Giustizia: "Piano carceri", per la Corte dei conti è flop. M5S "sprechi e appalti sospetti" di Anna Morgantini Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2015 Dei 462 milioni assegnati, solo l’11 per cento è stato speso in 4 anni. Con 4.415 nuovi posti detentivi realizzati invece dei 12 mila preventivati. Mentre i penitenziari cadono a pezzi per mancanza di manutenzione. E i detenuti continuano a vivere in regime di sovraffollamento. Ecco una radiografia del sistema carcerario. E del fallimento di un progetto avviato dal ministro Alfano. Mentre la procura di Roma indaga. Assegnati: 462 milioni e 769 mila euro. Spesi: poco più di 52. Percentuale di utilizzo: solo l’11,32 per cento in 4 anni. Risultato: bocciatura senz’appello per i commissari straordinari che dal 2010 al 2014 hanno gestito quel piano carceri che, secondo le promesse del ministro Alfano, avrebbe dovuto risparmiare ai detenuti italiani l’onta di vivere in un sovraffollamento che nel 2013 la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha addirittura definito inumano e degradante, al limite della tortura. La Corte dei Conti non fa sconti a nessuno. E in una relazione diffusa a metà ottobre mette nero su bianco che gli interventi immobiliari finanziati dallo Stato, invece di creare 11.934 posti detentivi come previsto, ne hanno realizzati soltanto 4.415, "che entro il 2016 dovrebbero raggiungere il totale di 6.183 (pari al 51,81 per cento delle previsioni)". Insomma, un flop. A salvare l’Italia dall’ennesima condanna della Cedu, che proprio nel 2013 ci aveva pesantemente censurato dandoci un anno di tempo per adeguarci agli standard minimi dell’Ue e garantire ai reclusi uno spazio vitale minimo di 3 metri quadrati, sono stati il decreto "svuota-carceri" del dicembre 2013 e le misure alternative alla detenzione votate nel 2014. Quasi zero, invece, l’apporto dei commissari Franco Ionta, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) e responsabile del piano carceri dal 2008 alla fine del 2012, e Angelo Sinesio, prefetto molto stimato dall’ex ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, nominato il 1 gennaio 2013 e dimissionato il 31 luglio 2014 dopo essere stato indagato dalla procura di Roma per falso e abuso d’ufficio. Sono stati loro, per 6 anni, i responsabili dell’attuazione di quel piano carceri messo a punto nel 2008 da Angelino Alfano (all’epoca ministro della Giustizia), e poi approvato nel 2010 con una spesa inizialmente prevista di 675 milioni. Un piano che prevedeva la costruzione di 11 nuovi istituti e 20 nuovi padiglioni, per un totale di 18 mila nuovi posti, ma che finora ha partorito, a quanto pare, poco arrosto e molto fumo. A furia di taglia, cuci, aggiungi, elimina, correggi, oggi 54 mila reclusi (altri 35 mila sono in esecuzione penale esterna) si ritrovano infatti a vivere in 202 istituti di pena che fanno pena anche loro. Ecco come li descrive il blog del sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, il Sappe: "Acqua che si infiltra dai tetti facendo staccare gli intonaci inzuppati", "cornicioni che si sbriciolano", "tetti che si spaccano per mancanza di manutenzione", "cessi delle celle otturati nei quali l’acqua sfonda le tubature marce causando danni in altre celle", mentre i "poliziotti penitenziari lavorano in uffici in cui si raccoglie l’acqua piovana con catini e bacinelle poste sulle scrivanie". Un’esagerazione? Macché. "Il nostro patrimonio edilizio si sta completamente deteriorando per un’assenza di manutenzione ordinaria", confermava Santi Consolo, il nuovo direttore del Dap, in audizione davanti all’Antimafia il 1° febbraio scorso. "A volte si tralascia di riparare una piccola infiltrazione d’acqua proveniente dal tetto, che si può sistemare con manodopera detenuta e con poche centinaia di euro; ma poi, per effetto di questo malgoverno che si protrae per anni, bisogna intervenire con un contratto di appalto che costa milioni". Ed è questo il nodo della questione, secondo Francesca Businarolo e Andrea Colletti, deputati del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia: "Si trascura la manutenzione ordinaria e si crea una situazione esplosiva di sovraffollamento e disagio che permette poi di distribuire appalti da centinaia di milioni in affidamento diretto, senza nessuna gara ad evidenza pubblica, con l’alibi della somma urgenza e appalti suddivisi in due parti, con costi raddoppiati e con possibile violazione delle norme antimafia". È proprio quello che è successo col piano carceri. "Poco chiari, lì, sono stati pure i ribassi delle gare: in media pari al 48 per cento, hanno toccato punte del 54, cioè percentuali talmente basse da comportare il rischio di non poter ultimare i lavori." Il tutto nella massima segretezza, visto che si è trattato di appalti che, per ragioni di sicurezza, sono stati quasi regolarmente segretati. Perché? Cosa c’è dietro? Businarolo e Colletti, insieme ai colleghi Agostinelli, Sarti, Bonafede, Ferraresi e Turco, nel maggio 2014 hanno addirittura chiesto di istituire una commissione di inchiesta per capirlo. Non è stata neanche presa in considerazione, anche se la realtà è ormai sotto gli occhi di tutti: i lavori di completamento dei nuovi padiglioni di Modena, Terni, Santa Maria Capua Vetere, Livorno, Catanzaro e Nuoro, nonché il carcere Arghillà di Reggio Calabria, presentano già "infiltrazioni, infissi pericolanti, strutture arrugginite, per non parlare di interruzioni dei lavori in seguito a contenziosi", scrivono i deputati 5 Stelle. "Il nuovo padiglione del carcere di Modena, inaugurato all’inizio 2013, ha subito presentato criticità: disfunzioni incomprensibili per una struttura nuova, come il malfunzionamento dell’impianto idraulico con conseguente mancanza di acqua calda, la fatiscenza degli infissi, dei cardini delle inferriate e del sistema di apertura dei cancelli, tutti segni della cattiva qualità dei materiali impiegati per la costruzione". Ancora peggio va nel carcere di Rovigo, realizzato tra il 2010 e il 2013 e mai aperto, ma costato 30 milioni di euro. Eppure, racconta la Businarolo in un’interrogazione, in Veneto ci sono nove carceri e ospitano 2.227 detenuti, "ben 528 in più rispetto a quelli previsti dalla capienza regolamentare". Solo il vecchio carcere di Rovigo, in via Verdi, ospita 74 persone nello spazio previsto per 33. "In Italia ci sono ben 40 strutture come Rovigo, quasi del tutto ultimate ma non operative", s’indigna la deputata, "perché molto spesso manca il personale per gestirle". Uno scandalo, questo, su cui oggi si esprime anche la relazione della Corte dei Conti: "la mancanza di agenti penitenziari non consente il completo o il miglior utilizzo delle strutture carcerarie". Forse hanno ragione i 40 mila agenti che in galera ci vivono tutti i giorni, insieme ai detenuti. Forse si poteva fare di meglio che sprecare milioni nella stesura di piani faraonici, con uffici speciali, consulenti a rischio di indagine (c’è un fascicolo aperto alla procura della Repubblica di Roma), amici e clientes assortiti, tra cui spicca la figura di Andrea Gemma, attuale membro del cda Eni in quota Ncd, nonché "stretto amico di Alfano, come rivelano i giornali, fin dai tempi dell’università", ricorda Andrea Colletti. Infatti "è stato nominato consulente giuridico per il piano carceri nel 2010, non appena il piano è stato approvato": 100 mila euro in due anni, aggiunge il parlamentare. Forse era meglio fare qualche assunzione in più e magari, come sostiene la polizia penitenziaria, "dividere i 450 milioni di euro (circa) per il numero di carceri esistenti e farli ristrutturare in economia con manodopera detenuta". Forse, a questo punto, starebbero molto meglio in tanti: le guardie e i detenuti. E anche le tasche dei contribuenti. Giustizia: linee guida Dap "i detenuti potranno usare Skype per i rapporti con i familiari" di Marina Crisafi studiocataldi.it, 5 novembre 2015 Le linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nell’attesa della riforma dell’ordinamento penitenziario. I detenuti potranno usare Skype per i rapporti con i familiari e internet nelle sale comuni, ma non in cella. Queste le regole confermate dalla circolare n. 366755 del 2 novembre 2015 emanata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche da parte dei detenuti, si legge nelle linee guida del Dap, "appare oggi un indispensabile elemento di crescita personale e un efficace strumento di sviluppo di percorsi trattamentali complessi"; si tratta di iniziative di "insostituibile valore risocializzante", che vanno incentivate al fine di non marginalizzare ulteriormente la popolazione carceraria ma che vanno contemperate con i problemi legati alla sicurezza in considerazione della particolarità del contesto detentivo. Ciò in linea con le regole penitenziarie del 2006 che hanno riaffermato il principio di un trattamento penitenziario che "si avvicini il più possibile alle condizioni di vita, di organizzazione del lavoro e di studio delle persone libere" e nella stessa direzione del ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario, attualmente all’esame del Senato. Così quanto a internet, sin dal 2000 le norme consentono di tenere un pc nelle camere di pernottamento ai detenuti e nelel sale destinate alle attività comuni, ma senza possibilità di collegamento esterno. Per la circolare tale preclusione va confermata, e l’accesso a internet per motivi di studio, formazione e aggiornamento professionale sarà possibile solo nelle postazioni attivate nelle sale comuni dedicate alle attività trattamentali (come ad esempio le biblioteche) con esclusione quindi delle stanze di pernottamento per consentire un agevole controllo da parte degli operatori. Il tutto sarà gestito a livello centrale, al fine di garantire la massima sicurezza, e l’accesso sarà consentito solo verso una "white list" di siti appositamente selezionati per i quali il detenuto ha avuto autorizzazione e con la presenza, consigliata, di un tutor di sostegno. Quanto a Skype, invece, la circolare conferma l’autorizzazione al suo utilizzo per consentire ai detenuti di mantenere e sviluppare "relazioni familiari il più possibile normali", in armonia con il quadro normativo europeo, e invita tutte le strutture dove sono allocati detenuti comuni ad implementare l’utilizzo di tale strumento. Giustizia: avvocati penalisti in sciopero dal 30 novembre al 4 dicembre prossimi Askanews, 5 novembre 2015 L’Unione delle Camere Penali: "Serve riforma organica processo penale". "Contrastare con assoluta determinazione la possibile estensione dello strumento del "processo a distanza" indistintamente a tutti i processi con detenuti e senza specifica motivazione, tramite la riforma dell’art. 146 bis att. c.p.p. attualmente all’esame del Parlamento". E "intervenire al fine di evitare la spettacolarizzazione dei processi e l’alimentazione dei circuiti mediatici che finiscono per consegnare all’opinione pubblica giudizi preconfezionati, attraverso l’esibizione e la gogna degli arrestati e la diffusione dei materiali di indagine, prima ed al di fuori di qualsivoglia controllo processuale (Carminati, Bossetti, Anas, etc.)". È quanto scrive l’Unione Camere Penali nella delibera di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria dal 30 novembre al 4 dicembre prossimi, in cui viene indetta anche una manifestazione nazionale a Roma, per la data del 2 dicembre. I penalisti sottolineano inoltre che "occorre segnalare al Governo la necessità di procedere ad una riforma organica del processo penale accelerando la razionalizzazione e la modulazione delle sanzioni e realizzando una vera, seria ed estesa depenalizzazione che consenta di riservare al dibattimento la dignità che gli spetta all’interno del giusto processo". Per l’Ucpi è necessario pertanto, "contrastare disegni di riforma volti, anche attraverso la limitazione delle impugnazioni, alla sostanziale vanificazione dell’istituto della prescrizione e la conseguente caduta dell’unico strumento capace di limitare la irragionevole durata dei processi". Va poi predisposta una "seria e radicale riforma del Csm", con "nuove regole che limitino in maniera rigorosa il passaggio dalla magistratura alla politica, e dalla magistratura all’amministrazione", operando un "profondo riassetto ordinamentale che preveda una separazione della carriera del giudice, da quella dei magistrati requirenti, quale inderogabile presupposto della sua Terzietà". Occorre infine "provvedere - fanno notare i penalisti - alla razionalizzazione ed alla nuova dislocazione di risorse al fine di rimediare con urgenza alle situazioni di collasso degli Uffici Giudiziari nei quali la mancanza dei minimi supporti organizzativi e materiali finisce con il costituire un gravissimo danno nei confronti di tutti i cittadini ed un inammissibile vulnus allo stesso diritto di difesa ed alla dignità della funzione difensiva". Giustizia: Consulta; manovre tra i partiti per l’elezione dei tre giudici mancanti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 novembre 2015 Due settimane alla seduta comune del parlamento. Che può battere il record negativo di stallo nella scelta dei giudici. Verso un accordo a tre Pd, Forza Italia, M5S. Il 18 o il 19 novembre prossimi il parlamento tornerà a riunirsi in seduta comune per eleggere tre giudici della Corte costituzionale. Non dovesse riuscire a eleggerne almeno uno, batterebbe il record della più lunga "vacanza" alla Consulta. La casella che da più tempo attende di essere riempita, infatti, è quella di uno dei due giudici (Mazzella e Silvestri) cessati dall’incarico il 28 giugno 2014. Uno è stato rimpiazzato un anno fa con l’elezione della giudice Silvana Sciarra in quota Pd. Nella stessa seduta Forza Italia auto affondò la sua candidata, Stefania Bariatti (i franchi tiratori berlusconiani avevano precedentemente bruciato Catricalà, Caramazza e il da poco scomparso Donato Bruno). Dopo di allora, però, si sono aperti due nuovi buchi nel plenum della Corte, perché altri giudici eletti dal parlamento hanno cessato il mandato. Sergio Mattarella, passato a febbraio al Quirinale, e Paolo Napolitano, il 10 luglio scorso. Ai quindici giudici della Corte ne mancano allora tre, e il buco diventa una voragine perché spesso si registra l’assenza di un quarto giudice, anche questo eletto dal parlamento, e così la Consulta sta prendendo le sue decisioni con il plenum al minimo legale, undici giudici. Il record negativo è quello fatto segnare in occasione della sostituzione del giudice Vaccarella, eletto in quota Forza Italia e dimessosi nel maggio 2007. Il parlamento riuscì a sostituirlo solo nell’ottobre 2008, dopo 17 mesi e 17 giorni. Ci vollero però "solo" 22 scrutini, mentre con il prossimo saremo già al 27esimo scrutinio per il primo giudice (e 16 mesi e 20 giorni), mentre per gli altri due si tratterà del sesto e del quarto scrutinio. In tutti i casi, dalla prossima occasione, il quorum necessario per l’elezione è più basso, servono i tre quinti dei componenti, 571 voti. Un accordo tra i partiti è indispensabile, fin qui è stato complicato dalle richieste del Pd e dall’indecisione di Forza Italia. Guardando alla provenienza dei giudici che hanno lasciato l’incarico, il partito di Renzi ha preteso altri due posti (per sostituire Mattarella e Napolitano), disponibile a concederne uno ai berlusconiani (per Mazzella). I democratici si sono lungamente incaponiti sulla candidatura di Violante, che secondo i 5 stelle manca persino dei requisiti formali per l’elezione, essendo sì "professore ordinario di materie giuridiche" come prevede la Costituzione, ma nel frattempo collocato a riposo. Già impallinato in ripetuti scrutini, Violante potrebbe essere sostituito da Anna Finocchiaro, la presidente della prima commissione che ha condotto in porto la riforma costituzionale, che ha lasciato la magistratura per la politica nel 1987 da pm a Catania, restando però in aspettativa e così progredendo in carriera fino a giudice di Cassazione; dunque ha i requisiti. Per avere i voti necessari e sbloccare l’impasse, il Pd dovrà cedere un candidato ai 5 stelle, che sono disponibili a votare quello di Renzi "se degno", dopo averlo sottoposto al gradimento della rete. In cambio il Pd potrebbe guardare nelle liste dei grillini, le uniche pubbliche, dove c’è l’avvocato dei ricorsi contro la legge elettorale, Felice Besostri, l’anziano costituzionalista Franco Modugno e la professoressa di diritto costituzionale a Cagliari Silvia Niccolai, la più votata dai grillini nell’ultima seduta a ottobre. Resta da rompere l’indecisione dei berlusconiani. Potrebbero convergere sull’avvocato e docente di sicurezza sul lavoro Francesco Paolo Sisto. Il deputato pugliese era con la fronda di Raffaele Fitto. Ma all’ultimo momento qualcosa l’ha convinto a restare con Berlusconi. Giustizia: assolto Mannino, la "trattativa" Stato-mafia diventa un mosaico illeggibile di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 novembre 2015 Stato e mafia. Ha vinto la linea difensiva che non ha messo in discussione l’esistenza dei contatti tra politici e boss ma ha puntato a smontare la tesi delle responsabilità dell’ex ministro. In quindici secondi, il tempo necessario a leggere la sentenza, un giudice ha scardinato un pezzo importante del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi. Eliminandone uno dei presupposti: l’accusa all’ex ministro Calogero Mannino - grande notabile democristiano in Sicilia negli anni Ottanta e Novanta - di aver sollecitato e innescato i contatti tra uomini delle istituzioni e "uomini d’onore". Quindici secondi per far evaporare una ricostruzione elaborata in cinque anni di indagini (più o meno) e altri due di processo, mentre davanti alla Corte d’assise prosegue il giudizio ai coimputati di Mannino: 4 boss di Cosa nostra, tre ex carabinieri, l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Alla sbarra per aver ricattato lo Stato (i mafiosi) o favorito quel ricatto (gli altri) scendendo a patti con chi stava mettendo la Sicilia e il Paese a ferro e fuoco, a forza di attentati. Mannino ha scelto la strada del rito abbreviato, e ha avuto ragione: assolto "per non aver commesso il fatto". Perché le prove raccolte a suo carico sono insufficienti o contraddittorie. È l’appiglio che consente alla Procura di Palermo di ritenere che la sconfitta non sia una disfatta totale. Cosa che sarebbe avvenuta se il giudice avesse usato le altre due formile possibili: "il fatto non sussiste" o "non costituisce reato". Invece no. Il fatto c’è, e magari è pure un reato: violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato, articolo 338 del codice penale. Ma Calogero Mannino non ne è responsabile. In altre parole: la trattativa ci sarà anche stata, ma l’ex ministro dc non ne fu protagonista. L’altro processo, quello "grande" contro il resto degli imputati, dirà se fu qualcun altro a imbastirla e portarla avanti. Ma Mannino, per ora, no. Tuttavia il venir meno della responsabilità dell’ex ministro sfila via un bel tassello al mosaico ricostruito dall’accusa. Ancor più rilevante della mancata cattura di Bernardo Provenzano (presunto prezzo pagato dallo Stato per l’arresto di Riina e l’interruzione della politica stragista da parte di Cosa nostra) dalla quale fu assolto l’ex generale Mario Mori nell’altro processo (ora in fase di appello). Secondo la tesi della Procura il programma mafioso di ricatto allo Stato comincia il 12 marzio 1992, con l’omicidio dell’europarlamentare dc Salvo Lima, punito per non aver saputo garantire a Cosa nostra l’annullamento del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino. Dopo quel delitto Mannino, convinto di essere il successivo bersaglio dei killer, avrebbe sollecitato i carabinieri ad avviare contatti con gli uomini d’onore per capire che cosa avessero in testa, quali fossero le loro intenzioni e pretese. È l’inizio della trattativa. Che quindi avrebbe avuto un preciso input politico, un movente dettato non tanto dalla volontà di far cessare gli attentati quanto di cambiare obiettivi (ciò che in effetti accadde: dopo la strage di Capaci, racconta il pentito Brusca, Riina gli ordinò di interrompere i preparativi per l’omicidio Mannino, e arrivò la strage di via D’Amelio). Con questo presupposto, il contatto con gli "uomini d’onore", inizialmente mediato dall’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, non fu quindi un’iniziativa dei soli apparati investigativi, o di qualche servizio segreto, più o meno deviato; c’era dietro un mandante politico, che per salvarsi la vita ottenne di spostare il mirino dei mafiosi. In cambio di un impegno ad attenuare la legislazione antimafia e il regime di "carcere duro" per boss e picciotti. È questo salto di qualità che ha trasformato il processo per la presunta trattativa in un evento dai risvolti anche politici, a volte dirompenti, arrivati fino a sfiorare il Quirinale per via delle intercettazioni di un altro ex ministro - Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza - con il consigliere giuridico dell’ex presidente della Repubblica e poi con lo stesso Napolitano. Il clamore suscitato dall’indagine e dal processo, con tanto di conflitto tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale, discende anche da questo presupposto, che con la sentenza di ieri è venuto meno (salvo, ovviamente, possibili ribaltamenti nei successivi gradi di giudizio). Calogero Mannino ha ottenuto questo risultato grazie alla linea di difesa scelta da un pool di avvocati - Carlo Federico Grosso, Grazia Volo, Nino Caleca e Marcello Montalbano - i quali hanno deciso di non contestare la teoria dell’accusa, cioè l’esistenza o meno della trattativa, ma gli elementi portati a sostegno della responsabilità di Mannino. In gran parte già affrontati nel processo per concorso esterno dal quale pure Mannino è uscito definitivamente indenne, dopo un’altalena di verdetti contradditori. "Più che un’indagine, i pm hanno fatto un’inchiesta di tipo storico-giornalistico, offrendo una nuova lettura di fatti e documenti già noti", spiega l’avvocato Volo; sottolineando che il lavoro sottoposto dai magistrati al giudice ha lasciato però intatte la possibilità di interpretazioni alternative degli stessi elementi. Di qui l’assoluzione. Che se non smonta completamente il mosaico lo rende meno leggibile, o non più comprensibile nella versione offerta dall’accusa. Al resto dovrà pensare il dibattimento in Corte d’assise, che riprende oggi dalla deposizione dell’ex colonnello che accusò Mori di non aver voluto arrestare Provenzano. Altre storie già note e in parte già giudicate, che la Procura propone a nuovi giudici in nuove versioni. Sperando in un esito diverso. Perché, alla fine, resta una questione di punti vista. Giustizia: così è crollato il pilastro della "trattativa Stato-mafia" di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 5 novembre 2015 Stato-mafia. Alla luce di questa assoluzione il processo che prosegue contro gli altri rischia di non essere più tanto "principale" perché verrebbe a mancare il tassello fondamentale della ricostruzione accusatoria. Calogero Mannino, giudicato con il rito abbreviato nell’ambito del processo per la trattativa Stato-mafia, è stato assolto dal Gup di Palermo "per non aver commesso il fatto". Dalle motivazioni si capirà un po’ di più, ma la formula assolutoria lo esclude dal grande "complotto" per il quale il processo principale prosegue in corte d’assise con il rito ordinario. La sentenza, ovviamente, sarà impugnata dalla procura e solo la cassazione potrà mettere la parola fine sulla fondatezza o meno dell’accusa all’ex ministro. La sentenza, anche se passasse in giudicato, riguarderebbe solo questo imputato e i giudici della corte d’assise sarebbero liberi di determinarsi autonomamente e in senso contrario a quanto deciso dal Gup proprio perché Mannino non ha commesso il fatto ma gli altri imputati, tutti o qualcuno, potrebbero averlo commesso. Alla luce di questa assoluzione però il processo che prosegue contro gli altri rischia di non essere più tanto "principale" perché verrebbe a mancare il tassello fondamentale della ricostruzione accusatoria. Secondo i pm infatti era stato Mannino, nel timore di essere la seconda vittima dopo Salvo Lima, a muovere i carabinieri del generale Mori sulla pista di un intesa con Cosa nostra, con tutti gli avvenimenti che sono seguiti e che ormai sono arcinoti, ma sulla cui interpretazione ci sono profonde divergenze. In buona sostanza la corte d’assise, come in un giallo, dovrebbe rileggere la trama prospettata dalla procura, darle un diverso inizio che però non sconvolga la fine del racconto: facile a dirsi ma difficile a farsi. A questo punto credo che ritornino in ballo le osservazioni del giurista Fiandaca e dello storico Lupo, secondo i quali il processo non reggeva né sul piano giuridico, né su quello storico. Rilievi che a suo tempo scatenarono del ire dell’antimafia ufficiale (il presidente Crocetta in testa) ma sui quali ora si dovrebbe riflettere di nuovo senza muovere ai critici del processo accuse di collateralismo alla mafia, specie nell’attuale fase tragica in cui non si capisce più dove stia la mafia e dove stia l’antimafia. La mafia conta ancora in Sicilia, ma i suoi capi (tranne Matteo Messina Denaro) e adepti sono tutti all’ergastolo o scontano pesanti condanne: dire che alla fine della trattativa si sia rafforzata è una sciocchezza. Gli inquietanti scenari di Mafia capitale o della sezione misure di prevenzione di Palermo sembrano abbastanza concreti, mentre quelli del processo per la trattativa sembrano sempre più evanescenti, anche perché ora lo dice anche il Gup che ha assolto Mannino. Giustizia: "trattativa Stato-mafia", le ragioni del diritto di Paolo Pombeni Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2015 La sentenza pronunciata a Palermo sulla vicenda di Calogero Mannino è al tempo stesso un buon giorno e un cattivo giorno per la giustizia italiana. È un buon giorno perché dimostra che la dialettica processuale funziona. Non solo un giudice (in questo caso il giudice monocratico dell’udienza preliminare) ha smentito una richiesta molto pesante dell’accusa, che aveva chiesto una condanna a nove anni (non esattamente una bazzecola). Al tempo stesso con la sua azione il Gup ha messo in crisi una delle argomentazioni di chi sostiene che una pubblica accusa che fa parte dello stesso ordine giudicante del magistrato che decide sul caso riuscirebbe facilmente, per questa sua "vicinanza", a fare adeguare quest’ultimo alle sue tesi. Se poi pensiamo che nel caso in specie si tratta del rapporto fra Gup e Pm nello stesso contesto del palazzo di giustizia di Palermo c’è da trarre doppiamente fiducia da quanto è accaduto. Aggiungiamoci che non si è trattato di un semplice ridimensionamento delle richieste dell’accusa (questo è frequente), ma di un loro radicale rigetto perché "il fatto non sussiste". L’aspetto negativo della giornata è dato dalla constatazione che ci sono voluti due anni e mezzo perché si giungesse a questa conclusione e anche qui il tempo non è stato più lungo solo perché è stato possibile attivare uno stralcio rispetto al processo principale (quello sulla cosiddetta trattativa stato-mafia) e fare il processo con rito abbreviato (altrimenti non sarebbe stato possibile al Gup pronunciare la sentenza). Due anni e mezzo sono un tempo inaccettabile perché una persona veda riconosciuta la propria innocenza. Naturalmente sappiamo poi che la vicenda ha una storia ben più lunga alle spalle e che questa inchiesta sulla cosiddetta trattativa fra lo stato e la mafia è un capitolo piuttosto ingarbugliato, per non dire di peggio, della nostra storia giudiziaria. L’ostinazione dimostrata da alcuni inquirenti a portare in dibattimento un pezzo della travagliata storia dell’inevitabile "contatto" fra forze dello stato e strutture mafiose (basta aver visto qualche telefilm americano per sapere come queste cose sono la normalità, ovviamente se non configurano connivenze in reati) è nota. Ci permettiamo di dire che era degna di miglior causa: l’aver voluto a tutti i costi mettere in mezzo addirittura il Capo dello Stato, con intercettazioni il cui utilizzo la Consulta ha giudicato inammissibile, non è stato certo un momento alto della nostra civiltà giuridica. Adesso bisogna sperare che la Corte d’Assise di Palermo davanti a cui sta svolgendosi con rito ordinario il processo da cui è stata stralciata la posizione dell’onorevole Mannino possa con la giusta rapidità giungere a fare chiarezza su una storia che si sta trascinando da troppo tempo e non certo a beneficio dell’immagine del nostro paese. L’impianto di tutta la vicenda gestita dalla pubblica accusa palermitana sulla cosiddetta "trattativa" appassiona i fan dell’una e dell’altra parte che si confrontano ora nell’aula di giustizia e dunque il giudizio, che vogliamo sereno e motivato, di un magistrato "terzo" fra i due contendenti sarà un importante contributo alla storia di questo paese. Non alla sua storia "politica" che non è di competenza dei magistrati, ma alla storia del suo sistema giuridico e giudiziario che a buon titolo vanta ascendenze e tradizioni storiche di grande prestigio. Da questo punto di vista dobbiamo dire che non abbiamo apprezzato la corsa del Pm Di Matteo a dichiarare che la procura avrebbe fatto ricorso contro l’assoluzione. Ben più saggiamente il procuratore capo Lo Voi ha specificato che prima si sarebbero lette le motivazioni. I tecnici sanno che da tempo è in atto un dibattito sul senso che può avere concedere ad un pubblico ministero di ricorrere contro una sentenza di piena assoluzione pronunciata da un giudice che rappresenta pur sempre lo stato nella sua garanzia di poter fare giustizia. Pensare che un giudice si sbagli platealmente al punto di dichiarare insussistente un fatto che invece è accaduto non è molto razionale, a meno di non pensare che quel giudice abbia agito con dolo e con superficialità estrema: ma sono due fattispecie che si devono presumere esistenti solo in rari casi eccezionali e che vanno adeguatamente documentate. Dunque teniamoci per un po’ la soddisfazione che la dialettica fra accusa e difesa funziona a tutela dell’imputato se, come si usa dire, "c’è un giudice a Berlino" (in questo caso a Palermo, dove magari è più complicato esserlo di quanto non lo sia nella capitale tedesca). Giustizia: Mafia Capitale, al via il "Mondo di mezzo" show di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 novembre 2015 Inizia oggi il mega processo a Carminati, Buzzi e altri 44 imputati tutti eccellenti. Oggi in aula ce ne saranno 22, gli altri in via di traduzione dalle carceri della penisola. È passato quasi un anno esatto dallo scoppio della bomba giudiziaria che ha travolto Roma e anche il suo sindaco, rivelando che il tasso di corruzione nella Capitale era ormai a livello orgia. Stamattina inizia un processo che ha già tutte le caratteristiche dello show: 78 cronisti, 18 direttori di testata, 80 accrediti per fotografi e telecamere spedite dalle tv di mezzo mondo, 46 imputati, tutti eccellenti vuoi nel "mondo di sopra", quello della politica e dell’amministrazione della città, vuoi in quello "di mezzo" come da poetica definizione di Carminati Massimo, l’imputato numero 1: il mondo dove politica, affari e malaffare si davano ben più che una mano. Oggi in aula ce ne saranno 22, gli altri sono in via di traduzione dalle carceri sparse nella penisola. Tre imputati, i principali, invece non ci saranno: Carminati, il presunto boss, Salvatore Buzzi, l’uomo d’oro della cooperativa di platino 29 giugno, quella che più di ogni altra faceva il pieno di appalti, Riccardo Brugia, uomo di mano di Carminati e Fabrizio Testa, manager assai vicino all’ex sindaco Alemanno, dovranno assistere alle udienze in videoconferenza dalle carceri in cui dimorano, in regime di art. 41 bis. Le motivazioni del divieto sfuggono: Carminati si sa è temibile, ma che riesca a ammutolire i testimoni con un’occhiataccia pare un po’ troppo persino per lui. Il Comune di Roma sarà parte civile, anche se a firmare l’atto di costituzione non è stato, come nei suoi sogni, l’ormai ex sindaco Marino ma il prefetto Tronca. Fatta salva la sostituzione del malcapitato primo cittadino con il commissario, la costituzione del Comune era ampiamente prevista, come un po’ tutto in questo maxi-processo che ha tutto di spettacolare. Il punto interrogativo dovrebbe riguardare non le condanne, che almeno per gli imputati principali appaiono a dir poco probabilissime, ma la convalida o meno del capo d’accusa: associazione mafiosa, fattispecie mai contestata prima per storie o storiacce di corruttela e sul quale è lecito avanzare dubbi. Ma anche qui, in fondo, la suspence è limitata. Quando la Cassazione, nella scorsa primavera, ha respinto i ricorsi degli imputati finiti nel carcere duro come presunti mafiosi, ha accreditato come più non poteva la tesi della procura di Roma. Due giorni fa, poi, si sono svolti i processi a carico dei quattro imputati che avevano scelto il rito abbreviato. Tutti conclusi con condanne a 4 anni tranne che per Emilio Gammuto: il gup Anna Criscuolo ha riconosciuto a suo carico l’aggravante del metodo mafioso e la condanna è lievitata sino a 5 anni e 4 mesi. Il nodo determinante della mafiosità o meno dei corrotti e corruttori capitolini verrà probabilmente sciolto solo dal terzo grado di giudizio, in Cassazione. Le risposte attese da questo maxi processo di fronte alla X sezione penale romana non riguardano però solo la sentenza, e attengono alla mafiosità del "mondo di mezzo" non solo per pur non trascurabili questioni di garantismo, ma anche per la necessità di far luce su una vicenda che, nonostante due ordinanze di rinvio a giudizio che contano migliaia di pagine e una mole di atti che riempirebbe una biblioteca, è per molti versi ancora oscura. Per esempio: quando parte e quando decolla il sistema di corruzione scoperchiato meritoriamente dal procuratore Pignatone? La cooperativa 29 giugno, formata da ex detenuti e ufficialmente in quota centrosinistra, mentre la sua controparte bianca era la cattolicissima Cascina, negli anni dell’amministrazione Rutelli si aggirava su un fatturato normale, di circa 600mila euro. Negli anni della giunta Veltroni passa a qualcosa come 7 milioni di euro, ed è difficile pensare che fino all’arrivo di Carminati tutto fosse limpido. Senza Carminati, però, parlare di mafia è impossibile, essendo la sua nefasta presenza la pietra angolare dell’accusa più grave. Lo stesso Carminati, quando entra in ballo e per mano di chi? Nelle intenzioni della giunta Alemanno la cooperativa rossa doveva essere spazzata via. Fatti non parole: il tentativo era in atto quando dai piani alti del Campidoglio partì il contrordine e alla guerra subentrò il reciprocamente proficuo sodalizio. È solo a partire da quel momento che Carminati diventa l’ombra di Buzzi, secondo cui l’ingresso in società del bandito si deve al fortuito incontro tra due ex compagni di detenzione. Possibile: se si crede alle favole. Giustizia: il processo a Mafia Capitale e il nodo del 416bis di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2015 Associazione mafiosa o semplice (si fa per dire) associazione a delinquere. È questo l’interrogativo intorno al quale ruota il processo Mafia Capitale che debutta oggi, con rito ordinario, nell’aula Occorsio del Tribunale di Roma. Alla sbarra ci sono 46 imputati, indagati a vario titolo per associazione mafiosa, estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori e riciclaggio. Il processo vive soprattutto sulla possibilità di dimostrare l’esistenza (o meno) di una comune forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e omertà per commettere delitti, acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, appalti e servizi pubblici. Questa - per la pubblica accusa - è la galassia capitolina del trio "Carminati-Brugia-Buzzi" ma sarà il processo (fino a sentenza definitiva) a dire se questa presunta mafia - per la Procura originale e originaria, cioè con caratteristiche proprie e con una genesi propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali - mafia lo è davvero. Intanto ieri il commissario della Capitale, Francesco Paolo Tronca, si è costituito parte civile e appare certa l’assenza in aula dei principali indagati: Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Riccardo Brugia. In attesa dell’epilogo di un processo che si annuncia a tappe forzate, oltre alla sentenza di due giorni fa per quattro imputati che hanno scelto il rito abbreviato, a mettere un punto di partenza ci ha pensato la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza 625 del 10 aprile di quest’anno. Settantasei pagine in punto di diritto il cui cuore pulsa da pagina 35, laddove i giudici tirano le fila del discorso ai fini della corretta qualificazione giuridica dell’articolo 416-bis. Molti degli indagati, nei loro ricorsi, per contrastare questo profilo hanno opposto la diversità del contesto territoriale e culturale nel quale si è radicata l’associazione che farebbe soprattutto perno sul "cecato" Massimo Carminati, rispetto a quelli nei quali finora è stato applicato l’articolo 416-bis. Roma - in altre parole - secondo i collegi difensivi dei principali imputati non è Palermo né Reggio Calabria e neppure Casal Di Principe. La Cassazione, però, ha dato loro torto sulla base di un precedente che è stato sottolineato anche da Alfredo Galasso, avvocato di Confindustria, che ha richiesto di costituirsi parte civile. I principi sono cioè quelli da tempo elaborati in relazione a una vicenda in cui era coinvolta un’associazione - riporta la sesta sezione della Consulta nella sentenza di aprile - per lo più composta da pubblici ufficiali, originari o comunque residenti in Liguria, "che sfruttarono la propria posizione e il proprio potere derivante dalle cariche occupate per commettere concussioni e per acquisire la gestione e il controllo, diretto o indiretto, di appalti pubblici e varie attività economiche". È la sentenza n. 11204 del 10 giugno 1989, che vide nell’ex presidente socialista della Regione Liguria Alberto Teardo l’esponente di maggior spicco di un gruppo la cui condotta tipica - riporta sempre la sentenza 625/2015 - consisteva "nell’indurre gli imprenditori che partecipavano ai bandi d’appalto a pagare una percentuale del prezzo per ottenerne l’aggiudicazione, pena l’esclusione dalle future gare". Per Teardo, tra gli altri, l’accusa di mafia cadde già nel processo di primo grado ma nell’89 la Corte di Cassazione affermò - da pagina 39 - che nello schema previsto dall’articolo 416-bis non rientrano solo le associazioni di mafia con un alto numeri di appartenenti, ingenti risorse finanziarie e in grado di assicurare assoggettamento e omertà attraverso terrore e continua messa in pericolo della vita altrui (insomma: le mafie tradizionali, a partire da Cosa nostra e ‘ndrangheta) ma anche le "piccole" mafie, con un basso numero di aderenti (ne bastano tre), non necessariamente armate, che assoggettano un territorio circoscritto o un determinato settore di attività, facendo comunque ricorso all’intimidazione dalla quale discendono assoggettamento e omertà. Addirittura secondo una sentenza della Cassazione del 12 giugno 1984, richiamata tanto dai giudici dell’89 quanto da quelli di aprile 2015, rientrano "nell’ampia previsione di cui all’articolo 416-bis tutte quelle organizzazioni nuove, pur disancorate dalla mafia (tradizionale), che tentino di introdurre metodi di intimidazione, di omertà e di sudditanza psicologica". Ciascuna entità associativa di stampo mafioso - scrivono questa volta i giudici nelle sentenza di aprile - al di là del nome più o meno tradizionale, vive di regole proprie ed assume dunque connotati strutturali, dimensioni operative e articolazioni territoriali che vanno analizzati caso per caso, senza che i relativi modelli debbano essere necessariamente riconducibili a una "unità ideale". Giustizia: Carminati pronto a parlare e Odevaine rischia di tornare in carcere di Lavinia Di Gianvito e Fulvio Fiano Corriere della Sera, 5 novembre 2015 L’avvocato dell’ex Nar: "Stavolta vuole difendersi in modo diverso dal solito". L’ex membro del tavolo sui migranti rischia la revoca dei domiciliari per aver parlato con i giornalisti. Ha preso il via nell’aula Occorsio del Tribunale di Roma il maxi processo a Mafia Capitale. Alla sbarra 46 imputati con accuse che vanno dalla corruzione all’associazione per delinquere di stampo mafioso. È iniziata così la maratona che, con quattro udienze a settimana, da lunedì si trasferirà nell’aula bunker di Rebibbia. Il dibattimento si svolge con il rito immediato davanti alla decima sezione, presieduta da Rosanna Ianniello. Presenti i pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. In aula ci sono Luca Odevaine, da martedì agli arresti domiciliari, e il costruttore Daniele Pulcini. Il primo parla con i giornalisti: "Ci sono singoli reati ma non l’associazione mafiosa. Con la Procura il rapporto è corretto, ma il mio ruolo è stato sopravvalutato. Risolvevo i problemi, perciò in tanti si rivolgevano a me. Le coop fanno compromessi fiscali perché lo Stato non paga". Invece non è previsto che nel compaiano Massimo Carminati, Salvatore Buzzi, l’ex Nar Roberto Brugia e l’imprenditore Fabrizio Testa: i quattro saranno collegati in videoconferenza per motivi di sicurezza. "Chiederemo al Tar di annullare il divieto di assistere alle udienze", annuncia il difensore dell’ex ras delle cooperative, l’avvocato Alessandro Diddi. "Farò parlare Massimo Carminati, stavolta è intenzionato a difendersi in modo diverso dal solito. Vuole chiarire molte cose e credetemi che lo farà sicuramente", ribadisce l’avvocato Bruno Giosué Naso. Già un’ora prima che iniziasse il processo una folla di giornalisti e un drappello di romani si sono assiepati davanti all’ingresso posteriore della città giudiziaria. Sono apparsi uno striscione della Fnsi "No bavaglio" (contro le modifiche alle norme sulle intercettazioni) e un altro di paio di manifestanti pro Ignazio Marino: "Rivogliamo il nostro sindaco" e "Signor prefetto la fascia tricolore la indossano i sindaci non i commissari". Giustizia: Carminati, il boss spaccone "tu non sai chi sono io, controlla su internet" di Lirio Abbate L’Espresso, 5 novembre 2015 Parte il processo al clan del Cecato, che affonda le radici nell’estremismo di estrema destra. Niente a che vedere con i modi felpati e silenziosi dei sanguinari capimafia siciliani. Questa è mafia Capitale. Se pensate a mafia Capitale come a un’organizzazione criminale organizzata, paragonabile a Cosa nostra o alla ‘ndrangheta allora siete fuori strada. Il paragone o il confronto con le mafie tradizionali non può reggere, perché sono diverse. Ciò non significa che il clan di Massimo Carminati non possa essere accusato e processato per associazione mafiosa. Significa che questa mafia Capitale, che nasce dalle mani di un estremista di destra, spaccone e arrogante come Carminati, è lontana dai modi felpati e silenziosi dei capimafia siciliani. C’è un’intercettazione registrata dai carabinieri del Ros, che hanno svolto le indagini, che mette in evidenza tutto ciò, e riguarda proprio il capo di mafia Capitale. Carminati chiama un operatore di call center di una società di telefonia e pretende l’installazione immediata di un’utenza. Il Cecato si rivolge all’impiegato con arroganza e violenza, sbandierando il suo nome per farlo impaurire e intimidirlo, gli dice di cercare il suo nome su internet, della serie "lei non sa chi sono io", e alla fine lo minaccia. Mafia capitale è una mafia nuova, autoctona, che non si può paragonare né con Cosa Nostra né con la ‘ndrangheta. Fa capo a Massimo Carminati, uno spaccone, violento, arrogante, di estrazione fascista. Che usa un metodo mafioso. Una dimostrazione? Questa telefonata con un operatore di un call center. Basta ascoltarla per rendersi conto della differenza tra la mafia tradizionale e mafia Capitale. E su questo sono chiamati a giudicare i giudici del Tribunale di Roma. Questa è la spacconeria dell’estremista di destra che usa il metodo mafioso per propri fini. Ma non solo, lo fa anche per pilotare la politica e la pubblica amministrazione, per intimidire, aggredire, corrompere, minacciare e picchiare. Tutto questo senza spargimento di sangue. Perché la mafia non è solo omicidi e stragi. Se invece si vuole guardare al lato giudiziario dei fatti che saranno oggetto del processo che si apre ai 46 imputati, occorre usare le parole scritte dai giudici della Corte di Cassazione che si sono espressi nei mesi scorsi proprio su questo procedimento, confermando l’impianto accusatorio per associazione mafiosa. Gli ingredienti nella Capitale ci sono tutti per riconoscere giudiziariamente una nuova mafia autoctona. Le prime tipiche schermaglie giudiziarie alla vigilia del dibattimento dimostrano che anche quello di Roma è un processo di mafia. Non quella tradizionale, ma della Capitale. Giustizia: l’altra faccia di Mafia Capitale, gli operatori sociali rimasti senza stipendio di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 5 novembre 2015 Il caso della cooperativa "Il Sorriso": ritardo degli stipendi da 2 a 7 mesi. I lavoratori si sono auto-organizzati e sono supportati da una nuova esperienza del sindacalismo sociale, le Camere del lavoro autonomo e precario (Clap): "Perché l’amministrazione non tutela utenti dei servizi e i lavoratori?". Quello che conta è il servizio per i rifugiati, non il pagamento dei lavoratori. È la contraddizione lancinante in cui vivono gli operatori della cooperativa "Il Sorriso" di Roma, resa nota dagli attacchi ai rifugiati ospitati in una sua struttura a Tor Sapienza nel dicembre 2014, mentre i vecchi vertici sono stati coinvolti nelle indagini di Mafia Capitale. Impegnati in alcuni progetti di accoglienza per migranti e rifugiati, da mesi molti di questi lavoratori non ricevono lo stipendio. Il ritardo oscilla da due a sette mesi per una paga bassa, ormai standard nel lavoro a progetto e precario in Italia: in media 7-800 euro netti al mese. La loro mobilitazione, sostenuta dalle camere del lavoro autonomo e precario di Roma (Clap), ha ottenuto dall’ex assessore al sociale Francesca Danese l’impegno di verificare le condizioni dei lavorati impegnati nel servizio Sprar e in un progetto definito "Casa delle mamme". Ieri i lavoratori e le Clap si sono presentati negli uffici dell’Osservatorio sul mercato del lavoro del comune di Roma e hanno organizzato un sit-in dove hanno distribuito un volantino che racconta, più di ogni altra cosa, il lavoro nel sociale e non solo: "Non siamo volontari! Il lavoro dev’essere retribuito". Alla vigilia dell’apertura sul processo al sistema "Buzzi-Carminati", la cosiddetta "Mafia Capitale" che ha lucrato anche sul "business dell’accoglienza", hanno scoperto che all’Osservatorio non è mai arrivata la richiesta di verifica promessa dall’assessore. Nel frattempo alcune mensilità sono state recuperate, ma non per tutti e non per tutte quelle arretrate. Dopo avere garantito la necessaria continuità del servizio di accoglienza, molti lavoratori si sono dimessi, o non hanno avuto il rinnovo del magro ma impegnativo contratto. La situazione si è fatta insostenibile, anche perché è emersa una regola. In un incontro avvenuto il 26 ottobre scorso, a una delegazione ha appreso dagli uffici competenti che non c’è la relazione tra il pagamento della cooperativa, l’erogazione dello stipendio ai lavoratori e la verifica delle condizioni in cui operano. Una volta accertata la regolarità del certificato anti-mafia Durc, e liquidate le spettanze, è stato detto che all’amministrazioni non spetta la responsabilità di accertare i pagamenti. Per i lavoratori e le Clap dovrebbe essere invece responsabilità del Comune controllare il rispetto del diritto più elementare: la retribuzione. Le difficoltà non finiscono qui. Per un altro progetto, "Astra", che vede capofila il comune di Roma, i fondi sono stati bloccati perché il ministero dell’Interno ha revocato il progetto dopo avere pagato il primo acconto. Nel caos prodotto da "Mafia capitale", le vite di giovani psicologi, educatori, assistenti, insegnanti restano sospese. Competenze necessarie per un compito delicatissimo, quello di mediare tra le esigenze basilari dei migranti e la società di arrivo, si trovano imprigionate nel sistema dei subappalti dei servizi sociali, soggette a condizioni di lavoro proibitive. I lavoratori otterranno due tavoli di trattativa: uno per il servizio "case delle mamme", affidato a un’altra cooperativa, sulla quale c’è una trattativa con i sindacati che vedrà la partecipazione anche delle Clap, e un altro ex novo con il dipartimento delle politiche sociali e la loro cooperativa. Domiciliari: non evade chi preferisce il carcere per sfuggire alla moglie di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 4 novembre 2015 n. 44595. Chi alla moglie preferisce il carcere da oggi può contare sulla "comprensione" della Cassazione. La Suprema corte, sentenza n. 44595/2015, ha infatti scagionato dal reato di evasione dagli arresti domiciliari un uomo che dopo un, evidentemente, pesante litigio coniugale aveva chiuso dietro di sé la porta di casa avvertendo però immediatamente il 113 di venirlo a prendere per portarlo in prigione. La vicenda - I giudici di secondo grado, invece, lo avevano condannato a quattro mesi di reclusione dando rilievo unicamente al fatto che al momento del controllo l’imputato non era nella propria abitazione. Mentre nessun peso doveva essere accordato al motivo che lo aveva spinto ad allontanarsene, in quanto il reato richiede unicamente il "dolo generico". Le ragioni personali, dunque, sempre secondo la Corte territoriale, potevano al massimo valere ai fini della determinazione della pena. Per il ricorrente, all’opposto, non avendo egli mai voluto sottrarsi ai controlli, il reato non è mai stato integrato. La motivazione - Una motivazione quest’ultima accolta dalla Suprema corte che ricorda come la ratio della norma (articolo 385 cod. pen. ) è, da una parte, quella di soddisfare le esigenze cautelari, dall’altra, quella di consentire agevolmente i controlli della polizia giudiziaria. Per cui, la condotta illecita tipica deve consistere nell’allontanarsi senza autorizzazione dal domicilio coatto e nel sottrarsi ai controlli dell’autorità. Ma entrambi gli elementi non sussistono nel caso esaminato. Infatti, prosegue la sentenza, guardando al comportamento complessivo, e considerato che l’imputato è stato trovato fuori dell’abitazione in attesa dell’arrivo dei Carabinieri, che lui stesso aveva prontamente informato, chiedendo di essere sottoposto "ad un regime cautelare addirittura più rigoroso", "si deve necessariamente concludere per l’assenza di offensività concreta" della condotta. L’ingente evasione fiscale non impedisce la misura alternativa al carcere Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2015 Corte di cassazione, Terza sezione penale sentenza 4 novembre 2015 n. 44468. L’elevato volume dell’evasione fiscale accertata non impedisce comunque l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione. L’articolo 58 della legge n. 689 del 1981, infatti, stabilisce che il giudice, nei limiti di legge, può sempre sostituire la pena detentiva e deve scegliere quella più idonea al reinserimento del condannato. Deve perciò essere annullata la sentenza che ha negato la misura alternativa facendo riferimento alla sola entità del danno prodotto. Lettere: il "mantenimento carcere" raddoppia, detenuti-lavoranti disperati di Vincenzo Russo (cappellano del carcere di Sollicciano a Firenze) Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2015 Ho letto sulla rassegna stampa di Ristretti Orizzonti la lettera aperta di Giuseppe Battaglia (che io conosco) al Ministro della Giustizia Orlando unitamente alla risposta del Ministro. Nel mio ruolo di Cappellano trascorro molto tempo dentro il carcere, ad ascoltare, confortare, sostenere un'umanità dolente, spesso disperata o - peggio - rassegnata. Lo faccio guardando negli occhi persone smarrite, disorientate, a volte malate: sguardi sparati nel vuoto e una pioggia di lamentele, richieste d'aiuto (materiali ed immateriali), talvolta il bisogno di una semplice interlocuzione o un pacchetto di tabacco, giù giù fino ad un rotolo di carta igienica! La voce corale che sale, quasi come una preghiera, è: aiutami a sopravvivere! In questi ultimissimi mesi alcuni “lavoranti” mi esibiscono sconsolati la busta paga di settembre, a seguito del decreto ministeriale che aumenta la diaria giornaliera per il “mantenimento carcere”... e mi assale un senso di sgomento. Fatico a credere ciò che vedo, che sento, che osservo, senza trovare parole. Mi viene spesso alla mente uno scritto famoso di uno dei Padri Costituenti, Piero Calamandrei, che a proposito del carcere e dei carcerati diceva “bisogna avere visto”! Sono passati da allora settanta anni ma si pontifica, come allora, da lontano. Senza sapere, senza conoscere, senza ...avere visto! Gli addetti ai lavori, il personale penitenziario, i volontari (come Battaglia) fanno quello che possono, ma nessuno è attrezzato, neppure il Cappellano, per i miracoli! Stiamo parlando di una realtà che non si lascia raccontare, ai confini, dove l'umanità (come l'uomo primitivo segnava il passo davanti al mare o in una caverna) si ferma. Si tratta di una realtà esistenziale e materiale talmente tragica da non poterla rappresentare, senza incorrere in minimalismi che aggiungono sconforto allo sconforto. Ora, di fronte a questa lettera e alla risposta del Ministro, cogenti entrambe al coro dei “lavoranti”, mi viene spontanea un'ulteriore domanda al Ministro: ma perchè non si sono adeguate le tabelle delle paghe orarie rinviando alla ridefinizione complessiva l'aumento (di oltre il 100%) della trattenuta in busta paga della diaria giornaliera per le persone detenute “lavoranti”? Si badi, stiamo parlando di buste paga che raramente superano il centinaio di euro sulle quali, come un rasoio nel burro, vengono prelevati i tre euro e sessantadue centesimi giornalieri per il “mantenimento carcere”! Il sentimento che ogni persona detenuta, impiegata in attività lavorative, nutre a fronte di tutto questo, è quello di un accanimento fiscale che rende vano ogni tentativo educativo che pure si tenta di apportare, non a caso senza successo. Quando si tocca l'anima non c'è ragione che tenga! Devo dire che ho apprezzato la risposta del Ministro per il fatto che riconosce l'esistenza di un problema grave (e una responsabilità) che, però, resta insoluto costituendo un fatto assolutamente ingiusto. E non basta far rilevare che la popolazione detenuta si è ridotta nel giro di qualche anno. Andrebbe anche detto che si tratta di numeri dinamici, nel senso che resta altissimo il turn over delle persone detenute. Voglio dire che una buona parte delle persone che subiscono questo trattamento risulteranno, in sede processuale, innocenti. E altre prenderanno il loro posto nelle stesse condizioni di quelle che sono uscite. La cosiddetta “porta girevole”, infatti, suggerisce un falso messaggio all'opinione pubblica: “la polizia arresta e la magistratura scarcera”. Mai che s'induca il pensiero che un'alta percentuale di persone detenute vivono l'esperienza tragica del carcere da innocenti, con grave danno erariale giacchè queste persone chiedono legittimamente l'indennizzo per l'ingiusta detenzione. Ecco, signor Ministro, Lei non può immaginare il rantolo umano che rotola per le sezioni di ogni carcere. Non sono cose che si possono immaginare e lascia il tempo che trova il cordoglio espresso con puntualità ogni volta che questo rotolare si conclude col capolinea della morte. Il rinvio a... tempi migliori dell'adeguamento delle tabelle orarie per le persone detenute “lavoranti” equivale a spargere sale sulle molteplici ferite, provocando infezioni a catena che spesso si risolvono con la morte. Nella mia duplice veste di cittadino e Cappellano non posso non fare mio l'urlo di dolore che sale dal carcere per l'ingiusto accanimento che impoverendo ulteriormente la condizione materiale delle persone detenute impoverisce fino all'estinzione anche la loro anima. Lettere: non seguite Gratteri, si è perso anche lui di Francesco Petrelli (Segretario Unione camere penali italiane) Il Manifesto, 5 novembre 2015 C’era una famosa vignetta di Snoopy che mostrava l’intramontabile bracchetto che, camminando sconsolato verso una meta imprecisata, portava appeso un cartello con su scritto: "Non seguitemi! Mi sono perso anch’io". Viene da pensare a quella situazione surreale nel vedere come ci si riduce a voler ostinatamente seguire sulla via delle riforme chi si è già perso da tempo. Se è vero che il Governo ha inserito nel suo Ddl sulla riforma del processo una soltanto delle straordinarie idee partorite dai lavori della Commissione Gratteri, quella sul "processo a distanza", c’è da chiedersi in base a quale criterio (simbolico, economicistico, darwiniano?) si sia operata una simile scelta residuale. I fatti recenti di Mafia Capitale dimostrano in maniera emblematica che fine possono fare le riforme del processo penale quando esse siano fondate non sui valori e sui principi del giusto processo, sulle sue regole e sulle sue garanzie, ma sul piano di una sfida ispirata ad un efficientismo velleitario, che mette sul medesimo piano lo schermo di un televisore e la dignità della persona. Che risparmia sui pochi spiccioli di una traduzione e dilapida invece centinaia di milioni per ingiuste detenzioni ed altri rimedi riparatori. E dimostrano che è dunque giusto portare la protesta dell’avvocatura a livello nazionale, chiedendo al Parlamento di non approvare quella riforma. A seguire simili prospettive di falsa efficienza ci si perde in un vuoto meandro di contraddizioni. Il Tribunale di Roma ha fatto una vistosa marcia indietro sull’uso esteso e generalizzato della "videoconferenza", dimostrando con ciò che le proteste dei penalisti non erano né pretestuose, né strumentali e tantomeno infondate. E dimostrando soprattutto che questo nuovo circuito mediatico-giudiziario tende sempre più a valorizzare un sistema nel quale è il processo stesso, con la sua carica simbolica, con i suoi nomi evocativi (Mafia Capitale, Aemilia, Dama Nera), con la anticipazione e diffusione di veri e propri spot pubblicitari su arresti in diretta, intercettazioni, ambientali, video e sequestri, ad imporre metodi autoritari e pianificazioni securitarie, prescindendo del tutto dalla effettiva pericolosità dei singoli imputati. Avviluppati da questo pericoloso trend che rischia sempre più di sostituire il processo alla sua "rappresentazione", dimentichiamo che il nostro sistema processuale conosce già gli strumenti per contemperare la sicurezza e l’umanità, la speditezza e la ponderatezza. Smarriamo l’idea che, in un sistema moderno e democratico, deve essere in ogni caso garantito il primato della giurisdizione su ogni altra esigenza organizzativa ed amministrativa. Il processo inteso come lotta ai fenomeni criminali e non come accertamento della responsabilità dei singoli, conduce su di un binario morto, e non solo è destinato a fallire come possibile strumento di trasformazione e di palingenesi, ma rischia - come è sotto gli oggi di tutti - di provocare gravi squilibri istituzionali e di produrre profonde ferite nel tessuto sociale e democratico di un Paese. Chi ha inteso imprimere alla riforma del processo penale, con irragionevoli e sbrigative idee dal sapore autoritario e paternalistico, una simile svolta, si convinca di aver intrapreso una strada sbagliata che ci allontana dalla modernità anziché perseguirla. Rimediti sulla complessità e sulla ricchezza dell’esperienza della giurisdizione e comprenda che la semplificazione non sempre è un valore. Ammettano tutti che l’esperienza della Commissione Gratteri si è esaurita, si è persa nel suo stesso tentativo di inseguire una improbabile virtù tecnocratica, e che il suo, sia pur limitato, recupero postumo è stato un errore. Che il Parlamento si fermi e smetta di seguire chi si è perso da tempo. Lettere: datemi un bollino mafioso e vi solleverò l’Italia di Giuliano Ferrara Il Foglio, 5 novembre 2015 Calogero Mannino assolto. La trattativa stato-mafia s’affloscia e s’apre l’epopea Capitale dei cravattari. In 48 ore, il disvelamento di un’etichetta che assicura onnipotenza nelle indagini e copertura promozionale sui media. Se dici che la dizione Mafia Capitale è una boiata, senza mezze misure, ti attiri un quasi completo isolamento, la reputazione del reprobo e le querele dei magistrati inquirenti. Perché salire questo piccolo Calvario? Per amore della verità, anzi della contro-verità, l’unica superstite nel confusionismo del Giornalista Collettivo. Ieri, mentre le agenzie rilasciavano la notizia che il solito giudice a Berlino, il gup di Palermo, aveva assolto Calogero Mannino nel processo parallelo, stralciato, sulla trattativa stato-mafia (perché l’imputato "non ha commesso il fatto"), leggevo Giovanni Bianconi nel Corriere della Sera. Bianconi è cronista giudiziario più che Collettivo; è convinto come i suoi colleghi che quando il procuratore capo romano Giuseppe Pignatone ha annunciato a un convegno del Pd romano che in fatto di criminalità mafiosa a Roma se ne sarebbero a giorni viste delle belle, e quando poi sono scattati gli arresti e le accuse e le diffusioni pilotate degli origliamenti all’insegna della parola d’ordine Mafia Capitale contro l’ex ergastolano redento Salvatore Buzzi e il Riina della pompa di benzina Massimo Carminati (non la famiglia ma un distributore Agip era la sede dirigente di questa associazione da me ribattezzata la Corleone dei cravattari), ecco, allora giustizia è stata fatta, e giustizia anti-mafiosa. Oggi si apre il processone, maxiprocesso dicono, e vedremo che cosa ne verrà fuori. Il dibattimento pubblico è occasione a volte di chiarificazione. Ma questo dibattimento, come tutti quelli di argomento mafioso-antimafioso, è a regime mediatico-giudiziario un po’ speciale. La mia modesta tesi, e scandalosa, la conoscete. A Roma c’era, specie in un ambito democratico e progressivo, quello della redenzione sociale dei carcerati e del mondo cooperativo, ma con forti trasversalismi che interessano la destra di lotta e di governo, gli alemannoidi, una diffusa tendenza pratica alla corruzione di funzionari, imprenditori, manager che ruotavano intorno al bilancio pubblico del comune: avidità, mezzi truffaldini, pubblici ufficiali e funzioni pubbliche piegate, con le buone e con qualche elemento di grottesca e vernacolare intimidazione (tipo "je do ‘na martellata"), il tutto a scopi di arricchimento sociale delle cooperative, a scopi di potere e di arricchimento privato di redditi e patrimoni. Tutte cose da colpire con i rigori di una legge che pretende costituzionalmente il giusto processo, cioè l’accertamento per vie giudiziarie corrette di responsabilità penali e personali. Con l’aggiunta, sconosciuta ai codici più seri e moderni del nostro, dell’associazione per delinquere, un reato appunto associativo che spesso confonde le responsabilità e consente non giusti ma ingiusti (proceduralmente) processoni o maxiprocessi. C’è poi il discorso sulla corruttela assistenzialista e sulla spesa pubblica facilmente fuori controllo, che emerge in altri ma contigui termini anche dalla gestione siciliana dei beni confiscati ai mafiosi, con il sospetto di corruzione fin dentro la magistratura e altro. Ma non voglio sottilizzare. Diciamo che allo stato degli atti e delle intercettazioni una associazione a delinquere secondo il codice penale è ipotizzabile e non scandalizza. Perché dunque il bollino mafioso? Perché teorizzare, tra sociologia urbana e diritto positivo, che quella romana non è delinquenza o corruzione in atti pubblici ma una forma, come riferisce il Bianconi Collettivo, "originale e originaria" di mafia con la maiuscola e il nome di Roma associato? (Originale perché non è come Cosa Nostra o la ‘ndrangheta: no morti, no armi, no famiglie, no iniziazione, no tutto. Originaria perché nostrale, tipica di Roma e dei suoi sette colli e nata lì). È lo stesso problema della famosa trattativa stato-mafia. Devo essere franco. Su questo giornale leggeste molto prima delle indagini di Nino Di Matteo e di Antonio Ingroia, e dell’interminabile telenovela dibattimentale, la verità cronistica, che non è necessariamente quella storica ma le assomiglia: dopo le grandi stragi del 1992, con lo stato scombussolato dalla violenza dell’offensiva mafiosa, esecutivo e giudiziario, mandando avanti prima i carabinieri e poi lo stesso pm Caselli, in forme diverse, e magari facendo qualcosa in cambio, cercarono di ottenere una tregua di sicurezza da famiglie mafiose, all’occasione rappresentate dal loro uomo in abiti civili, il celebre Vito Ciancimino, politico refoulé e mafioso organico. Ma mettere il bollino di "trattativa" a scopo promozionale mafioso a questa che molti insigni giuristi considerano una ordinaria attività di sicurezza dello stato ha avuto un valore particolare. Come per Mafia Capitale. Il bollino mafioso non è irrilevante. Consente una certa gestione allargata e onnipotente delle indagini, che diventano come scrisse il magistrato di sinistra Piero Tony, inchieste-reportage, grandi storie da abbuffata mediatica. Consente, honni soit qui mal y pense, carriere magistratizie più brillanti, e poteri combinati di giustizia e di storiografia della Repubblica, la peggiore commistione possibile dei generi. Consente, il bollino, campagne giornalistiche e politiche capaci di manipolare l’opinione pubblica, sollecitare gli spiriti animali dell’antipolitica, realizzare scopi vari di supplenza dei poteri non elettivi, il tutto estraneo a scopi di giustizia penale da paese civile. Sono troppo drastico? Non ho aspettato di vedere bene le carte? Schiaffeggio i leoni dell’antimafia e diffamo gli eroi? Può essere, e in tal caso me ne dolgo con me stesso e con gli eroi. Ma sono sicuro del contrario, moralmente e professionalmente sicuro dopo decenni di osservazione della realtà italiana e delle sue gravi deformazioni, specie in fatto di diritto e di media. Comunque Mannino, testa di turco di tutto il Giornalismo Collettivo dai tempi della fucilazione da Santoro e delle inchieste facilone di Deaglio, un uomo oppresso e quasi distrutto da un certo spirito anti-mafioso, è stato assolto. Credo che dovrebbe accadere anche ad altri imputati di Palermo colpiti dal bollino mafioso, alcuni dei quali noti per avere catturato Riina, altro che storie. E spero che Buzzi e Carminati e gli Odevaine e tutti gli altri siano condannati per quello che hanno fatto eventualmente e probabilmente, non per quello che gli si attribuisce in modo spropositato e abnorme e improbabile: la mafia. Lo dico per convinzione ferrea maturata leggendo i vari Bianconi, le carte e cartuccelle del processo, le disdicevoli veline alle quali abboccano felici i pistaroli, i nastri goffi delle intercettazioni, e per aver osservato le circostanze fattuali di questa strana mafia originale e originaria, che è servita a una campagna di giustizialismo diffuso e non di giustizia puntuale da parte di un pool giudiziario e mediatico che non conosce Roma, ma conosce bene l’arte di rigirare le frittate per sfondare i muri e arrivare al palcoscenico (è critica politica e professionale: no querele, prego). E ora datemi pure il bollino mafioso: voglio considerarlo un blasone di nobiltà (sbrasata finale per non morire di noia). Lettere: la trattativa Stato-mafia semina noia, ma ci dice molto della giustizia italiana di Riccardo Arena Il Foglio, 5 novembre 2015 Del processo sulla trattativa Stato-mafia avevano capito tutto in due: il pm Paolo Guido, che lasciò volontariamente il pool inquirente, perché dopo avere indagato aveva capito che non era "strada che spuntava", e l’ex pm Antonio Ingroia, che lasciò l’Italia e poi la magistratura, dopo avere ottenuto che il suo ufficio chiedesse il giudizio per dieci imputati, uno dei quali, Calogero Mannino, ieri mattina è stato assolto per non aver commesso il fatto. A pensarci bene, sebbene siano due figure totalmente diverse, Guido e Ingroia, entrambi dentro di sé avevano colto l’essenza di un processo che oggi, tre anni e mezzo dopo quelle estenuanti giornate di primavera del 2012, in cui si decise se e come mandare a giudizio gli imputati, si trascina stancamente, nel disinteresse generale. Il troncone andato in abbreviato, con Mannino unico imputato, si è chiuso oltre due anni dopo la celebrazione della prima udienza; la tranche che è a dibattimento in Corte d’assise, per un reato controverso anche dal punto di vista giuridico, avanza alla media di cinque-sei udienze al mese, ma ne avrà ancora perlomeno fino al 2017, se tutto va bene. Spuntano, a commentare la sentenza Mannino, personaggi ormai dimenticati (Follini, Giovanardi, Buttiglione, Saverio Romano, Ferrero), come dimenticato era questo procedimento, che pure tanto aveva diviso, nel momento in cui l’aspirante guatemalteco Ingroia - poi pure aspirante premier, ripescato da Crocetta alla guida di una società pubblica, oggi anche avvocato dei compari del "suo" superteste, Massimo Ciancimino - aveva ottenuto che tutti i colleghi firmassero l’avviso di conclusione delle indagini. Tutti, appunto, meno Paolo Guido, magistrato attento, spirito critico e capace di andare oltre quel che fece il debole procuratore Messineo, pure lui perplesso, ma capace solo di non firmare quell’avviso e poi pronto a vistare la richiesta di rinvio a giudizio. Tecnicismi? Tutt’altro. In quelle firme - mancanti, rimosse, evitate - e nella scelta di Ingroia di volere a tutti i costi un processo che, lui lo sapeva benissimo, non avrebbe affrontato mai in prima persona, c’è l’essenza di una storia infinita. E in fondo non ha torto don Ciotti, quando dice che "in Italia il 75 per cento dei familiari delle vittime della mafia non conosce la verità sulle stragi". Ma non mente neppure uno dei legali di Mannino, l’avvocato Nino Caleca, quando spiega che "i processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la storia". E ha un bel da fare, il pm Nino Di Matteo, ad arrabbiarsi per le stilettate dell’imputato: perché al magistrato super-minacciato dalla mafia si possono riconoscere ostinazione e buona fede, ma a che vale insistere su un costrutto accusatorio oggi smontato persino da un giudice come Marina Petruzzella, accompagnata - tra gli imputati - da una non certo favorevole fama di "condannista"? Eppure questo processo si è dovuto fare, a tutti i costi, e proseguirà anche oggi, davanti alla corte d’assise e dunque ai giudici popolari, poco avvezzi alle complesse problematiche giuridiche di un giudizio smontato da giuristi come Giovanni Fiandaca e storici come Salvatore Lupo. Rimarranno sempre dubbi e veleni sulla stagione dei grandi processi, che divise il paese, ma ormai ha fatto il suo tempo e appartiene anch’essa alla storia: morto Andreotti, scontata la pena Contrada, in carcere Dell’Utri. Ma del processo sulla trattativa c’era veramente bisogno? Dell’ennesimo giudizio contro Mannino, da ventidue anni di professione imputato e sempre assolto, non si poteva proprio fare a meno? Intanto a Palermo energie e polemiche sono state utilizzate - qualcuno dice sprecate - mentre a Roma, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli e Milano si è smontata e rimontata l’Italia. Solo ora timidamente affiorano le tangenti anche in Sicilia e il caso Saguto scuote i palazzi di giustizia di tutto il paese. Solo ora Palermo comincia a guardare al futuro e non a caso il procuratore Lo Voi dice che vuole leggere le motivazioni, prima di ricorrere in appello contro Mannino. In attesa della sentenza del processo sulla trattativa, che arriverà forse nel 2017, ma di cui non frega più niente a nessuno già adesso. Lettere: cari Pignatone boys, a Roma evitate tentazioni palermitane di Sergio Soave Il Foglio, 5 novembre 2015 Nella teoria della trattativa stato-mafia costruita dalla procura palermitana, Calogero Mannino rivestiva un ruolo essenziale. Era accusato di essere l’ispiratore dei presunti contatti tra l’Arma dei carabinieri e la cupola mafiosa. La sua assoluzione "per non aver commesso il fatto" fa franare uno dei principali punti di appoggio dell’accusa, il che probabilmente avrà l’effetto di far franare tutto l’impianto accusatorio nel procedimento principale, dal quale quello relativo a Mannino è stato stralciato per la scelta da parte dell’ex ministro del rito abbreviato. Dopo l’uscita di scena plateale di Antonio Ingroia (che ha capeggiato la lista Rivoluzione civile trascurata dagli elettori) la funzione di massimo sostenitore dell’accusa è passata a Nino Di Matteo, che ha proseguito nell’uso spregiudicato del circuito mediatico-giudiziario per creare un clima di opinione sfavorevole agli imputati ed esaltare il protagonismo politico della procura. Ora la sentenza di assoluzione con formula piena di Mannino getta un’ombra assai pesante su tutta l’operazione stato-mafia che è arrivata, per la gestione spregiudicata delle intercettazioni da parte della procura, a lambire il Quirinale, che ha dovuto chiedere alla Consulta di ordinare la distruzione di intercettazioni ininfluenti che venivano usate per alimentare il polverone. Alla fine si dovrà mettere a bilancio lo spreco di risorse sottratte a effettive azioni di contrasto alla criminalità organizzata, senza contare il discredito anche internazionale che è stato disseminato senza ragione sulle massime istituzioni della Repubblica. D’altra parte neppure la sentenza è bastata a tacitare gli ultras dell’antimafia professionale, come testimonia la manifestazione inscenata davanti al tribunale palermitano dal sedicente "popolo delle agende rosse" in cui si insisteva ad attribuire a Mannino la responsabilità della presunta trattativa. Questa tendenza a costruire attorno a un procedimento giudiziario una sorta di agitazione permanente a sostegno dell’accusa, con largo impiego della manipolazione e della diffusione selettiva di intercettazioni che alimenta il circuito mediatico-giudiziario, rappresenta uno degli aspetti più impressionanti della politicizzazione di alcune procure. Se in Sicilia questa deriva appare oramai inarrestabile, persino di fronte a riscontri processuali che contraddicono apertamente gli assunti dell’accusa, questo stesso fenomeno può dare metastasi anche in altre situazioni processuali e in altri territori. Viene naturale interrogarsi sulla possibilità che anche il processo su Mafia Capitale che si apre in questi giorni possa incanalarsi in una direzione altrettanto speciosa. Per la verità, finora, si può registrare una sobrietà della magistratura romana incomparabile con la verbosità tribunizia di quella di Palermo e questo va sottolineato come un comportamento lodevole in una situazione caratterizzata da una sovraesposizione mediatica che potrebbe indurre in tentazione anche magistrati non propensi alla politicizzazione delle loro funzioni giurisdizionali. C’è da sperare che l’effetto controproducente ottenuto da Ingroia e Di Matteo aiuti i Pignatone boys a resistere alla tentazione. Lazio: Fsn-Cisl; nelle carceri regionali c’è sovraffollamento e carenza di personale ilgiornaleditalia.org, 5 novembre 2015 Manca anche la figura del Garante dei detenuti. Intanto molti istituti sono a dir poco fatiscenti. Le carceri, si sa, sono affollatissime. Un fenomeno diffusissimo anche nelle case circondariali della Regione Lazio. Un’ingiustizia sociale enorme, figlia del vuoto legislativo sulle misure cautelari e dell’altissima percentuale di detenuti stranieri nelle patrie galere, il cui costo giornaliero ammonta a 3 milioni di euro per un totale di un miliardo di euro all’anno. Continua il sovraffollamento dei prigionieri presenti nei 14 istituti del Lazio, attualmente 5.729. Gli istituti che soffrono in particolare la magia nera tutt’Italia sono quelli di Cassino, Frosinone, Latina, Civitavecchia, Velletri, Viterbo, Roma Rebibbia e Regina Coeli. Eppure, secondo la capienza regolamentare, le donne dovrebbero essere 323 rispetto alle attuali 361, un sovraffollamento pari a più 38 unità, mentre quella degli uomini dovrebbe essere 4.950 rispetto ai 5.279 carcerati, un sovraffollamento pari a più 329 unità. È la denuncia di Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Fns Cisl, che ha portato alla scoperta quanto accaduto recentemente nel carcere romano di Rebibbia. "Problemi in questi giorni si sono verificati alla Ccf Rebibbia, dove una detenuta è deceduta e ieri a Viterbo un detenuto ha incendiato degli stracci in infermeria", ha spiegato, sottolineando: "Purtroppo restano le criticità negli istituti dove il personale fa di tutto per evitare eventi critici". Per non parlare della carenza di personale, costretti a lavorare in condizioni disumane. "Basti pensare alle condizioni lavorative in cui lavorano, dovute alla carenza di personale e alle condizioni a dir poco confacenti delle caserme agenti. Ad esempio: nel nuovo complesso di Rebibbia manca l’acqua calda nella caserma Cinotti. Non va meglio a Frosinone, dove la caserma è a dir poco fatiscente. Dopo le tantissime segnalazioni, invece, si sta muovendo qualcosa a Velletri. Ovviamente non basta. A Regina Coeli, dove il personale risulta abbandonato a se stesso, non vi è un’adeguata sistemazione alloggiativa". Intanto Giuseppe Cangemi, consigliere regionale di Ncd, ha riportato a galla la mancata nomina del Garante dei detenuti, finita, è l’accusa, di nuovo nel dimenticatoio. "Una figura importante, ormai vacante da mesi, è sparita dall’ordine del Consiglio regionale. Dopo tante inutili chiacchiere di Zingaretti sulla legalità - ha argomentato - siamo sempre al punto di partenza". Annunciando che scriverà ai direttori degli istituti penitenziari del Lazio e al provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) affinché "sappiano che, ancora una volta, non si riesce a votare in aula il nuovo garante a causa dell’incapacità di Zingaretti, primo responsabile dello stato di completo abbandono delle carceri del Lazio". Savona: chiusura del carcere Sant’Agostino, necessaria una nuova Casa circondariale savonanews.it, 5 novembre 2015 Chiusura del carcere Sant’Agostino di Savona. A dire no alla disposizione decretata dal Ministro Orlando, la Commissione consiliare Carceri del Comune di Savona che dichiara la propria contrarietà e la "forte preoccupazione per quel che riguarda l’immediato futuro della situazione carceraria locale". Ad intervenire i componenti della Commissione Emilia Minetti, Fausto Benvenuto, Dario Lavagna, Giovanni Maida, Daniela Pongiglione. "Questa Commissione ha sempre sottolineato le criticità delle attuali condizioni del carcere di Savona, auspicando un intervento decisivo che migliorasse la qualità della vita delle persone detenute nel Sant’Agostino, ma oggi non può non rilevare il forte disagio che un trasferimento fuori Savona, in carceri lontane in Liguria o nel Basso Piemonte, potrà procurare ai detenuti stessi, alle loro famiglie e agli addetti alla tutela e alla sorveglianza. L’intervento di chiusura, dati i cospicui trasferimenti già in atto, sembra avere carattere di urgenza, e rischia di aggravare le situazioni di sovraffollamento esistenti nelle altre carceri destinatarie di tali spostamenti. È tutta poi da chiarire l’affermazione presente nel documento inviato dal Capo dipartimento Santi Consolo (del 7 ottobre 2015) che dice che il Ministero prevede "contestualmente alla chiusura l’edificazione di una nuova Casa circondariale in prossimità di Savona". "Poiché la chiusura è, evidentemente, avviata, riteniamo necessario un chiarimento da parte del Ministero relativo alla contestuale "edificazione di una nuova Casa circondariale". Anche l’amministrazione comunale dovrà esprimersi quanto prima sul tema "nuovo carcere": Passeggi è ancora in gioco? E soprattutto: Savona vuole un carcere sul suo territorio?". Napoli: la verifica dell’Asl "nel penitenziario di Poggioreale cucine fatiscenti" di Claudia Procentese Il Mattino, 5 novembre 2015 L’ultimo sopralluogo semestrale dell’Asl è dello scorso luglio, ma la segnalazione più recente è di un paio di settimane fa. Dai rilievi post-ispezione risulta che la cucina del carcere di Poggioreale è in peggiorate condizioni strutturali ed igienico-sanitarie. La relazione sottolinea il deterioramento di arredi ed utensili e, di conseguenza, la necessità urgente di lavori di rifacimento per non mettere in pericolo la salubrità degli ambienti e la salute di detenuti e lavoratori. Ristrutturazione, che compete all’amministrazione penitenziaria, e definita improcrastinabile dall’azienda sanitaria Napoli 1 Centro, a cui fa riferimento la casa circondariale dal 2008, cioè da quando le competenze sanitarie, prima di allora in capo al Ministero della Giustizia, sono state trasferite al Sistema sanitario nazionale. Ma non c’è solo il timore di intossicazioni a causa dell’attuale stato disastrato dei locali. Il cibo arriva scadente in cella per l’assenza di adeguati carrelli porta vivande. Per questo motivo i detenuti sono costretti alle spese aggiuntive del sopravvitto e a cucinarsi autonomamente, tra letto e bagno, con i pericolosi fornellini a gas. "A parte i casi di ustione e il fatto che talvolta nel reparto dei tossicodipendenti il gas è inalato come fosse droga, i pasti, vista l’assenza di recipienti termici da usare per il trasporto fino ai padiglioni, sono immangiabili" spiega il cappellano don Franco Esposito. "La conseguenza è che tonnellate di cibo ogni giorno vengono buttate nella spazzatura. Solo gli indigenti, come gli extracomunitari, mangiano quello che gli arriva e questo accentua la disparità sociale". Non solo. "Oltre allo spreco - continua don Franco - la legge dice che una cucina deve servire al massimo per 400 detenuti, quindi dovrebbe esserci una cucina per ogni padiglione, invece oggi una sola serve per circa 1.800 persone, oltre a quella speciale destinata ad un centinaio di detenuti del padiglione clinico. Ed è strano che, ovunque, in una cucina sono obbligatoriamente previsti cuochi professionisti, mentre a Poggioreale chi la gestisce è personale della Penitenziaria insieme agli stessi detenuti lavoranti". Pesaro: carcere sovraffollato, intervista all’ombudsman delle Marche Andrea Nobili di Paolo Montanari viverepesaro.it, 5 novembre 2015 "Si sta uscendo dalla fase emergenziale nelle carceri marchigiane, anche grazie alla nuova normativa, ma il carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, purtroppo detiene il record negativo, per sovraffollamento". Sono le parole del nuovo Ombudsman della Regione Marche, Andrea Nobili, di professione avvocato penalista di Ancona, da sempre vicino alle problematiche sociali. E la prima uscita istituzionale di Nobili, è stata la visita delle strutture penitenziarie marchigiane. Avvocato partiamo dai dati del carcere di Villa Fastiggi. "A Pesaro vi è una criticità dovuta ad una maggiore popolazione di detenuti, che al 30 settembre erano 212 persone per una capienza strutturale di 150 persone. Ma nonostante questo dato negativo il carcere pesarese è leggermente migliorato rispetto al passato. Certamente il fatto che il carcere di monte Acuto di Ancona sia in fase di ristrutturazione, ha comportato un trasferimento di detenuti anche nel carcere pesarese. Con questo vorrei precisare che la struttura carceraria dorica continua a funzionare, una parte dei lavori si è conclusa e per l’altra occorreranno altri due anni. Certamente il carcere di Pesaro, che ho visitato, come le altre strutture penitenziare, con molta accuratezza, ha bisogno di essere ristrutturato nella parte esterna, che onestamente ho visto molto degradata. All’interno la situazione è migliore, anche nella sezione dei sex offender, che hanno bisogno di un percorso non solo strutturale, ma anche psicologico molto preciso per favorire una presa di coscienza. Un altro problema che caratterizza il carcere di Villa Fastiggi è il numero superiore alla media regionale e nazionale di stranieri. Infatti su 212 detenuti, 111 sono stranieri e dunque superano la media del 30%. La popolazione carceraria femminile è invece molto ridotta: nel carcere di Pesaro vi sono 6 donne e 7 a Camerino". Il numero così alto di stranieri ed extracomunitari, apre un’altra serie di problematiche: la convivenza interculturale e religiosa. "Si è vero, su una popolazione carceraria nelle Marche di 860 persone, già il 30% di detenuti stranieri, implica che la polizia penitenziaria e il personale debbono essere molto attenti a queste problematiche. A questo proposito devo fare un elogio alla polizia penitenziaria di Pesaro che con grande sensibilità e preparazione ha affrontato questi aspetti, ad iniziare dalla cucina, dove vengono preparati dei pasti mirati anche alla provenienza etnica e religiosa del detenuto. Ma il grande problema per la popolazione carceraria straniera è la difficoltà di ottenere misure alternative alla detenzione. Chi è stato condannato a 4 anni di detenzione deve avere, per ottenere le misure alternative, il lavoro e l’abitazione. Ma come fanno questi cittadini stranieri ad avere questi requisiti esistenziali, quando spesso mancano agli italiani?". Recentemente, avvocato, si è denunciato anche all’interno della struttura del carcere di Villa Fastiggi, la mancanza di materiale igienico, dalla carta ai dentifrici, tanto che la Caritas ha più volte fatto delle collette per i detenuti. Come è adesso la situazione? "Purtroppo il sistema del welfare è quello che maggiormente ha risentito della crisi economica. Le problematiche sanitarie purtroppo permangono, anche se gli spazi vi sono. Ma mancano gli organici. Nel carcere di Pesaro vi sono solo 171 agenti penitenziari, che devono controllare e spesso assistere una popolazione carceraria molto giovane, di cui 67 sono legati alla problematicità della tossicodipendenza. Una vera piaga sociale, che ha la sua cartina al tornasole proprio nelle carceri marchigiane, dove al 30 giugno 2015, erano 277 le persone detenute per droga". E il famoso super carcere di Fossombrone, caduto nell’oblio anche di fatti di cronaca giudiziaria, come sta attraversando questo momento di transizione? "Ho visitato anche il super carcere di Fossombrone e posso dire che in questa struttura si è alleggerita, secondo i dati del 30 settembre 2015, la popolazione carceraria, che è di 157 unità in una struttura che ne può contenere 201. Ma la differenza con il carcere pesarese, e che in questo carcere la popolazione è più vecchia. Vorrei concludere però dicendo che dobbiamo tenere sempre la massima attenzione per le problematiche carcerarie, perché è un attimo ricadere, dopo un leggero miglioramento, in situazioni che possono scaturire anche in vicende drammatiche" Novara: Giornata del recupero ambientale, detenuti al lavoro al parco di via Ghiberti ilvenerdiditribuna.it, 5 novembre 2015 Si è ieri mattina, mercoledì, la Giornata di recupero ambientale nell’ambito del protocollo che vede coinvolti il Comune di Novara, la Magistratura di Sorveglianza, la Casa Circondariale, l’Uepe Ufficio esecuzioni penali esterne, e l’Assa. Oggi i lavori hanno interessato il rione Sant’Andrea, con un grande intervento di pulizia e di manutenzione al parco di Via Ghiberti che versava in pessime condizioni a causa dei gravi danneggiamenti subiti per vandalismi in più parti. I detenuti della Casa Circondariale di via Sforzesca, coordinati da Assa, che come sempre ha anche supportato operativamente le attività, hanno anzitutto raccolto i tanti rifiuti che giacevano abbandonati su quest’area pubblica. Poi hanno provveduto a rimettere in sicurezza e ripristinare la recinzione del campo da basket, a sistemare gli arredi, a rimettere le assi mancanti alla panchina. Hanno riposizionato i cestini portarifiuti ed hanno iniziato la sistemazione della pavimentazione del campo da basket, che, per i necessari tempi di asciugatura del cemento, verrà poi completata nei prossimi giorni con le rifiniture opportune delle opere edili. Oltre alla pulizia dai rifiuti, Assa, attraverso l’attività dei detenuti, ha provveduto anche al necessario intervento manutentivo, pur non facendo parte dei compiti istituzionali propri della società, riportando ad una situazione decorosa questo parco cittadino molto frequentato. Salerno: i Radicali sulla visita al carcere di Fuorni "poco cibo e celle sovraffollate" di Antonio Roma ottopagine.it, 5 novembre 2015 Cibo insufficiente e celle sovraffollate, questo il risultato del report dell’ultima visita ispettiva compiuta lo scorso 3 novembre nel carcere di Fuorni. Chi non ha denaro per lo spesino rischia di mangiare una sola volta al giorno. È quanto sarebbe emerso dalle denunce degli stessi detenuti della casa circondariale di Fuorni, alla visita ispettiva della delegazione radicale guidata dal segretario Donato Salzano e che comprendeva la presenza del consigliere regionale Pd, Franco Picarone e del medico legale, Carmine Cuomo. "È quanto ci hanno riferito i detenuti durante la nostra ispezione di martedì scorso. - ha affermato Salzano - Ci hanno riferito che la somministrazione del vitto avviene alternativamente e una sola volta al giorno". Ma è ancora polemica sul calcolo della pena secondo la Fini-Giovanardi, soprattutto per detenuti accusi d’uso e spaccio di sostanze stupefacenti. "Colpa della Corte d’Appello che procede a rilento nei calcoli di pena. - riprende Donato Salzano - Non sono rapportate a quanto si prevede nella normativa vigente. Il risultato è una sezione che resta in sovraffollamento". Viterbo: coltellate tra detenuti, disposta la perizia psichiatrica per l’aggressore tusciaweb.eu, 5 novembre 2015 L’imputato è un detenuto, accusato di aver usato l’asticella del ping pong come un coltello Perizia psichiatrica sul trentenne accusato di tentato omicidio in carcere. Succedeva due anni fa al penitenziario di Mammagialla: un detenuto resta ferito durante una partita di calcetto. Accusa un altro detenuto di averlo colpito con l’asticella per tenere la retina del ping pong, usata praticamente come un pugnale. M.R., trentenne di nazionalità albanese, finisce a processo per tentato omicidio. All’udienza di ieri ha parlato lui, smentendo vecchie ruggini o motivi di rancore con il detenuto ferito ma ammettendo che, sì, avevano litigato per un fallo a calcetto durante l’ora d’aria. Oltre all’imputato, i giudici hanno ascoltato come testimone Bengasi Battisti, sindaco di Corchiano, medico in servizio al pronto soccorso la sera del 9 luglio 2013, quando il detenuto parte offesa arriva in ospedale con una ferita all’addome. La difesa, rappresentata dall’avvocato Roberto Francesco Rotella, aveva chiesto che il tribunale acquisisse la cartella clinica del suo assistito. Documentazione sanitaria che attesterebbe che il detenuto soffre di un particolare disturbo psichiatrico. Il collegio (presidente Eugenio Turco, giudici a latere Silvia Mattei e Rita Cialoni) ha disposto una perizia psichiatrica, per stabilire se il detenuto, viste le sue patologie, era capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Sarà l’ultimo accertamento prima della sentenza. Milano: "Energetic Source" inaugura un centro servizi nel carcere di Bollate Askanews, 5 novembre 2015 In nuova attività saranno coinvolti 12 detenuti e 3 ex-detenuti. Un centro servizi nel carcere di Bollate. È il progetto di reinserimento lavorativo e sociale per i detenuti inaugurato oggi da Energetic Source, azienda leader nel mercato elettrico e del gas in Italia. L’iniziativa è nata in collaborazione con bee4, cooperativa già presente nell’istituto penitenziario e vedrà coinvolti i carcerati nelle attività di data entry, validazione documentale, fornitura di informazioni al cliente e inserimento delle autoletture. Dopo un periodo di formazione e sperimentazione, avviato a marzo di quest’anno, il Centro Servizi Energetic Source - realizzato nell’area industriale del carcere grazie all’intervento di bee4 - vedrà lavorare davanti ai desk 13 uomini e 2 donne, che sono stati affiancati da alcuni dipendenti Energetic Source. "Progetti come questo si sono sempre rivelati positivi - ha commentato Carlo Bagnasco, ceo di Energetic Source - perché attribuiscono un ruolo di responsabilità al detenuto che si sente persona e non numero. L’obiettivo è quello di arrivare a 23 unità. Siamo certi che quest’esperienza favorirà nuove opportunità lavorative per coloro che lasceranno il carcere, grazie a un bagaglio di formazione e competenze in più". "Funziona e ha un effetto positivo sulle figure aziendali coinvolte - gli ha fatto eco Fabio Guzzi, direttore operations di Energetic Source che sostiene fin dall’inizio il progetto - e in prospettiva può diventare un’integrazione tra i soggetti incaricati di tali servizi e l’azienda con sicure ripercussioni positive per Energetic Source". Il progetto, ricorda Roberto Minerdo, direttore comunicazione e public affair di Energetic Source, fa parte delle azioni di Corporate Social Responsability dell’azienda, che saranno certificate a mezzo del Bilancio Sociale di Impresa. "L’iniziativa di Energetic Source e di Bee4 s’inserisce perfettamente nella progettualità dell’Istituto fondato sulla responsabilizzazione dei detenuti esteso alla loro inclusione sociale - ha sottolineato Massimo Parisi, direttore della II Casa di Reclusione Milano Bollate - Attraverso il lavoro si dà l’opportunità concreta alle persone detenute di avere la giusta dignità, di sostenere le proprie famiglie, soprattutto, di acquisire competenze utili per il loro futuro. Al contempo si possono creare le giuste condizioni per evitare la recidiva nei reati e migliorare la sicurezza sociale Per tutti questi motivi va il mio sincero grazie ad Energetic Source e a Bee4 che hanno creduto nella sfida". L’iniziativa ha ricevuto il plauso anche del sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, che ha sottolineato come le attività lavorative all’interno degli istituti di pena permettano al detenuto di potersi sostenere economicamente, favorendo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie capacità in vista del loro reinserimento sociale e, al tempo stesso, concorrono ad aumentare la sicurezza delle carceri. Milano: "Energetic Source", quando è il lavoro a liberare dalle catene di Elena Gaiardoni Il Giornale, 5 novembre 2015 Sono tutti laureati gli operatori del nuovo data entry di "Energetic Source". Novecento euro al mese per sei ore al giorno al computer, senza navigazione esterna, perché i quindici nuovi assunti sono dodici detenuti del carcere di Bollate, più tre ex carcerati. Era già stato attivato un call center, ma questo ufficio è una struttura più evoluta, che implica competenze maggiori e una rigida serietà professionale. Le catene di piombo dei galeotti, catene psicologiche oggi, si sciolgono grazie al semplice lavoro, accettato con amore e umiltà anche da chi ha una laurea che in carcere non ha l’odore del narcisismo ma il profumo dell’umiltà. "I "ragazzi", in media quarantenni, hanno dovuto studiare. Si tratta di fornire al cliente dati necessari alla fatturazione e al contratto con noi, di dare informazioni rispetto all’attivazione dei servizi, di svolgere compiti che richiedono un’applicazione intellettuale e di concetto" spiega Roberto Minerdo, direttore delle relazioni istituzionali della Energetic Source. Gli uomini scelti sono stati selezionati e preparati. Applicarsi a una professione per un detenuto implica un nuovo ritmo di vita e un altro respiro. "Ciò che ti colpisce in questi uomini è la riconoscenza che oggi non trovi nelle persone libere". Ritornano antichi valori nell’istituto di detenzione di Bollate, grazie alle iniziative che coinvolgono i suoi "ospiti": dal teatro, alla ristorazione, ad altri tipi di professionalità o di diporto intellettuale. Valori che nel dolore rivelano altri significati: nella pena nulla è scontato, tantomeno la libertà di fare. Il data entry partito ieri ha ricevuto il plauso del sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, un fervente sostenitore dell’operosità professionale all’interno delle case di pena perché permette al detenuto di potersi sostenere economicamente e nello stesso tempo concorre a aumentare la sicurezza soprattutto all’interno delle celle. Il lavoro cancella molte ombre. Basta una cifra per capire l’importanza del suo ruolo pedagogico. In media nei penitenziari italiani la possibilità di recidiva di tornare a compiere un reato da parte dei detenuti una volta usciti è del 70%, a Bollate tale possibilità scende al 25%. "Abbiamo fatto un altro passo che s’inserisce nella progettualità dell’Istituto fondato sulla responsabilizzazione del soggetto - sottolinea Massimo Parisi, direttore della II casa di reclusione Milano Bollate. Grazie all’impegno lavorativo diamo una chance a dei padri di famiglia: sostenere da dentro mogli e figli". È un vantaggio che aiuta il carcerato a percepire un rapporto d’unione con il suo nucleo d’origine. "Il lavoro dietro le sbarre è un doppio servizio sociale. Da un lato significa offrire una motivazione d’esistere a chi si è chiuso in una cella, dall’altro, suscitando nella persona una coscienza attiva, è più facile che una volta uscita questa persona sia meno disposta a ritornare a delinquere" conclude Roberto Minerdo. Nuoro: esperti a confronto in un convegno "il carcere punti al recupero dei detenuti" di Francesco Pirisi La Nuova Sardegna, 5 novembre 2015 Garante, ordine e scuola forense a confronto in un convegno: "Sette detenuti su 10 ricadono nel reato". Uno stato senza carceri, oppure centinaia di istituti di pena che sono non di rado dei lager. L’utopia e la realtà, quest’ultima ancora più pesante da sopportare se inquadrata in una società fondata sul diritto, che per la pena ha previsto (articolo 27 della Costituzione) il suo compito rieducativo. Tra i due estremi ci sono delle vie intermedie, possibili. Lo si dichiara da tempo e ancora una volta è stato l’elemento centrale del convegno tenutosi venerdì pomeriggio a Nuoro. Tre ore di confronto, su iniziativa di Ordine e Scuola forense, insieme alla Camera penale, al Garante per i detenuti e alla cooperativa Lariso. Tra le presenze quelle forestiere di Livio Ferrari, garante dei detenuti per il Comune di Rovigo, e Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza a Sassari. Due tra le tante voci sentite nella sala della Camera di Commercio, con un concetto unico: l’istituzione carcere ha fallito il suo obiettivo per il prevalere dell’aspetto della repressione su quello del recupero al consorzio civile del condannato. Fatti e numeri per confermare il concetto, illustrati da Ferrari: "Il 70 per cento di chi entra in un penitenziario ricade nel reato e questo è sintomatico delle gravi carenze nell’opera rieducativa. Anzi, il carcere è sempre l’ambiente dove la capacità di delinquere si affina". Altro limite, messo in rilievo sempre dal garante arrivato dal Veneto, il numero dei detenuti: "Negli ultimi due anni c’è stata sì una riduzione da 68 a 52mila, ma solo perché l’Unione europea ha comminato all’Italia delle multe per la situazione di degrado e privazione dei diritti primari della persona. Per evitarne delle altre, da parte del governo la richiesta ai magistrati di fare spazio alle pene alternative". La logica di rinchiudere dentro una cella chi si è reso colpevole del danno alla società continua a tuttavia a surclassare ogni idea diversa. Ancora Ferrari: "Tra i limiti ci sono la visione poco chiara tra l’opinione pubblica sulle pecche del sistema e sull’opportunità di superarlo. Non lo dico perché sono un buonista, ma piuttosto per la certezza che con interventi rieducativi, a iniziare dalla possibilità di studiare e lavorare, il detenuto può risarcire le conseguenze del proprio errore. Tutto ciò con un vantaggio anche per la vittima, che invece oggi non ottiene alcun beneficio da un metodo atto unicamente a punire, per alcuni versi con una volontà di restituire colpo su colpo quello che è stato l’effetto dell’azione criminosa". Tra accuse specifiche e collettive, il garante Gian Franco Oppo parla di un problema che prima che interno al carcere è di tutta la società presente intorno ad esso. Non senza la domanda estrema, "carcere sì o carcere no", che rimetterebbe in discussione uno strumento di punizione nato alla fine del 600, all’epoca visto come una soluzione avanzata rispetto alla repressione attraverso la tortura, la lapidazione, e sino alla pena di morte. Prima Ferrari e poi De Vito dicono con sicurezza che, tolti i fatti più gravi, l’antico istituto potrebbe essere sostituito. Il magistrato di sorveglianza rafforza l’idea con i dati sui morti all’interno delle sbarre, che negli ultimi 15 anni sono stati 2500: la maggior parte suicidi, anche di agenti penitenziari. Verona: al via "In nome del padre", laboratorio tra padri detenuti e padri "liberi" Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2015 Prende il via sabato, 7 novembre, il progetto "In nome del padre", primo laboratorio nel nostro Paese volto a mettere di fronte 12 padri detenuti e 6 padri liberi, genitori di bambini e di adolescenti. Se la genitorialità è compito difficile per l'adulto che quotidianamente segue e indirizza il divenire della vita di una figlia o di un figlio, per la persona detenuta è impresa quasi impossibile: il senso di impotenza, il rischio di divenire giorno dopo giorno estraneo, il dramma di una colpa che fa del male a chi più ami rischiano di recidere legami e annullare ogni possibile recupero. Il progetto ha come scopo quello di mettere a confronto i problemi della paternità dentro e fuori dal carcere cercando, attraverso il racconto delle proprie esperienze, soluzioni condivisibili, modalità per un possibile miglior dialogo, immaginando se necessario un percorso nuovo di incontro tra padri e figli. L'iniziativa viene proposta dall'associazione "Verso Itaca" onlus in diversi istituti carcerari italiani. Grazie alla collaborazione con l'associazione "MicroCosmo" onlus, Verona sarà la prima sede di realizzazione di questo progetto. "In nome del padre", sostenuto dal Direttore del carcere, dr.ssa Mariagrazia Bregoli, dagli Educatori, dalla polizia Penitenziaria, dal Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale, Margherita Forestan, con il finanziamento della Fondazione Cattolica Assicurazioni, "si inserisce in quella fascia di attività di ricerca i cui risultati vanno a beneficio di tutti, padri detnuti e quanti credono che il carcere non possa e non debba trascurare il tema della famiglia, dei figli, recuperando i legami che la pena detentiva mette in crisi quando non cancella" afferma Forestan. Milano: correre oltre il muro, la sfida dei detenuti di Bollate di Marco Patucchi La Repubblica, 5 novembre 2015 Nel carcere di Bollate un antropologo fa partecipare i detenuti alla maratona di Milano. Coinvolgendo anche i figli. E l’esperimento funziona talmente bene che verrà esportato in Scozia. Perché, spiega, il limite è solo quello dentro di noi. "Alla fine ho capito che non ero lì solo per loro, ma anche per me stesso. Insieme abbiamo superato tutti i muri: le mura della prigione, il muro della maratona e l’invisibile muro che ognuno di noi costruisce, giorno dopo giorno, per proteggere sé stesso". Loro sono i detenuti del carcere di Bollate, una manciata di chilometri da Milano. Lui è Paolo Maccagno, l’antropologo e runner che ha allenato e portato a correre la maratona un drappello di quei detenuti, lo scorso anno in occasione della Milano City Marathon. "In occasione", perché hanno corso buona parte della gara all’interno del carcere, lungo il muro di confine della prigione, per poi unirsi nella parte finale del tracciato a tutti gli altri runner nelle strade della città e raggiungere il traguardo dove c’erano i loro bambini ad attenderli e a festeggiarli. Paolo Maccagno, che è ricercatore al Department of Anthropology dell’Università di Aberdeen, ora sta lavorando ad un progetto analogo con i detenuti del penitenziario scozzese di Peterhead e l’obiettivo è di correre con loro i 42,195 chilometri, in questo caso interamente all’interno del carcere, in contemporanea con la Edinburgh Marathon del prossimo maggio. Paolo conosce bene il muro della maratona, lo spartiacque che ogni runner, dal campione olimpico all’ultimo dei dilettanti, incontra intorno al trentacinquesimo chilometro, quando i muscoli cercano disperatamente le ultime gocce di risorse (zuccheri o grassi) e se non le trovano bruciano sé stessi. Il muro che segna il vero inizio della gara. Da lì si entra nella terra di nessuno dove tutto può succedere. Nel bene e nel male. Studiando il parallelo tra il muro della maratona e il muro del carcere, ha pensato e poi progettato di accompagnare i detenuti in una pratica del limite come percorso di riabilitazione e di trasformazione: "Limite è una parola dai molti valori semantici ed emozionali - dice Maccagno -. Di solito lo si interpreta come confine insuperabile nel nome di un dentro che si vuole proteggere o, all’opposto, come tentazione, sfida all’andare oltre. Così, però, prevale sempre l’interesse verso i due lati, il dentro e il fuori, e non verso la condizione di limite in sé. Io credo che il limite possa essere interpretato anche come qualcosa di diverso dal confine. Non una linea che separa, ma un campo, uno spazio sorgivo, un luogo carico di energia che mette in relazione". Da queste riflessioni è nato il progetto "Forza Papà!", realizzato insieme alla Ong "Bambinisenzasbarre" a Bollate, e così Paolo ha voluto trasferire l’esperienza anche in Scozia, dove vive e insegna da qualche anno. In Italia Paolo - aiutato tra gli altri da Fabrizio Cosi, capitano e fondatore dell’associazione no profit "Podisti da Marte", scomparso di recente - ha lavorato con una ventina di detenuti, quasi tutti all’ultimo anno di pena, e ha utilizzato la "pratica del limite" anche per aiutarli a recuperare il rapporto con i figli. Nel corso di oltre un anno, una volta a settimana, ha addestrato i detenuti alla maratona, attraverso lezioni di tecnica e, soprattutto, avviandoli alle sedute di allenamento che si sono svolte nel campo di calcio del penitenziario e lungo il muro. Parallelamente, nello "spazio giallo" - luoghi e momenti di incontro non convenzionali tra detenuti e familiari promosso da "Bambinisenzasbarre", hanno cercato di ricucire le lacerazioni del rapporto tra un padre in carcere e un figlio che vive la sua vita oltre il muro. È nata la squadra di runner "Padri sperduti", sperduti come i bambini di Peter Pan. Si sono preparati con impegno, si sono aperti nel dialogo reciproco superando i segreti e le diffidenze che da sempre segnano la convivenza dei detenuti, hanno avvistato la possibilità di una riabilitazione, di un riscatto. Hanno corso la maratona. Sono diventati veri runner ("correremo ancora, correremo anche quando usciremo da qui"), hanno trovato la chiave per una vita diversa. Nuova. "Dopo la prima corsa, appena fatta la doccia, ho aperto la porta dello spogliatoio e ho sentito sul viso l’aria fresca. Ho pensato: "Questo è il meglio della vita". E ho pianto, come non facevo da quando ero un ragazzino", ha confessato a Paolo uno dei "Padri sperduti". "Bisogna cambiare se si vuole superare il muro e arrivare in fondo alla maratona - spiega Maccagno. Il muro del maratoneta è un’esperienza trasformativa. Soltanto un cambiamento di postura corpo-mente può permettere di andare oltre. Soltanto una "pratica del limite"". Questa "pratica", adesso, Paolo proverà a sperimentarla con i detenuti del penitenziario scozzese di Peterhead. E anche lì ci sarà il lavoro parallelo di recupero degli affetti tra padri e figli, ancora più delicato perché il progetto dovrebbe coinvolgere prevalentemente detenuti con pene molto lunghe, ergastoli compresi. Ed anche il lavoro "tecnico" sarà complicato, visto che questa volta i 42,195 chilometri saranno coperti interamente all’interno del carcere, in contemporanea con la maratona che si corre "fuori". La data in agenda è quella della gara internazionale di Edimburgo, in maggio. "Speriamo di farcela. Ho già parlato con alcuni carcerati interessati al progetto - racconta Maccagno -. Ora sto lavorando con associazioni e club podistici scozzesi disposti a collaborare e mi sta dando una grossa mano anche Lia Sacerdote, presidente della Ong "Bambinisenzasbarre", quella dell’iniziativa di Bollate, insieme alla Ong di qui "Familiesoutside". Non è escluso che si possa poi coinvolgere il network europeo del quale fanno parte, "Childrenofprisoners". C’è ancora molto da fare, ma io ci credo". A sentir parlare Paolo, viene da pensare che un personaggio come lui avrebbe voluto incontrarlo sui suoi passi il giovane Smith, il runner protagonista del racconto di Alan Sillitoe "La solitudine del maratoneta", che vive la corsa come affrancamento dalle prevaricazioni e dalla desolazione del riformatorio: "Eccomi qui, ritto sulla soglia in maglietta e calzoncini, senza neanche una crosta di pane secco nelle budella, che guardo i fiori coperti di brina ai miei piedi. Mi sento cinquanta volte meglio di quando sono rinchiuso lassù in quel dormitorio con altri trecento ragazzi come me (...) È una pacchia fare il maratoneta, fuori nel mondo per conto tuo senza un’anima che ti faccia saltare la mosca al naso o che ti dica cosa devi fare o che c’è un negozio da svaligiare in fondo alla prossima strada". Un’inconsapevole "pratica del limite" negli slums inglesi di qualche decennio fa. Firenze: dai detenuti di Sollicciano un altare per Papa Francesco gonews.it, 5 novembre 2015 È in fase di ultimazione l’altare dal quale Papa Francesco celebrerà la messa dallo stadio Artemio Franchi di Firenze il 10 novembre. Ma non si tratta di una struttura usuale, soprattutto per quanto riguarda i creatori. La costruzione è stata infatti opera di due detenuti del carcere di Sollicciano. Qualche mese fa, i reclusi, aiutati dal cappellano Don Vincenzo Russo, si erano messi in contatto con il Sommo Pontefice per mettere in luce le condizioni di disagio profondo che vivono ogni giorno. I detenuti avevano richiesto l’aiuto del Papa in modo che potesse farsi interprete della situazione drammatica che si ritrovano quotidianamente ad affrontare. A quel sollecito il papa rispose e da qui partì l’idea della costruzione dell’altare. "Abbiamo deciso di ripartire dall’altare - ci ha spiegato Don Vincenzo - dal momento che rappresenta la rinascita. Così come avviene per la Pasqua, che porta con sé una nuova vita, la stessa cosa vorremmo si realizzasse per chi vive una condizione di esclusione sociale estrema come quella del carcere di Sollicciano. La situazione è davvero drammatica, tra sovraffollamento e condizioni igieniche precarie". L’altare per il Papa verrà ultimato nelle prossime ore e verrà trasportato allo stadio. A lavorarci sono stati il volontario Franco Panchetti, falegname in pensione di Malmantile (nel comune di Lastra a Signa) che ha aiutato due detenuti nella costruzione. Uno degli operai è un ragazzo di origine tunisina di religione musulmana, mentre l’altro era già avviato al mondo della falegnameria visto che il padre svolgeva questo mestiere. Alla messa allo stadio parteciperanno 25 detenuti di Sollicciano e alcune guardie penitenziarie. "Per una volta - ha concluso Don Vincenzo - saranno in prima fila. Speriamo che Papa Francesco rivolga loro qualche parola, un abbraccio. Per loro sarebbe davvero un grande conforto". Cinema: caso Mastrogiovanni, la sua morte diventa un film L’Espresso, 5 novembre 2015 "87 ore" di Costanza Quatriglio racconta il calvario in ospedale del maestro elementare ricoverato dopo un TSO, legato mani e piedi e lasciato senza acqua né cure. Per quattro giorni. Fino al decesso. Le immagini delle telecamere a circuito chiuso dell’ospedale, che l’Espresso mostrò in esclusiva, faranno parte del documentario. Si intitola "87 ore" il film documentario di Costanza Quatriglio che racconta gli ultimi giorni di vita di Francesco Mastrogiovanni, morto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale "San Luca" di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Mastrogiovanni era un maestro elementare di 58 anni originario di Castelnuovo Cilento, in provincia di Salerno, che nella mattina del 31 luglio 2009 venne sottoposto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso). Le immagini del sistema di videosorveglianza del reparto psichiatrico, che documentarono l’intero ricovero del maestro fino al tragico epilogo, furono mostrate al pubblico per la prima volta in un video esclusivo dell’Espresso, pubblicato con il consenso attivo dei familiari di Mastrogiovanni e su iniziativa dell’associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi. Il video mostrò come Francesco Mastrogiovanni fosse stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale due ore dopo il suo ingresso nel reparto per il ricovero; lasciato senza acqua, né cure; e slegato e liberato dalle fasce di contenzione solo dopo il decesso. Questa storia sarebbe forse rimasta sconosciuta se l’ospedale di Vallo della Lucania non fosse stato dotato di un sistema di videosorveglianza interno. Le telecamere ripresero l’agonia dell’uomo e i fermi applicati ai polsi e alle caviglie, mai slegati durante la "contenzione sanitaria". Una prassi, in quel reparto di psichiatria (poi chiuso): l’accusa ha prodotto in aula le cartelle di altri 22 pazienti sottoposti alla contenzione. Il pm Rotondo sequestrò il sistema di registrazione poche ore dopo la morte del maestro. I tecnici masterizzarono i 65 file video della sua degenza in un dvd che ha rappresentato la prova regina di un processo conclusosi dopo 23 udienze con la condanna dei medici responsabili. "87 ore" verrà presentato a Roma in occasione della prima proiezione pubblica venerdì 6 novembre al Teatro Palladium, in piazza Bartolomeo Romano 8, nell’ambito di Arcipelago - Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti. Il film è una produzione Doclab, in collaborazione con Rai Tre e con il sostegno del Mibact. Le musiche sono di Marco Messina e Sacha Rizzi (99 Posse). L’America vende all’Italia il sistema per armare i droni, costo 28 milioni di euro di Paolo Valentino Corriere della Sera, 5 novembre 2015 Il via libero notificato al Congresso. Ma per rendere operativi i Reaper servono altri dodici mesi. Il governo degli Stati Uniti ha approvato la richiesta dell’Italia di ottenere la tecnologia necessaria ad armare due droni del modello Reaper con missili Hellfire, bombe a guida laser e altre munizioni. Il via libera del Dipartimento di Stato è stato notificato ieri al Congresso americano, che ha ora 15 giorni di tempo per pronunciarsi sulla vendita, anche se un parere negativo è molto raro. È la prima volta da quando, in febbraio, Washington ha stabilito i nuovi criteri per l’esportazione del più avanzato sistema d’arma dell’arsenale americano. Presentata nel 2011 dal governo Berlusconi, rinnovata nel 2013 sotto Mario Monti e ancora quest’anno dall’esecutivo Renzi, la richiesta di poter rendere letali i due droni già in nostro possesso, punta a dotare le nostre forze armate di maggiore flessibilità operativa, consentendo di proteggere meglio le missioni. Nella scorsa primavera si era valutata anche l’ipotesi di poter usare i Reaper per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani, prima che partano dalle coste nordafricane. L’Italia possiede 12 droni, sei Predator di prima generazione e altrettanti "mietitori", tutti fin qui usati per sorveglianza e ricognizione Il sì di Washington non avrà tuttavia conseguenze immediate sul piano operativo. Si tratta infatti di una disponibilità, che spetta ora al governo italiano decidere se attivare o meno. In primo luogo stanziando i 28 milioni di dollari necessari all’acquisto del sistema. E poi avviando la riconversione necessaria. Come spiegano al Corriere fonti militari, "armare i "mietitori" e renderli operativi è un lavoro lungo e complesso, tra addestramento tecnico e prove sperimentali, non potremmo impiegarli efficacemente prima di un anno". Resta l’importante valenza politica della decisione americana. "Non l’abbiamo presa a cuore leggero - hanno commentato fonti dell’Amministrazione - è simbolica della nostra fiducia nell’Italia come partner. Roma è membro responsabile della comunità internazionale ed è stata con noi in ogni operazione significativa guidata dalla Nato o dagli Stati Uniti". L’Italia è solo il secondo Paese dopo la Gran Bretagna a vedersi approvata una richiesta di armare i due Reaper MQ-9, acquistati nel 2009. Londra li ha in uso sin dal 2007. Anche la Turchia ha fatto analoga richiesta, ma non c’è stato ancora il via libera. La decisione ha comunque anche un significativo risvolto di politica industriale per General Atomics, l’azienda prime contractor dei Reaper. La cessione della tecnologia necessaria ad armarli è infatti anche un implicito disincentivo a proseguire nei programmi europei per realizzare dei droni armati. L’Arabia Saudita bombarda lo Yemen, le armi gliele fornisce l’Italia unimondo.org, 5 novembre 2015 "È inaccettabile che nel giorno in cui l’Unione Europea ha assegnato il Premio Sakharov al blogger saudita incarcerato Raif Badawi, dall’Italia siano partite nuove bombe destinate all’Arabia Saudita, il paese che guida la coalizione la quale - senza alcun mandato internazionale - da sette mesi sta bombardando lo Yemen causando migliaia di morti tra i civili. Ribadiamo la nostra richiesta al Governo italiano di sospendere l’invio di bombe e armamenti a tutti i paesi militarmente impegnati nel conflitto in Yemen". Lo chiedono con un comunicato congiunto la Rete Italiana per il Disarmo, Amnesty International Italia e l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza (Opal) di Brescia. Secondo quando diffuso da fonti di stampa locale, tra ieri mattina diverse tonnellate di bombe e munizionamento sono state imbarcate all’aeroporto di Cagliari Elmas su un cargo Boeing 747 della compagnia azera Silk Way con destinazione Arabia Saudita: il cargo, rintracciato dai sistemi di rilevamento, è giunto a Taif, città saudita dove c’è un base militare della Royal Saudi Armed Forces. "Si tratta - commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal di Brescia - con ogni probabilità di una nuova fornitura di bombe fabbricate nell’azienda tedesca RWM Italia di Domusnovas che prosegue le spedizioni degli ultimi anni (si veda l’allegato in pdf). Sappiamo che ordigni inesplosi del tipo di quelli inviati dall’Italia, come le bombe MK84 e Blu109, sono stati ritrovati in diverse città dello Yemen bombardate dalla coalizione saudita e il nostro Ministero degli Esteri non ha mai smentito che le forze militari saudite stiano impiegando anche ordigni prodotti in Italia in questo conflitto" - conclude Beretta. Ieri il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki moon, ha condannato i bombardamenti aerei della coalizione a guida sauditache nei giorni scorsi hanno colpito un ospedale di Medici senza Frontiere nella provincia di Sàdah e ha richiamato tutte le parti attive nel conflitto a "rispettare gli obblighi stabiliti dalle convenzioni per i diritti umani e del diritto umanitario internazionale per prevenire attacchi contro i civili". Il conflitto in Yemen ha finora causato più di 4mila morti (di cui almeno 400 bambini) e 20mila feriti - di cui circa la metà tra la popolazione civile - provocando una "catastrofe umanitaria" con oltre un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di urgenti aiuti. In tutto il Paese la popolazione sta subendo una grave scarsità di cibo, che sta diventando sempre più raro, e questo minaccia la sopravvivenza dei più vulnerabili. "La comunità internazionale - dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - si muove in maniera incoerente rispetto al tema delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Da un lato si mobilita contro il rischio che venga messo a morte un attivista minorenne e premia un blogger dissidente. Dall’altro, tace sui crimini di guerra commessi in Yemen e, anzi, lo alimenta con trasferimenti irresponsabili di armi. Evidentemente il nostro precedente appello al governo italiano affinché sospendesse immediatamente l’invio di armi all’Arabia Saudita, non ha sortito effetto. Per questo rinnoviamo a tutti l’invito a sottoscrivere la nostra petizioneche chiede di sospendere tutti i trasferimenti di armi ai membri della coalizione a guida saudita". A seguito del comunicato diffuso lo scorso settembre da Rete Italiana per il Disarmo, Amnesty International Italia e l’Osservatorio Opal di Brescia ci sono state diverse interrogazioni parlamentari alle quali però, finora, il Ministero degli Esteri non ha dato alcuna risposta. "Siamo indignati dalle notizie di queste ore - dichiara Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo - perché è evidente come anche dall’Italia stiano partendo bombe e munizionamenti che vengono impiegati per alimentare un conflitto promosso da un paese come l’Arabia Saudita che palesemente viola i diritti umani. Come è possibile tutto questo quanto i principi alla base della legge n. 185/90 che regolamenta l’esportazione italiana di armamenti vanno in tutt’altra direzione? Chiediamo dunque che il Ministro Gentiloni chiarisca con urgenza nelle sedi opportune la situazione e che promuova un’azione a livello comunitario affinché tutti i paesi membri sospendano l’invio di armamenti alla coalizione a guida saudita militarmente attiva nel conflitto in Yemen. Terre incolte ai rifugiati? Dagli Usa arrivano complimenti, dall’Italia derisione e insulti di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 5 novembre 2015 Premessa inevitabile: scrivo, una volta al mese, un commento sul New York Times, dove mi presentano come columnist del Corriere della Sera. Stavolta, sul Corriere, vorrei raccontare cos’è successo dopo un pezzo uscito ieri sul New York Times. Il titolo è questo: "Let Refugees Settle Italy’s Empty Spaces", lasciate che i migranti s’insedino negli spazi vuoti dell’Italia. L’idea è semplice, e viene da lontano. Nell’impero romano si chiamava "centuriazione": la pratica prevedeva l’assegnazione di terre incolte ai veterani dell’esercito, che si tenevano occupati e si rendevano utili. In Italia potremmo fare qualcosa di simile coi rifugiati, proponevo. Se lavorassero, e aiutassero a recuperare il territorio del Paese che li accoglie, verrebbero visti in una luce diversa. È vero: gli uomini e le donne che oggi arrivano sulle nostre coste non hanno combattuto alcuna guerra per l’Italia, ma stanno fuggendo da conflitti, povertà e regimi autoritari. E hanno le giuste competenze: i migranti più istruiti si recano in Germania e nel Nord Europa; chi resta in Italia è spesso agricoltore, costruttore, artigiano. E ci sono zone d’Italia dove queste competenze servirebbero. Aree che si stanno spopolando: in Abruzzo, in Molise, in Sardegna. La reazione? Interessante. Dall’estero, complimenti: "Almeno ha avuto un’idea!", mi hanno scritto. In particolare dagli Usa, dove chiunque, davanti a un problema, offra una soluzione, viene apprezzato. "La Gran Bretagna utilizzò il sistema nel XVII secolo: affrontò i ribelli americani con soldati reclutati nell’Europa di lingua tedesca, offrendo loro terre. Sembra che le buone idee non muoiano mai", scrive Robert Wuetherick (rwuetherick@ hotmail.com). Dall’Italia, derisione e insulti. C’è chi boccia la mia idea come neocolonialismo (@Pablo4moors), chi mi consiglia di colonizzare l’Antartide (@claudiozisa), chi di rivolgermi a un ospedale psichiatrico (@The_James_Cook). Qualcuno suggerisce di occupare le stanze di casa mia, se proprio ci tengo (@ManuelCasu). Molti mi accusano di voler colonizzare la Sardegna, che amo moltissimo, e di cui conosco le difficoltà. Che dire? La prossima volta mi lamenterò e protesterò. Chissà quanti applausi. Caso Marò: tra Italia e India "guerra diplomatica" e affari per armi vere di Gianluca Di Feo L’Espresso, 5 novembre 2015 L’Italia ferma l’ingresso dell’India nel club dei missili. Loro rispondono bloccando il contratto per i cannoni Oto Melara. Una sfida internazionale con ogni tipo di ordigno. Noi blocchiamo i loro missili, loro fanno fuoco contro i cannoni. I siluri però restano ancora carichi. Cronache di guerra tra Italia e India, una battaglia combattuta con armamenti veri, ma sul fronte diplomatico e commerciale. Con un unico punto certo: i due marò restano prigionieri della giustizia di New Delhi da tre anni e mezzo. Mentre l’arbitrato internazionale che deciderà la sorte di Massimiliano Girone e Salvatore Latorre è in corso, i due paesi si sfidano in diverse partite. Tutte a sfondo bellico, con ricadute multimilionarie. Il primo attacco è stato lanciato da Roma, che ha bloccato l’ingresso dei rivali nel Mtcr, il Missile Technology Control Regime, ossia il club delle nazioni che dispongono di tecnologia missilistica d’alto livello. Non è un circolo molto esclusivo, visto che i soci sono ben 34. Ma americani, tedeschi, francesi e britannici ci tenevano molto all’ammissione dell’India, che avrebbe forse semplificato le esportazioni di componenti hi-tech verso quel paese. I nostri invece hanno posto il veto. In realtà, se guardiamo alla natura del gruppo, tenere fuori New Delhi non contribuisce certo alla pace mondiale. Infatti Mtcr è un comitato che ha l’obiettivo di contrastare la proliferazioni di armi di distruzione di massa, nato per vigilare sulle testate nucleare e poi allargato ai vettori che possono lanciare ogive chimiche o batteriologiche, tornate a essere lo spettro dell’apocalisse in tempi di terrorismo globale. Ma il governo Renzi sembra essere deciso a giocare tutte le carte disponibili per risolvere la questione dei due marò. E fare capire pure ai nostri partner atlantici che la pazienza è finita. Il premier Narendra Modi quanto a nazionalismo però non teme rivali. E la prima replica è arrivata due giorni fa sospendendo Finmeccanica dalla gara per i nuovi cannoncini della flotta indiana: la fornitura di 110 pezzi da 30 millimetri poteva fruttare alla Oto Melara circa 400 milioni di euro. Lo stop è venuto dal governo che ha bandito il gruppo tricolore da ogni appalto finché non sarà chiusa l’indagine sulle tangenti di Agusta per vendere elicotteri all’aviazione indiana. Il procedimento è stato aperto nel 2010 dopo le rivelazioni della nostra magistratura. Ma mentre a Busto Arsizio il dibattimento in primo grado si è chiuso solo con una condanna per illeciti fiscali, escludendo il pagamento di mazzette, l’istruttoria locale procede con lentezza. La bordata ha colto Finmeccanica di sorpresa. Pochi mesi fa la marina indiana aveva approvato un altro contrattone da circa 230 milioni di euro, dando via libera all’acquisto di 13 cannoni pesanti da 127 millimetri, sempre della Oto Melara. Si tratta del modello "Vulcano", in grado di sparare proiettili razzo: il più avanzato esistente al mondo. All’epoca il ministro della Difesa Parrikar aveva dichiarato in televisione: "Finmeccanica non controlla solo Agusta ma 39 aziende. Dobbiamo fermare i rapporti con tutte le 39? Non sono d’accordo, i militari hanno bisogno di equipaggiamenti". Adesso dopo l’intervento italiano sul club missilistico, il governo di New Delhi sembra averci ripensato. Anche se circola un’altra interpretazione, un po’ bizantina. Finmeccanica verrà tenuta fuori solo dalle gare in cui si sono altri concorrenti, mentre potrà ottenere i contratti in cui non ha rivali. Una premessa che dovrebbe lasciare aperta la porta alla fornitura di siluri d’ultima generazione Black Shark, prodotti dalla Wass di Livorno, un’altra delle controllate. L’accordo per 98 ordigni vale 300 milioni di dollari ed è fortissimamente spinto dalla flotta locale, che tra poco riceverà nuovi costosissimi sottomarini ma non ha di che armarli. Anche questo affare sfumerà per la controversia sui due fanti di marina, accusati di avere ucciso due pescatori nel 2012 mentre scortavano un mercantile e che si sono sempre professati innocenti? Tra i contrasti internazionali e i sospetti di corruzione, a Finmeccanica la disfatta indiana rischia di costare complessivamente più di due miliardi. Una brutta botta per i bilanci, molte armi in meno in giro per l’Asia. "Riciclaggio in Vaticano": banchiere sotto accusa di Marco Ansaldo La Repubblica, 5 novembre 2015 Per Vatileaks 2 non ci sono al momento altri indagati, dice il portavoce papale, padre Federico Lombardi. Ma sulla trasparenza finanziaria un nuovo fronte si apre in Vaticano per sospetto riciclaggio di denaro, insider trading e manipolazione del mercato. Il promotore di giustizia pontificio ha avviato le indagini su operazioni di compravendita di titoli e transazioni riconducibili a Giampietro Nattino, presidente di Banca Finnat Euramerica. Un provvedimento scattato dopo un rapporto dell’Autorità di informazione finanziaria. "Il medesimo ufficio - ha detto Lombardi - ha richiesto la collaborazione dell’autorità giudiziaria italiana e svizzera mediante lettere rogatorie". Il nome di Nattino era emerso martedì in un rapporto pubblicato dall’agenzia Reuters, su possibili reati che avrebbero coinvolto l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica che gestisce finanze e immobili. Secondo il dossier di 33 pagine gli inquirenti vaticani sospettano che Nattino abbia utilizzato conti Apsa con un saldo di oltre 2 milioni di euro, poi spostati in Svizzera alcuni giorni prima che il Vaticano introducesse regole più severe contro il riciclaggio. Il presidente di Finnat ha replicato: "Ribadisco di avere sempre operato nel pieno rispetto delle normative in vigore con la massima trasparenza e correttezza. Sono ovviamente a disposizione delle autorità competenti per ogni chiarimento". Una nuova indagine è anche quella della procura di Roma sugli ex dirigenti dello Ior, Paolo Cipriani e Massimo Tulli. Sono accusati di abusiva attività bancaria e finanziaria per fatti avvenuti prima del 2011. Fino a quella data, infatti, lo Ior avrebbe gestito fondi e finanziamenti senza esserne autorizzato. Prosegue intanto a fasi serrate l’inchiesta su Vatileaks 2, alla ricerca di altri corvi oltre a quelli già individuati. Il sito cattolico spagnolo " Religion digital" sostiene che la Gendarmeria vaticana starebbe indagando sul marito di Francesca Chaouqui, la pierre arrestata assieme a monsignor Lucio Vallejo Balda. La ex esponente della Commissione referente per l’Economia, che sta collaborando con gli inquirenti, era stata subito rilasciata. Il marito, Corrado Lanino, è un informatico che ha contribuito alla realizzazione della rete intranet del Vaticano. A questo proposito padre Lombardi ha detto che "una cosa è che alla luce delle risultanze degli interrogatori si facciano altre verifiche, altro è che vengano interrogate delle persone come indagate". Sui due libri in uscita che pubblicano diversi documenti segreti il portavoce ha detto che le rivelazioni di entrambi sono già superate dalle riforme del Papa: "La riorganizzazione dei dicasteri economici, la nomina del revisore generale, il funzionamento delle istituzioni di controllo delle attività economiche e finanziarie". Il Pontefice "va avanti molto sereno". Ma è "assolutamente surreale" pensare che il Vaticano decida cosa fare, sulla riforma economica e amministrativa, in base "ai libri di Nuzzi o Fittipaldi". Ieri il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha anche rinnovato il consiglio direttivo della Fondazione Bambin Gesù, al centro delle polemiche per i soldi destinati ai lavori nell’attico del cardinal Bertone. Per garantire "trasparenza, solidarietà e innovazione" sono stati nominati sei consiglieri i cui nomi più noti sono quelli di Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, Anna Maria Tarantola, ex presidente Rai, e il diplomatico Antonio Zanardi Landi, già ambasciatore italiano presso la Santa Sede. Medio Oriente: Israele scarcera avvocato palestinese il sciopero della fame da 2 mesi Agi, 5 novembre 2015 Le autorità israeliane hanno rilasciato un detenuto palestinese che era sopravvissuto a uno sciopero della fame di due mesi, dopo averlo tenuto agli arresti per un anno senza processo in un caso che aveva scatenato rabbia e proteste in Cisgiordania. Il 31enne avvocato Mohammed Allan, diventato un’icona della lotta contro l’occupazione israeliana, ha trovato ad attenderlo il padre che lo ha portato in ospedale per un check-up. Attivista della Jihad islamica, Allan era stato arrestato nel novembre 2014 perché sospettato di pianificare attacchi su larga scala e mantenuto in stato di detenzione amministrativa che consente di incarcerare un sospetto senza incriminarlo per un periodo di sei mesi rinnovabile all’infinito. A giugno aveva avviato uno sciopero della fame protrattosi per due mesi che lo aveva ridotto in fin di vita, facendolo finire per due volte in coma. Il 19 agosto L’Alta Corte israeliana aveva disposto una sospensione della detenzione per permettergli di ricevere cure mediche. A settembre era finito nuovamente in carcere dopo essere stato dimesso dall’ospedale ma poi aveva ripreso un nuovo sciopero della fame, interrotto dopo due giorni. Allan era già stato incarcerato tra il 2006 e il 2009. Svezia: manca il cortile, detenuti trasportati per 300 km per garantirgli "l’ora d’aria" Askanews, 5 novembre 2015 I detenuti in attesa di giudizio nelle celle del commissariato di polizia di Umea, nel nord-est della Svezia, vengono ogni giorno scortati per 150 chilometri più a nord per una ora di passeggiata. È quanto si è appreso da un quotidiano locale. In assenza di uno spazio adeguato devono percorrere circa 300 chilometri fra andata e ritorno fra Umea e il penitenziario di Skellefetea, per prendere aria e sgranchirsi le gambe. Si tratta della prigione più vicina che consente ai detenuti di poter godere del loro diritto alla passeggiata. "Stiamo organizzando. Una soluzione è stata trovata per evitare queste trasferte", ha tuttavia detto all’Afp un portavoce della polizia, confermando la notizia apparsa sul quotidiano locale Folkbladet. Fino a molto recentemente, i detenuti delle celle del commissariato di Umea, in attesa di una decisione sulla loro sorte, venivano semplicemente privati della passeggiata. Ma l’ombudsman alla giustizia, un mediatore incaricato di vegliare sull’osservanza della legge da parte delle amministrazioni pubbliche, ha giudicato questa privazione contraria ai loro diritti.