Giustizia: "l’isola rei reclusi", a Bancali il carcere durissimo per 90 super-boss di Lirio Abbate L’Espresso, 6 novembre 2015 Padrini di mafia, camorra, 'ndrangheta. Trasferiti senza clamore in una struttura speciale sarda. Dove vivranno in pochi metri, collegandosi solo in videoconferenza. Ecco il nuovo 41 bis. È il primo carcere pensato e realizzato per applicare la legge sui boss detenuti sottoposti al 41 bis, il duro regime riservato ai più pericolosi criminali mafiosi. È una struttura in cemento armato inaugurata due anni fa che si spalma su decine di ettari di terreno nelle campagne della frazione di Bancali a otto chilometri da Sassari, intitolata a un agente della polizia penitenziaria, Giovanni Bacchiddu, ucciso nel 1945 mentre tentava di fermare un’evasione. È destinata a diventare l’incubo di padrini e gregari, perché di carceri così non se ne erano mai viste in Italia. Non sono certo i tempi di Asinara e Pianosa, ormai solo un triste ricordo, ma il "Bacchiddu" ne ha perfezionato la struttura. Tutto è moderno: spazi e celle sono stati riprogettati rispetto ai locali angusti dove all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio vennero rinchiusi i "dannati", i primi boss a cui fu applicato il 41 bis. Un provvedimento che per i mafiosi diventò la "condanna delle condanne", spingendo numerose gure di primo piano verso la collaborazione con la giustizia. Ci sono voluti 23 anni per ottenere una struttura come questa creata attorno al 41 bis. L’operazione avviata a giugno dalla direzione generale del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria), guidata da Roberto Piscitello, si è conclusa in gran segreto solo poche settimane fa con il trasferimento di 90 detenuti provenienti dalle carceri di massima sicurezza della penisola. Sono i mafiosi più pericolosi d’Italia, selezionati tra i 750 reclusi in regime di carcere duro dai magistrati di tutte le direzioni distrettuali antimafia coordinati dal procuratore nazionale Franco Roberti. I boss sono stati condotti in Sardegna uno alla volta, a distanza di settimane l’uno dall’altro. Spostamenti segreti, usando velivoli messi a disposizione dalla Guardia di Finanza e dalla polizia di Stato per arrivare all’aeroporto di Alghero. Lì cortei di furgoni blindati hanno scortato i reclusi no ai cancelli della sezione "incubo" del Bacchiddu. Il primo è stato Leoluca Bagarella, il padrino corleonese, cognato di Totò Riina, un sanguinario che portò con il suo atteggiamento violento e crudele al suicidio della moglie che lo accompagnava durante la latitanza a Palermo. È stato sistemato in una cella che, come le altre, è di dodici metri quadrati. Negli spostamenti interni però non attraverserà lunghi corridoi su cui si trovano altre celle e altri detenuti. Qui tutto è stato progettato per ridurre al minimo i contatti tra i reclusi e la possibilità di comunicare con l’esterno. È una sorta di alveare. Le celle sono divise in blocchi, in cui si possono affacciare solo quattro detenuti: quelli che trascorrono insieme l’ora d’aria in un piccolo cortile attiguo. Non solo. Accanto a ogni cella c’è una stanzetta per i video collegamenti con le aule giudiziarie: da lì assisteranno ai processi in cui sono imputati o parleranno con i loro avvocati. Il loro mondo finisce lì: tutta la vita avverrà in poche decine di metri. È un cambiamento radicale rispetto alle prigioni utilizzate oggi. Bagarella se ne è reso conto subito e ha cominciato a protestare, nel solito modo violento che conosce. La stessa sorpresa che ha accolto gli altri 89 detenuti, convinti di venire sottoposti a un trasferimento di routine e invece finiti dietro i cancelli del Bacchiddu. Non sapevano, e forse non sanno ancora oggi, di far parte della più grande comunità mafiosa italiana che concentra in una sola struttura capi e sicari di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Una super cupola. Il Dap ha disposto la loro divisione in venti "gruppi di socialità", composti da quattro detenuti, accuratamente scelti per evitare commistioni o legami criminali. È una svolta. Nel corso degli anni le maglie del 41bis si erano lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire gli. Poi nel 2009 c’è stata la svolta, almeno per quanto riguarda l’aspetto penitenziario. Un articolo del testo di legge ha riportato rigore nella reclusione: "I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari". È da questa legge che si è arrivati alla costruzione del padiglione speciale di Bancali. Escludendo la Sicilia per ragioni di sicurezza e incompatibilità ambientale, sarà ancora la Sardegna ad ospitare un alto numero di boss. Si comincia da Sassari. Poi nei prossimi anni altri padrini potrebbero arrivare in un nuovo reparto del carcere di Cagliari. Il trasloco dei criminali più pericolosi negli scorsi mesi ha provocato proteste da parte dei politici sardi: temono che questi boss possano portare la mafia sull’isola. Ma la Sardegna è l’unico posto in cui si può attuare sul serio questo regime carcerario, ostacolando anche con la geografia i rapporti tra reclusi e cosche. "La Direzione nazionale antimafia ha sempre attribuito massima importanza al 41 bis, perché strategico nell’attività di disarticolazione delle organizzazioni mafiose, poiché consente di privarle dell’apporto che i loro capi, finalmente assicurati alla giustizia e raggiunti da condanne per reati gravissimi, potrebbero continuare ad assicurare anche in regime di detenzione ordinaria", spiega il procuratore nazionale Franco Roberti, che aggiunge: "D’altra parte non sono soltanto le strutture di contrasto a mafia e terrorismo ad attribuire valenza strategica al 41 bis, ma anche le stesse organizzazioni mafiose e terroristiche, se è vero, come è vero che da sempre queste organizzazioni hanno posto il problema dell’abolizione del regime speciale al vertice della loro "agenda politica". Dopo Bagarella a Bancali sono arrivati boss e padrini siciliani, campani e calabresi a fargli compagnia. Anche se di fatto il boss corleonese non ne ha saputo nulla. Nessuno ha notizie di quello che avviene negli altri blocchi, isolati l’uno dall’altro. Scavando tra i familiari che vanno a far visita ai detenuti e attraverso le udienze a cui partecipano gli imputati, si scopre che ci sono il trapanese Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante Matteo, il palermitano Filippo Guttadauro, che fra pochi mesi tornerà libero per aver scontato la pena, lo stragista siciliano Giorgio Pizzo. Il calabrese Domenico Gallico, che riveste un ruolo importante nella ‘ndrangheta e che due anni fa aggredì con un pugno in faccia un pm di Reggio Calabria durante un interrogatorio in carcere. E fra i calabresi sono presenti anche Francesco "Ciccio" Pesce e Giuseppe Pelle. Fra i camorristi figurano Pasquale Zagaria, Francesco Schiavone, cugino omonimo del boss chiamato Sandokan, Francesco Bidognetti e Ciro Minichini. L’incubo lo sta conoscendo anche il vecchio padrino nisseno Giuseppe "Piddu" Madonia, membro della storica cupola, che in passato in altre prigioni veniva fatto girare comodamente fra i corridoi e omaggiato. Adesso vivono in un mondo ovattato, silenzioso e con poche finestre sulla campagna circostante. Una misura senza precedenti. Contro la quale i 90 boss hanno reagito con irritazione, trattando male gli agenti e il direttore del carcere, che è una donna, Patrizia Incollu. E poi spedendo esposti ai giudici, alle associazioni e alle redazioni dei giornali: sostengono di essere vittime di un’ingiustizia. Ma "l’operazione Bancali" è stata realizzata secondo le regole della legge del 2009. Perché nessuno di loro può tagliare il vincolo che li lega all’associazione mafiosa. Lo spiega Maurizio De Lucia, sostituto procuratore nazionale antimafia: "Il giuramento prestato all’atto dell’affiliazione non prevede recesso unilaterale, né cessazione dell’incarico per limiti di età, e dunque, di regola, il vincolo cessa con la morte, ovvero con la decisione traumatica del "tradimento", di rinnegare l’appartenenza per una scelta di vita, di valori, antitetica a quella mafiosa, in una parola la collaborazione con la giustizia". E poi precisa: "Questo non esclude che motivi di salute, di età, di condizione, possano condurre all’affievolimento del ruolo, all’indebolimento della posizione all’interno del gruppo, con conseguente perdita di "peso" nelle decisioni e nel comando, ma si tratta di eventualità rare, che comunque lasciano traccia e dunque sono in qualche modo verificabili". È per questo motivo che padrini come Bernardo Provenzano sono ancora sottoposti al 41 bis, nonostante le condizioni di salute lo costringano al ricovero nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Ad oltre vent’anni dalle stragi siciliane questi provvedimenti sono ancora necessari? Secondo Maurizio De Lucia è una questione di prevenzione: "Se un detenuto per reati di mafia, può, anche durante la detenzione, collegarsi, comunicare o comunque tenere contatti, con l’organizzazione di provenienza (e ciò sia attraverso un collegamento diretto con l’esterno, sia attraverso altri detenuti), questo potenziale collegamento genera pericolo, perché la cosca continua a ricevere il contributo organizzativo, decisionale, di uno dei suoi esponenti principali, in tal modo rafforzando la propria operatività (anche per effetto del prestigio derivato dal personaggio detenuto di riferimento), mentre il detenuto continua ad usufruire del potere di leadership a lui derivato dalla operatività attuale della cosca di appartenenza, con conseguente rafforzamento del suo potere personale dentro e fuori del carcere". Lo scorso mese il capo dei Casalesi, Michele Zagaria, detenuto nel penitenziario di Opera, ha dovuto ammettere davanti ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che di stare al 41 bis non ne può più. Attraverso il video collegamento ha raccontato che vive "una situazione disumana" e che nessun detenuto vuole trascorrere con lui l’ora d’aria per paura di microspie: lo lasciano da solo. Zagaria è detenuto da dicembre 2011, quando si è conclusa la sua latitanza. E da allora è sottoposto al regime duro. Altri capimafia, invece, che sono ancora sparsi per le carceri di massima sicurezza non vogliono ammettere la loro condizione di disagio. E così, se fra i 90 posti di Sassari se ne dovesse liberare qualcuno questo potrebbe essere pronto per altri boss come Riina che adesso è a Parma, oppure Giuseppe Graviano che è ad Ascoli, o Salvatore Madonia che è a Viterbo per finire con Massimo Carminati che il suo 41 bis lo sta trascorrendo a Parma. Ad ogni modo l’incubo per i mafiosi detenuti è tornato e sta a Bancali. La storia criminale riunita a Bancali I novanta detenuti custoditi in regime di carcere duro nel penitenziario sardo di Bancali comprendono alcuni dei nomi più famosi della storia criminale recente. Il più importante è sicuramente Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e suo erede al vertice dell’ala stragista dei corleonesi. Anche Giorgio Pizzo ha avuto un ruolo nei massacri palermitani obbedendo al clan Graviano di Brancaccio. Giuseppe Piddu Madonia sedeva nella "cupola" che assieme a Riina decise l’attacco armato contro lo Stato. Invece Filippo Guttadauro, fratello del capomafia di Bagheria, è stato considerato l’ufficiale di collegamento tra Bernardo Provenzano e il superlatitante Matteo Messina Denaro. Anche il fratello di Matteo adesso è stato trasferito nel penitenziario sardo. Ci sono poi lo "stiddaro" Ignazio Ribisi, il boss messinese Antonino Bellinvia e il gelese Antonio Rinzivillo. Nutrita la componente legata alla camorra casalese dallo storico capo Francesco Bidognetti a Pasquale Zagaria, detto "Bin Laden" e ultima mente economica del clan. Ci sono poi Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan, e Antonio Cangiano. Raffaele Amato invece è stato il leader degli "Scissionisti" nella faida di Secondigliano, il sanguinoso scontro per il controllo del mercato della droga, mentre Ciro Minichini ha avuto un ruolo da boss nella guerra di Ponticelli. Michele Mazzarella appartiene alla storica famiglia di Forcella con ramificazioni in tutta Europa. Tra gli uomini di ‘ndrangheta, spiccano Francesco "Ciccio" Pesce, ultimo capo del clan di Rosarno potente nella Piana di Gioia Tauro e in Lombardia, e Domenico Gallico, erede della consorteria di Palmi catturato tre anni fa dai Nocs in un bunker sotterraneo. Giustizia: tutti a Bancali i big di mafia e camorra, celle da 12 mq e nessun contatto di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 6 novembre 2015 Nel supercarcere ci sono 90 detenuti in regime di 41bis. Celle da 12 metri quadrati in cui è impossibile avere contatti. Hanno cominciato a protestare dopo qualche giorno che hanno messo piede in cella, in quella struttura di cemento armato nelle campagne di Bancali, a otto chilometri da Sassari. È stato Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, il primo a intuire che il nuovo 41bis sarebbe stato terribile, forse peggio anche delle vecchie supercarceri dell’Asinara e di Pianosa che avevano l’aggravante del doppio isolamento. Quello di Bancali - intitolato a Giovanni Bacchiddu, l’agente di polizia penitenziaria originario di Tissi ucciso nel 1945 mentre cercava di sedare una rivolta scoppiata nella casa di reclusione di Alghero - è attualmente il primo vero carcere pensato e costruito per applicare senza sbavature la legge sui boss detenuti e sottoposti al regime del 41bis. È quanto emerge anche dal reportage del settimanale L’Espresso oggi in edicola. E da qualche mese è già diventato l’incubo dei mafiosi che attualmente sono 90 (praticamente il padiglione speciale, un carcere nel carcere è al completo). Le proteste sono state di vario genere: prima nei confronti delle guardie e della direzione della struttura penitenziaria, poi gli esposti ai giudici, alle associazioni e ai giornali. Bancali è il carcere dove da qualche mese è stata concentrata una buona fetta della storia criminale d’Italia. Oltre a Bagarella, ci sono Giudeppe "Piddu" Madonia, componente della cupola insieme a Riina. Ma anche il trapanese Salvatore Messina Denaro, fratello del superlatitante Matteo, il calabrese Domenico Gallico, considerato uno dei big della ‘ndrangheta (catturato dai Nocs in un rifugio sotterraneo). L’elenco prosegue con Francesco Schiavone, cugino omonimo di "Sandokan" e l’altro camorrista Pasquale Zagaria, detto "Bin Laden". Tra gli uomini della ‘ndrangheta spicca anche il nome di Francesco "Ciccio" Pesce, considerato l’ultimo capo clan dei Rosarno a Gioia Tauro, mentre tornando alla mafia, tra gli ospiti di Bancali emerge anche il nome di Filippo Gattadauro, ritenuto l’ufficiale di collegamento tra Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. L’operazione di trasferimento dei boss si è conclusa in gran segreto qualche settimana fa. I criminali più pericolosi del panorama nazionale sono stati selezionati tra un esercito di 750 detenuti assegnati al carcere duro dai magistrati delle Direzioni distrettuali antimafia. I viaggi per la Sardegna, fino al penitenziario di Bancali, sono avvenuti con modalità differenti, utilizzando velivoli della polizia e della guardia di finanza. Le celle sono moderne: pensate e realizzate per applicare il 41bis senza "aggiustamenti" che richiedono altre carceri. Spazio disponibile di circa 12 metri quadrati, spostamenti ridotti al minimo. Niente passeggiate lungo i corridoi per l’ora d’aria che avviene in un cortiletto attiguo, massimo 4 persone. Ea fianco di ogni cella c’è anche la piccola stanza per i collegamenti in video conferenza da dove è possibile assistere e intervenire ai processi. Finiti i viaggi. Il Dipartimento della polizia penitenziaria ha diviso la comunità dei detenuti speciali in venti "gruppi di socialità", formati da quattro detenuti scelti e valutati con attenzione per evitare commistioni (sempre possibili) o legami. Il carcere di Bancali è frutto della legge del 2009, che prevede istituti espressamente dedicati a detenuti sottoposti a regime speciale. Sassari ha aperto la strada, Cagliari è quasi pronto. Con i primi posti liberi, a Bancali potrebbero arrivare altri boss di livello alto, come Totò Riina (ora a Parma) o anche Massimo Carminati (anche lui a Parma). Giustizia: Gratteri "finché ci saranno mafia e terrorismo il 41bis è misura indispensabile" di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 novembre 2015 Mai senza carcere duro. Almeno finché mafia e terrorismo continueranno a insidiare la democrazia. Così Nicola Gratteri - procuratore aggiunto di Reggio Calabria e presidente della commissione nominata dal ministro Andrea Orlando per riformare la legislazione antimafia - spiega a "l’Espresso" il valore del 41 bis nella lotta ai clan. Isolare i boss mafiosi è indispensabile per combattere le organizzazioni criminali? "Isolare e rendere inoffensivi i leader dei clan è stato un punto di svolta. Come le grandi organizzazioni finanziarie anche la cosca può funzionare con una cabina di regia distante dal luogo dove avvengono le "produzioni" criminali. Dunque un capo anche dalla cella può gestire grandi interessi: stabilire alleanze, dichiarare guerre, selezionare obiettivi da colpire. È questo flusso di comando che va interrotto. Poi vi è una ragione simbolica: rendere il boss incapace di governare, disorienta gli accoliti rimasti in libertà". Ci sono stati capi clan, però, che continuavano a dirigere "la ditta" dall’isolamento. "Certo: perché il 41bis può solo attenuare i contatti con l’esterno. È sufficiente che difensori o gli appartenenti alla struttura giudiziaria o penitenziaria non facciano il proprio dovere". La norma può essere migliorata? "Le norme sono state pensate in modo efficiente, ma non sempre le strutture sono state adatte ad una concreta ed efficiente realizzazione e ciò nonostante gli sforzi della polizia penitenziaria. Molti vecchi istituti non erano adatti a limitare la possibilità di comunicazione interna tra affiliati. Più in generale si può dire che le regole del 41 bis sono state costruite operando un bilanciamento di interessi, tra il diritto dei detenuti a vivere pienamente gli "spazi di libertà residui" e il diritto della collettività e delle persone innocenti a non subire i gravi danni personali che sono conseguenza dei reati di mafia. Troppo spesso in questo bilanciamento hanno avuto la meglio i diritti dei detenuti". Si potrà mai superare? "In un mondo senza mafia e terrorismo certamente". Giustizia: Manconi "nel 41bis riscontrate numerose violazioni delle garanzie dei detenuti" di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 novembre 2015 Nell’abisso del 41bis "abbiamo riscontrato numerose violazioni delle garanzie dei detenuti". Lo rivela a "l’Espresso" Luigi Manconi, senatore e presidente della commissione Diritti umani molto critico sul metodo di applicazione del regime speciale di reclusione. Senatore, il 41bis è una misura eccezionale diventata regola nella lotta alla mafia. Eppure... "È un regime straordinario per situazioni di emergenza. Dovrebbe, quindi, terminare una volta esaurita - fosse pure tra mille anni - l’eccezionalità del fenomeno. Si è scelto, invece, di rendere fisiologica e accettabile una forma particolarmente pesante di reclusione". In cosa consiste davvero questo regime? "La verità è che il 41bis non dovrebbe costituire un regime crudelmente afflittivo, ma perseguire uno scopo strumentale: impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Si pensa, invece, che tanto più alto è il profilo delinquenziale del detenuto, maggiore deve essere la durezza della pena. Tutte le misure finalizzate a impedire quel collegamento con l’esterno sono legittime, ma non quelle che rendono più intollerabile la pena. Per quale motivo, ad esempio, viene ridotto il numero di quaderni acquistabili o viene impedito di dipingere nella propria cella? E perché mai i dieci minuti di incontro col figlio minore vengono sottratti all’ora mensile di colloquio con i familiari? Queste sono misure inutilmente persecutorie". La commissione dei Diritti umani che lei presiede si sta occupando proprio del carcere duro. "Abbiamo riscontrato numerose violazioni di diritti. La Commissione verifica la coerenza della sua applicazione con leggi e regolamenti. Tuttavia, ricordo che un magistrato come Gherardo Colombo ne contesta la costituzionalità. Il diffuso populismo penale, però, impedisce una serie discussione sul tema. Lo Stato d’eccezione, prodotto dalle stragi mafiose, si è fatto permanente e si presume come eterno". Giustizia: così lo Stato fa cassa con i reati abrogati… e incassa due volte di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 6 novembre 2015 Una volta con le spese del procedimento civile per il risarcimento che la parte offesa è costretta a fare se vuole tutelarsi; e un’altra volta incamerando la sanzione civile conseguenza dell’illecito. Se, poi, l’interessato non fa nulla e, quindi, rinuncia a far valere i propri diritti lo Stato, comunque, ottiene un risparmio di spesa per la mancata attivazione del procedimento penale. È l’effetto dello schema di decreto legislativo che abroga alcuni reati e introduce le sanzioni pecuniarie civili che potrebbe approdare oggi in consiglio dei ministri. Tra i reati abrogati si trovano alcuni reati che, saranno pure di offensività minima, ma coinvolgono la sfera individuale e personale e il bisogno di sicurezza di ogni individuo. Si pensi alle ingiurie e cioè alle offese all’onore al decoro di una persona anche con una e-mail o un sms o al danneggiamento di beni mobili. Per questi reati, oggi si può chiedere allo Stato di punire il colpevole e, nel processo penale, si possono chiedere i danni, morali e materiali. In sostanza l’autore dell’ingiuria si trova contro sia lo stato sia la persona offesa e rischia di sporcare la sua fedina penale. Può essere che proprio questi rischi attuali inducano gli autori dell’illecito a risarcire la persona offesa, che può contare sull’alleanza della pubblica accusa. Con il nuovo sistema il reato scompare e, quindi, scompare la pretesa punitiva dello stato, con l’effetto disincentivante che questo comporta. Lo confermano i lavori preparatori che attestano senza problemi che "non vi è dubbio che la posizione dell’autore dell’illecito, in virtù del nuovo intervento normativo in esame, sarà di vantaggio perché la sanzione penale, anche quando è pecuniaria ovvero quantitativamente pari a quella civile, è accompagnata da un corredo di cosiddetti effetti penali della condanna che rendono di per sé maggiormente gravosa e stigmatizzante la situazione di chi si vede riconosciuto responsabile". Tocca, dunque, alla persona offesa prendere l’iniziativa e tutto si risolve su un piano pecuniario. Proseguendo nell’esempio, l’autore dell’ingiuria rischia di pagare i danni e rischia di pagare allo Stato una sanzione da 100 a 8 mila euro. Ci si chiede perché la sanzione civile deve essere pagata allo stato. Se lo è chiesto anche la relazione allo schema di decreto legislativo. La risposta è questa: i soldi vanno allo Stato in considerazione della funzione general-preventiva sottesa alla minaccia della sanzione pecuniaria civile e per questo appare incoerente che "del provento della sanzione debba beneficiare la persona offesa". Quindi siccome la prospettiva di pagare una sanzione civile è formulata affinché tutti desistano dal commettere l’illecito, allora è giusto che le somme vadano all’erario. Si potrebbe ribattere che l’effetto disincentivante dipende dal rischio di pagare, a prescindere dal destinatario del pagamento. Anzi può essere che la persona offesa sia più tenace nel recupero delle somme e che, proprio per questo la sanzione civile diventi più effettiva e concreta e, per questo, più disincentivante. Tra l’altro il decreto dovrebbe anche preoccuparsi di incentivare la persona offesa a promuovere l’azione di risarcimento del danno. Se la persona offesa rimane inerte, magari perché scoraggiata dai tempi e dai costi della giustizia civile, allora l’autore dell’ingiuria non subirà alcuna reazione e beneficerà di una sostanziale impunità. La persona offesa, oggi, magari si fa forza e va dalla polizia a sporgere una querela. Con il nuovo sistema deve, comunque, attivarsi con un legale, cominciare a pagare le spese di giustizia (contributo unificato, diritti), sobbarcarsi tutto l’onere probatorio. magari per ottenere pochi soldi di risarcimento. Giustizia: intesa Dap-Ucoii su accesso mediatori culturali e ministri di culto nelle carceri Adnkronos, 6 novembre 2015 Il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo e il presidente dell’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia Izzedin Elzir hanno sottoscritto il protocollo d’intesa per l’avvio di una collaborazione con le comunità islamiche, finalizzata a favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari. "L’accordo prende avvio da positive sperimentazioni già attuate in diverse realtà penitenziarie dove forte è la presenza di detenuti musulmani e detenuti provenienti da paesi di fede musulmana", informa una nota. Il protocollo, definito dal Dap e dall’Ucoii intende promuovere azioni mirate all’integrazione culturale avvalendosi dei mediatori indicati dall’Ucoii, anche attraverso la stipula di convenzioni con università ed enti che cureranno la formazione dei volontari cui è data la possibilità di accedere con continuità negli istituti penitenziari. "Le azioni congiunte stabilite dal protocollo per progetti di mediazione culturale e per il sostegno religioso alle persone detenute di fede islamica rendono concreta - continua la nota - la libertà di culto con valido sostegno religioso e morale. La stipula del protocollo è stata anche l’occasione per approfondire ulteriori aspetti di collaborazione tra Dap e Ucoii, quale ad esempio l’apprendimento dell’italiano per i detenuti di lingua araba, e viceversa, puntando su detenuti in grado di ricoprire il ruolo di docenti per i compagni di detenzione, anche attraverso l’uso dei personal computer, un utile supporto per lo studio delle lingue, il cui utilizzo è stato disciplinato dal Dap con la recente circolare emanata il 2 novembre". "Una modalità - sottolinea il capo del Dap - che responsabilizza i detenuti, essi stessi protagonisti dell’esigenza di una reciproca conoscenza e del rispetto delle diverse culture, con indubbi vantaggi per la sicurezza degli istituti penitenziari". L’attuazione del protocollo sarà preceduta da una fase sperimentale di sei mesi attivata in otto importanti istituti penitenziari. Giustizia: "Carta di Milano", l’informazione entra in carcere per parlare di minori di Teresa Valiani (Direttore di "Io e Caino") Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2015 Che succede ai bambini quando i genitori finiscono in carcere? Quali sono le reazioni dei minori davanti alle locandine, ai titoli e agli articoli dei giornali che raccontano "come papà ha ucciso mamma"? E quando sono gli stessi ragazzini a finire dentro, quale percorso seguono? Oltre 100 mila bambini entrano nelle carceri italiane per dare continuità al legame affettivo con i genitori reclusi. Quanto pesano le parole dei media sulle loro vite? Se ne parlerà sabato 21 novembre alla Sala Kursaal di Grottammare (Ap), dalle 9 alle 16, nella seconda edizione della giornata formativa "La Carta di Milano e il peso delle parole - l’informazione entra in carcere" che quest’anno approfondirà il tema: minori fuori e dentro le mura. L’evento, promosso dall’ordine dei giornalisti delle Marche in collaborazione con "Io e Caino" il periodico del carcere di Ascoli Piceno, ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Giustizia e l’egida degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Collegato via Skype da Roma, interverrà il Capo dipartimento per la Giustizia minorile, Francesco Cascini, e introdurrà i lavori il coordinatore del Comitato scientifico degli Stati generali dell’esecuzione penale, Glauco Giostra. Tra i relatori anche la direttrice dell’Ufficio Servizi Sociali per i Minori presso il tribunale dei minorenni di Ancona, Patrizia Giunto, il sostituto procuratore presso la Procura generale dell’Aquila, Ettore Picardi, il presidente della Camera penale di Ascoli Piceno, Mauro Gionni (difensore di parte civile nel processo Parolisi), e l’ex psicologa del carcere di Ascoli Piceno, Marisa Barletta. Previste le testimonianze di Lia Sacerdote, presidente dell’associazione "Bambini senza sbarre" (in collegamento Skype da Milano) che presenta "Telefono Giallo", l’applicazione che consente ai figli dei detenuti di avere informazioni sul funzionamento del carcere, e di un papà, detenuto nella casa circondariale di Ascoli Piceno. Apre l’incontro il presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, Dario Gattafoni. La giornata è coordinata dalla giornalista Teresa Valiani, direttore di "Io e Caino", collaboratrice dell’agenzia di stampa Redattore Sociale. In cartellina: La Carta di Milano, un Vademecum sui principali termini del processo penale minorile in uso sulla stampa e gli ultimi due numeri di "Io e Caino". Iscrizione in piattaforma. Sono riconosciuti otto crediti. Giustizia: Mafia Capitale; processo al "Mondo di mezzo", si apre il sipario di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 novembre 2015 Chiesto il rinvio a giudizio per l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Naso, avvocato di Massimo Carminati: "Parlerà, ma non ha nessuna rivelazione da fare". È l’ora del debutto. La definizione, in apparenza poco consona all’austero processo per corruzione e mafia che si celebra nell’aula Occorsio del tribunale di Roma, non la adopera un disinvolto cronista ma il rappresentante dell’accusa, il pm Giuseppe Cascini, rintuzzando gli avvocati della difesa che strepitano perché a quattro imputati, tra cui i due principali, non è consentito presenziare al rito se non in video conferenza: "Mi auguro che il modo in cui si è affrontato questo inizio di processo sia dovuto solo all’emozione del debutto", appunto. Poco dopo la presidente Rosanna Ianniello respingerà le istanze. I quattro imputati restano dove sono: fisso di fronte alle telecamere e gelido Massimo Carminati, nervoso e incapace di star fermo un attimo Salvatore Buzzi, e poi Riccardo Brugia e Fabrizio Testa, restituiti al pubblico foltissimo nelle immagini sbiadite delle tv di un tempo. Si apre il sipario, e di fronte al palazzo di giustizia la folla si assiepa. L’occasione è ghiotta, c’è chi è venuto per vedere, "per guardare in faccia i mascalzoni", e chi per farsi vedere: quelli che protestano contro le denunce a carico di 93 giornalisti per aver pubblicato intercettazioni, quelli che si mobilitano perché la riqualificazione del personale amministrativo giace dimenticata in un cassetto, il cantante Povia, che ha un nuovo disco da lanciare e straparla in libertà. I politici invece latitano, con la sola eccezione dell’M5S che si è costituito parte civile, e del nuovo segretario dei radicali Riccardo Magi. Hanno poco da vedere e soprattutto pochissima voglia di farsi vedere, in questo processo che in qualche modo li riguarda tutti. L’unico che ci teneva tanto, l’ex sindaco Marino, ha disertato: voleva comparire in fascia tricolore. Senza quella non c’è sugo. Dentro è anche peggio, il pubblico straripa, le telecamere pullulano e gli operatori sospirano quando la presidente concede le riprese, i fotografi sono decine, i rappresentanti delle testate di mezzo mondo anche di più. È il giorno del debutto e nessuno si aspetta sorprese. Invece la deflagrazione arriva. Anche l’ex sindaco Gianni Alemanno sarà probabilmente processato. La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione e finanziamento illecito. La risposta del gup Nicola Di Grazia arriverà l’11 dicembre, e nessuno scommette sull’ipotesi che respinga la richiesta. Cifre non proprio da capogiro: 75mila euro una volta, 40mila in altra occasione e poi ancora 10mila, tutti, secondo l’accusa, fatti pervenire da Buzzi e Carminati. Il quasi rinviato a giudizio fa buon viso a cattivo gioco e quasi si dichiara soddisfatto: "Dimostrerò la mia innocenza, ma La notizia importante è che ogni imputazione o aggravante per associazione mafiosa è caduta". Il sospetto della corruzione ancora ancora, ma la mafia, no… Già, la mafia. È tutto qui il nucleo duro di questo processo. La corruzione è di fatto acclarata, alcuni tra gli imputati eccellenti la hanno ammessa, primo fra tutti Luca Odevaine, immigration man, l’uomo d’oro dell’affare del secolo, quello che commercia in carne umana invece che in polverine o rifiuti: infatti si gode la detenzione ai domiciliari e siede serafico in seconda fila. Ma la mafia, quella no: "Ho fatto degli errori ma ho scelto di collaborare e con Carminati non c’entro nulla. A Roma non c’è un sistema mafioso. A Roma le cose si trascinano". Quando parlerà, anche Carminati negherà ogni collusione con onorate società, poco importa se con la lupara o col colletto bianco. Perché stavolta "il cecato" intende farsi sentire, lo assicura il suo avvocato, Giosuè Naso, aggiungendo a ruota, per stemperare eventuali entusiasmi, che "però non ha rivelazioni da fare". Parole apparentemente leggere, dalle quali traspare invece quella che sarà la strategia difensiva di Carminati: contestare quella immensa "caratura criminale", quel ruolo di super-boss della malavita romana, senza il quale le accuse di associazione mafiosa non si terrebbero più in piedi. Non a caso l’avvocato segnala che il suo assistito è fuori di sé soprattutto perché si è parlato di lui, proprio di lui "a cui la droga fa schifo", come di un trafficante di stupefacenti. Nelle chiacchiere tra avvocati e imputati e pubblico febbrile non si parla d’altro che di mafia. La corruzione, quella pare derubricata a fattarello d’ordinaria amministrazione, il sistema clientelare costruito nella seconda Repubblica da tutte le forze politiche, a Roma e certo non solo a Roma, neanche lo si nomina. Dietro le scintille tra difesa e accusa che infiammano "il debutto", del resto, c’è ancora quella fattispecie di reato maledetta, la vera posta in gioco del maxi processo romano. "Questo è un processetto", attacca Giosué Naso: come se affondare la Capitale in una palude di mazzette e appalti truccati fosse robetta, senza l’ombra del padrino. Continua alla prossima puntata. In calendario per il 17 novembre. Giustizia: il processo a Mafia capitale e le reputazioni in gioco, uno show fino alle elezioni di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 novembre 2015 Il valore simbolico del processo agli imputati di Mafia capitale. "Con il processo Mafia Capitale, Roma si gioca la reputazione". Non solo la sua, ma quella "della quarta potenza economica europea", scriveva ieri il quotidiano francese Le Monde. È fin troppo chiaro agli occhi del mondo che dentro l’aula bunker del carcere di Rebibbia non saranno solo giudicati i 46 imputati, accusati di far parte del "mondo di mezzo", ma andrà in scena sotto potenti riflettori mediatici la capacità stessa dell’Italia di "restaurare l’immagine disastrata di Roma", in un dibattimento pubblico che farà da sfondo a tutta la stagione commissariale, al Giubileo francescano e soprattutto alla campagna elettorale per le prossime amministrative. Dietro questo processo, secondo il corrispondente del quotidiano parigino, Philippe Ridet, c’è anche la sfida di restituire "fierezza" ai cittadini romani che oggi "si strozzano di rabbia" nel vedere promossa Milano, "la città rivale", "al rango di modello civico per il successo di Expo 2015, dopo essere stata il simbolo della corruzione venti anni fa". In realtà, le sfide sono tante, almeno quanti sono i soggetti che vorrebbero sfruttare l’occasione per trasformare ciascuno nel proprio evento simbolico il "processetto dopato da una campagna mediatica" (come lo ha bollato l’avvocato difensore dell’imputato numero uno, l’ex Nar Massimo Carminati), o se si preferisce, "il grande show" (per usare la definizione, ispirata da tutt’altro intento, del neo segretario dei Radicali italiani, Riccardo Magi). Perfino l’imputato numero due, Salvatore Buzzi, ras delle cooperative rosse, trova talmente utile quella grande selva di riflettori puntati sull’aula giudiziaria che ha deciso di argomentare la sua linea difensiva/offensiva direttamente in tv, scrivendo dal carcere dove è recluso una lettera al conduttore del talk show di La7, Piazzapulita. Beppe Grillo, per esempio, ovviamente non si lascia sfuggire l’occasione per contrapporre il suo movimento a quelle forze politiche che oggi lavorano per il Partito della Nazione e che "hanno iniziato a governare insieme nel 2011 con Monti e continuano a farlo con i residuati di Ncd e il taxi di Verdini". Nella Capitale, Pd e Forza Italia, "governano insieme da anni come dimostra Mafia Capitale. La sola novità alle elezioni per Roma - aggiunge il leader a 5 stelle - sarebbe di trovarli tutti insieme in lista. Un atto di trasparenza nei confronti degli elettori, quelli onesti e quelli mafiosi". Con queste argomentazioni, il M5S finisce nell’interminabile elenco di coloro che ieri hanno chiesto ai giudici di costituirsi parte civile: dal Governo nazionale alla Regione Lazio, da Roma Capitale al Pd romano, dal radicale Riccardo Magi che per primo denunciò lo scandalo dei "campi nomadi" e per questo ebbe "un danno alla mia attività di consigliere" all’Ama Spa, dalla Lega Coop, Codacons e altre organizzazioni civiche a numerose associazioni antimafia, fino a un rifugiato politico pachistano di 23 anni, tre profughi del Darfur e 37 cittadini rom residenti nel campo di Castel romano, che era uno dei grandi business della cupola romana di Carminati e Buzzi. Sono 150 circa i soggetti che chiedono di essere riconosciuti vittime di quelle associazioni mafiose (o organizzazioni criminali, a seconda se verrà validata o meno la tesi accusatoria del procuratore Pignatone) cresciute negli antri bui ma molto puzzolenti delle corruttele amministrative e degli intrallazzi politici. Ma anche il Nazareno "surfa" sul processo per rimanere a galla nelle acque nere in cui sprofonda la politica partitocratica: secondo quanto riportato ieri da Repubblica, il governo si sarebbe costituito parte civile "ma con un singolare distinguo: solo nei confronti degli imputati di associazione mafiosa. Il che escluderà tutti gli ex consiglieri e gli assessori capitolini del Pd e comunque tutti i politici sin qui coinvolti, escluso il Pdl Luca Gramazio accusato, appunto, di mafia". La giustizia farà il suo corso ma intanto l’inchiesta ha già chiarito che, come ha ricordato la deputata di Sel Celeste Costantino, nessuno può restare a guardare delegando solo a magistrati e commissari l’onere di contrastare la cultura mafiosa e del malaffare: "C’è una responsabilità che attraversa ogni livello istituzionale". Giustizia: Mafia capitale, chiesto il rinvio a giudizio del l’ex sindaco Gianni Alemanno di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2015 La Procura di Roma ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio per l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, accusato di corruzione e finanziamento illecito. Secondo l’accusa, tra il 2012 e il 2014, per il tramite l’ex ad di Ama Franco Panzironi, avrebbe ricevuto, attraverso la fondazione Nuova Italia, 75mila euro sotto forma di finanziamento per cene elettorali, 40mila euro per finanziamento della sua fondazione e circa diecimila euro cash, questi ultimi nell’ottobre 2014, a due mesi dalla prima tranche di arresti avvenuti a dicembre. "Buzzi? Impensabile che un sindaco non abbia questi rapporti", ha detto Alemanno in riferimento all’attività imprenditoriale dell’imputato nel processo Mafia Capitale. "Non ho mai conosciuto Carminati - ha aggiunto - neanche negli anni ‘70-’80, quando ero un militante di destra, perché eravamo due mondi diversi". L’ex sindaco, che si dichiara "certo di uscirne innocente", ha anche detto che "la mafia esiste sicuramente sul territorio romano. Questo processo servirà a capire se è vero che ha aggredito anche le istituzioni. Nella richiesta di rinvio a giudizio bisogna cogliere la notizia più importante e cioè che ogni accusa e ogni aggravante connessa all’associazione mafiosa nei miei confronti è completamente caduta e questa per me è una notizia molto importante". Intanto ieri c’è stata la prima udienza del maxi processo a Mafia Capitale con 46 imputati, 58 capi d’accusa e 150 richieste di costituzione a parte civile. Questi i numeri del processo alla mafia della Capitale d’Italia, che si celebra davanti alla decima sezione penale del Tribunale di Roma. Nel mirino c’è la presunta organizzazione mafiosa capeggiata da Massimo Carminati, alias "er cecato" e il suo fidato imprenditore, Salvatore Buzzi, "il braccio economico". Un personaggio dalla personalità enigmatica, Carminati, che nasconde legami con la Banda della Magliana e nuclei armati rivoluzioni di estrema destra. Ma anche accuse - "tutte cadute", come ha precisato il suo difensore, l’avvocato Giosuè Naso - legate ai grandi misteri italiani, come l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e i depistaggi sulle indagini della strage di Bologna. Di fianco a lui, alla sbarra degli imputati, c’è il "mondo di mezzo", quel presunto sottobosco di politici, funzionari pubblici e imprenditori che avrebbe fatto man bassa di appalti con la Pubblica amministrazione di Roma. C’è l’ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio, Luca Gramazio, ma anche altri politici non imputati di associazione mafiosa, come l’ex presidente dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti (con Ignazio Marino), l’ex sindaco di Castelnuovo di Porto Fabio Stefoni, l’ex consigliere comunale Pdl Giordano Tredicine e una rete di funzionari pubblici come Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama, la municipalizzata che si occupa di igiene urbana, e Luca Odevaine, ex componente del tavolo tecnico sull’immigrazione dell’Interno presente all’udienza e che ha avuto modo di rispondere alle domande della stampa che "ho fatto degli errori, ho ammesso le mie responsabilità e ora sto collaborando con i magistrati". Tutti, a vario titolo, avrebbero agevolato la presunta associazione di Carminati affinché massimizzasse il business. "Questo è un processetto dopato, drogato da una campagna mediatica ma dietro c’è una regia precisa", ha detto davanti al collegio giudicante l’avvocato Naso. "Quando sarà il momento opportuno - ha continuato - Massimo Carminati si difenderà in maniera diversa rispetto agli altri processi in cui è stato coinvolto e nei quali ha mantenuto un dignitoso silenzio. La mafia - ha concluso - sotto il profilo penale è qualcosa di diverso e molto più grave". "Non è elegante definirlo processetto", ha tuonato il pubblico ministero Giuseppe Cascini, che ha curato l’inchiesta con il procuratore capo Giuseppe Pignatone, con l’aggiunto Michele Prestipino, e con i sostituti Paolo Ielo e Luca Tescaroli. "Tutti i processi sono molto seri e tutti gli imputati vanno rispettati. Non è elegante e non rispettoso per i detenuti dichiarare che questo è un processetto. Io ho uno stile diverso e non vado per i corridoi a dire a tutti i presidenti di tribunale che incontro che sono i migliori". L’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, ha definito il processo una "bufala capitale". Ha aggiunto che "Buzzi non è un mafioso, non ha minacciato nessuno né ha usato intimidazioni. Erano i politici a chiedere favori. Lui ha fatto richiesta di patteggiamento ed è disposto ad accettare una condanna purché gli venga esclusa l’associazione per delinquere di stampo mafioso". Inoltre, il legale ha annunciato di "aver presentato ricorso al Tar contro il trasferimento" del proprio assistito dal carcere di Nuoro a Tolmezzo: "Vogliamo sia rispettato il principio della parità di trattamento. Buzzi come tutti gli imputati dovrebbe avere diritto a partecipare fisicamente al proprio processo: tra l’altro ha iniziato un percorso di collaborazione, ha reso dichiarazioni spostanee, è stato interrogato 5 volte dalla procura ammettendo tutto quello che c’era da ammettere. In che cosa consisterebbe il pericolo di farlo partecipare alle udienze?". E in alcune lettere indirizzate al giornalista Corrado Formigli, Buzzi scrive: "Colpire la cooperativa 29 Giugno per colpire Bersani". Il giudice annullando l’espulsione non può ordinare alla questura il rilascio del permesso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI-1 - Ordinanza 5 novembre 2015 n. 22606. Il giudice di pace non può ordinare al questore il rilascio del permesso di soggiorno: travalica il perimetro dei propri poteri giurisdizionali e della cosiddetta riserva delle funzioni amministrative. Così, l’ordinanza della Corte di cassazione n. 22606/15, che ha cassato senza rinvio la pronuncia del giudice di pace, nella parte in cui ordina al questore di procedere al rilascio di un permesso umanitario. Nel giudizio di legittimità è fatta, invece, salva la prima parte della sentenza del giudice monocratico che annullava il provvedimento prefettizio di espulsione. La vicenda - Il decreto di espulsione prefettizio era stato motivato per pluriennale irregolare permanenza dello straniero sul suolo italiano. Da qui l’impugnazione del provvedimento da parte dell’interessato davanti al giudice di pace. E, poiché figli e moglie dello straniero risultavano in giudizio legalmente residenti in Italia il giudice di pace ravvisando il superiore e attuale interesse dei figli alla sua permanenza disponeva per questioni di merito l’annullamento del decreto di espulsione. Ma contestualmente ordinava alla competente questura il rilascio allo straniero di un titolo legale per restare in Italia: un permesso "umanitario". Contro la decisione del giudice di merito la prefettura proponeva impugnazione per cassazione solo in relazione all’ordine impartito e non sul giudizio relativo al proprio provvedimento. Sulla parte relativa all’annullamento dell’espulsione si è perciò formato il giudicato. La questione di legittimità - Secondo la Cassazione il ricorso era fondato per violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Infatti, i giudici di legittimità aderiscono alla tesi del ricorrente secondo cui il giudice di pace aveva violato la cosiddetta riserva delle funzioni amministrative quando valutava nel merito i requisiti per l’ottenimento del titolo di soggiorno di competenza del prefetto e arrivava a ordinarne il materiale rilascio alla questura. Il sindacato del giudice può riguardare l’inadeguatezza dei mezzi impiegati dall’amministrazione con la conseguenza di indicare la più adeguata "strada procedimentale", ma non può sostituirsi a essa nelle specifiche modalità della funzione amministrativa. L’espulsione amministrativa - Nell’individuare i limiti del sindacato giurisdizionale va tra l’altro rilevato che in questa fattispecie l’azione amministrativa è vincolata e non discrezionale. L’espulsione amministrativa può essere ministeriale o prefettizia. Contro la decisione del prefetto, che qui interessa, lo straniero può proporre entro 30 giorni (o 60 se si trova all’estero) ricorso al giudice di pace che valuti la sussistenza delle condizioni personali e di fatto, che hanno dato origine al decreto. Ma non potrà ottenere direttamente dal giudice l’ordine di rilascio del permesso. Sequestro di persona a scopo di estorsione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2015 Reati contro il patrimonio - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Privazione della libertà funzionale alla riscossione di un credito - Configurabilità del reato. In tema di sequestro di persona a scopo di estorsione, la privazione della libertà di una persona finalizzata alla riscossione di un preteso credito integra gli estremi dell’ingiusto profitto di natura estorsiva di cui all’articolo 630 cod. pen., derivando l’ingiustizia dalle modalità del fatto. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 14 maggio 2015 n. 20032. Reati contro il patrimonio - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Ingiusto profitto - Nozione. Nel delitto di sequestro a scopo di estorsione, l’ingiusto profitto cui deve essere finalizzata l’azione dell’agente si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 22 maggio 2015 n. 21579. Reati contro il patrimonio - Delitti - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Elemento oggettivo - Limitazione della libertà personale del soggetto passivo - Realizzazione del sequestro mediante inganno - Configurabilità. Nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, la limitazione della libertà personale della vittima può realizzarsi, oltre che con la coercizione fisica che impedisce in concreto ogni libertà di movimento, anche attraverso l’inganno, sempre che questo sia idoneo a creare nel soggetto passivo l’apparenza di un pericolo, per la sua incolumità o per il suo patrimonio, tale da indurlo ad autolimitarsi. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 febbraio 2015 n. 6427. Reati contro il patrimonio - Delitti - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Ingiusto profitto - Nozione - Discrimine con i casi in cui eventualmente può essere integrato il reato di usura. In tema di sequestro di persona a scopo di estorsione, il profitto che caratterizza il dolo specifico del delitto è ingiusto quando costituisce il prezzo della liberazione della vittima dalla limitazione nella libertà di movimento e non quando sia collegato all’avvenuta prestazione di servizi, anche di natura illecita, in favore di soggetti che versano in stato di necessità, potendo in tali casi eventualmente ravvisarsi il diverso reato di usura. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 febbraio 2015 n. 6427. Reati contro il patrimonio - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Privazione della libertà funzionale al conseguimento di una prestazione patrimoniale eccedente il credito vantato - Configurabilità del reato - Sussistenza. Integra il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’articolo 630 cod. pen., e non il concorso del delitto di sequestro di persona con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (articoli 605 e 393 dello stesso codice), la privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire, come prezzo della liberazione, una prestazione patrimoniale eccedente il credito, azionabile in sede giudiziaria, vantato nei confronti della persona offesa. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 30 ottobre 2014 n. 45064. Reati contro il patrimonio - Sequestro di persona a scopo di estorsione - Privazione della libertà funzionale al conseguimento di una prestazione patrimoniale in esecuzione di precedente rapporto illecito - Concorso di sequestro di persona e di estorsione - Esclusione - Sequestro a scopo di estorsione - Sussistenza. Integra il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e non il concorso nei reati di sequestro di persona e di estorsione, la condotta consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire, come prezzo della liberazione, una prestazione patrimoniale pretesa in esecuzione di un preesistente rapporto illecito. • Corte di cassazione, sezione I, Sentenza 10 maggio 2010 n. 17728. Accesso abusivo a sistema informatico. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2015 Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - Accesso abusivo a sistema informatico - Violazione delle condizioni e delle finalità di accesso al sistema - Ininfluenza delle motivazioni soggettive che hanno determinato l’agente. Integra la fattispecie di accesso abusivo a sistema informatico o telematico protetto di interesse pubblico la condotta di accesso o mantenimento nel sistema posta in essere dal soggetto che, pur essendo abilitato violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitare l’accesso in senso oggettivo, senza che, invece, rilevino gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza n. 44403 del 3 novembre 2015. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico - Individuazione del luogo di consumazione del reato. In tema di acceso abusivo ad un sistema informatico o telematico, il luogo di consumazione del delitto di cui all’articolo 615-ter cod. pen. coincide con quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la "parola chiave" o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca-dati memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 24 aprile 2015 n. 17325. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico - Aggravante dell’essere un sistema di interesse pubblico - Configurabilità - Condizioni. In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, la circostanza aggravante prevista dall’articolo 615 ter, comma terzo, cod. pen., per essere il sistema violato di interesse pubblico, è configurabile anche quando lo stesso appartiene ad un soggetto privato cui è riconosciuta la qualità di concessionario di pubblico servizio, seppur limitatamente all’attività di rilievo pubblicistico che il soggetto svolge, quale organo indiretto della P.A., per il soddisfacimento di bisogni generali della collettività, e non anche per l’attività imprenditoriale esercitata, per la quale, invece, il concessionario resta un soggetto privato. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 10 marzo 2015 n. 10121. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - Accesso abusivo ad un sistema informatico - Soggetto autorizzato - Configurabilità del reato - Condizioni. Ai fini della configurabilità del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico, nel caso di soggetto autorizzato, quel che rileva è il dato oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico violando i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema o ponendo in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli sia incaricato e per le quali sia, pertanto, consentito l’accesso, con conseguente violazione del titolo legittimante l’accesso, mentre sono irrilevanti le finalità che lo abbiano motivato o che con esso siano perseguite. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 10 marzo 2015 n. 10083. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - Accesso abusivo ad un sistema informatico - Nozione. Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’articolo 615 ter cod. pen., l’accesso di soggetto abilitato ad un sistema informatico è abusivo solo quando l’agente viola i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema ovvero pone in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso è a lui consentito. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 24 ottobre 2014 n. 44390. Lettere: sesso e carcere di Luca Bagatin L’Opinione, 6 novembre 2015 Il diritto all’affettività ed alla sessualità dei carcerati. Ne parlarono per primi Moana Pozzi e il Partito dell’Amore. Erano i primi Anni 90 e si stava uscendo, grazie a Riccardo Schicchi e all’esperienza di Diva Futura, da un lungo periodo di censure, di divieti, di pruderie culminanti nel reato di "violazione del comune senso del pudore". Il diritto all’affettività ed alla sessualità dei carcerati. Perché anche loro sono donne e uomini, non già bestie da soma, per quanto male possano avere commesso. Perché la sessualità e l’amore sono l’esatto opposto della violenza. Sono rieducazione e redenzione, alla faccia dei benpensanti o, meglio, dei malpensanti. I giornali l’hanno presentata come una proposta sulle "stanze dell’amore" in carcere, quella dell’On. padovano Alessandro Zan. In realtà lui ha subito smentito e così si sono assopiti anche i nostri entusiasmi: mai una buona volta che la politica italiana compia una scelta di civiltà! "Niente a che fare con il sesso, la proposta di legge vuole solo aumentare i colloqui famigliari con chi ha un caro dietro le sbarre - spiega infatti il deputato del Pd - oggi i colloqui avvengo in stanzoni grandi alla presenza di altre persone. Non è giusto per la privacy, i figli, ma anche il coniuge non hanno commesso nulla e hanno il diritto di avere con il loro caro un rapporto riservato. Al massimo ci si potrà avere il bacio, ma la notizia delle stanze dell’amore è travisata e esagerata". Al massimo un bacio. Ma non un amplesso. L’amplesso è vietato ai detenuti. Aberrazione. La sessualità è, quindi, preclusa, castrata al detenuto che, ancora una volta, è trattato da bestia da soma o, da angelo asessuato...Lucifero non ancora redento. Persino un leghista, tale Nicola Molteni, altro deputato di questo triste Parlamento da noi tutti mantenuto, si era affrettato a dichiarare scandalizzato che questa legge avrebbe portato nientemeno che i "bordelli in carcere". Magari lo avesse fatto, diciamo noi! Che male può fare un detenuto o una detenuta che compiano un atto d’amore con la/il propria/o compagna/o? O che male fa un detenuto che, dopo mesi d’astinenza, copula con una prostituta o, eventualmente, con un prostituto, a seconda delle preferenze? A questo, i politicanti, sembrano non pensare. Sembra quasi che la politica sia avulsa dai bisogni delle persone, perché di questo si tratta. I detenuti sono, prima di tutto, delle persone. Che, oltre a necessitare di spazi adeguati, di ore d’aria e di privacy con i propri famigliari, necessitano anche di scopare. La stessa Costituzione repubblicana stabilisce, all’Articolo 27, che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Il diritto all’affettività ed alla sessualità in carcere è pertanto diritto costituzionale e proibirlo o impedirlo equivale a compiere un trattamento contrario al senso d’umanità. Perché la sessualità e l’affettività sono, checché ne possano pensare i ben-mal-pensanti, l’aspetto fondante dell’umanità. Lettere: mafia, appunti per il dottor Sabelli di Giuseppe Sottile Il Foglio, 6 novembre 2015 La gran disfatta della vecchia antimafia chiodata, la finzione che la legge sia uguale per tutti, la storia di una procura sulla quale qualcosa dovrà pur dire il presidente Mattarella. Il caso Palermo spiegato al capo dell’Anm. Ma verrà mai il giorno in cui, con scandalo e follia, il presidente della Repubblica griderà ai magistrati di ogni ordine e grado che non è più possibile intramare processi senza indizi né prove? Ci sarà mai una persona perbene, come Sergio Mattarella, maestro di Diritto costituzionale, in grado di annunciare urbi et orbi che finalmente saranno doverosamente puniti quei procuratori che, con grande spreco di soldi e di arroganza, hanno imbastito faldoni e fascicoli all’interno dei quali i giudici di merito non sono riusciti a trovare né un reato né il fumus di un reato? Riuscirà il molto onorevole Consiglio superiore della magistratura a convocare le procure di Firenze o di Palermo per chiedere quantomeno una spiegazione sulle ultime crocifissioni e sugli ultimi naufragi? A Firenze, un procuratore a dir poco sbrigativo ha voluto attaccare il bollino mafioso a Fabrizio Palenzona, banchiere di prestigio, e pur di impiccarlo al palo della colpevolezza ha confezionato un voluminoso dossier di intercettazioni, prontamente consegnato ai giornali, con il quale ha sputtanato non solo Palenzona ma anche un imprenditore che non c’entrava nulla, marchiato addirittura come "braccio imprenditoriale" di Matteo Messina Denaro, sanguinario boss ancora latitante; oltre, ovviamente, a un nutrito stuolo di poveri cristi, tutti innocenti va da sé, ma finiti su quelle carte sporche di mafia solo per avere avuto la sventura di parlare al telefono con uno dei due presunti, molto presunti, protagonisti dell’improbabile affaire. Bene: sul tavolo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e sulla scrivania del procuratore generale della Cassazione, titolari dell’azione disciplinare, ci sono gli esposti sottoscritti dalle vittime occasionali di quest’ultima ingiustizia. Ora che il tribunale del Riesame ha raso al suolo la roboante inchiestona della procura fiorentina il Csm avrà la benevolenza di convocare a Palazzo dei Marescialli il dottor Giuseppe Creazzo, primo responsabile dell’indagine, per chiedergli conto e ragione di questo nuovo ed eclatante caso di mascariamento a carico di cittadini sui quali non c’era nemmeno il "fumus" di una compromissione? Statene certi, non succederà. Perché, se mai succedesse, in soccorso di Creazzo arriverebbe immediatamente il dottor Rodolfo Sabelli, riverito presidente dell’Associazione nazionale magistrati, pronto a sostenere che questo governo, e dunque anche il ministro della Giustizia, piuttosto che occuparsi della lotta alla mafia preferisce dare addosso ai giudici e, in particolare, ai procuratori più esposti sul fronte della criminalità. Nient’altro che un luogo comune, come è evidente. Ma il dottor Sabelli sa che il suo modulo funziona: l’Anm, un sindacato al quale aderisce il novanta per cento di giudici e magistrati, nella messa cantata del grande dibattito sulla giustizia è sempre riuscita ad avere una Non si muove foglia che l’Anm non voglia, si diceva una volta. Ed era anche vero. Ma oggi? Oggi l’impunità dei magistrati che confezionano inchieste senza prove o che disinvoltamente sputtanano chi non c’entra niente - a volte per pigrizia, a volte per scempiaggine, spesso per un’ambizione di carriera o per una opportunità politica - appare sempre più un residuato bellico. Primo, perché gli avanguardisti del codice penale debbono pur fare i conti con migliaia di altri giudici, dislocati nelle varie sessioni di tribunale, che mal sopportano il protagonismo e le spregiudicatezze dei cosiddetti procuratori d’assalto. Secondo, perché all’ombra della impunità, costruita pietra sopra pietra dall’Anm, naturalmente con la sudditanza di una classe politica timida e compiacente, si sono radicati dentro i palazzi di giustizia abusi di ogni sorta. Anche le peggiori corruttele. Se mai il dottor Sabelli volesse rivedere il proprio modulo, quello che prevede sempre e comunque la difesa dei magistrati, potrebbe fare in questi giorni una visitina in quel di Palermo, proprio nel Palazzo di giustizia che fu, fino al sacrificio finale, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per chiedersi come mai sia stato consumato, nelle stanze che avrebbero dovuto invece custodire la memoria di un martirio, il più immondo degli scandali: quello dei beni confiscati ai mafiosi. Patrimoni miliardari sottratti alle cosche sono diventati, stando alle pesantissime accuse della procura di Caltanissetta, terreno di profitto e di arricchimento per magistrati semplici e magistrati di alto rango, per parenti e clienti, per gli amici e per gli amici degli amici. Altro che antimafia. Sotto le arcate solenni del Tribunale e a ridosso della maestosa Corte d’appello si è radicata una sorta di cosca togata che, con la banalissima scusa della legalità, sequestrava palazzi e aziende ai boss della mafia, o presunti tali, per affidarli subito dopo in gestione, senza regole e senza obblighi, a una cerchia ristrettissima di avvocati e commercialisti di fiducia, molti con parcelle milionarie, ma soprattutto a figli e nipoti di alcuni papaveri del vasto mondo giudiziario, anche di quelli coperti dalla magnificenza dell’ermellino. Tutti zitti e tutti complici. Tutti reduci da questa o quell’altra manifestazione antimafia. Tutti in prima fila, a ogni scadenza, nel celebrare gli anniversari dei morti ammazzati nella tetra stagione delle stragi. Venga, dottor Sabelli, venga a Palermo. E si chieda in quale altro palazzo di giustizia possa succedere un caso come quello dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino inseguito per ventidue anni da un pubblico ministero che, senza soluzione di continuità, ha sostenuto l’accusa in primo grado, in secondo grado, fino al rito abbreviato del terzo processo: quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra. L’altro ieri Mannino è stato assolto per la terza volta ma i pubblici ministeri, che ora temono per la sorte del troncone principale del processo, quello che si celebra con rito ordinario presso la Corte d’assise, non intendono in alcun modo mollare la preda e vagheggiano addirittura la possibilità di appellare la sentenza. Fin dove potrà arrivare il calvario di un imputato? Non le viene il sospetto che l’eccesso di giustizia possa essere già mala giustizia? Comunque si concluda la sua ipotetica visita al tribunale di Palermo sappia, dottor Sabelli, che certi comportamenti - al di là delle responsabilità penali tutte da accertare, si dice sempre così - hanno già provocato un danno enorme: hanno sporcato, in maniera indelebile, una parola alla quale la morte di Falcone e Borsellino aveva conferito un’aureola di sacralità: la parola antimafia. Ventitré anni fa, nei giorni del pianto collettivo per i due eroi massacrati dal tritolo mafioso, Palermo sembrava volersi dare - non senza fatiche, non senza contraddizioni - una coscienza civile. Oggi, oltre ai roghi della monnezza, divampano pure i fuochi dell’indifferenza e della delusione. Se nemmeno i giudici antimafia, quelli scortati ventiquattr’ore su ventiquattro, hanno saputo resistere alla tentazione di lucrare e di traccheggiare, come l’ultimo dei mafiosi, quale fiducia potrà avere questa città, infelice e disperata, nella giustizia? Se uno, due o tre pubblici ministeri inchiodano per ventidue anni un imputato alla croce di una inafferrabile collusione mafiosa e poi si scopre che non c’erano le prove necessarie, con quale senso del pudore quei magistrati andranno nelle scuole per insegnare ai ragazzi e ai bambinetti che la legge è uguale per tutti? Venga, dottor Sabelli, venga a Palermo. Lettere: cercasi nuove icone antimafia di Massimo Bordin Il Foglio, 6 novembre 2015 Storia della delocalizzazione del circo mediatico da Palermo a Roma. La prima immagine del debutto del gran processo Mafia Capitale la si coglieva ieri mattina prima ancora di varcare i cancelli del Palazzo di giustizia romano a piazzale Clodio. Le telecamere erano in grande attività in attesa di essere ammesse in aula e i cronisti televisivi si arrabattavano in collegamenti privi di notizie. Prima che inizi la partita si possono però fare congetture e ricevere anticipazioni sulla formazione che scenderà in campo, svelare lo schema di gioco. Oppure concentrarsi sulle coreografie delle tifoserie. Per esempio ieri ai cancelli del tribunale venivano distribuiti volantini contro la "legge bavaglio", manifestazione tutto sommato più sobria degli sventolatori di agende rosse di fronte all’aula palermitana dell’Ucciardone e ormai anche dentro di essa. Segno di un "calo di tensione"? Può essere, ma forse i recenti rovesci della procura palermitana, per non parlare del tribunale sui beni confiscati, impongono una sorta di delocalizzazione al circo mediatico-giudiziario della "antimafia". Questa impressione ieri poteva rafforzarsi appena guadagnata, con qualche fatica per la ressa, l’aula magna del tribunale intitolata al pubblico ministero Vittorio Occorsio. Al cronista con qualche decennio di attività alle spalle, non poteva sfuggire l’immagine di una icona dell’antimafia d’antan. Già in toga, un po’ ingrigito ma sempre compreso nel ruolo, il professore Alfredo Galasso chiacchierava con colleghi e cronisti. Era salito da Palermo per svolgere il ruolo che aveva svolto quasi trent’anni fa nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino: la parte civile. È vero che in questo processo rappresenta la Confindustria, in nome della libera concorrenza colpita dalle trame di Carminati e della sua piovra che stendeva i tentacoli da un distributore di benzina, ma la presenza di Galasso può assurgere a simbolo della necessitata delocalizzazione. Del resto, se la mafia ha seguito la linea della palma, che avanza verso nord, perché non dovrebbe farlo l’antimafia? Se mai quello che colpisce è il sapore di remake dell’operazione. Lo schema è in fondo lo stesso, la mobilitazione della società civile, 30 anni fa intorno a Leoluca Orlando, oggi magari intorno a Ignazio Marino. I "buoni" però, per sentirsi tali, hanno bisogno di qualcuno da mettere al bando dalla loro "società civile" come fecero allora con Leonardo Sciascia, che purtroppo non c’è più. Qualcuno troveranno. Se lo schema dei "buoni" si presenta collaudato ma vecchiotto, quello dei cattivi è annunciato con qualche novità. Ne ha parlato, prima che l’udienza iniziasse, l’avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati e di altri due imputati ritenuti dall’accusa stretti sodali del "samurai" di Roma nord. "Carminati, quando sarà il momento opportuno, si difenderà in maniera diversa rispetto agli altri processi nei quali ha mantenuto un dignitoso silenzio. Qui ci sono dei fatti concreti e risponderà di quei fatti". Tanto è bastato a scatenare le aspettative dei cronisti e degli astanti, anche se per la verità Carminati è stato, fra l’altro, processato, e assolto, per un omicidio e condannato per una rapina al caveau della banca dello stesso tribunale dove ora è di nuovo processato. Almeno questi sembrano fatti di una certa concretezza rispetto alle accuse ora rivoltegli. E lo stesso avvocato Naso, presentando in udienza una istanza di nullità ha definito quello che ieri si è aperto "un processetto, dopato da una campagna giornalistico-mediatica". Dunque Carminati si difenderà nel merito, ma dovrà farlo in videoconferenza, collegato da un carcere lontano da Roma. Proprio su questo aspetto, che accomuna pochi altri imputati, oltre all’avvocato Naso anche l’avvocato Valerio Spigarelli ha sostenuto come l’assenza dall’aula riduca gravemente i diritti dell’imputato. La giurisprudenza però, come non ha mancato di far notare il pm Giuseppe Cascini, supporta l’uso delle videoconferenze in giudizio con tre sentenze della Corte costituzionale e anche con una più recente della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il tribunale ha respinto con una ordinanza le richieste in merito dei difensori. È stato questo il momento più significativo di una lunga udienza dove si sono poi alternati i legali che rappresentano le parti civili che chiedono di costituirsi, quarantatré in tutto, dal ministero dell’Interno al Consorzio di Castel Porziano. Difficile vengano accolte tutte. Ci sono anche due consiglieri comunali, il capogruppo del M5s Marcello De Vito e il radicale Riccardo Magi. Se ne parlerà fra due settimane, il 17 novembre, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Lombardia: fondi Ue per diminuire e migliorare i consumi energetici delle carceri varesenews.it, 6 novembre 2015 Regione Lombardia applicherà la dotazione dei fondi da impiegare per diminuire e migliorare i consumi energetici delle carceri lombarde, tra cui Varese e Busto Arsizio. Migliorare le condizioni di detenzione, utilizzare spazi attualmente non disponibili e diminuire i consumi energetici e le relative emissioni oltre che a risparmiare sui costi di gestione delle strutture di detenzione. È questo uno degli obiettivi dei Fondi Fesr, fondi Ue che verranno spesi anche in provincia di Varese. La dotazione dei fondi previsti per la Regione Lombardia è stata di 531,7 milioni di euro interamente utilizzati, oltre ai quali sono stati stanziati dalla Regione altri 37,5 milioni di euro. 1.998 sono i progetti finanziati, e 2.619 i soggetti beneficiari di questi fondi economici. Questi finanziamenti si sviluppano su quattro "assi", uno dei quali riguarda l’energia: rivolto ad enti locali che investono in una gestione sostenibile ed efficiente delle risorse ambientali e delle energie rinnovabili. Finanziano inoltre progetti volti alla riduzione dei consumi energetici, al miglioramento e all’incremento dell’efficienza energetica da fonti rinnovabili, e alla diffusione di sistemi innovativi di distribuzione. Nello specifico, nelle case circondariali di Varese e di Busto Arsizio verranno introdotti nuovi impianti, basati sulla tecnologia a pompa di calore che consentono di conseguire una serie di vantaggi e risolvere alcune problematiche. Sono state dunque premiate le proposte dalla amministrazione carceraria; inoltre questo intervento, volto a migliorare le strutture carcerarie, che si riflette in una più corretta gestione del problema delle condizioni di detenzione, costituisce un importante segnale alle autorità comunitarie, con riferimento alle procedure di infrazione avviate (carcere di Busto Arsizio), nonché un miglioramento delle situazione infrastrutturale della Lombardia. Oltre a Varese e Busto Arsizio, queste misure verranno pure applicate anche nelle carceri di Opera (MI), Cremona, Lodi, Bergamo, Voghera (PV). Nel luglio scorso è stato firmato un Protocollo di Intesa fra Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione PenitenziariaRegione Lombardia Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche per la Lombardia e la Liguria. Le Opere verranno progettate dal Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche per la Lombardia e la Liguria e totalmente finanziate da Regione Lombardia tramite fondi posti a carico del Por Fesr 2007-2013. Abruzzo: da Sbriglia (Dap) massimo sostegno a nomina di Rita Bernardini come Garante radicali.it, 6 novembre 2015 "Conosco Rita Bernardini da diversi anni, penso che lei impersoni proprio la figura del garante dei diritti dei detenuti. Mi hanno impressionato negli anni il suo rigore, la sua perfetta conoscenza in materia di diritto penitenziario, nonché la familiarità che mostra con il diritto europeo dei diritti dell’uomo. Rita Bernardini non ha mai sottovalutato il lavoro durissimo degli operatori del mondo penitenziario, ogniqualvolta ha sollevato tematiche lo ha fatto non con spirito di vendetta ma con lo spirito di chi intende guarire quello che non funziona". Lo ha detto a Radio Radicale il provveditore delle carceri per il Triveneto Enrico Sbriglia, a sostegno della candidatura di Rita Bernardini a garante dei detenuti della Regione Abruzzo. "Non sempre si possono condividere le battaglie civili che Rita Bernardini ingaggia da anni - ha detto Sbriglia - però le sue battaglie sono sempre fatte alla luce del sole, atti di disobbedienza civile per i quali non implora prescrizioni o disattenzione giudiziaria. Faccio gli auguri a Rita, associandomi a quelli a lei già rivolti da personaggi più competenti, mi ha impressionato la dichiarazione che ha reso il vicepresidente del Csm Legnini, un riconoscimento forte morale, se il vicepresidente del Csm si esprime in termini così corretti significa che ci troviamo davvero di fronte ad un personaggio importante della nostra storia politica e istituzionale". Salerno: pochi detenuti e struttura inadeguata, Sala Consilina dice addio al carcere di Marianna Vallone Giornale del Cilento, 6 novembre 2015 Il trasferimento dei detenuti dal carcere di Sala Consilina alle case circondariali vicine potrebbe ormai essere questione di giorni, forse di ore. Ancora una data di trasferimento non c’è ma i 26 detenuti del carcere dovranno lasciare presto Sala. Con la sua chiusura, dopo la soppressione del tribunale, il Vallo di Diano perde un altro importante presidio di legalità e sicurezza. La vicenda del carcere, infatti, si aggiunge a quella che ha coinvolto il tribunale, chiuso definitivamente a settembre 2013. La voce era nell’aria da molto, anche se l’ufficialità della notizia, ossia che il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando avesse firmato il decreto per la definitiva chiusura, è arrivata solo ieri con la notifica di decreto al sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone. Eppure la data di soppressione risale a una settimana prima, il 27 ottobre 2015. Tra le motivazioni della soppressione "l’anti-economicità, in termini di costi e benefici, del mantenimento dell’attuale casa circondariale e la grave inadeguatezza sotto il profilo strutturale e della sicurezza". Una struttura ritenuta dunque non adeguata al bacino e all’utenza. Purtroppo, negli anni, la politica ha latitato ed ha sempre demandato a data da destinarsi la realizzazione di un nuovo e più moderno carcere che servisse all’intero territorio del Vallo di Diano e basso Cilento. Così racconta il sindaco Francesco Cavallone in un’intervista rilasciata al Giornale del Cilento, mentre ricostruisce la vicenda del tira e molla sul carcere. "Già nel maggio del 2004 era stato fatto un primo decreto di soppressione che poi fu revocato il marzo del 2005 per degli interventi di carattere politico, perché era ancora sede di tribunale ma soprattutto esisteva un progetto per costruire un penitenziario molto più grande. Chiedo alla politica che conta: ma quei soldi che fine hanno fatto? - sbotta il sindaco - Sono spariti in 10 anni". "L’amministrazione comunale di Sala Consilina - spiega Cavallone - aveva presentato un progetto con adeguamento fino a 51 posti con spese a totale carico dell’amministrazione. Ci eravamo offerti di intervenire per adeguare l’istituto ma non ne hanno tenuto conto". Il sindaco poi tiene a precisare che in questa vicenda i problemi più gravi sono legati soprattutto al metodo scelto dal ministro nel procedere nella decisione. E spiega: "Il problema grave è metodo ma anche di merito. Perché - sbotta Cavallone - Sala Consilina, quando è stato chiuso il tribunale, era la normalità, e l’anomalia era Lagonegro, per vari motivi, ma lì è stata fatta prevalere l’eccezione dell’anomalia sulla normalità. Ora che invece, il carcere secondo i loro parametri era un’anomalia, l’anomalia è stata rispettata in pieno, chiudendolo. Tenuto conto dello scippo che avevamo già subito ignobilmente, tenere sospeso un provvedimento era il minimo che politicamente avrebbe dovuto fare il ministro Orlando coadiuvato da Matteo Renzi, segretario del mio partito. "La cosa più grave, ed è questo il metodo, è che non mi sembra normale che si firmi un provvedimento di soppressione del senza preavvertire il sindaco di un territorio. È un fatto quantomeno di correttezza istituzionale. Cosa ancora più grave, ma questa è una considerazione politica, è che tutto ciò non è avvenuto nonostante io faccia parte del Partito democratico. Renzi dovrebbe fare lezioni di correttezza istituzionale ai suoi ministri". A quanto pare, oltre al sindaco, a non sapere della chiusura del carcere, anche il direttore del penitenziario. "L’ho contattato il 31 mattina, non sapeva nulla di ufficiale (ma il decreto era stato firmato dal ministro Orlando giorno 27, ndr) per poi dirmi il 4 che era appena arrivata l’e-mail di comunicazione di soppressione". Una vicenda che solleva polemiche e lascia l’amaro in bocca. Per Cavallone è anche una questione politica. "Renzi non si dovrà lamentare se poi io, alla prossima tornata elettorale, semmai quando si voterà dovessi ancora far parte del Pd, non potrò chiedere il voto ai miei cittadini, dopo il modo il cui siamo stati trattati dal ministro del suo partito", conclude il sindaco. Roma: 48esimo convegno Seac "Gli Stati Generali e le Riforme: il ruolo del Volontariato" volontariatoggi.info, 6 novembre 2015 "Gli Stati Generali e le Riforme: il ruolo del Volontariato". Sono temi caldi e in evoluzione quelli al centro del 48esimo convegno nazionale del Seac (Coordinamento Enti e Associazioni Volontariato Penitenziario), che come ogni anno invita a fare il punto sullo stato delle carceri e della giustizia in dialogo con rappresentanti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, delle istituzioni e del mondo della reclusione. La due giorni si aprirà venerdì 6 novembre, alle ore 10, presso il carcere di Regina Coeli in Roma. Ad avviare i lavori sarà Luisa Prodi, presidente del Seac, insieme a Santi Consolo, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Porteranno i propri saluti anche Silvana Sergi, direttrice del carcere di Regina Coeli, Vittorio Trani, cappellano del carcere di Regina Coeli, Maria Claudia Di Paolo, provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Lazio, e Virgilio Balducchi, ispettore capo cappellani penitenziari. La prima sessione di lavori farà il punto su "Gli Stati Generali dell’esecuzione penale" e sulla valenza di questo strumento di confronto, voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando per "definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto?". Coordinati da Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze, interverranno: Stefano Anastasia, presidente onorario di Antigone, Francesco Cascini, capo dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, e Gherardo Colombo, già consigliere della Corte di Cassazione. Sono previsti anche interventi diretti di detenuti e volontari. Questa prima sessione di lavori si svolgerà venerdì 6 novembre, dalle 10 alle 13, presso il carcere di Regina Coeli, in Via della Lungara 29. Nel pomeriggio ci si sposterà invece al Museo Criminologico del Dap, in Via del Gonfalone 29, dove a partire dalle 14 si metteranno a fuoco "Le riforme essenziali: dialoghi tra il volontariato e i relatori". Il tavolo, presieduto da Emilio Santoro, docente di filosofia e storia del diritto all’Università di Firenze, verterà sulla tutela giurisdizionale dei diritti, le misure alternative alla detenzione e le sanzioni di comunità, la pena perpetua, il ruolo della magistratura di sorveglianza, la certezza e la flessibilità delle misure penali, il rapporto tra volontariato e amministrazione penitenziaria. Interverranno: Franco Della Casa, professore ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi di Genova, Massimo Parisi, direttore casa di reclusione di Bollate, Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze, Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia. Il termine di questa seconda sessione è previsto alle 18:30. Sabato 7, dalle 9 alle 13, ci si ritroverà infine all’Istituto Suore di Maria Bambina, in Via Paolo VI 21, per la terza ed ultima sessione "Giustizia e misericordia. La gratuità delle azioni, l’etica dell’economia", coordinata da Elisabetta Laganà, già presidente Seac. In apertura, l’intervento di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale. Interverranno poi: Ivo Lizzola, professore ordinario di pedagogia sociale all’Università di Bergamo, Vittorio Trani, cappellano del carcere di Regina Coeli, Fabrizio Valletti, presidente centro Hurtado di Scampia a Napoli, Antonio D’Amore, coordinatore provinciale di Libera a Napoli, e Ruggero Signoretti, presidente consorzio Nausicaa a Roma. Viterbo: concluso il Progetto Micro, ha visto l’incontro tra vittime e responsabili di reati di Eleonora Celestini viterbonews24.it, 6 novembre 2015 Un’iniziativa realizzata dal Simpse in collaborazione con Uepe e Ceis. L’incontro tra le vittime e i responsabili di reati come mezzo attraverso cui rimettere insieme i pezzi di qualcosa che si è rotto ma da cui può ancora nascere qualcosa di nuovo. E di buono. Ruota tutto attorno al concetto di giustizia riparativa, una giustizia riparativa umanistica, il progetto Micro (mediatori in carcere, la riparazione all’opera) realizzato dall’associazione Simpse, acronimo di Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, in collaborazione con l’Uepe, ufficio dell’esecuzione penale esterna di Viterbo, e il Ceis, e in rete con le associazioni Spondè e Mediante. Il progetto è stato finanziato dalla Regione Lazio. Attraverso lezioni in aula, lavori di gruppo, osservazione silente, restituzione in aula di riflessione, schede di osservazione e valutazione, si sono svolti gli incontri di mediazione tra persone colpite da provvedimenti restrittivi fuori dal carcere, affidati a Uepe e Ceis, e le loro vittime. I risultati di questa attività durata undici mesi - che ha coinvolto 44 utenti, per un totale di 33 ore mediali, con l’ausilio di cinque mediatrici, un coach, due supervisori e un project manager - sono stati presentati questa mattina in Provincia dal referente Simpse, Giulio Starnini; dalla direttrice dell’Uepe, Caterina Caldarola; dal referente del Ceis, Stefano Sensini, in vece di don Alberto Canuzzi; dalla presidente di Mediante, Valentina Pannucci, insieme ad altre mediatrici; dalla project manager di Micro, la consigliera comunale Chiara Frontini. Assente all’incontro ma comunque parte integrante del progetto, la coach Maria Pia Giuffrida, tra i massimi esperti nazionali di mediazione. "Tutto parte dal concetto di giustizia riparativa - spiega Starnini -, una giustizia riparativa umanistica che guarda all’uomo colpevole del reato ma anche all’uomo vittima del reato stesso, alle loro famiglie, alla comunità penalizzata dal reato. La mediazione è costruzione, non solo ricostruzione. Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato al progetto, e anche l’ex presidente della Provincia Marcello Meroi e il consigliere regionale Enrico Panunzi per il supporto". Stando ai dati emersi, la risposta dei partecipanti di Uepe e Ceis al progetto è stata ampia e fruttuosa. "Sono i veri protagonisti - conclude Starnini - con le loro storie di vita, travagliate, commoventi, sbagliate forse, ma ricche di umanità. Hanno manifestato di volere fortemente essere ancora parte di questa comunità". "L’Italia è ancora indietro nelle politiche di recupero dei detenuti - afferma poi Caldarola -, per 30 anni l’Uepe è stato un ufficio sconosciuto. Restano le difficoltà di passare alle misure alternative al carcere, alla necessità di capire l’anti economicità morale di recludere un uomo che ha sbagliato ma che deve essere reintegrato. La vittima di un reato è anche la società in cui vive - conclude, la giustizia riparativa e la mediazione penale sono momenti di incontro che alleggeriscono questa società del peso della pena". Genova: rubati i beni dei detenuti conservati in custodia nel carcere di Marassi di Marco Grasso Il Secolo XIX, 6 novembre 2015 L’ultimo scandalo, se non è il più grave, è forse il più difficile da credere: qualcuno ha rubato beni dei detenuti conservati in custodia nel carcere di Marassi. L’ultima tegola si è abbattuta sul penitenziario di Genova al termine di un anno difficilissimo, scandito da inchieste su droga lanciata nel cortile, la copertura del pestaggio di un detenuto e una maxi-rissa che ha coinvolto gruppi rivali di nazionalità albanese ed ecuadoriana. I primi avvisi di garanzia sono in notifica in questi giorni. La Procura stava lavorando all’inchiesta in segreto già da alcuni mesi. Nel mirino degli investigatori ci sono membri del personale responsabile di quei beni. Tutto nasce da alcune sparizioni sospette, episodi che la stessa direzione del carcere, dopo aver in un primo tempo considerato l’ipotesi di errori, ha denunciato all’autorità giudiziaria. I furti riguardano materiale consegnato prima di entrare in cella, che in teoria dovrebbe essere restituito ai legittimi proprietari una volta terminata la detenzione. Invece, ciò che è accaduto è che di alcuni oggetti si sono perse le tracce. Una défaillance che, indipendentemente dal valore della merce scomparsa, è fortemente simbolica perché mina alle basi la credibilità del penitenziario. Ecco perché i vertici della struttura non hanno indugiato un attimo prima di raccogliere un dossier riservatissimo e girarlo alla Procura. Renzi cambia verso: droni con "licenza di uccidere", primo obiettivo Libia e "scafisti" di Matteo Bartocci Il Manifesto, 6 novembre 2015 Guerra. Storico sì di Washington alla vendita di missili e bombe per i Reaper tricolore. L’Italia è il primo paese europeo dopo la Gran Bretagna a poter usare gli aerei killer americani. La prima fattura sarà da 150 milioni. Primo obiettivo: Libia e "scafisti". Silenzio dal Pd. Sel: Pinotti in parlamento. Il Dipartimento di stato e il Pentagono hanno detto sì. L’Italia sarà l’unico paese del mondo, dopo la Gran Bretagna, a ricevere dagli Stati uniti missili e bombe per armare i propri droni, rendendoli in grado di uccidere. La notizia, raccolta dalla Reuters e ripresa dai principali giornali italiani, cade nel più totale silenzio della politica. Sponsor forte dell’operazione è il segretario di stato John Kerry, che fin dal 2012, quando era senatore, si espresse ufficialmente a favore della vendita all’Italia. Il Congresso, secondo il principio del silenzio assenso ha ora 15 giorni per opporsi alla decisione del governo Obama ma è decisamente improbabile che lo faccia. Da quel momento, la palla sarà tutta in mano a Palazzo Chigi, che presumibilmente dovrà firmare i numerosi protocolli "riservati" previsti nella vendita. Secondo Reuters il governo degli Stati uniti acquisterà da General Atomic e poi rivenderà all’Italia 156 missili Agm-114R2 Hellfire (prodotti dalla Lockheed Martin), 20 bombe GBU-12 a guida laser, 30 bombe Gbu-38 Jdam e altri armamenti per un contratto stimato inizialmente in 129,6 milioni di dollari (119 milioni di euro). L’Italia potrà così armare 2 droni Mq-9 Reaper con 14 missili aria-terra e 2 bombe per ogni missione. I Reaper sono 9 volte più potenti e il doppio più veloci dei più conosciuti Predator. Alle munizioni, vanno aggiunti almeno altri 30 milioni di euro per l’addestramento del personale e l’aggiornamento del software impiegato. Ed è praticamente certo che, vista la palese considerazione del nostro paese a Washington, saremo casualmente anche tra i primi ad acquistare dal 2018-2020 l’evoluzione del Reaper, il Predator B-Rpa, spendendo altre centinaia di milioni di euro in armamenti d’attacco. Inoltre, va ricordato che la richiesta italiana riguardava 6 Reaper e dunque non è escluso che le fatture verso Washington possano lievitare nel prossimo futuro dopo il primo via libera. Sono quattro anni che l’aeronautica aspetta. La richiesta fu avanzata dal governo Berlusconi nel 2011 ed è stata ripetuta da tutti gli esecutivi successivi (Monti, Letta e Renzi) nel silenzio totale del parlamento. Oggi l’unica voce critica viene da Donatella Duranti di Sel: "Siamo contrari - dice la capogruppo in commissione Difesa alla camera - all’acquisto di strumenti di guerra che hanno poco a che fare con la difesa e che hanno un margine di errore tra obiettivi militari e civili molto alto. Chiediamo al ministro Pinotti di venire a riferire urgentemente in aula perché il Parlamento e il Paese hanno il diritto di valutare l’opportunità di acquistare droni armati, sapere a cosa serviranno e come e per quali finalità verranno impiegati". L’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Leonardo Tricarico esulta: "Non si ha ancora la percezione del ruolo fondamentale che i droni ricoprono nei moderni conflitti asimmetrici. La dottrina militare andrà sicuramente riscritta da capo. I droni possono agevolmente svolgere missioni di contrasto alle organizzazioni criminali che lucrano sull’immigrazione". Tricarico è sicuro: "Sarebbe un gioco da ragazzi per l’Aeronautica, che utilizza i droni da undici anni, distinguere le unità impiegate per la pesca da quelle usate per organizzare i viaggi dei migranti, grazie alle capacità di intelligence assicurate da mezzi che possono garantire una permanenza praticamente illimitata sopra l’obiettivo". Peccato per il generale, però, che i Drone papers pubblicati qualche giorno fa da the Intercept dimostrino esattamente il contrario. Il bilancio della guerra "senza pilota" è desolante secondo i documenti riservati dello stesso Pentagono diffusi da Greenwald e Poitras: il 90% delle vittime è non identificato o errato, certamente non l’obiettivo originario. Recentemente, anche Mario Platero sul Sole 24 Ore ha rilanciato tutte le critiche nell’uso militare dei droni, che l’Italia potrà usare per uccidere solo in stretto raccordo con gli Usa. L’impiego dei droni killer nel Mediterraneo, almeno nel breve termine, è avvalorato da un’altra decisione di ieri degli Stati uniti riportata da El Pais: il dislocamento di 5 enormi droni Global Hawk da ricognizione nella base (guarda caso) di Sigonella. In Europa i Reaper ce l’hanno solo Italia, Francia, Germania e Gb. La Francia li ha dislocati, disarmati, in Sahel e Londra li usa in Iraq. L’autorizzazione di Washington a Roma sembra spezzare questo fronte politico-economico, facendo dell’Italia un rompighiaccio, come già accaduto per F35 e Eurofighter. Non è un caso, forse, che a maggio i ministri della Difesa di Italia, Francia e Germania hanno firmato un protocollo che prevede entro il 2025 la produzione di un drone militare tutto made in Europe, la prima embrionale dichiarazione di affrancamento dalla tecnologia militare Usa. I Reaper italiani sono guidati dal 28° gruppo "Streghe" del 32° Stormo dell’Aeronautica Militare di Amendola, nel Gargano (Foggia). Hanno alle spalle un’attività molto intensa per la quale il 4 novembre scorso sono stati premiati dal presidente Mattarella: Afghanistan, Iraq, Mare Nostrum, Kosovo, monitoraggio anti Isis dal Kuwait, perlustrazioni anti-pirateria nell’Oceano Indiano e Corno d’Africa da Gibuti. Ma contrariamente al senso comune hanno già volato anche nei cieli italiani. Anzi, secondo un accordo siglato un anno fa tra Aeronautica Militare, Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri i Predator (non armati) possono essere impiegati "per controllare manifestazioni, stadi, strade, autostrade e sorvegliare aree specifiche". Nel 2007 i Predator hanno sorvegliato il vertice Russia-Italia a Bari e nel 2009 il G8 all’Aquila. Secondo fonti americane non confermate, sarebbero stati impiegati anche in Sicilia in operazioni anti-mafia. Amendola e Sigonella sono insomma le due basi italiane dei droni. Ma è sulla Puglia, soprattutto, che punta l’Aeronautica. Lavori di potenziamento e adattamento al volo notturno avviati a maggio scorso renderanno Amendola uno dei più importanti aeroporti militari italiani. Se la politica fa finta di non sapere, la Difesa invece si muove per tempo. Immigrazione, Berlino ammette la crisi: "arrivi ingovernabili" di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 6 novembre 2015 Il collasso del sistema di accoglienza dei migranti rimanda la rottura all’interno della Koalition. Oscurato dalla baruffa tra Cdu e Spd sugli hot-spot per i migranti, offuscato dalla crisi bavarese e dalla rivolta sassone, congelato perfino nell’agenda dell’opposizione. Eppure il collasso del sistema dell’accoglienza in Germania è più che conclamato, e il default tedesco, non solo organizzativo, misurabile anche dai non addetti ai lavori. Sarà per questo che, per ora, nessuno nella Koalition ha (davvero) intenzione di aprire la crisi di governo e neppure i falchi della minoranza, al di là delle dichiarazioni, possono permettersi di sparare politicamente ad alzo zero. Di fatto il crollo della "struttura" - tutt’altro che imprevedibile - è il vero incubo di tutti i partiti e fa più paura delle elezioni nei Land (a marzo 2016 si vota in tre Stati) e a livello federale (2017). Così, nella capitale si naviga a vista, nell’incapacità di gestire, sul serio, il milione di profughi presenti nel Paese entro la fine dell’anno. Flusso impossibile da controllare, a Berlino "arrestato" a fatica perfino dalla Bundespolizei che il 26 ottobre ha fermato "casualmente" 65 tra siriani, eritrei e arabi sfuggiti alla registrazione nel Brandeburgo. Aspettavano sui binari della stazione di Südkreuz un treno diretto in Svezia, senza le carte e i bolli giusti. Gli agenti li hanno rispediti subito oltre confine, girando la "pratica" al Land di provenienza. Finora il "federalismo reale" ha funzionato così: facendo rimbalzare il problema qualche decina di chilometri più in là. Un tampone, in tutti i sensi, spinto ben oltre la capacità di assorbimento del sistema e anche del buon senso, come a Sumte, borgo di 102 abitanti nella Bassa Sassonia, destinato a ospitare il… quintuplo di rifugiati. I primi 50 sono arrivati tre giorni fa a bordo di un bus, accolti dal comitato di residenti e dai 4 poliziotti di stanza nel comune. Ora l’"integrazione" è affare loro e il caso, anche se solo sotto il profilo della competenza, è risolto. Del resto, non ci sono alternative: i centri riservati all’accoglienza dei migranti sono letteralmente implosi, soprattutto nella capitale che si scopre impreparata a ricevere i 20.000 profughi previsti nei prossimi due mesi. A Berlino la situazione è già insostenibile: basta fare un giro nel quartiere di Moabit, a tre fermate di metropolitana dalla cancelleria di Angela Merkel, davanti alla sede del Lageso, l’ufficio socio-sanitario predisposto alla registrazione dei richiedenti asilo. Qui da agosto la situazione è fuori controllo, anche se il livello di guardia viene superato ufficialmente solo il 24 ottobre: a passare il limite è un addetto della security (privata) che "stende" violentemente a terra due profughi usciti dalla fila. È"la legge del più forte" che rimbalza fin sulla stampa, la gestione "pratica" dell’emergenza, la norma quotidiana che affonda ogni regola. Un disastro, peggio "una catastrofe" per dirla con le parole dei volontari dell’associazione Moabit Hilft dal 2013 in prima linea sul fronte dell’aiuto ai rifugiati. Appena "tollerati dalle autorità", puntano l’indice contro le istituzioni che "non collaborano" e denunciano l’imbarazzante stato del principale hub della città. "Il Senato è politicamente responsabile della situazione catastrofica del Lageso" riassumono, prima di elencare i buchi neri dell’accoglienza di Stato: "L’ufficio sociale non assicura le cure sanitarie: nelle strutture ci sono solo i medici volontari, l’assistenza ufficiale non esiste". Si somma ai disservizi igienici forniti ai 500 profughi che ogni giorno affollano il Lageso (un wc chimico, costo: 50 cent a seduta) e alla sospensione dei diritti stabiliti dalla legge sull’asilo "con turni di attesa per il rilascio del primo documento fino a 57 giorni". In più "chi arriva nel fine settimana non può accedere ai rifugi, le famiglie trovano tetto e cibo solo negli alloggi privati". Fallisce la prova dei fatti pure la distribuzione dei profughi negli ostelli: a Berlino anche chi è dotato del voucher garantito dal Land viene messo alla porta "a causa di ingenti arretrati o di modalità di pagamento non accettate". Il risultato è che "i rifugi stabiliti dal Senato respingono gli sfollati" rimarca chi li assiste sul campo. Fa il paio con l’implosione burocratica confermata dallo stesso personale del Lageso: "Negli uffici mancano 200 impiegati fra traduttori, mediatori, addetti alle registrazioni" mentre il reclutamento dei pensionati, richiamati per tappare le falle in organico, al massimo serve a guadagnare tempo. Quello che manca però è soprattutto lo spazio. Non si trova nei quartieri "sovietici" di Berlino est come Marzahn dove l’opposizione frontale dell’ultradestra e dei populisti filo-Pegida appare scontata, ma nemmeno a Reinickendorf, nel nord-ovest, dove gli abitanti "resistono" alla trasformazione dell’ex fabbrica di Tetrapak in un Asylheim per 1.000 migranti. Procede più o meno secondo i piani solo il riallestimento del vecchio aeroporto di Tempelhof (quello del "ponte-aereo") con il montaggio dei letti a castello per circa 2.000 persone affidato all’esercito. Da solo però non basta, al punto che il Senato da una settimana è costretto a scandagliare gli annunci immobiliari su internet, come qualsiasi privato cittadino. Forse, avvertono i volontari di Moabit, per risolvere il problema "le autorità aspettano che congeli il primo bambino o il gesto di disperazione di qualche profugo". Poco importa se il dramma a Berlino si è già consumato e per qualcuno la coda infinita davanti al Lageso è diventata davvero infernale: è il caso di Mohamed Januzi, bosniaco, 4 anni, perso di vista dalla madre il 1 ottobre nel caos delle registrazioni, ritrovato cadavere un mese dopo nel bagagliaio dell’auto di una guardia giurata (tedesca) con segni di abusi e tortura. Tutto mentre al Bundestag si discuteva dei controlli, per gli stranieri. Marijuana legale in Messico, una svolta per le Americhe di Federico Varese La Stampa, 6 novembre 2015 Ma la decisione della Corte suprema non darà un colpo decisivo ai narcos. Vi sono due modi di leggere la decisione della Corte suprema messicana che accoglie il ricorso di un gruppo di attivisti favorevoli alla legalizzazione della marijuana. Una versione vorrebbe che la sentenza sancisca lo status quo, è solo un passo insignificante in una direzione che non verrà mai intrapresa poiché non lo vuole la maggioranza della popolazione messicana, né la classe politica, incluso il Presidente. Un’altra interpretazione suggerisce che il regime proibizionista stia per crollare in tutta l’America Latina, Messico incluso. Cosa dice esattamente la sentenza dei cinque giudici, quattro a favore e uno contrario? In risposta al ricorso di una associazione chiamata Smart, la Corte ha sancito che "coltivare, possedere e fare uso di marijuana a scopo ricreativo" è un diritto costituzionale. Oggi questi atti sono illegali, ma depenalizzati. A questo punto le opinioni si dividono: per il Presidente Enrique Peña Nieto, la sentenza non apre le porte alla legalizzazione del consumo, del commercio o del trasporto della marijuana. Non fa altro che confermare quello che già avviene in pratica. Il Presidente ha dalla sua parte l’opinione pubblica: secondo un sondaggio recente, solo il 20% della popolazione è favorevole a un cambiamento della legge e l’opposizione della Chiesa cattolica è netta. Gli esperti aggiungono che la Corte deve confermare questa decisione in altri cinque casi simili affinché la sentenza stabilisca un precedente in grado di cambiare la legge. L’interpretazione minimalista dimentica che i cambiamenti epocali non avvengono in maniera graduale. Il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est è stato repentino, come l’emergere della norma contro il fumo nei luoghi pubblici, l’accettazione delle relazioni tra persone dello stesso sesso e l’aborto. Minoranze con lo sguardo rivolto al passato sono dure a morire, ma diventano sempre più marginali. Oltre un certo punto, il cambiamento è inarrestabile, come spiega Malcol Gladwell nel suo saggio magistrale "Il punto critico" (2000). L’America Latina sta per raggiungere il suo punto critico. L’Uruguay ha legalizzato il consumo nel 2013, in Cile da quest’anno si può produrre cannabis per scopi medici, in Brasile la corte suprema sta dibattendo la depenalizzazione, mentre in Bolivia è legittimo l’uso tradizionale di foglie di coca. In Colombia, il Presidente Santos, un fautore della legalizzazione, ha ordinato la fine del programma di fumigazione aerea di glisofato. Lo stesso Messico ha di recente introdotto l’uso della marijuana per motivi sanitari. Una bambina di otto anni, che soffre di convulsioni a causa di una rara malattia, è stata il paziente zero. Fino a qui gli sviluppi recenti in America Latina, ma non dimentichiamo che quel continente include anche altri due Paesi, Canada e Stati Uniti. Il programma elettorale del primo ministro canadese, Justin Trudeau, non potrebbe essere più chiaro: "Siamo a favore di legalizzare, regolamentare e ridurre l’accesso alla marijuana". Solo a Vancouver - una città da anni all’avanguardia su questi temi - vi sono 176 negozi che vendono cannabis, ma solo 11 hanno l’autorizzazione. Nondimeno, nessuno è intervenuto per chiuderli e adesso il capo della polizia locale si è detto pronto a collaborare col governo per scrivere una nuova legge, molto probabilmente sul modello di quella in vigore nello stato americano del Colorado. Nelle fasi di transizione si assiste a molti paradossi. Negli Stati Uniti, ventiquattro Stati hanno legalizzato l’uso della cannabis, ma per il governo federale il consumo rimane illegale, anche per ragioni mediche. Hillary Clinton ha fino ad ora rifiutato di prendere posizione a favore di un cambiamento della legge, ma ha detto chiaramente che, se eletta, non si opporrà alle decisioni di stati che intendono seguire l’esempio del Colorado e dell’Alaska, dove il consumo è libero. Un Presidente Repubblicano potrebbe rallentare, ma non bloccare del tutto, questa valanga. Solo gli osservatori più ingenui credono che la legalizzazione possa dare un colpo mortale ai cartelli messicani. Questi ultimi subiranno sì una riduzione dei loro profitti, ma continueranno a prosperare attraverso il controllo di altri mercati, di altre merci, di altre droghe. E non vi è dubbio che un consumo smodato possa avere conseguenze negative, come avviene per molti cibi e bevande. È solo giunto il momento di accettare che le persone possono fare scelte diverse dalle nostre e nondimeno meritano rispetto e protezione. I giudici messicani lo hanno capito. Nasce a Londra la Sex Workers Solidarity Society: diritti e visibilità in primo piano di Gabriele Cavallo Il Garantista, 6 novembre 2015 Ricordate cos’è successo di recente nel dibattito sul sex work? A seguito del voto di Amnesty International a favore della decriminalizzazione (agosto 2015), varie organizzazioni sensibili al tema si sono confrontate sulle prospettive legali e sulla condizione di diritto degli individui coinvolti in attività di sesso commerciale. Lo scontro è stato perlopiù fazioso, con accuse ingiustificate rivolte da gruppi nostrani e stranieri alla Ong e ai gruppi a sostegno dei/lle sex wokers. Tra le varie scorrettezze, la più grave è stata di certo l’esclusione delle voci di quest* ultim*. Associazioni di abolizionist* e femministe radicali hanno programmaticamente trascurando i gruppi di rappresentanza diretta di chi lavora nel mercato del sesso, come abbiamo visto in Italia col Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute. Una risposta interessante è arrivata da Londra. Nel clima acceso dello scorso settembre, alcun* studenti/esse di Goldsmiths (UoL) si sono uniti per fondare la Sex Workers Solidarity Society, il primo gruppo studentesco del Regno Unito impegnato nel sostegno al sex work. La society, diretta e organizzata da sex workers, si propone di offrire uno luogo sicuro per il dibattito, il confronto e la discussione dei temi relativi al lavoro sessuale. Rivolta soprattutto a sex workers, la SWSS riconosce che la costrizione all’anonimato danneggia grandemente tanto la sicurezza lavorativa degli individui quanto le loro possibilità di essere ascoltati. Laura Renvoize, fondatrice della SWSS, afferma: "vogliamo creare uno spazio in cui le persone abbiano accesso a sostegni e consigli concreti, in cui non si sentano discriminate o costrette a vivere in segreto". La scelta di costituire un gruppo studentesco è tutt’altro che casuale. Lo Student Sex Work Project ha stimato che oltre il 5% degli universitari svolge un lavoro sessuale e oltre il 22% considera seriamente l’idea. Quella degli studenti è tra le maggiori fasce di persone coinvolte nel sesso commerciale e tra questi, a dispetto degli stereotipi, la quantità di uomini supera il numero di lavoratrici donne (parliamo del 2,4% contro l’1,3%). Servono altri dati per mostrare quanto siano sommari e inesatti i giudizi comuni sull’argomento? Oltre a offrire uno spazio per i/le sex workers, la SWSS si propone come un gruppo di discussione aperto a sostenitori e, in generale, alle persone interessate ad avere un’idea chiara di cosa sia realmente il lavoro sessuale. Uno dei maggiori meriti della SWSS è l’identificazione del discorso sul sex work come discorso indipendente. "Ovviamente il dibattito ha a che fare con tematiche politiche e/o femministe", dice una delle fondatrici, "ma non tutt* i sex workers condividono la stessa prospettiva su questi argomenti". È pertanto necessario che il dibattito intorno ai diritti lavorativi dei/lle lavoratori/trici del sesso si configuri come autonomo, gestito in prima persona da coloro che vivono questa realtà sulla propria pelle, benché il sex work non sia estraneo a problematiche relative ad altre aree di discussione. Per questo la SWSS vuole affrontare temi salienti come la discriminazione raziale e la differenza di genere nell’ambito specifico del sex work. Le battaglie del gruppo si concentreranno sugli aspetti di pertinenza specifica del sex work, come la chiara distinzione tra prostituzione volontaria e tratta. Secondo quanto emerso da varie ricerche (e confermato dal documento di Amnesty), la legittimazione del sex work come lavoro e il riconoscimento dei diritti rappresenta un mezzo potente per combattere ogni tipo sfruttamento, permettendo di identificare chiaramente i casi di tratta e garantendo ai/lle lavoratori/trici del sesso le armi legali necessarie per difendersi da abusi e violenze. Nelle prossime settimane verrà realizzato un blog di discussione pubblica e la SWSS sta lavorando alla creazione di un archivio online contenente documenti e testimonianze utili per chiunque interessato. Questo aiuterebbe a fare chiarezza sui termini intorno ai quali aleggia ancora una triste nebbia di confusione, come differenza tra illegalità, legalizzazione e decriminalizzazione. Il collettivo ha in programma iniziative all’infuori dell’Università, per potersi definire come un gruppo autonomo di sex workers e sostenitori. "Al momento", afferma Renvoize, "il nostro obbiettivo è offrire un servizio agli studenti di Goldsmihts, ma ci auguriamo di poter agire nel quadro della più ampia comunità studentesca: il lavoro sessuale è diffusissimo in tutte le realtà universitarie e speriamo di poter creare una rete di sostegno in grado di rispondere alla solitudine delle nostre esperienze". A due mesi dall’inizio delle attività, la SWSS si conferma come un ulteriore schiaffo all’inadeguatezza di chiunque voglia parlare di sex work senza tenere conto dei/lle dirett* interessat*. Uno schiaffo che, vista la delicatezza e l’importanza del discorso, è quanto mai gradito e benvenuto. Afghanistan: indagine Msf "l’attacco Usa all’ospedale di Kunduz fu per uccidere" di Emanuele Giordana Il Manifesto, 6 novembre 2015 In attesa che chi ha fatto il danno spieghi chi diede l’ordine e perché con un’indagine interna che tarda a vedere la luce, Medici senza frontiere, l’associazione umanitaria che il 3 ottobre scorso vide il suo ospedale a Kunduz bruciare dopo un bombardamento reiterato e senza possibilità di scampo, ha deciso di rendere pubblica - in attesa di una possibile indagine indipendente - la sua versione dei fatti. Presentato ieri a Kabul, il rapporto racconta nei dettagli uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario. Le conclusioni sono infatti che alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e che alcuni membri dello staff furono decapitati e mutilati dai proiettili, spesso mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto dice anche che nel centro traumatologico della città in mano ai talebani (che ieri hanno tentato un’altra azione a Kunduz ma sono stati respinti) e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell’aviazione americana, non c’erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l’obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a "incidente" ed "errore" aveva un chiaro obiettivo: "Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere - ha detto Christopher Stokes, direttore generale di Msf - ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana". Il rapporto, che si basa sulle testimonianze dirette dei sopravvissuti, ricostruisce con precisione quanto avvenne in circa un’ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto (trenta i morti - tra cui 13 membri dello staff medico e 10 pazienti. Sette i corpi non ancora identificati). Nel centro c’erano 105 malati e Msf stima che 3 o 4 fossero combattenti governativi mentre circa altri venti fossero talebani. Oltre a loro c’erano 140 persone dello staff nazionale e nove internazionali oltre a un delegato della Croce Rossa internazionale. Il raid era mirato: una serie di attacchi aerei multipli, precisi e sostenuti, hanno preso di mira - dice il dossier - l’edificio principale dell’ospedale, lasciando il resto delle strutture del compound di Msf relativamente intatte. Le coordinate Gps fornite alle parti in conflitto coincidono infatti perfettamente con l’edificio preso di mira. Le testimonianze dicono che, il primo reparto a essere colpito è stato la terapia intensiva, dove il personale stava assistendo pazienti immobilizzati (tra cui due bambini), alcuni dei quali attaccati ai ventilatori. Il personale che si stava occupando della terapia intensiva - dice Msf - è stato direttamente ucciso nel corso dei primi attacchi aerei o dal fuoco che ha poi inghiottito l’edificio. I pazienti non deambulanti del reparto sono bruciati nei loro letti. L’attacco si è poi spostato da Est a Ovest dell’edifico principale. I servizi di terapia intensiva, l’archivio, il laboratorio, il pronto soccorso, la radiologia, l’ambulatorio, il reparto di salute mentale, la fisioterapia e le sale operatorie sono stati distrutti dalla successiva ondata di attacchi. Il raid ha dunque coinvolto anche chi non era nell’edifico principale svegliandolo nel cuore della notte e addirittura, dice ancora il dossier, "molti dello staff raccontano di aver visto persone prese di mira, probabilmente dall’aereo, mentre cercavano di fuggire dall’edificio principale dell’ospedale… altri riportano di spari che seguivano i movimenti delle persone in fuga. Alcuni medici di Msf e altro personale medico sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un’altra zona del compound nel tentativo di mettersi in salvo". Rispetto al fatto che si colpì l’ospedale per colpire i talebani, Msf chiarisce che nessun membro del personale ha segnalato la presenza di armi, combattenti armati o di combattimenti in corso all’interno del centro, prima o durante gli attacchi aerei. In compenso, quando sono arrivate le ambulanze di soccorso, i soldati afgani arrivati in contemporanea ne hanno approfittato per cercare guerriglieri ancora vivi. Siria: la denuncia di Amnesty International "sequestrate e torturate oltre 65mila persone" di Federica Macagnone Il Messaggero, 6 novembre 2015 Scomparsi nel nulla. Sottratti alle loro famiglie senza un apparente motivo e detenuti in condizioni disumane nelle carceri siriane: è quanto denuncia Amnesty International nel suo ultimo rapporto sui rapimenti messi in atto dal regime di Assad che, dall’inizio della guerra civile nel 2011, ha fatto scomparire oltre 65mila persone "in un attacco mirato contro la popolazione civile, una campagna che costituisce un crimine contro l’umanità". Un buco nero dove si finisce senza avere la certezza di uscirne vivi, un calvario per i parenti che non hanno più informazioni dei loro cari se non dietro pagamento di "tangenti": secondo Amnesty, infatti, il governo siriano sarebbe il regista di un "mercato nero" dove operano diversi intermediari che si farebbero pagare, sfruttando il dolore delle famiglie dei "desaparecidos". L’Organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani ha basato il suo rapporto sulle interviste condotte con 71 familiari, amici e colleghi di siriani scomparsi tra il marzo 2011 e agosto 2015: sequestrati di giorno al lavoro e di notte nelle loro case, i desaparecidos sono stati tagliati fuori dal mondo esterno e spediti in prigioni dove la tortura è di routine e la morte è all’ordine del giorno. La Rete siriana per i diritti umani (Snhr) ha raccolto i nomi di 65.116 individui (58.148 dei quali sono civili) che sono scomparsi da marzo 2011 e che, ancora oggi, rimangono dispersi: di questi, 3.879 sono bambini. Sebbene la maggior parte del Paese non sia sotto il controllo di Bashar al-Assad, molte persone, tra cui attivisti politici e avvocati per i diritti umani che rimangono nel territorio del regime, vivono sotto la minaccia di entrare in quella lista. Famiglie tenute all’oscuro. Le famiglie, che vengono tenute completamente all’oscuro delle motivazioni dell’arresto, possono trascorrere anni senza notizie di alcun tipo: per Naila Alabbasi, l’attesa dura da due anni e mezzo. Sua sorella, Rania, è stata portata via dalla sua casa il 9 marzo 2013, poco dopo che il marito era stato arrestato allo stesso indirizzo. "Lo abbiamo scoperto dopo pochi giorni - ha raccontato Alabbasi. Ora io riesco a malapena a dormire la notte. Non sappiamo dove si trovino o come stiano, non sappiamo nemmeno se sono vivi". Dentista di professione, Rania era stata anche più volte campionessa nazionale di scacchi. "Quando gli ufficiali dei servizi segreti l’hanno arrestata, hanno rubato i suoi premi, insieme al denaro, ai gioielli, alle auto di famiglia. Hanno anche preso i suoi sei figli. Che possibilità c’è per un bambino, quando anche gli adulti a malapena sopravvivono in quelle prigioni? Il più piccolo ha solo due anni". Lo sfruttamento del dolore. I parenti hanno poche possibilità di rivedere i propri cari: chi va direttamente a una stazione di polizia rischia l’arresto e in molti si sono rivolti a una rete di intermediari inaffidabili che, dietro il pagamento di ingenti somme di denaro, hanno dato informazioni che si sono rivelate false e infondate: un uomo ha raccontato di non essere riuscito ad avere informazioni su tre fratelli, scomparsi nel 2012, nonostante avesse pagato circa 150mila dollari a intermediari del regime che poi non hanno dato alcuna risposta. Carceri disumane e torture. Intanto, nelle carceri, i desaparecidos vivono in condizioni terribili, in celle sovraffollate dove dilagano le malattie e le cure non sono contemplate. "Molti di loro sono stati torturati - si legge nel rapporto di Amnesty - con fruste, scosse elettriche, bruciature e violenze carnali". Raneem Màtouq, 24 anni, studentessa di belle arti di Homs, è stata vittima di una sparizione forzata per due mesi nel 2014: prelevata dalla sua casa da un gruppo di militari armati, ha trascorso 60 giorni in una cella di 3 metri quadrati condivisa con altre 10 donne. "Durante un interrogatorio brutale - ha detto - sono diventata isterica e ho iniziato a cantare. Sono stata punita per questo. Mi hanno appesa per la gola e hanno iniziato a colpirmi, ma altri sono stati sottoposti a pene peggiori". Ora è libera e vive in Germania, ma il suo calvario non è finito: suo padre Khalil, un avvocato per i diritti umani di fama nazionale che ha difeso centinaia di prigionieri politici, è stato arrestato a Damasco nell’ottobre del 2013 e da allora non ci sono notizie. "Era, molto semplicemente, il più grande uomo che abbia mai conosciuto - ha continuato Màtouq - A volte quando penso a lui, non riesco a fermare la mia immaginazione, perché so quello che succede alle persone là dentro". Le accuse ad Assad. Il governo di Assad è stato a lungo accusato di aver tentato di mettere a tacere l’uso estensivo di detenzioni, rapimenti, torture e persino esecuzioni extragiudiziali. "In più - denuncia Amnesty - l’uso del governo di queste sparizioni forzate rappresenta anche una fonte di reddito in un momento in cui l’economia è martoriata da oltre quattro anni di conflitto (gli analisti dicono che, dall’inizio della guerra, l’economia siriana ha subito una contrazione di oltre la metà)". "Le sparizioni stanno guidando l’economia di un mercato che commercializza la sofferenza delle famiglie che hanno perso una persona cara - ha detto Philip Luther, direttore del programma di Amnesty International nel Medio Oriente - Chiediamo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di agire contro le sparizioni forzate andando oltre la risoluzione adottata nel febbraio 2014, che prevede di fermare tali misure. È necessario imporre sanzioni mirate, tra cui il congelamento dei beni, per fare pressione sulle autorità affinché pongano fine a questa pratica". Afghanistan: quel sasso tirato contro la vita, la morte barbara di Rokhshana di Adriano Sofri La Repubblica, 6 novembre 2015 In Afghanistan la lapidazione di una ragazza dimostra che la legge dei fondamentalisti trionfa ancora. Notizie sull’età della pietra. Rokhshana è una ragazza di 19 anni, lapidata in un villaggio afgano nella provincia di Ghor. I siti di tutto il mondo ne sono pieni, qualcuno sceglie un fermo immagine, qualcuno - migliaia - posta il video. Mentre alcuni uomini, senza fretta, senza emozione, scagliano le loro pietre, altri stanno accoccolati a guardare, altri riprendono col telefono. I siti avvertono che le immagini sono "graphic", crude. Del resto in rete se ne trovano a volontà, di lapidazioni. Ho guardato il video. Avevamo tanto letto e ascoltato la meravigliosa parabola dell’adultera senza capire davvero. Il fotogramma di Rokhshana e dei lapidatori è raccapricciante, ma è giusto sentire il suo pianto basso come un lamento, la voce tremula che prega e implora, e man mano che le sassate si infittiscono e si fanno più rapide la voce si alza e diventa un guaito e poi un grido alto, non più una preghiera a Dio e nemmeno un’implorazione agli assassini - e poi si interrompe. Anche se lei ha chiesto pietà, è impossibile che abbia chiesto aiuto. Non c’è nessuno cui chiedere aiuto, da quella buca. Da noi che, grazie ai carnefici vanesi, guardiamo e ascoltiamo, non viene aiuto. La provincia ha una governatrice, che si barcamena, disgraziata anche lei, fra la legge che vieta la lapidazione e la sharìa che, secondo lei, la prescrive. Le autorità accusano i Taliban, qualcuno obietta che i capi tribali fanno lo stesso. Rokhshana era scappata con il Mohammed che amava, 23 anni. Con lui sono stati clementi, si sono accontentati di frustarlo. L’adultera è per eccellenza femmina. Mi sono ricordato del carcere femminile di Herat, costruito dagli italiani, dove le recluse erano donne accusate di adulterio anche solo immaginato, messe in salvo nelle celle dalle vendette omicide di uomini e famiglie. A Kabul, a marzo, Farkhunda, una giovane accusata falsamente da un lurido mullah di aver bruciato pagine del Corano, era stata trucidata da una folla di giovani uomini che lottarono per calpestarla, saltare sul suo corpo, infierire coi bastoni, infine darle fuoco. C’è il video, meticoloso. Ci fu una ribellione mirabile di donne, vollero, contro ogni tradizione, caricarsi sulle spalle la bara della loro sorella. Il potere se ne spaventò, recitò qualche punizione. A distanza di pochi mesi tribunali superiori riportarono le cose all’ordine maschile. Alla "differenza culturale". La questione afgana ha infatti questo di peculiare, rispetto all’intervento internazionale: che le donne lo chiedono, in nome dell’incolumità e dei diritti più elementari. Ora c’è una gran vicenda fra Afghanistan e Stati Uniti. Nel 2011 due Berretti verdi, un ufficiale e un sottufficiale, trovarono il capo della polizia di un paese, nominato da loro, che aveva tenuto per giorni un bambino incatenato al letto per abusarne, e picchiato la madre. Gli diedero una lezione e denunciarono la cosa. La cosa rivelò che quella tradizione, si chiama bacha bazi, "giocare coi bambini", è diffusa: capi della polizia o dell’esercito afgano, i "nostri", si prendono dei bambini per farli danzare vestiti da femmine e abusarne. I due americani furono rispediti in America, e lo scandalo è scoppiato ora (grazie a un articolo del New York Times), quando uno si è congedato, e l’altro non accetta di esser congedato. Vengono fuori circolari militari che insegnano ai marines che lo stupro di bambini e donne in Afghanistan è "una questione culturale" dalla quale devono astenersi. Sono molti in America a dire che "i veri americani" sono quelli che non hanno voltato la testa dall’altra parte. Finché il comandante delle forze Usa in Afghanistan ha dichiarato: "Voglio che sia assolutamente chiaro che ogni abuso sessuale o analogo maltrattamento, chiunque ne sia l’autore o la vittima, è del tutto inaccettabile e riprovevole". Un po’ di americani e di italiani resteranno in Afghanistan. Avranno capito che la "questione culturale" è la solita questione maschile. Russia: "legge dei sadici" autorizza le guardie ad usare forza fisica e armi contro detenuti L’Espresso, 6 novembre 2015 Tempi duri nei penitenziari russi. Passa il vaglio della Duma la cosiddetta "legge dei sadici" che autorizza le guardie carcerarie ad usare forza fisica e armi contro i detenuti. Via libera dunque a manganelli speciali, gas, taser e cani per "prevenire crimini o violazioni" del regime carcerario o durante i servizi di scorta. Residuale l’opposizione: dicono no alla norma solo il Partito Comunista e Russia Giusta. Medio Oriente: Hamas intende liberare dalle carceri israeliane Marwan Barghouti Nova, 6 novembre 2015 Il leader politico di Hamas, Khaled Mashaal, ha dichiarato ieri, durante una videoconferenza con la stampa dal nord di Gaza, che il suo movimento è intenzionato a liberare il leader di Fatah Marwan Barghouti e altri prigionieri dalle carceri israeliane. "Siamo interessati alla liberazione di Marwan Barghouti, (del leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina) Ahmed Sàdat e di tutti i prigionieri", ha spiegato Mashaal, specificando però che ad oggi l’ipotesi di uno scambio di prigionieri con Israele non è sul tavolo delle trattative. Il leader di Hamas ha anche affermato che il movimento non fornirà alcun dettaglio in merito alla sorte dei militari israeliani detenuti da Hamas a meno che Israele non accetti di rilasciare tutti i prigionieri già scarcerati in cambio della liberazione del militare Gilad Schalit, nell’ottobre 2011, e poi nuovamente arrestati dall’esercito israeliano. Mashaal ha infine lodato la "intifada" in corso contro Israele, e ha chiesto all’Autorità palestinese di cessare ogni forma di coordinamento con Tel Aviv per la sicurezza in Cisgiordania. Medio Oriente: la sezione minorile del carcere israeliano di Ofer è sovraffollata infopal.it, 6 novembre 2015 Il rappresentante dei detenuti palestinesi nella prigione di Ofer, Abdul-Fattah Doula, ha dichiarato che l’esercito israeliano ha trasferito oltre 138 minorenni nel centro di detenzione, a ottobre, e che 48 di questi sono stati picchiati e torturati durante gli interrogatori. Doula ha aggiunto che sei minorenni sono stati imprigionati nonostante fossero stati feriti prima dell’arresto, e richiedano cure mediche continue; altri sei soffrono di varie patologie. 71 dei minorenni detenuti, tra i 13 e i 17 anni, sono stati rapiti dalle loro case, durante la notte o all’alba. Essi non hanno cambi di vestiti e le autorità carcerarie non forniscono coperte per l’inverno; inoltre, sono tenuti in condizioni insopportabili anche per un adulto. Il presidente del Comitato per i Detenuti, Issa Qaraqe, ha affermato che a ottobre, i soldati hanno rapito 800 bambini palestinesi, la maggior parte a Gerusalemme. Detenuto subisce l’amputazione della gamba Un diciassettenne palestinese detenuto nelle carceri israeliane ha subito l’amputazione della gamba a seguito delle gravi ferite riportate all’inizio di ottobre, dopo essere stato colpito da un colono israeliano. L’agenzia Wafa ha riferito le dichiarazioni di Issa Qaraqe, presidente della Commissione dei Detenuti ed ex-Detenuti, dicendo che Jalal Sharawna, 17 anni, ha subito l’amputazione della gamba destra presso l’ospedale Assaf Harofeh, in Israele. Prima del suo arresto, Jalal ha riportato gravi lesioni alla gamba destra dopo essere stato colpito e ferito dal fuoco dei coloni israeliani durante gli scontri nella città di Dura, Hebron. Fin dall’inizio della sua detenzione, Jalal è stato sottoposto a numerosi interventi chirurgici per rimuovere le pallottole dalla sua gamba prima che andasse in cancrena, con la conseguente amputazione. Come ha riferito la Palestine Prisoner’s Society (Pps) durante una conferenza stampa, Jalal è stato sottoposto all’amputazione dell’arto a causa di negligenza medica intenzionale e disinformazione riguardo alle sue condizioni di salute da parte del servizio carcerario israeliano. Il PPS ha spiegato che il servizio carcerario ha trasferito di proposito i detenuti palestinesi, compreso Jalal, dagli ospedali alle carceri prima che finissero le loro terapie mediche. Il PPS ha fatto notare che il prematuro trasferimento di Jalal, che aveva bisogno di ricevere ancora le cure mediche, ha provocato il deterioramento delle sue condizioni fisiche portando all’amputazione della sua gamba destra. Il PPS ha inoltre spiegato che la situazione sanitaria di Jalal è peggiorata dopo essere stato dimesso prematuramente dall’ospedale Soroka per essere trasferito alla clinica del carcere di Ramla. Gran Bretagna: clamorosa "bocciatura" del carcere di massima sicurezza di Maghaberry Ansa, 6 novembre 2015 Altro che "massima sicurezza": clamorosa bocciatura per il supercarcere britannico di Maghaberry, simbolo sinistro della stagione più sanguinosa - fra attentati e repressione - del conflitto in Irlanda del Nord. Un’ispezione condotta a maggio nella struttura, che si trova appunto in Ulster, vicino a Lisburn, ne ha infatti bollato la condizione attuale come "pericolosa". Si tratta di un luogo "instabile e non sicuro", sia per i detenuti sia per le guardie, dove secondo i media imperversano da tempo degrado e guerre fra gang rivali. Una struttura che a dispetto della denominazione (carcere di massima sicurezza) versa in grave "stato di crisi", si legge ancora nel documento, reso noto solo oggi e citato dalla Bbc. Il rapporto è stato stilato congiuntamente dall’Ispettorato centrale di Sua Maestà per le prigioni d’Inghilterra e Galles e dell’autorità penitenziaria dell’Irlanda del Nord. Il giudizio, sottolinea la Bbc, è uno dei più pesanti riservati a un centro di reclusione del Regno Unito e presuppone interventi urgenti.