti di Craxi, fino a Fiorenza Giorgi, il giudice del caso Tirreno power, lei che ha dato alle stampe due libri in pochi anni, ovviamente noir, s’intitolano "La sala nera" e "Morte al Chiabrera". Nel paese che fa l’altalena processuale intorno a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, nell’Italia in cui la verità giudiziaria non esiste e nemmeno le sentenze sono definitive, come a Ustica così a Capaci, come per l’affaire Moro così per la morte del bandito Giuliano, dall’omicidio di Yara Gambirasio ai presunti mandanti del mostro di Firenze, fino ai dubbi su Cogne e Anna Maria Franzoni, molti poliziotti e molti magistrati si consegnano alla letteratura. E non c’è paese al mondo in cui vengano scritti così tanti gialli come in Italia, e non c’è altro paese al mondo che veda gli operatori della giustizia così coinvolti nel destino delle patrie lettere (è anche difficile venire a capo del paradosso per cui l’Italia pullula di magistrati-scrittori mentre il paese nel suo insieme detesta la lettura). "Avete mai provato a fare un rapido calcolo mentale di quanti polizieschi vengono scritti nel nostro paese?", si chiede con allarme Alfonso Berardinelli, uno tra i più autorevoli, severi (e spigliati) critici letterari d’Italia. Risposta: il mercato dei gialli e dei thriller non tascabili, nel 2014, valeva quasi settanta milioni di euro di fatturato, quattro milioni e ottocentomila copie. La metà, all’incirca, sono quelli dei magistrati-scrittori. Ma perché? "Perché l’uomo italiano è uomo espressivo. Purtroppo si vuole esprimere", dice Berardinelli con ironia, "non sta mai dentro i limiti della professionalità. Il nostro è un paese di narcisismi specifici. E poi i magistrati sono diventati delle stelle, come i calciatori, come i grandi giornalisti della tivù, e sono ricercati dagli editori". E Trevi: "Il giallo domina la letteratura perché tutti noi siamo profondamente consolati dall’idea che nella vita ci sia ordine, che tutto sia logico, collegato, spiegabile e che insomma esistano complotti, regie occulte cui tutto si può legare. Nel giallo tutto si tiene. Così nel romanzo criminale di De Cataldo, come nella Mafia Capitale del procuratore Pignatone, che secondo me ha caratteristiche romanzesche". E il fenomeno ha incuriosito persino gli accademici, ha accelerato il metabolismo dei professori universitari, degli storici della letteratura, dei filologi e dei linguisti. Nell’ultimo numero del "Bollettino di italianistica", rivista specializzata dell’università La Sapienza, sulle cui pagine scrivono Tullio De Mauro e Zygmunt Baranski, è comparso un saggio intitolato "Il Rasoio di Occam e i magistrati scrittori di noir", di Elisabetta Mondello: "Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi si affacciano nel mercato editoriale della giallistica e si professionalizzano nuovi soggetti ‘internì al mondo che rappresentano, in quanto amministratori della giustizia. L’elenco è lungo e destinato ad aumentare. Si è persino andato creando un sub genere, interno al noir o al romanzo di detection, che trova modalità espressive comuni dovute all’avere come autore un magistrato". E ovviamente anche per questi autori esiste la paccottiglia dei premi letterari, quelli che secondo Longanesi non bastava rifiutarli ma bisognava anche non meritarli: "premio gran giallo città di Cattolica", "Garfagnana in giallo", "premio Azzeccagarbugli", "nebbia gialla", "giallo all’italiana", fino al singolarissimo "premio letterario scrittori della giustizia", che viene assegnato a Roma, in un circolo canottieri, premio - attenzione, anche di narrativa - la cui giuria è composta da magistrati e avvocati, qualche universitario, ed è presieduta dall’avvocato generale della Suprema Corte di Cassazione (che si chiama "avvocato", ma è il vice del procuratore generale). Obbedienti alla potenza, ma chissà, anche alla precarietà di una moda, sembra che non ci siano poliziotti, giudici o ex giudici, funzionari di stato e di prefettura che in Italia non abbiano nel cassetto un romanzo giallo - anche Carlo Nordio ne ha scritto uno, ma storico, sulla battaglia delle Ardenne, mentre Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, ha sceneggiato le sanguinose vicende della ‘ndrangheta calabrese. Persino l’ex capo della polizia, il defunto e compianto Antonio Manganelli, ha pubblicato un giallo postumo. E per qualche tempo nelle librerie si sono potuti trovare i thriller di Michele Giuttari, l’ex capo della mobile di Firenze, l’uomo delle indagini - molto discusse - sul mostro. Ed ecco in che modo si viene componendo sotto i nostri occhi, stupendamente monocromo, il mosaico. È come se aleggiasse su tutti loro l’antica maledizione di Amintore Fanfani, che non vedeva se stesso come capo politico, presidente del Consiglio, capo corrente della Dc, ma che - ahinoi - si vide sempre e soltanto come pittore. Ma il modello letterario può davvero finire con l’influenzare la realtà? "I libri gialli sono delle grandissime compensazioni, rassicurano perché riconducono tutto a una spiegazione. Sono il contrario di Becket e di Kafka, che sono invece l’assurdo. Il modello letterario del noir impone sempre la ricerca di un secondo livello soggiacente alla realtà dei fatti. Nel noir ci sono sempre una realtà apparente e una realtà nascosta, da svelare", dice Trevi. Eppure, come non si può non riconoscere che un ingegnere quale era Carlo Emilio Gadda abbia saputo giocare con il linguaggio, scombinare e ricombinare parole da sublime e geometrico creatore di strutture narrative, così non si può ovviamente negare ai magistrati la possibilità di scrivere, se sanno farlo. "E il magistrato, per il lavoro che fa, occupa una posizione privilegiata, a stretto contatto con l’umanità, un po’ come il barbiere, se vogliamo: cosa non potrebbe scrivere un barbiere laureato e forte di studi classici!", dice Francesco Anzelmo, editor e direttore editoriale della saggistica Mondadori, lui che i magistrati-scrittori li pubblica e li apprezza. Ma c’è anche devianza, deriva "piritolla", direbbe Pietrangelo Buttafuoco. E un magistrato come Dante Troisi, autore negli anni Cinquanta di "Diario di un giudice", uomo dell’altro secolo che certo mai raggiunse il successo commerciale delle canzonette di Sanremo (o dei libri di Carofiglio e di De Cataldo), lui che abituò gli italiani alla jam session della scrittura, a un registro in cui si affermava l’impegno professionale e civile del giudice sotto la specie di un affetto tormentato, ombroso e severo per la professione, appartiene ormai a un umanesimo desueto. "Sospetto di essere strumento di vendetta, a volte della vendetta di un uomo contro un altro uomo, a volte del cosiddetto stato contro il resto degli uomini, inermi", scriveva Troisi. Oppure: "Ho paura che i miei figli abbiano sangue guasto; alterato dagli errori, dalle condanne, forse anche dalle assoluzioni. Vi penso con vero terrore". E sono le parole di un uomo di spirito allenato all’understatement, un magistrato che fa letteratura e un letterato che fa il magistrato, in punta di coscienza personale e di rigore civile, con ricchezza e complessità sentimentale. Non c’è l’affollamento dei luoghi comuni, la mitificazione e mistificazione, la pretesa del disvelamento e il gusto del mistero. Ma una dimensione intimistica e tormentata. Lo stile è legato alla descrizione di un ambiente, quello giudiziario, e di un fenomeno, non alla spettacolarizzazione del poliziesco, un po’ finzione e un po’ realtà, del giallo e del noir "che oggi sono dei fogliettoni con connotati e accenti sociopolitici", come dice Anzelmo, "storie che intrattengono ma che contemporaneamente hanno anche l’ambizione di svelare. E forse per questo - aggiunge l’editor di Mondadori - in molti casi sono i magistrati a scriverle, queste storie. Poiché in Italia, e non da oggi, i magistrati sono accreditati come gli interpreti della realtà". Ma forse, come spiegano i librai e i distributori, la questione si risolve tutta nella crisi del mercato librario. Si è ristretta la clientela, ci sono meno acquirenti: comprano solo le signore o chi cerca nel libro un appagamento per la propria coscienza pulita, una parvenza d’impegno civile e dunque s’identifica col feticcio. Il lettore non cerca l’otium, ma l’identificazione, e dunque si specchia "nei libri dei magistrati, quelle star dalle quali, a differenza che dai calciatori, ti aspetti il rigore morale", dice Berardinelli, con spietatezza di critico. Così a Catania, per esempio, il lettore comprerà il libro di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, quel saggio-romanzesco che s’intitola "Catania bene": e il suo dovere l’avrà fatto. E più è pittoresco e remoto il luogo di provenienza dell’autore, il fondale su cui si proietta il racconto, come la Puglia di Carofiglio e di De Cataldo, più il meccanismo funziona, con la stereotipata ma ben orchestrata descrizione di un sud (o di una Roma) di desolata e astratta bellezza, spagnolesco e bestiale (la carne di cavallo tra i denti in via Plebiscito a Catania), tutti cardini sicuri di un fascino dove regnano le stranezze di un meridione selvaggio eppure europeo, espresso con disinibizione consumata, un’elegia che talvolta si degrada in bozzetto, eppure va, come succede alla potenza terragna della Calabria, a quella malia ancestrale di capretti sgozzati che nei libri del giudice Gratteri si spalanca sulle luminose vetrate dei grattacieli di Milano: una scenografia capace d’eccitare gli abilissimi editor che molti di questi autori hanno alle spalle, loro che vanno a trovarli, osservano, spesso riscrivono e sempre tendono l’orecchio ai racconti dei loro autori, con la stessa affascinata inquietudine con la quale nel "Gattopardo" il piemontese Chevalley ascoltava dalla voce di Tancredi le truci e macabre storielle di Sicilia, quella del baronetto rapito e restituito a rate "pezzo per pezzo" o quella del parroco avvelenato col vino della comunione. E più Tancredi raccontava, più Chevalley "cominciava a fremere e a domandare". Da qui deriva, da questo illustre antefatto, chissà, il fiorire di fiction, questo cortocircuito mirabile - anche i Ris ci sono cascati, anche i carabinieri che nella triste vicenda di Yara Gambirasio hanno prodotto e consegnato ai giornalisti un falso video che inchiodava il presunto omicida. Tutta una rappresentazione scenica, tutta una fiction. E così pure nella Roma "der Cecato", "der Forfora" e "der Miliardario", non si capisce più dove inizi l’indagine e finisca la letteratura, come dice Emanuele Trevi. "Pignatone, che è un bravissimo magistrato e aveva tutte le carte in mano per fare una grande e necessaria inchiesta su una pericolosa associazione criminale, ha fatto invece qualcosa che pertiene più al romanzo giallo che al meccanismo istruttorio, ha dato unità a quello che Calvino chiamava il labirinto, cioè alla complessità e alla molteplicità di fenomeni che non stanno insieme, al caos fenomenico: lo chiama mafia e compie quasi un’operazione artistica". Che nel racconto pubblico diventa una fabula mirabile, ma senza cosche, senza tritolo, senza omicidi, senza teste di cavallo, ma con la parola mafia - eccola - che sta alla letteratura italiana, al suo povero cinema e alla sua televisione flagellati dai gialli, come il fantasticoso western stava alla vecchia Hollywood. Minchia, la mafia! Lettere: pm e cronisti che complottano contro i politici di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 novembre 2015 I cortocircuiti del circo mediatico-giudiziario sintetizzati in un’inchiesta da Popcorn. Generalizzare non serve a niente, fare di tutta un’erba un fascio quotidiano è un’operazione che lascia il tempo che trova, ma la storia che vi proponiamo è gustosa e mette a fuoco un fenomeno che su queste colonne abbiamo spesso descritto inquadrandolo all’interno della cornice del circo mediatico-giudiziario. C’è tutto qui: rapporti incestuosi tra procure e giornali, conseguenze di un eccesso di potere offerto ai magistrati, procuratore moralizzatore improvvisamente moralizzato, giustizialisti che si travestono da garantisti, garantisti che a loro volta si travestono da giustizialisti, impotenza del Csm, pm che accusano altri pm di utilizzare testimonianze in modo spregiudicato e infine il sospetto che la magistratura si muova per questioni politiche e non giudiziarie. La notizia è questa. Giovedì la procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per il sostituto procuratore di Campobasso Fabio Papa e per il direttore di Telemolise Manuela Petescia. I due sono accusati di aver ricattato il presidente della regione Molise, Paolo di Laura Frattura, e i reati ipotizzati sono: tentata estorsione, tentata concussione, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio. La storia è sublime. Il magistrato Papa era diventato un beniamino del popolo a Cinque stelle in seguito a un’inchiesta aperta contro il governatore Frattura, ex berlusconiano passato due anni fa nel Pd di Renzi. Quell’inchiesta, da poco archiviata, secondo la procura di Bari sarebbe nata per ragioni extra giudiziarie e in particolare "per costringere il presidente ad adottare provvedimenti destinati a garantire il finanziamento, con ingenti somme di denaro pubblico, a Telemolise". Al centro dell’inchiesta della procura di Bari - accusata dai difensori del dottor Papa di muoversi per ragioni politiche e per difendere il governatore - ci sarebbe una cena avvenuta nell’ottobre del 2013 a casa del magistrato. Secondo un atto riportato ieri nelle cronache locali di Repubblica dalla giornalista Conchita Sannino, in quella cena Petescia e Papa (giornalista e magistrato) avrebbero rivolto al governatore (presente alla cena) le seguenti parole (anche se Petescia e Papa smentiscono): "O fai arrivare quei fondi, o ti rovino con le indagini in corso. E con una campagna stampa che ti distrugge la carriera di leader. Tu sai che ti ho messo sotto inchiesta, no? Sai cosa potrebbe uscire?". La storia sarebbe degna di uno sceneggiato non solo per i dettagli che vi abbiamo raccontato o per il fatto che la giornalista (che ha ammesso di aver avuto una storia d’amore con il magistrato con cui è imputata) è la moglie del senatore (Ncd) Ulisse Di Giacomo, subentrato a Berlusconi a Palazzo Madama dopo il decadimento del Cav. La storia vale la pena di essere segnalata anche per raccontare i due pesi e le due misure che esistono nel mondo della magistratura di fronte ai giusti provvedimenti da adottare di fronte a un uomo delle istituzioni rinviato a giudizio. I magistrati eroi del popolo a Cinque stelle insieme con i loro amici giornalisti ci hanno insegnato che un politico indagato e sputtanato con mille schizzi di fango è un politico già condannato dal tribunale del popolo e che per questo non ha alcun diritto di rimanere nel suo ruolo. Un magistrato che si ritrova con un rinvio a giudizio scopre però che nel suo mondo le regole sono più flessibili e anche se si viene rinviati a giudizio con l’accusa di tentata estorsione, tentata concussione, abuso d’ufficio, il massimo che il Csm riesce a fare non è allontanare il magistrato ma è semplicemente cambiargli luogo di lavoro. Così è andata per Papa, oggi non più a Campobasso ma magnificamente al lavoro nella procura di Chieti. Chi porta i popcorn? Emilia Romagna: la Garante "bene internet per i detenuti, ma verificare l’attuazione" Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2015 L’auspicio di Desi Bruno, la figura di Garanzia dell’Assemblea legislativa, è che "si possa arricchire il percorso trattamentale della popolazione detenuta, pur nel rispetto delle esigenze di sicurezza". La indicazioni contenute nella circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che regolamenta la possibilità di accesso a internet da parte dei detenuti "non si possono che registrare positivamente, rappresentando un primo passo verso l’apertura all’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche", ma sarà necessario "verificare che tipo di attuazione troveranno nelle singole realtà penitenziarie". A sostenerlo è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che cita a proposito l’esempio del decreto del Presidente della Repubblica del 2000 che aveva aperto all’utilizzo della strumentazione informatica: "Nella pratica le autorizzazioni in tal senso da parte delle direzioni sono state più che eccezionali, anche nella nostra realtà regionale", sottolinea la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa In ogni caso, l’auspicio della Garante è che queste nuove opportunità "possano arricchire il percorso trattamentale della popolazione detenuta, pur nel rispetto dell’esigenze di sicurezza", anche perché, ricorda, "le Regole penitenziarie europee del 2006 hanno affermato che il trattamento penitenziario deve avvicinarsi il più possibile alle condizioni di vita, di organizzazione del lavoro e di studio delle persone libere". La circolare in questione, prosegue Bruno, prevede che detenuti e internati possano utilizzare l’accesso a internet "per sviluppare percorsi trattamentali complessi, valorizzando le esperienze innovative di telelavoro, formazione e didattica già realizzate in alcuni istituti penitenziari". Importante anche il passaggio che "invita le strutture penitenziarie in cui sono collocati detenuti comuni a implementare l’utilizzo di strumenti di comunicazione audiovisiva per favorire il mantenimento delle relazioni familiari". In ogni caso, specifica Bruno, nel nuovo modello "sarà prevista, in funzione delle specifiche esigenze legate ai percorsi trattamentali individuali, la navigazione su siti selezionati sulla base di convenzioni, accordi e contratti stipulati con i soggetti esterni che offrono opportunità trattamentali, prevedendo in ogni caso modalità di accesso guidate e sicure verso i siti previsti". Inoltre, "le limitazioni poste all’infrastruttura di rete consentiranno al detenuto di consultare esclusivamente i siti per i quali è stato autorizzato e le postazioni saranno collocate nelle sale comuni dedicate alle attività trattamentali, anche per agevolare il controllo da parte degli operatori" e "viene consigliata la presenza di un tutor di sostegno durante l’attività, formato dagli operatori specializzati ministeriali". Infine, assicura Bruno, "non tutte a tutte le tipologie di detenuti sarà consentito di accedere a internet, ma solo ai detenuti dei circuiti a custodia attenuata e media sicurezza" mentre "sono esclusi i detenuti in regime ex art. 41bis e per quanto riguarda i detenuti del circuito dell’alta sicurezza le direzioni valuteranno caso per caso". Toscana: per il Tribunale di sorveglianza l’Opg di Montelupo è "fuorilegge", serve Rems quotidianosanita.it, 7 novembre 2015 Accolto il ricorso firmato da 47 internati ospitati dalla struttura che doveva chiudere lo scorso 1 aprile e trasferire i detenuti. Ma la Regione è in ritardo. Da qui l’ordine dei giudici: "Entro tre mesi il presidente della giunta ponga rimedio al pregiudizio e adotti i necessari provvedimenti". L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo è "fuorilegge". Lo ha stabilito il Tribunale di sorveglianza accogliendo un ricorso firmato da 47 detenuti internati nella struttura che, per legge, avrebbe dovuto chiudere lo scorso 1 aprile. Gli internati avrebbero dovuto essere trasferiti già da tempo nelle Rems, ma la Regione è in ritardo. Pur avendo individuato la sede della Rems nell’ex manicomio di Volterra, di fatto non è pronta per il trasferimento dei pazienti. Da qui l’ordine dei giudici: "Entro tre mesi il presidente della giunta ponga rimedio al pregiudizio e adotti i necessari provvedimenti". "La Regione Toscana viola la legge sulla pelle dei malati psichiatrici, che continuano a restare nell’Opg di Montelupo nonostante la sua chiusura fosse prevista per lo scorso 1 aprile. Sette mesi di ritardo ingiustificato che adesso è stato condannato anche dal Tribunale di Sorveglianza e per cui la Regione meriterebbe il commissariamento sul tema Opg, così come previsto dal piano nazionale di superamento di queste strutture". Così la parlamentari di Sel Marisa Nicchi e Alessia Petraglia commentano la notizia della condanna. "È da anni - aggiungono Nicchi e Petraglia - che il Governo chiede alla Regioni di chiudere gli Opg. Eppure, nonostante tutto questo tempo, la Toscana non si è ancora attrezzata per un serio superamento di queste strutture ormai anacronistiche. Adesso, senza perdere ulteriore tempo prezioso, vanno aperte immediatamente le Rems e qui vanno trasferiti i pazienti psichiatrici, che stanno subendo i ritardi della politica continuando a vivere in condizioni legalmente inadeguate". "Il ritardo - concludono - è reso ancor più grave dal fatto che difficilmente si potrà immaginare di superare gli Opg con un tocco di bacchetta magica. Occorre avviare un lavoro lungo di coinvolgimento delle realtà del territorio, creando percorsi e strutture incentrate sulla cura e sul reinserimento dei detenuti". Calabria: il Consigliere Esposito "la sede del Prap a Lamezia? solo frasi di circostanza" Ansa, 7 novembre 2015 "Ritengo necessario ed utile soffermare l’attenzione, ancora una volta, sulla irrisolta vicenda della avvenuta chiusura della casa circondariale di Lamezia Terme e dell’allocazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, originariamente confermato a Catanzaro e improvvisamente dirottato verso la città della Piana". È quanto afferma, in una nota, il consigliere regionale Sinibaldo Esposito. "Anzitutto - prosegue Esposito - si impone una considerazione: il carcere lametino, che è un istituto pregevolissimo anche dal punto di vista storico ed architettonico era uno dei pochi, in Italia, ad essere stato ristrutturato ed adeguato, da meno di dieci anni, agli standard previsti dall’ordinamento penitenziario e risultava pertanto assolutamente idoneo ed adeguato all’utilizzo. Tuttavia, dopo anni di sovraffollamento (finanche, negli anni 2013 e 2014, con il 172% dei detenuti in più rispetto alla capienza: 80 rispetto ai 30 previsti), su decisione del Provveditore Regionale, ancor prima dell’emanazione di un decreto ministeriale (intervenuto soltanto un anno dopo), i 51 detenuti ristretti sono stati trasferiti verso altri istituti e l’istituto penitenziario è stato dismesso ed a nulla sono servite la lunga astensione dalle udienze degli avvocati della Camera Penale di Lamezia, la costituzione del comitato lametino "Riapriamo il carcere di Lamezia" e l’aperta contrapposizione dell’Amministrazione comunale di Lamezia Terme, anche condivisa dal Procuratore della Repubblica e dal presidente del Tribunale". "A questo punto della vicenda - prosegue il consigliere regionale - si innesta l’altra problematica, relativa alla collocazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, individuata, nella Legge 395/90, nella città di Catanzaro (ipotesi ribadita nel "Regolamento di organizzazione del ministero della Giustizia e la riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche" approvato nel Consiglio dei ministri dello scorso 27 marzo 2015). All’uopo, il Sindaco di Catanzaro ha formulato diverse offerte di concessione in comodato a titolo gratuito, di prestigiosi immobili. Purtroppo, dispiace dover amaramente constatare che nessun auspicio favorevole, per una idonea e rapida risoluzione della vicenda, pare essere venuto neanche in occasione della recentissima visita in Calabria del Ministro della giustizia Orlando che, in occasione di una conferenza stampa, pur rispondendo a svariate domande sulla situazione della giustizia a Lamezia, peraltro con fumose promesse (nuovo organico, bando per tirocinanti, costituzione di un ufficio per il processo) - che ben vengano ma per ora sono soltanto mere ipotesi - ha invece replicato in maniera approssimativa agli interrogativi relativi alle questioni della riapertura del carcere e della sede del Provveditorato penitenziario, che sono quanto mai attuali. Ciò induce a constatare come, ancora una volta, quando c’è di mezzo la Calabria, si preferisca utilizzare frasi fatte e di circostanza, o perché non si conoscono le reali problematiche o perché si vuole evitare di assumere impegni che si sa già che non verranno mantenuti". Lodi: allarme tubercolosi in carcere, due detenuti sono stati ricoverati in ospedale di Carlo D’Elia Il Giorno, 7 novembre 2015 I risultati delle analisi arriveranno entro lunedì mattina e intanto le guardie indossano mascherine e guanti di lattice. Due casi sospetti di tubercolosi nel carcere di Lodi. Sono stati effettuati ieri mattina gli esami strumentali per riuscire a chiarire la vicenda, e i primi risultati sono attesi già entro lunedì mattina. Intanto però cresce inevitabilmente la paura tra le mura della casa circondariale di via della Cagnola, dopo che due detenuti, entrambi originari dell’Est, hanno iniziato ad accusare i primi malori sospetti. Da una primissima analisi, i sintomi sembrerebbero effettivamente riconducibili a una forma di tubercolosi polmonare, i cui tratti sono difficilmente confondibili: dolore al petto, tosse che si accompagna talvolta all’emissione di sangue e febbre. Per questo le prime visite dei medici del carcere e dello staff medico dell’ospedale Maggiore non hanno potuto escludere la possibilità di contagio. Già ieri mattina allora tra le celle del carcere sono state prese le prime misure di sicurezza per tutelare gli agenti di polizia penitenziaria che sono entrati in contatto con i detenuti infetti. Chiunque sia entrato nelle stanze contaminati, anche per i controlli di routine, è stato quindi costretto ad indossare mascherine e guanti in lattice. E la fase degli accertamenti è appena iniziata. L’obiettivo? Prima di tutto capire se effettivamente si tratta del bacillo di Tbc. Nel frattempo i controlli sugli altri detenuti continueranno anche stamattina e domani. Per il momento infatti si tratta solo di un sospetto, ma in questa fase non si può escludere nessuna diagnosi, visti e considerati anche i sintomi manifestati dai due detenuti. I due giovani intanto sono stati condotti in ospedale per gli accertamenti del caso: si tratta di un semplice test cutaneo, capace però di svelare con certezza se si tratti o meno di tbc entro un massimo di 72 ore. Nessun ricovero quindi, almeno per ora. La diagnosi fortunatamente è tanto più efficace quanto più è precoce, con ripercussioni positive sia per la guarigione del soggetto colpito, sia per la prevenzione del contagio di altre persone. Importante è anche il controllo dei contatti, basato sul monitoraggio periodico delle condizioni di salute dei soggetti venuti a stretto a contatto con il malato di tubercolosi. Parma: detenuto tenta suicidio in carcere, 23enne ricoverato in rianimazione all’ospedale parmatoday.it, 7 novembre 2015 Nella giornata di ieri, 5 novembre, verso le ore 9.30 un detenuto avrebbe tentato il suicidio ingerendo un’ingente quantità di psicofarmaci. Ora il giovane si trova ricoverato in Rianimazione al Maggiore. Ennesimo caso di tentato suicidio all’interno delle mura del carcere di massima sicurezza di Parma, in via Burla. Le informazioni a disposizione sono ancora poche: quello che si sa è che nella giornata di ieri, 5 novembre, verso le ore 9.30 un detenuto avrebbe tentato il suicidio ingerendo un’ingente quantità di psicofarmaci. Il giovane marocchino di 23 anni è stato soccorso dagli altri detenuti, poi l’intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria. I soccorritori del 118 lo hanno trasportato all’Ospedale Maggiore di Parma, dove si trova ricoverato nel reparto di Rianimazione in condizioni giudicate molto gravi. Nel 2012 fu registrato il caso del suicidio di Stefano Rossi e il tentato suicidio del boss Bernardo Provenzano. Modena: preoccupazione del Consiglio comunale per la situazione di tensione in carcere sassuoloonline.it, 7 novembre 2015 Il Consiglio comunale esprime preoccupazione per la situazione di tensione all’interno della Casa circondariale Sant’Anna e chiede di intraprendere un percorso di conoscenza e approfondimento della situazione, possibilmente nell’ambito della Commissione consiliare competente, coinvolgendo la Direzione della struttura, i rappresentanti della polizia penitenziaria, e le associazioni di volontariato e del terzo settore che sviluppano progetti in carcere. Nella seduta di giovedì 5 novembre, l’Aula ha infatti approvato all’unanimità l’ordine del giorno presentato da Pd, Per me Modena e Sel, e illustrato dalla consigliera Pd Grazia Baracchi, sulla situazione all’interno della Casa Circondariale Sant’Anna. Il documento chiede inoltre che "ci si attivi per rendere possibile una visita all’interno della struttura da parte dei membri della Commissione consiliare e dei capigruppo", se non lo svolgimento della stessa Commissione in loco, invita l’Amministrazione a sollecitare "il Csm a designare il magistrato di sorveglianza di Modena" e a inviare l’ordine del giorno anche ai parlamentari modenesi. La mozione evidenzia infatti la situazione di sotto organico in cui versa la struttura e l’acuirsi della tensione all’interno del carcere, con "risse, episodi di violenza e tentati suicidi", sottolineando come l’assenza del magistrato di sorveglianza renda i tempi delle richieste per permessi lunghi e incerti, con conseguente aumento della situazione di disagio. Cuneo: detenuto evade da clinica psichiatrica "è socialmente pericoloso" Il Gazzettino, 7 novembre 2015 È caccia all’uomo in tutto il Piemonte per la fuga di un detenuto da una clinica psichiatrica di Bra, nel Cuneese. Piergiacomo Azzalin, 32 anni, era arrivato da poco nella struttura San Michele. Faceva parte di un gruppo di detenuti degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari, diciotto in tutto, che la Regione ha destinato alla clinica braidese. Poche ore ed è svanito nel nulla, senza che nessuno se ne accorgesse. È ritenuto "socialmente pericoloso" e l’allerta delle forze dell’ordine è massima. L’evasione nelle stesse ore in cui, dall’altra parte d’Italia, l’ergastolano Fabio Perrone, 42 anni, è fuggito da un ospedale di Lecce dove avrebbe dovuto essere sottoposto ad alcuni accertamenti sanitari. Azzalin, originario di Pavone Canavese, nel Torinese, numerosi precedenti alle spalle, tra l’altro per uso di sostanze stupefacenti, guida in stato di ebbrezza e altri reati minori, ha approfittato di una finestra aperta, senza inferriate, e ha fatto perdere le sue tracce dopo avere scavalcato un cancello di diversi metri. Nonostante la giovane età, la sua carriera criminale sembra essere già ricca di esperienze. Nel 2008, per ritorsione nei confronti della madre che non gli aveva dato le chiavi dell’ auto, aveva aperto il gas e provocato un’esplosione in casa che, oltre a causare ingenti danni, lo aveva ferito. Ustioni e abrasioni che non gli avevano però impedito di tentare la fuga. La polizia lo aveva intercettato, e fermato, alla stazione di Ivrea, gli abiti imbevuti della sostanza infiammabile utilizzata per innescare la devastante deflagrazione. A dare l’allarme, oggi a Bra, lo stesso personale della clinica, che ha fatto scattare le ricerche delle forze dell’ ordine. Da una prima ricostruzione, è probabile che anche in questo caso Azzalin abbia raggiunto la vicina stazione ferroviaria per allontanarsi il più velocemente possibile, confondendosi tra gli studenti e i pendolari che frequentano abitualmente i treni. L’identikit dell’evaso è stato diffuso a tutte le unità operative, i controlli sui treni sono stati rafforzati e sono stati istituiti numerosi posti di blocco in tutto il Piemonte. Brindisi: tra Provincia e carcere rinnovata la convenzione per l’attività di volontariato fasanolive.com, 7 novembre 2015 Questa durerà 24 mesi e permetterà, grazie alla legge 94/2013, di ospitare i detenuti per attività di volontariato a titolo gratuito. Con decreto del presidente della Provincia di Brindisi, Maurizio Bruno, del 4 novembre scorso, l’Amministrazione provinciale - su richiesta della direzione della Casa circondariale di Brindisi - ha rinnovato la convenzione con il carcere di Brindisi, della durata di 24 mesi, per ospitare detenuti per attività di volontariato a titolo gratuito. Ciò è stato reso possibile sia per l’entrata in vigore della legge 94 del 2013, con cui gli Enti pubblici possono ospitare detenuti per attività di volontariato, sia perché la Provincia di Brindisi, tra i propri servizi, svolge anche quello di favorire il reinserimento lavorativo di soggetti appartenenti a fasce deboli, tra cui ex detenuti, e quello dell’attività di sostegno alla persona nei vari contesti della vita, come immigrazione, disoccupazione, povertà, disabilità e detenzione. Roma: "governare la penalità", a Giurisprudenza lezione in ricordo di Massimo Pavarini coreonline.it, 7 novembre 2015 Il Dipartimento di Giurisprudenza di Roma Tre ha ospitato una lezione in memoria del penalista e criminologo bolognese. Mercoledì 4 novembre nell’ambito del corso "Diritti dei detenuti e costituzione - sportello legale nelle carceri" tenuto dal Prof. Marco Ruotolo e dal Dott. Patrizio Gonnella si è tenuta una lezione in memoria di Massimo Pavarini, penalista e criminologo, professore ordinario di diritto penale all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna scomparso nel settembre scorso a causa di un male incurabile. A ricordarlo dall’aula 3 di Giurisprudenza erano presenti: Stefano Anastasia, sociologo e filosofo del diritto, ricercatore presso l’Università di Perugia, tra i fondatori dell’Associazione Antigone e già Presidente di questa; Tamar Pitch ordinario di filosofia del diritto sempre a Perugia; Mauro Palma attualmente vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) nonché presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale del Consiglio d’Europa; Eligio Resta filosofo del diritto e ordinario proprio nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre; Luigi Ferrajoli giurista e accademico, uno dei principali teorici del garantismo penale; Livio Ferrari giornalista, da anni volontario in carcere e esperto in questioni penitenziarie. Nato nel 1947, Massimo Pavarini negli anni Settanta si avvicinò al tema dell’esecuzione penale. Giovanissimo è stato co-autore, insieme a Dario Melossi, di "Carcere e Fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (1977)", uno studio sul sistema penitenziario di impronta marxista in cui viene proposta una lettura economico-politica delle fondamenta dell’istituto detentivo. Massimo Pavarini e Dario Melossi facevano parte entrambi di quel gruppo di studiosi che fondò la rivista "La Questione Criminale" - ancora attiva, dopo essere diventata "Dei delitti e delle pene", sotto il nome di "Studi sulla questione criminale". Insieme hanno curato e tradotto l’edizione italiana di "Pena e struttura sociale" di Georg Rusche e Otto Kirchheimer - collaboratori della Scuola di Francoforte - opera del 1939 che il Mulino pubblicherà in Italia per la prima volta nel 1978. È Luigi Ferrajoli a ricordare come Massimo Pavarini si sia avvicinato con coraggio al carcere in un momento in cui questo era considerato dall’Accademia tutta come un tema non nobile di riflessione. La teoria della pena era allora ignorata, subiva un vero e proprio "bando di esclusione" dalle Università. Pavarini ha disegnato un progetto teorico, epistemologico, per una scienza giuridica integrata, offrendo una visione della questione penale a tutto tondo, che sapesse, cioè, andare al di là della pura teoria giuridica e della normatività. Da penalista è stato sì un teorico della pena e del sistema sanzionatorio, ma ha integrato le sue ricerche arricchendole con un punto di vista sociologico e criminologico, con un’attenzione al tema del controllo sociale, portando avanti una critica radicale al sistema penale tradizionale, alle sue istituzioni e anche al tema della cultura d’emergenza. Eligio Resta ha parlato, riferendosi alla teoria di Pavarini, di un modello integrato di scienza del diritto penale; la sua era una descrizione sul carcere mai isolata: una critica che andava ad indagare "il dentro", l’istituzione carceraria, per comprendere "il fuori", la società tutta. Era una posizione di critica radicale nei confronti dell’ideologia correzionalistica come ha rievocato Mauro Palma. Stefano Anastasia ha ricordato come il pensiero di un teorico come Pavarini abbia rivestito un’insostituibile centralità per la stessa nascita di un’associazione come Antigone, nonostante il suo scetticismo di fondo circa la possibilità di rivendicare concretamente dei diritti per i detenuti. Negli anni Novanta Massimo Pavarini ha dato vita a un pioneristico lavoro di analisi sulla domanda di sicurezza sociale che non avrebbe più conosciuto, fino ai nostri giorni, un’inversione di tendenza. Vedeva con preoccupazione l’incremento nel senso comune della paura e dell’incertezza circa l’incolumità personale e dei propri beni. Temeva, vista la corrispondenza con le prime elezioni dirette dei Sindaci (1993), che il tema della sicurezza potesse essere cavalcato a fini elettorali e esacerbata la percezione del rischio con intenti demagogici. È Tamar Pitch a ricordare meriti e limiti del lavoro di Pavarini nell’ambito del progetto "Città sicure" (ora Forum città sicure), promosso in collaborazione con la Regione Emilia Romagna. L’obiettivo che si poneva Pavarini era quello di depotenziare il rischio repressivo che si celava dietro il concetto di sicurezza e per farlo era convinto che si dovesse decostruire questa domanda di sicurezza che sembrava provenire dai cittadini. È di Massimo Pavarini la prefazione del libro di fresca uscita di Livio Ferrari "No prison: ovvero il fallimento del carcere" (2015). Un libro abolizionista, di riflessione sull’inutilità dell’istituto della pena detentiva. Questo libro è un manifesto che vuole denunciare come la realtà dentro il carcere sia caratterizzata esclusivamente dalla violenza, dalle torture e dalla morte. E Massimo Pavarini era convinto che le prigioni fossero dei luoghi da chiuderle. È il contesto stesso da cui promana la legittimazione del diritto di punire a essere cambiato. È necessario per questo ricostruire un nuovo paradigma del diritto di punire che trovi radici profonde nel rispetto della dignità delle persone e dei diritti dei detenuti e delle detenute. È la moglie Pirca, compagna di una vita, medico e da sempre convinta della necessità di una riflessione sul rapporto tra medicina e sofferenza e dell’irragionevolezza della sopportazione del dolore, a concludere la giornata. "La pena si infligge, come il dolore. Non vi è ragione perché si debba intenderla come una restituzione di sofferenza. L’atto del delinquere comporta una frattura nel tessuto sociale. È necessario dunque ricomporre questa frattura, ma per farlo è necessario trovare un modo che non comporti sofferenza e dolore. Questo è il messaggio di Massimo". Sondrio: "Un piccolo carcere di una grande valle", lezione all’Università Milano-Bicocca La Provincia di Sondrio, 7 novembre 2015 Ieri mattina nell’ateneo milanese si è parlato dei progetti e del legame del penitenziario con la città. L’esperienza del carcere di Sondrio al centro di un incontro all’Università Bicocca di Milano. "Un piccolo carcere di una grande valle" il titolo dell’intervento, con partecipazione di Stefania Mussio, direttore della Casa circondariale di Sondrio, don Ferruccio Citterio, cappellano, Maria Antonietta Tavere, educatrice, Paolo Pomi presidente della Cooperativa Ippogrifo, e Krickic Bosco, detenuto. "Da tempo collaboro con l’Università statale Bicocca di Milano, in particolare con le professoresse Silvia Buzzelli e Claudia Pecorella che si occupano di procedura penale europea e diritto penale - spiega Stefania Mussio. Ogni anno volentieri cerco di far conoscere la realtà in cui lavoro e le questioni importanti che riguardano l’esecuzione della pena per chi ha commesso un reato nel nostro Paese. Mi è sembrata una buona occasione, quest’anno, quella di presentare la realtà sondriese e mi è sembrato importante valorizzare uno degli aspetti più significativi: le relazioni positive tra operatori interni ed esterni, soprattutto laddove impegnati per il recupero sociale di chi ha sbagliato e sta scontando una pena e la grande laboriosità nell’avviare e sostenere i progetti che il nostro dipartimento promuove". "Ho trovato la realtà di Sondrio vivace, seria e operosa -prosegue Mussio. Una realtà territoriale sino ad ora partecipe e solidale. Il carcere di Sondrio è un piccolo istituto nel cuore della città e proprio per questo al suo interno la comunità detentiva può contare su una particolare attenzione delle diverse professioni. È un ambiente complicato, in cui ruotano dinamiche ed equilibri difficili". Ma proprio le difficoltà spesso mettono in moto risorse e desideri inconsueti, che possono motivare esperienze molto positive. "Il lavoro di tutti premette a Sondrio ad esempio di poter consentire l’incontro tra persone detenute e i propri animali di affezione - spiega. Ed ancora tre detenuti hanno appena terminato tre mesi di lavoro all’esterno nella raccolta di mele guidati e sostenuti da una cooperativa del territorio; altri hanno appena terminato sotto gli occhi vigili di due collaboratrici e di un volontario la ristrutturazione della palestra ed ora si stanno adoperando per costruire una libreria per la biblioteca che deve essere riavviata". "Il nostro sforzo - conclude Mussio - deve essere quello di essere garanti della costituzione, dei diritti e della dignità dell’uomo e in questo non ci si sente soli ma pienamente dentro alla comunità, al territorio". Firenze: i ragazzi dell’ambone "dal leggio per il Papa salirà la nostra rinascita" di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 7 novembre 2015 Hanno cominciato perché quassù non si può stare con le mani in mano, e una volta arrivati in questa villa sontuosa immersa in un parco che da decenni, sotto la guida di Zaira Conti, accoglie giovani e bambini "con disagio", si viene subito spediti a far qualcosa. Per Claudio Orsi Battaglini, 34 anni, Salvatore Riccobono, 17, Niccolò Tartarini, 20, e Fabrizio, 16, il "percorso di recupero" prevedeva il laboratorio di falegnameria, "che all’inizio ci è sembrata un’attività qualunque, da fare e basta" raccontano. All’inizio. Perché poi, nel giro di un mese, un impegno di routine è diventato il luogo, polveroso, rumoroso, e misteriosamente sacro, di una svolta. Eccolo lì l’ambone bianco, verde e marrone, che richiama le forme del Battistero, l’ottagono aperto sul retro e sul davanti il profilo di una spada, simbolo, ha spiegato l’arcivescovo Betori, "della parola del Signore che incide nella vita", e del "taglio sempre possibile con un passato sbagliato". "Una definizione che mi piace", dice Claudio, "il passato non va buttato tutto, ma dal peggio bisogna avere il coraggio di prendere le distanze". Fra pochi giorni, il 10 novembre, alla messa di papa Francesco allo stadio Franchi, è da quell’ambone che saranno letti in mondovisione i brani delle sacre scritture, "e a costruirlo siamo stati noi", dice Salvatore. Loro, i ragazzi di villa Lorenzi cosiddetti "senza rotta" solo perché si pensa che la rotta della vita sia una sola, ma senza i quali, adesso, l’evangeliario d’argento e seta appoggerebbe su un anonimo leggio non all’altezza del compito. "Quasi non ci crediamo" dicono, aggirandosi intorno all’opera in noce, castagno, e rame, già montato, e che lunedì verrà portato via, destinazione stadio. Un distacco che sarà doloroso: questo ambone è molto più che un’opera di falegnameria qualsiasi, "ogni chiodo piantato, ogni piallata, ogni verniciata, ce le ricorderemo a vita", dice Claudio, e non a caso sotto il ripiano in noce del leggìo ci sono le loro firme, più quelle di Niccolò Bazzani, il maestro di laboratorio, e di Francesco Boni, l’operatore che li segue. Come in un registro delle presenze, per lasciare detto io c’ero, autografi nascosti in un regalo speciale. Da tempo Villa Lorenzi offre attività di restauro e falegnameria, per finanziare la sua attività e insegnare un mestiere ai ragazzi, "ma mai avremmo pensato di fare qualcosa per un Papa, anzi, per questo Papa", dice Claudio, "né praticante né credente" ma "contento di fare qualcosa per lui". "Lo ammetto" dice anche Salvatore, "fosse stato per quello di prima, il tedesco, non l’avrei fatto così volentieri", ma Francesco "ha qualcosa di speciale, è semplice e parla anche a me che non credo". Tutti, il 10, saranno allo stadio, in prima fila, a pochi metri dal ‘lorò ambone, e dai detenuti che hanno costruito l’altare (come l’ambone progettato dall’architetto Riccardo Damiani), a pannelli bianchi e verdi e con in più una serie di colonne, simbolo delle sbarre del carcere, dentro cui si staglia una croce. Anche a Sollicciano la speciale commessa ha portato una nuova emozione. A scegliere chi avrebbe dovuto occuparsene, spiega il cappellano don Vincenzo Russo, è stata l’area educativa, in base ai requisiti dei detenuti, e alla fine a mettere mano agli arnesi, con la guida di Franco Panchetti, pensionato ex falegname e volontario, sono stati Francesco, 51 anni, e Lofti, 45 anni, tunisino, tutti e due definitivi con benefici, secondo il gergo carcerario. "Lavorare per un papa che, invece di qualche frase di circostanza", nota don Russo, "dice ai carcerati io vi porto nel cuore, è stato ben più che svolgere un compito obbligatorio: è stato come parlargli, confidargli sofferenze e speranze". Cosa che Lofti e Francesco, insieme ad altri detenuti, avevano già fatto in una lettera a Bergoglio, in cui gli chiedevano di incontrarli durante la visita a Firenze. Tappa impossibile, visti i tempi ristretti della giornata, ma la risposta non è stata di circostanza, "e questo ha davvero aperto nuovi orizzonti: ora sappiamo che questo Papa può fare molto per questo mondo". Così, adesso tutti sperano in un incontro ravvicinato durante la messa del 10, a cui assisteranno seduti, con don Vincenzo, a pochi metri da lui: "Far fare un altare è un passo, ma non basta" dice il cappellano, "per cambiare la condizione disumana del carcere serve impegno concreto che un Papa, con tutto il suo peso, può sollecitare alla politica. Se vuole, il 10 Francesco si avvicini ai detenuti, e posi loro una mano sulla spalla: sarebbe un segno". Torino: favole di detenuti ai figli, oggi premiazione del concorso al carcere di Vallette Adnkronos, 7 novembre 2015 Con la proclamazione dei vincitori si conclude questo pomeriggio "Le favole di Artaban" il primo concorso nazionale di racconti scritti da detenuti di tutta Italia ai loro figli e nipoti. L’iniziativa è stata promossa dalla Onlus torinese Artaban, in collaborazione con il Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. In occasione della premiazione, al carcere torinese delle Vallette, verrà presentato il volume "Al di là delle sbarre, una storia" che raccoglie una selezione di circa 40 elaborati, tra premiati, finalisti ed altri ritenuti particolarmente significativi. Nel corso dell’incontro, inoltre, è prevista una lettura interpretativa della novella prima classificata, a cura delle attrici Margherita Fumero e Clara Droetto e di Leonardo Donati della Gipsy Musical Academy. "Il premio - sottolinea Santi Consolo, capo del Dap- rappresenta un ottimo esempio di condivisione di valori tra volontariato ed amministrazione, che valorizza il ruolo della cultura nei percorsi di risocializzazione e di consapevolezza delle persone detenute". Firenze: Tim Robbins racconta suo progetto di riabilitazione in carcere La Presse, 7 novembre 2015 Il regista e attore Tim Robbins, è intervenuto oggi alla prima sessione della seconda giornata di "Unity in Diversity", forum a Palazzo Vecchio che raccoglie 80 sindaci di 60 Paesi per discutere di integrazione e pace. Robbins, impeccabile in giacca e cravatta, ha raccontato l’esperienza "The prison project" nata dopo le riprese del film "Dead man walking" e l’incontro con Sorella Helen Prejean. "Proprio suor Helen - ha raccontato Tim Robbins - mi ripeteva che ogni uomo vale di più di qualsiasi errore commesso. Negli Stati Uniti c’è poca comprensione per i criminali ed il sistema carcerario è fallimentare. 7 prigionieri su 10 quando escono dal carcere tornano a commettere reati, spesso si drogano. Ho pensato allora di coinvolgere alcuni artisti nel "The prison project" ed andiamo nelle carceri a fare teatro. Creiamo gruppi che lavorano per otto settimane con i detenuti. Lavoriamo, attualmente, in sei istituti penitenziari, anche con i minori". "Ci sono ragazzi timidi, alla prima esperienza con il teatro, che grazie al nostro progetto riescono ad aprirsi, a comunicare" ha raccontato ancora Robbins. "Negli istituti dove lavoriamo c’è stata una netta riduzione di forme di violenza. L’arte è una necessità per la società. Non è frivolezza. Invece quando c’è da risparmiare sui conti, la cultura è sempre quella che subisce i tagli maggiori. Non si pensa che è meglio spendere 100 dollari per fare teatro nelle carceri invece di spenderne migliaia per mantenere i detenuti in cella. Bisogna correggere chi sbaglia senza violenza. Come ha detto il premio Nobel Shirin Ebadi dobbiamo combattere con i libri e non con le bombe" ha concluso. Stracci e cartoni a San Pietro, le notti dei disperati di Roma di Fabrizio Roncone Corriere della Sera, 7 novembre 2015 In ottomila dormono all’aperto in città Ai Fori, in stazione e sotto il colonnato dove il Papa manda il suo elemosiniere. Il mucchio di stracci e di coperte tarlate e unte, si muove. Spunta una mano tremante che sposta la scatola di cartone e, lateralmente alla scatola di cartone, compare il volto assonnato di un uomo. "Scusi, che ora è?", domanda con naturalezza e un lieve accento calabrese. Sono le 3. "Ah… allora un altro paio d’ore posso ancora dormire". Ha la pelle olivastra e un sorriso mite, odontoiatria anni sessanta, capsule metalliche e ponti tenuti da ganci: fa ciao con la mano e, come una tartaruga, ritrae la testa dentro lo scatolone, riparandosi dal riverbero giallo dei lampioni che illuminano questo porticato e la targa in ottone su cui è scritto: "Sala Stampa della Santa Sede". Altre sette persone giacciono una accanto all’altra. È possibile intuire che si tratti di uomini. Ma colpisce che vicino all’ultimo giaciglio ci siano due grossi orsacchiotti di peluche marrone. I peluche e poi, in successione, in fondo al porticato, si staglia nella notte la magnificenza della piazza di San Pietro, dove il prossimo 8 dicembre si aprirà il Giubileo straordinario che papa Francesco ha voluto con un tema centrale forte e attuale: la Misericordia. Proprio ciò che sembra chiedere questa popolazione cenciosa e disperata, venuta ad accamparsi intorno e addirittura dentro lo Stato Pontificio. Il Santo Padre però sa, è a conoscenza di questi fantasmi che, al sorgere del sole, raccoglieranno i loro fagotti e spariranno. E così spedisce spesso qui il suo elemosiniere, l’arcivescovo Konrad Krajewski. Egli arriva con il suo furgone e, aiutato dai volontari della Guardia Svizzera Vaticana, distribuisce scatole di biscotti e latte, e poi olio, pane, pasta. Non solo: laggiù, in via dei Penitenziari, lo scorso 7 ottobre è stato inaugurato, sempre per volontà di papa Francesco, anche un dormitorio, che può ospitare fino a 34 uomini, e che è gestito dalla suore di Madre Teresa. Chi non entra, resta fuori. Con il fotografo Claudio Guaitoli e il cameraman Emanuel Paliotta andiamo a fare un giro di perlustrazione dentro il Colonnato del Bernini e il tassista che ci vede muovere - il gomito appoggiato sul tettuccio della sua Fiat Cinquecento, un tono tra il rassegnato e l’amareggiato - commenta: "Troverete decine di fagotti immobili. Dormono ovunque qui e dormono ovunque anche nelle strade e dentro le altre piazze di Roma. Pure lì, su via della Conciliazione… Guardate bene…". È vero: in via della Conciliazione, sotto le panchine di marmo, altri poveri, altri senzatetto: mentre su, negli attici giganteschi - per citare la metafora usata da papa Francesco in queste tremende ore di corvi e di sospetti - è lecito immaginare ronfino i faraoni. Sono le 3 e mezza. È l’orario giusto, ci ha detto Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio, per avere un colpo d’occhio completo su questo gigantesco accampamento a cielo aperto che è diventata la notte della Capitale d’Italia. D’Angelo e gli altri volontari li abbiamo incontrati alle 21, davanti all’ingresso principale della stazione Termini. Distribuivano panini e frutta. Ma anche parole d’affetto, strette di mano, carezze. Sugli appunti restano parole così. Costantino, un disabile poliomelitico, dice che si sente meglio e che se continuano queste temperature miti, sarà un buon inverno. Adina, un’anziana signora di origini marocchine, ha gradito molto le polpette di carne, che aspettava dal mattino, da quando s’è svegliata. Francesco è convinto che uno di questi giorni vincerà tre milioni al "Gratta e Vinci" e allora potrà finalmente comprarsi un aereo e andarsene su Giove. Solitudine, follia, disperazione. La popolazione è complessa: oltre ai tradizionali barboni, ci sono immigrati sbandati e i nuovi poveri italiani come Sergio, che faceva il ragioniere in una piccola azienda, una vita non agiata ma una vita, finché poi ha perso il lavoro, ha divorziato e allora è venuto giù tutto. "Per favore, dica al cameraman di non riprendermi… Non voglio che mia figlia sappia che mangio e dormo qui". Molti di loro, compresi i volontari della Comunità di Sant’Egidio, hanno paura che, nelle prossime settimane, possa finire come alla vigilia dell’ultimo Giubileo, nel Duemila: "Per dare un’immagine decorosa della città, ci fecero allontanare dal centro". Stavolta sarà dura. Sono almeno ottomila le persone che dormono all’aperto. E sono ovunque. In via Marsala ne abbiamo contate venticinque. I giardini di Colle Oppio, a giudicare dal movimento di ombre tra gli alberi e i cespugli, e dal confluire continuo di persone con fogli di cartone sotto al braccio, sono popolati come un piccolo villaggio. Alle 4, poco più giù, in via dei Fori Imperiali, ecco un povero disgraziato steso sul marciapiede. Più avanti, risalendo via Miranda, una stradina pensile tra le più suggestive del pianeta - la via Sacra a pochi metri, laggiù il Colosseo e, voltando lo sguardo tra le tenebre, il Foro Romano - ecco addirittura una sorta di bivacco. In tre sono rannicchiati sotto il celebre balcone di Palazzo Venezia e altri due, a cento passi, sotto le insegne della Cassa di Risparmio di Ferrara. Piazza San Silvestro: ne contiamo tre e un altro arriva spingendo una carrozzina colma di vettovaglie. A duecento metri, le vie più eleganti e, giusto all’angolo tra via Belsiana e via dei Condotti, c’è un tipo barbuto seduto in cima a una piccola scalinata: lentamente, con gesti di spontanea eleganza, s’infila prima i calzini di lana, e poi lo zuccotto. Leggero inchino della testa. "Con il vostro permesso… Buonanotte, signori". Troppo pericoloso scendere le scalette del Lungotevere. Il buio è fitto. Troppo facile andarli a cercare a Ponte Sisto (lì, dormono anche di giorno). Poi, dietro Palazzo Borghese, quello che genialmente s’è creato una specie di monolocale: una tendina e, davanti, per proteggere la sua privacy, due grossi vasi di fiori. Cinque ore in giro e abbiamo dovuto ignorare le grandi periferie e tutte le altre stazioni ferroviarie: Ostiense, Tiburtina, Trastevere. Tra una sosta e un appostamento, è stata sorprendente anche la lettura di questa piccola guida pubblicata dalla Comunità di Sant’Egidio, con gli indirizzi per i senzatetto su dove poter mangiare e dormire - non casuale il soprannome di "Michelin dei poveri" - una lettura che fornisce la sensazione d’una rete importante di sostegno tra associazioni, volontari, diaconi e suore, e però anche un dato che toglie il fiato: su 334 parrocchie, solo due sono organizzate per ospitare i senzatetto. Sono le 5, non c’è altro. A parte una sensazione come di rimorso, di imbarazzo, perché abbiamo un letto caldo che ci aspetta. Stalking, la persecuzione ai giorni nostri di Susanna Fara e Eleonora De Nardis eurispes.it, 7 novembre 2015 Il significato del termine stalking letteralmente indica l’inseguimento furtivo di chi sta dando la caccia a una preda ed etimologicamente deriva dal verbo inglese to stalk con l’accezione di fare la posta, braccare, cacciare in appostamento, mutuato dal linguaggio venatorio. Il primo a dare una definizione di stalking, nell’accezione odierna fu Meloy (1998) che definì lo stalking come un comportamento ostinato di ossessivo inseguimento o molestia nei confronti di una persona che quindi si sente minacciata, mentre secondo Tjaden e Thoennes (1998) lo stalking si riferisce generalmente al comportamento molesto o minaccioso che un individuo adotta in maniera ripetitiva, come il seguire una persona, comparire all’improvviso in casa sua o nel suo posto di lavoro, compiere molestie telefoniche, lasciare messaggi scritti o oggetti, o danneggiare le proprietà della vittima. Insomma, si tratta di un fenomeno affatto recente, quello della persecuzione psicologica, della molestia verbale e delle minacce, ma che solo da pochi decenni ha trovato la giusta collocazione nella coscienza collettiva e negli ordinamenti giuridici di molti paesi che hanno iniziato a perseguirlo come reato. In un modo o nell’altro è la storia di qualcuno, per esempio minacciato, seguito, assillato dal proprio ex, da un amante, da un amico, da un collega o un datore di lavoro o semplicemente da uno squilibrato che ha scelto una persona qualsiasi (per noi) e l’ha identificata come oggetto del desiderio quindi da "possedere". Va sottolineato che la maggior parte delle persone sottovalutano l’importanza di molti episodi, magari per la fiducia che ripongono nell’autore di certi gesti, scambiandoli per un eccesso di interesse; così come va posta l’attenzione sulla scarsa "attitudine" a denunciare le persecuzioni. Se nello svolgimento, la storia ha diverse sfumature tutte plausibili e più o meno dolorose e compromettenti, il finale, invece, potrebbe avere, come spesso capita, un epilogo drammatico. Dallo stalking al femminicidio il passo è facile? Se questi due fenomeni siano due facce della stessa medaglia non è possibile stabilirlo aprioristicamente, dal momento che sono molte le variabili, misurabili e non, da dover osservare. Vero è che molti dei fatti di cronaca parlano di tragedie annunciate, di storie di donne che non avevano dato seguito ad atteggiamenti persecutori subiti o che invece li avevano denunciati con forza, ma sono rimaste inascoltate. L’Eurispes ha affrontato il fenomeno dello stalking sondando in maniera diretta e indiretta, l’effettiva proporzione di un fenomeno dilagante. Un crimine che ha trovato espressioni ancora più violente con l’utilizzo delle nuove tecnologie in una società iperconnessa, e che sempre più spesso viene perpetrato all’interno dei social network, Facebook in testa. Il 7,5% degli intervistati è stato vittima di stalking. Un dato tendenzialmente in linea con quanto rilevato nella precedente indagine, realizzata nel 2014 (9,9%). Proiettando sulla popolazione dai 18 anni un su, i risultati di quanti, secondo le due rilevazioni, hanno subìto stalking si giungerebbe ad un valore numerico indicativo, ma comunque impressionante, della portata di questo fenomeno: dai 4 ai 5 milioni di persone. Questi risultati dimostrano che, anche se sta crescendo la consapevolezza delle donne rispetto al tema della violenza sia fisica sia psicologica, denunciare non è facile. Tanto meno lo è per gli uomini - anch’essi coinvolti in qualità di vittime - che sono ancora più culturalmente riluttanti nel denunciare. Il dato Eurispes proiettato sulla popolazione stride fortemente con quello delle denunce raccolte nel corso degli ultimi anni, proprio perché il reato non viene segnalato nella maggior parte dei casi. Il Ministero dell’Interno ha infatti reso noto che, dall’entrata in vigore della legge 38/2009, al luglio 2014 sono state 51.079 le denunce per stalking, nel 77,6% ad esserne vittima è stata una donna. Nell’ultimo anno, dal 1° agosto 2013 al 31 luglio 2014, il numero delle denunce è stato pari a 10.703, vittime anche in questo caso soprattutto le donne (78%), con un andamento in crescita rispetto all’anno precedente (9.116 denunce, di cui il 77,3% effettuate da donne). Gli ammonimenti del questore sono stati 1.125, gli allontanamenti 189, i divieti di avvicinamento 5.890. La quota di chi è stato colpito da episodi persecutori è lievemente superiore tra i più giovani dai 18 ai 24 anni (9,8%); seguono a breve distanza i 35-44enni con l’8,9% dei casi, i 45-64enni (8,4%), e i 25-34enni (7,7%). A distanza si collocano gli over65 con una quota del 3,8%. A riferire con maggiore frequenza di essere stati vittima di stalking sono gli abitanti del Nord-Est (uno su dieci) e del Centro (9,2%). Al livello di istruzione raggiunto sembra correlarsi una maggiore diffusione del fenomeno, probabilmente perché chi ha un’istruzione superiore ha una diversa consapevolezza e quindi meno timore ad ammettere fatti che spesso provocano nella vittima angoscia o vergogna. Sono soprattutto le persone separate o divorziate ad ammettere di essere state "stalkerizzate" (19,7%). Questa è sicuramente una delle categorie più esposte al fenomeno poiché, nella maggior parte dei casi, la fine dell’unione coniugale comporta strascichi e attriti, difficoltà nel gestire la separazione, ma anche e soprattutto nell’accettarla. Stalking: gli osservatori indiretti. Quando invece è stata posta una domanda indiretta, "non sensibile" come la precedente e quindi con un tasso di risposta atteso più elevato,il numero di quanti hanno affermato di conoscere qualcuno rimasto vittima di stalking arriva fino al 20,1%. Questo significa che 2 intervistati su 5 hanno avuto conoscenza, anche se indiretta, di casi di stalking. Il dato resta in linea con quanto rilevato nel 2014, quando questa percentuale si attestava al 20,9%, a riconferma della portata effettiva del fenomeno. Le regioni alle quali appartengono quanti hanno potuto osservare da vicino, attraverso l’esperienza di amici, parenti, colleghi o conoscenti, comportamenti persecutori di persone terze sono soprattutto quelle del Centro (23,5%) e del Nord-Est (23,4%). India: caso marò, c’è il tribunale arbitrale "Girone torni subito in Italia" Gazzetta del Mezzogiorno, 7 novembre 2015 Un nuovo passo nella lunga vicenda dei marò e nello scontro giuridico tra Italia e India. Con la nomina dei cinque giudici del Tribunale arbitrale internazionale, annunciata oggi dalla Corte permanente di arbitrato dell’Aja che lo ospiterà, la procedura può entrare nel vivo. E la prima mossa del governo italiano sarà quella di riproporre la richiesta "urgente" di far rientrare Salvatore Girone in patria, bocciata ad agosto dal Tribunale sul diritto del mare di Amburgo. Solo due giorni fa, in occasione della festa delle Forze Armate, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva ribadito il "pieno sostegno" ai due fucilieri di Marina, ritenuti da New Delhi responsabili dell’omicidio di due pescatori indiani al largo del Kerala il 15 febbraio 2012. Nella stessa occasione il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, aveva annunciato la costituzione della Corte arbitrale, cui mancava solo l’ufficialità dei nomi dei giudici che la compongono. Insieme agli arbitri italiano Francesco Francioni e indiano E Chandrasekhara Rao, indicati dai rispettivi Paesi, sono stati nominati "dopo consultazioni tra le parti" - riferisce una nota della Corte dell’Aja - il coreano Jin-Hyun Paik, il giamaicano Patrick Robinson e il russo Vladimir Golitsyn, in qualità di Presidente. Il Tribunale "intende ora tenere una prima riunione" con Italia e India per "discutere il quadro procedurale e il calendario per le osservazioni scritte e orali", prosegue il comunicato senza tuttavia precisare quando questo avverrà. Subito dopo la sentenza del 24 agosto del Tribunale del mare, che ha in parte riconosciuto le richieste italiane, la Corte suprema indiana ha intanto sospeso tutti i procedimenti giudiziari sul caso "fino a nuovo ordine", e fissato un’udienza per fare il punto sulla situazione al 13 gennaio 2016. Ieri mattina Massimiliano Latorre, ancora alle prese con i postumi dell’ictus che lo ha colpito ormai più di un anno fa in India, ha partecipato, in una delle sue rare uscite pubbliche dopo la malattia, alla cerimonia di cambio al vertice del Comando marittimo Sud nella sua città, Taranto. "La vostra dignità, il vostro coraggio morale ha aiutato l’immagine dell’Italia in tutto il mondo. E di questo la Marina, in primo luogo, vi è estremamente grata", ha detto rivolgendosi a lui l’ammiraglio di squadra Giuseppe De Giorgi, capo di Stato Maggiore della Marina militare. E gli ha successivamente assicurato che "la vicenda è costantemente al centro dell’attenzione, sia del governo che di tutto il sistema politico nazionale". Iran: galoppa l’economia, buio per i diritti di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 7 novembre 2015 L’accusa standard è "propaganda anti-regime". Il primo Kentucky Fried Chicken (Kfc) ha aperto i battenti a Tehran mentre il presidente degli Usa, Obama, dopo colloqui con aziende e banche, ha annunciato il via al piano di cancellazione delle sanzioni internazionali contro l’Iran per il suo programma nucleare, in seguito all’accordo raggiunto a Vienna lo scorso luglio. L’economia iraniana è in fermento, si intensifica il via vai di delegazioni straniere, turisti e nuovi investimenti, mentre il presidente Hassan Rohani sarà in visita in Italia i prossimi 14 e 15 novembre. Non solo, Tehran finalmente è stata invitata al tavolo negoziale per risolvere la grave crisi siriana e ha assunto un ruolo centrale sul terreno dopo i raid russi delle scorse settimane. Eppure queste aperture senza precedenti in politica estera, hanno effetti ben diversi in politica interna. L’Iran sta attraversando un’ondata di arresti paragonabile solo ai mesi seguenti le proteste studentesche del 1999, all’onda verde del 2009 e alla manifestazione del febbraio 2011 in piazza Azadi. Fatemed Ekhtesari, ostetrica, e Mehdi Mousavi, medico e poeta, sono stati condannati a nove e undici anni di carcere e 99 frustate per "propaganda contro lo stato". Una delle principale colpe dei due sarebbe stata di aver stretto la mano in pubblico a persone del sesso opposto non appartenenti alla loro famiglia. Rischia sei anni e 233 frustrate il documentarista kurdo, Keywan Karimi, per le accuse di blasfemia di cui ci ha parlato in un’intervista al manifesto. Nonostante le promesse dopo il caso Ghavami, le donne iraniane ancora non possono liberamente entrare allo stadio e nei campetti sportivi. Nei giorni scorsi è accaduto nel torneo di pallavolo maschile durante il match Iran-Usa. Secondo alcune attiviste iraniane, citate da Human Rights Watch, tre giorni prima della partita è stato impedito a molte donne di acquistare i biglietti. Non solo, il governo iraniano ha proibito all’attrice Sadaf Taherian di continuare a recitare perché ha postato sui social alcune foto senza hejab. Il cittadino iraniano-americano, Siamak Namazi, è stato arrestato al suo rientro in Iran mentre faceva visita ai familiari perché impegnato nel rafforzamento delle relazioni tra Washington e Tehran. Mentre resta in carcere il corrispondente del Washington Post in Iran, Jason Rezaian. Non è cambiato proprio nulla per le autorità conservatrici iraniane dopo l’intesa di Vienna, da una parte, la Guida suprema Ali Khamenei continua, come al solito, a motteggiare gli Usa, dall’altra, l’Iran ha cancellato la sua partecipazione alla Fiera del libro di Francoforte per l’invito tedesco recapitato a Salman Rushdie, lo scrittore iraniano, condannato a morte con una fatwa del 1989 per i suoi Versi satanici. Sorte anche peggiore tocca alla stampa. Cinque giornalisti, tra cui Issa Saharkhiz, ex capo Dipartimento stampa del ministero della Cultura, e Ehsan Mazandarani, direttore del quotidiano Farhikhtegan, sono stati arrestati con l’accusa di essere legati a una "rete vicina a governi ostili". Secondo l’agenzia Tasnim, tra gli arrestati ci sarebbero anche i reporter Saman Sarfarzaee e Afarin Chitsaz. Rischierebbe poi di essere impiccato ad horas, il predicatore sunnita, Shahram Ahmadi, accusato di legami con gruppi salafiti e di omicidio. Il 27 dicembre scorso è stata eseguita la condanna a morte contro suo fratello, Bahman, e prima di loro altri sei sunniti sono stati uccisi. Secondo lo sheykh, la condanna è arrivata esclusivamente perché sunnita. Nella regione a maggioranza arabo-sunnita del Kuzhestan, sono state represse varie manifestazioni anti-regime negli ultimi mesi. Infine, 15 missili, lanciati dai quartieri ovest di Baghdad, hanno ferito e ucciso oltre 26 membri del gruppo di dissidenti iraniani, rifugiati in Iraq, Mujahedeed e-Khalq. Medio Oriente: Obama ammette la sconfitta con israeliani e palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 novembre 2015 Prima dell’incontro che avrà alla Casa Bianca con Netanyahu, il presidente Usa ha fatto sapere che un accordo israelo-palestinese non sarà a portata di mano negli ultimi mesi del suo mandato. Barack Obama getta la spugna. Prima dell’incontro che avrà la prossima settimana alla Casa Bianca con il premier israeliano Netanyahu, ha fatto sapere, attraverso i suoi collaboratori, che un accordo israelo-palestinese non sarà a portata di mano negli ultimi mesi del suo mandato. Il presidente, hanno spiegato fonti della Amministrazione Usa, ha elaborato "una valutazione realistica" della situazione in Medio Oriente. È l’ammissione di una sconfitta dopo i tentativi inutili dell’Amministrazione di avvicinare Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen. L’ultimo, tra il 2013 e l’anno scorso, ha avuto come protagonista il Segretario di Stato John Kerry. Di fatto è l’annuncio che da oggi fino all’elezione del nuovo presidente, gli Stati Uniti non metteranno in campo altre iniziative per portare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative. Più tutto perù è il riconoscimento di un fallimento, del quale è responsabile in prima persona lo stesso Obama che, pur avendone le possibilità, non ha voluto andare oltre la "sacralità" dell’alleanza con Israele, sempre e comunque, anche quando le politiche di occupazione, la negazione del diritto dei palestinesi ad essere liberi e la linea del pugno di ferro degli ultimi tre governi israeliani guidati da Netanyahu danneggiano gli interessi americani. Ha scelto di non andare oltre il conflitto personale, in alcuni periodi molto acceso, avuto in questi anni con il premier israeliano al quale non ha imposto il rispetto delle leggi internazionali, specie sulla questione della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Obama non ha reagito neppure quando Netanyahu, lo scorso 3 marzo, lo aveva umiliato intervenendo davanti al Congresso Usa contro l’accordo sul nucleare iraniano che l’Amministrazione Usa si accingeva a siglare con Tehran. A conti fatti la voce grossa Obama ha saputo farla solo con i palestinesi, in più di un’occasione, smentendo il contenuto del suo discorso all’Università del Cairo che aveva lasciato immaginare non uno stravolgimento ma almeno un cambiamento parziale della politica statunitense nella regione. Giunto all’ultimo scorcio del suo secondo mandato, il presidente Usa sembra interessato solo a uscire dalla Casa Bianca certo di non aver rotto neppure un bicchiere quando si è dovuto occupare di Medio Oriente. Il suo incontro con Netanyahu, lunedì alla Casa Bianca, ricorda quello di un padre che chiede di comportarsi bene al figlio ben sapendo che le sue raccomandazioni cadranno nel vuoto. Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Ben Rhodes, ha spiegato che al premier israeliano sarà chiesto di rinnovare l’impegno per la "soluzione dei due Stati", ossia per l’indipendenza palestinese. "È nostra convinzione - ha detto Rhodes - che la soluzione dei sue stati sia l’unica via per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Per raggiungere una pace e una sicurezza che durino nel tempo, dando ai popoli israeliano e palestinese quella dignità che meritano". Le solite frasi scontate che mai risolveranno la questione palestinese che, invece, richiede solo l’applicazione del diritto internazionale. Da parte sua Netanyahu a Washington darà qualche vaga assicurazione - sul terreno comunque il suo governo procede in un’altra direzione - e Obama lo ricompenserà rassicurandolo su Siria e Iran. Il presidente Usa prenderà in considerazione anche la richiesta israeliana per un pacchetto di aiuti militari statunitensi prolungato nel tempo per cinque miliardi di dollari l’anno, quasi il doppio di quello abituale. E Obama, per dimostrare a fine mandato che la sua politica non è mai stata anti-israeliana, come lo accusano i Repubblicani e una parte delle forze politiche in Israele, potrebbe dare il suo pieno appoggio all’approvazione del Congresso, peraltro scontata, per un aumento dell’aiuto annuale. Netanyahu in ogni caso festeggia. Obama tra un anno sarà fuori gioco e al suo posto potrebbe ritrovare una grande amica di Israele, la democratica Hillary Clinton. Ancora meglio andrebbero le cose, se a vincere le presidenziali Usa sarà uno dei candidati repubblicani che fanno a gara nel dichiararsi alleati fedeli di Israele. Uno dei favoriti a vincere le primarie, Donald Trump, un paio di giorni fa, lanciando un’offensiva senza precedenti in campagna elettorale, ha assicurato che in politica estera "Proteggerà Israele e taglierà la testa all’Isis". Sull’incontro alla Casa non peseranno le affermazioni fatte su Facebook da Ran Baratz, in attesa di diventare responsabile per conto del governo Netanyahu delle relazioni con i media, che descrivono Obama come un antisemita e insultano John Kerry. "Quelle frasi sono totalmente inaccettabili e non riflettono le mie posizioni o le politiche del governo di Israele", ha assicurato Netanyahu. Stati Uniti: arrestati due agenti, hanno ucciso un bimbo durante un inseguimento La Repubblica, 7 novembre 2015 È successo a Marksville, in Lousiana. I poliziotti hanno aperto il fuoco contro la vettura guidata dal padre del bambino. Questi è stato raggiunto da 5 colpi alla testa e al torace. Ferito gravemente anche l’uomo che era disarmato. Nuova bufera sulle forze di polizia negli Stati Uniti: due agenti della Louisiana sono stati sospesi dal servizio e arrestati con l’accusa di omicidio dopo che hanno sparato contro un’auto uccidendo un bambino autistico di sei anni e ferendo gravemente il padre che era alla guida durante un inseguimento. In base alle prime ricostruzioni, una pattuglia di "marshals", funzionari del comune che operavano part time con compiti di polizia, ha inseguito la vettura guidata dal 25enne Chris Few martedì sera e, quando la vettura si è infilata in un vicolo cieco, due agenti hanno fatto fuoco. Il bambino, Jeremy Marder, è stato raggiunto da cinque colpi alla testa e al petto ed è morto. Gli agenti di Marksville, un paesino di 5mila anime, avrebbero fatto fuoco nonostante l’uomo, che sembra fosse ricercato, non avesse armi addosso o nell’auto. Il capo della polizia della Louisiana, Mike Edmonson, ha smentito una prima versione secondo cui aveva tentato di fare retromarcia con il suo Suv per andare contro l’auto della polizia. Edmonson ha riferito che esiste un video dell’inseguimento: "sono le immagini più inquietanti che abbia mai visto e non voglio aggiungere altro", ha dichiarato in una conferenza stampa. Il bambino " Non meritava di morire così ed è questo ciò che conta", ha aggiunto. La morte di Jeremy Mardis è destinata a rinfocolare le accuse alla polizia di brutalità, dopo nelle ultime settimane c’erano stati già diversi episodi, da New York al South Carolina. Gli agenti arrestati si chiamano Norris Greenhouse e Derrick Stafford. Le medievali carceri femminili del Brasile agccommunication.eu, 7 novembre 2015 Il numero di donne nelle prigioni del Brasile è cresciuto del 567,4 per cento in 15 anni, da 5601 unità nel 2000 a 37.380 nel 2014, secondo un rapporto pubblicato il 6 novembre dal ministero della Giustizia brasiliano. Il ministro della Giustizia Jose Eduardo Cardozo ha definito la situazione "medievale". Un simile tasso di crescita, ben al di sopra dell’aumento del 119 per cento del numero di tutti i detenuti, fa volare il Brasile al quinto posto a livello internazionale in termini di carcerazione femminile, dietro solo agli Stati Uniti, 205.400; alla Cina, 103.766; alla Russia, 53.304; e alla Thailandia, 44.751. Le carceri brasiliane detenevano complessivamente 579.781 persone nel giugno 2014. La maggior parte delle donne nelle carceri del Brasile ha un’età compresa tra i 18 e i 29 e quasi due terzi di loro sono di origine africana. Il sessanta per cento dei detenuti di sesso femminile scontano condanne per reati legati alla droga, contro il 25 per cento dei detenuti maschi. Delle 1.420 prigioni studiate, solo 103 erano esclusivamente per le donne, mentre altre 238 ospitavano detenuti di entrambi i sessi, anche se in ali separate. Solo il 34 per cento delle carceri per le donne in Brasile ha celle adattate per i detenuti in stato di gravidanza. Il sovraffollamento è un problema importante nelle prigioni del Brasile, che ospitano 607.730 detenuti in un sistema con una capacità nominale per soli 376.669 detenuti. Marocco: graziati 4.215 detenuti in occasione dell’anniversario della marcia verde Nova, 7 novembre 2015 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha firmato un decreto di grazia per 4.215 detenuti presenti in diverse carceri del paese nordafricano. Secondo quanto ha annunciato l’agenzia di stampa marocchina "Map", che riprende una nota del ministero della Giustizia di Rabat, "in occasione del 40mo anniversario della marcia verde, considerata come una pietra miliare per la coesione nazionale e la storia del paese, il monarca ha accettato di concedere la grazia a 4.215 prigionieri, 215 dei quali detenuti nelle provincia meridionali del paese". Quest’anno Mohammed VI si recherà in visita a Laayoune, capoluogo delle province del sud del paese, in occasione dell’anniversario della marcia con la quale nel 1975 circa 350 mila civili marocchini con bandiere e copie del Corano hanno marciato nelle regioni del Sahara spingendo i militari spagnoli che occupavano la regione a ritirarsi. Medio Oriente: rilasciato detenuto palestinese dopo sciopero della fame di 65 giorni Nova, 7 novembre 2015 Le autorità israeliane hanno rilasciato Mohammed Allan, il detenuto amministrativo palestinese protagonista nei mesi scorsi di uno sciopero della fame durato 65 giorni per protestare contro le detenzioni senza processo. Il suo rilascio è giunto in seguito alla conclusione del periodo ordinario di detenzione. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", Allan è stato rilasciato ieri in serata ed è stato subito condotto all’ospedale di Tulkarem per verificare le sue condizioni di salute e in seguito ricondotto dalle autorità nella sua di Einbabus, villaggio situato a sud di Nablus, in Cisgiordania. Al suo rilascio Allam ha ringraziato la popolazione palestinese per il sostegno di questi mesi sottolineando: "Questo dimostra che il popolo palestinese è un popolo che non dimentica i suoi figli e sostiene i prigionieri". Allan, 33 anni, è stato arrestato un anno fa con l’accusa di avere legami con il gruppo estremista Jihad islamico. Dopo aver passato sei mesi in carcere le autorità hanno deciso di estendere il periodo di detenzione. In seguito a tale situazione l’uomo ha dato il via ad uno sciopero della fame della durata di 65 giorni che ha causato al suo corpo profondi danni a livello fisico e neurologico. In seguito alle condizioni di salute l’Alta corte israeliana ha deciso di congelare la misure di detenzione amministrativa contro Allan, che nel frattempo si trovava nel centro medico Barzilai di Ashkelon. Tuttavia una volta terminata la degenze ospedaliera il capo del comando centrale dell’esercito israeliano, Roni Numa, ha disposto un nuovo provvedimento per rinnovare la sua detenzione.