Per la prima volta il Parlamento "è entrato" in carcere di Alessandro Zan (deputato del Pd, membro della Commissione Giustizia della Camera) Ristretti Orizzonti, 4 novembre 2015 Una "storica" audizione di detenuti e loro famigliari dalla Casa di Reclusione di Padova. Desidero esprimere grande soddisfazione per l’audizione svoltasi ieri in Commissione giustizia in collegamento via skype con la Casa di reclusione di Padova sul tema degli affetti delle persone private della libertà personale. Le testimonianze dei detenuti e dei loro familiari, del direttore Casarano, degli operatori del carcere, del cappellano don Marco Pozza, tutti coordinati dall’instancabile Ornella Favero nella redazione di Ristretti Orizzonti, hanno contribuito a rompere un muro di ipocrisia e di sospetto verso tutto ciò che riguarda la vita dentro e fuori dal carcere. Sì, perché ieri è stata una giornata storica per le nostre istituzioni, perché per la prima volta il parlamento entrava dentro il carcere e dentro le storie che lo attraversano. Storie pulite, quotidiane, piene di ostacoli dovuti alle istituzioni ancora troppo sorde, che per paura delle reazioni dell’opinione pubblica non intervengono per il pieno rispetto dei diritti umani dei detenuti e dei loro cari. Le testimonianze che abbiamo ascoltato sono state molto sincere, molto dirette, senza filtri, né troppe prudenze. Storie commosse di un legame affettivo familiare troppe volte spezzato da regole rigide e ormai anacronistiche; ogni tanto mentre qualcuno oltre il video parlava dal carcere mi soffermavo a guardare i colleghi deputati commissari ma anche i dipendenti della commissione Giustizia ed erano tutti incantati nell’ascoltare quelle storie così autentiche, così incredibilmente consapevoli. Erano davvero contenti di aver avuto questa grande opportunità e alla fine del collegamento hanno tutti ammesso: questa è stata davvero una giornata storica per il paese ma anche per noi. Ora dobbiamo continuare questa battaglia di civiltà e non fermarci. Il percorso forse non sarà facile, ma questa volta ce la possiamo fare. Amore e affetto in carcere: arriva la legge di Selene Cilluffo milanotoday.it, 4 novembre 2015 Una proposta di legge per cercare di mantenere le proprie relazioni affettive, anche "dietro le sbarre": più visite e maggiore intimità con i propri cari, per favorire il percorso di riabilitazione. Ne parliamo con Alessandro Zan, deputato del Pd e primo firmatario del provvedimento. Una visita al mese, fino a un massimo di 24 ore, in locali in cui venga garantita l’intimità. Poi telefonate e colloqui più frequenti dei propri cari, per poter mantenere il legame affettivo. Sono questi alcuni dei cambiamenti che prevede la proposta di legge sulle relazioni affettive in carcere. Per far comprendere di che tratta in commissione Giustizia hanno parlato proprio la figlia di un ergastolano e la sorella di un detenuto. "Attraverso le storie delle persone abbiamo così smontato quei pregiudizi e strumentalizzazioni che si fanno sul mondo delle carceri e che sono state fatte anche sulla nostra proposta di legge" ci spiega al telefono il primo firmatario, l’onorevole democratico Alessandro Zan. Perché il tema delle relazioni affettive è delicato, proprio come quello della vita in carcere: "Il provvedimento vuole consentire ai cari di continuare il rapporto affettivo. Questo porta a facilitare la riabilitazione, al recupero dopo aver scontato la pena. In più i familiari non hanno colpe e non posso essere "imprigionati" anche loro. Oggi i colloqui con i carcerati avvengono in stanzoni, in situazioni di promiscuità dove vivere una situazione di normalità affettiva è impossibile, figuriamoci di intimità (anche solo sentimentale)". Abbiamo visto qualche tempo fa l’appello di un ergastolano che chiedeva di poter far l’amore con la propria compagna. Perché attualmente il "diritto all’affettività" nelle nostre carceri è negato? "Perché da questo punto di vista non siamo ancora un paese civile. Solo in uno stato totalitario quando qualcuno finisce in carcere si butta via la chiave. Uno stato di diritto, invece, ha il dovere, come principio morale e costituzionale, di rieducare e recuperare chi commettere reati, per poter poi procedere al reintegro nella società civile. Per fare questo bisogna dare ai detenuti la possibilità di riabilitarsi con una professione e senza rompere i legami affettivi familiari. Sappiamo tutti che nei momenti di difficoltà i nostri cari sono un’àncora di salvezza e speranza. Anche i detenuti devono potersi ancorare a quella parte buona della società e della loro vita" Dalla Lega Nord e non solo, sono arrivate delle aspre critiche: "I nostri penitenziari non devono diventare postriboli ed i nostri agenti di polizia penitenziaria non devono diventare guardoni di Stato" ha detto il segretario del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). "Così si fa leva sulla paura delle persone, spaventate dalla criminalità e dai fatti di cronaca. Quindi si pensa che per sconfiggere l’insicurezza bisogna "rinchiudere i criminali in gabbia". Bene, i dati mostrano che così aumenta il rischio di recidiva e quindi la vera insicurezza sociale. Per questo quando abbiamo un detenuto è dovere dello Stato reinserirlo, altrimenti tornerà a compiere gli stessi reati. Il percorso di recupero rende la società più sicura, non l’isolamento" Se abbiamo dei tassi di recidiva superiori al 50% possiamo dire allora di essere davvero in uno "Stato di diritto"? "Siamo in una fase di completamento: se pensiamo che anche i figli di detenuti hanno in percentuale maggiori rischi di finire in carcere possiamo comprendere a fondo l’importanza della mia proposta di legge. Il rapporto tra figli e genitori è importante e umiliare i figli dei detenuti, tenendoli lontani dai propri affetti, porta a quella condizione di isolamento ed esclusione che è controproducente, per loro e per tutta la società civile" L’Italia su questo tema come è rispetto agli altri paesi europei? "Siamo indietro. Una legge sull’affettività la troviamo in tutti i paesi dell’Unione e il contenuto è semplice: favorire e consentire la continuità affettiva" Che tipo di impatto potrebbe avere un provvedimento come questo rispetto all’attuale situazione degli istituti di pena nel nostro Paese? "Si inserisce nel disegno del governo che è stato approvato alla Camera riguardo l’ordinamento penitenziario e il codice penale. Insomma interviene sul sistema carcere nel suo complesso. L’importante è arrivare a un risultato e la commissione Giustizia ci è stata di grande aiuto. Le testimonianze delle persone spostano tutto su un piano reale a umano, non astratto. Solo parlando con loro si comprende davvero l’importanza di questo provvedimento". Affettività in carcere, in cantiere una legge di Luca Sappino L’Espresso, 4 novembre 2015 Luoghi appartati all’interno delle prigioni, per favorire un rapporto più intimo e non solo perché sessuale. È il cuore del testo arrivato in commissione Giustizia, primo firmatario il deputato Pd Alessandro Zan. Stanzoni enormi, dieci detenuti per volta, ognuno con i propri familiari, sotto l’occhio vigile di una guardia carceraria. Ma luoghi appartati, per favorire un rapporto più intimo e non solo perché sessuale. Il primo firmatario della legge è il deputato Alessandro Zan, ex Sel da qualche mese nel Pd di Matteo Renzi. Ed è moderatamente ottimista: "Non posso dire che la legge procederà velocemente", dice all’Espresso, "perché la commissione Giustizia ha molti provvedimenti in esame, ma il fatto che sia incardinata e che si stia procedendo con le audizioni, vuol dire che c’è la volontà di affrontare il tema". Che poi sarebbe il diritto all’affettività in carcere per i detenuti e le loro famiglie, già citato genericamente dalla delega sulla riforma penale nelle mani del governo. Il testo, arrivato in commissione Giustizia, modifica la legge 365 del 26 luglio 1975, prescrivendo che "i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui". E che "le visite si svolgono in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi". Molti parlamentari hanno già provato a portare il parlamento a introdurre questa norma di civiltà: "Questa legislatura la legge porta la mia firma e quella di altri colleghi", riconosce Zan, "ma è una versione aggiornata di proposte presentate più volte, anche nelle legislature precedenti. L’ultima dai Radicali, ad esempio". Come Zan (che ha firmato la proposta con molti ex compagni di Sel), testi simili sono stati presentati da altri deputati dem, come Gozi, Giachetti, Rostellato e Iori. Per meglio spiegare il tema ai colleghi che non conoscono la materia, invece, la commissione ha organizzato un’audizione inedita per la Camera dei deputati, con alcuni detenuti del "Due Palazzi" di Padova, in collegamento via Skype. Poi i loro familiari, e chi svolge attività di volontariato in carcere, nonché di rappresentanti della redazione della rivista "Ristretti orizzonti", notiziario interno del carcere. Se sui tempi non c’è dunque certezza (né c’è una formale spinta del governo o del ministro Orlando, per ora), il consenso sulla legge potrebbe esser largo. Pezzi liberali di Forza Italia, la sinistra, il Pd: "Ho visto interessarsi anche alcuni colleghi dei 5 stelle", conta Zan, "d’altronde è una legge che c’è in tutta Europa, e persino in Russia". Utile potrebbe poi esser far vedere ai deputati un episodio dell’ultimo documentario curato da Wim Wenders, le Cattedrali della cultura, proiettato nei cinema ad aprile 2015. Tra l’opera di Oslo, la filarmonica di Berlino e il Centre Pompidou, c’è anche uno struggente racconto del carcere norvegese di Halden. Qui - e sarebbe bene tenerlo come orizzonte - nel "carcere più umano del mondo" (la definizione è del Time) senza alti muri, immerso in un bosco e con una serie di attività tra cui uno studio di registrazione, c’è - isolata e con un giardino di pertinenza - una foresteria dedicata agli incontri con i familiari, che durano più giorni, e si svolgono in un ambiente perfettamente domestico, con i giochi per i bambini, la cucina attrezzata, con tanto di coltelli, camere da letto e soggiorno. Prevedibile è invece la forte opposizione della Lega Nord: "Vogliono la barbarie", li liquida però il deputato Pd, "e parlano a sproposito di "bordelli" in carcere". "Non è ovviamente quello l’obiettivo, né è il solo sesso il tema che ci interessa risolvere", spiega, "i detenuti, anzi, quando pensano all’affettività, e quando immaginano un luogo di privacy dentro le mura del carcere, pensano più spesso ai figli, alla possibilità di avere un momento più normale e profondo di vita familiare". "È incredibile come si possa non capire che il carcere è lì per punire, sì, per la certezza della pena, ma anche per recuperare il detenuto, e il recupero", continua Zan, "diventa più difficile se si recidono le relazioni più importanti che hanno queste persone. Senza contare poi che la pena deve valere per chi ha commesso il reato, e né la moglie o il marito del detenuto, né tanto meno i figli, sono colpevoli e meritano una pena, una seconda prigione". Carceri: riprende confronto alla Camera sul diritto all’affettività per i detenuti Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 Garantire il "diritto all’affettività" dei detenuti, consentendo alle persone che già accedono ai colloqui una visita mensile che può durare da 6 a 24 ore in "locali adibiti e realizzati a tale scopo senza controlli visivi e auditivi". Le "stanze dell’amore", come sono state ribattezzate, saranno di nuovo oggetto di confronto da domani in commissione Giustizia alla Camera, dove riprenderà l’iter della proposta di legge del deputato Pd Alessandro Zan che vuole modificare la legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Qualsiasi persona che già accede ai colloqui potrà far visita al detenuto. Ma spetterà al magistrato concedere i permessi ai "condannati che hanno tenuto una regolare condotta" ed estenderli come premio fino a un massimo di 45 giorni. L’affettività deve essere intesa in senso ampio: dalla sessualità, all’amicizia e al rapporto familiare. Un diritto all’affettività che sia, in primo luogo, diritto ad avere incontri, in condizioni di intimità, con le persone con le quali si intrattiene un rapporto di affetto. Il diritto all’affettività da anni è diventato un tema effettivo in altri Paesi europei, in primo luogo in Olanda, e un patrimonio europeo con la risoluzione sulle condizioni carcerarie approvata da Strasburgo nel dicembre 1998. Una risoluzione in cui si affermava esplicitamente, in primo luogo nel caso di coniugi entrambi detenuti, con la previsione di sezioni miste, ma in generale per tutti i detenuti, ritenendo essenziali i rapporti affettivi, che "venga preso in considerazione l’ambiente familiare dei condannati, favorendo soprattutto la detenzione in un luogo vicino al domicilio della famiglia e promuovendo l’organizzazione di visite familiari e intime in appositi locali". Il Sottosegretario Ferri: "il governo seguirà con attenzione il ddl sul tema dell’affettività" Dire, 4 novembre 2015 "Il governo seguirà con la massima attenzione" la proposta di legge sulle relazioni affettive e familiari dei detenuti all’esame della commissione Giustizia della Camera. Lo dice il sottosegretario, Cosimo Ferri, al termine delle inedite audizioni via skype, sul testo a prima firma del deputato Pd Alessandro Zan, che hanno permesso alla commissione guidata da Donatella Ferranti, di ascoltare alcuni dei carcerati presso l’Istituto penitenziario "Due Palazzi" di Padova, oltre che alle testimonianze di loro familiari, di persone che svolgono attività di volontariato nel carcere e di rappresentanti della redazione della rivista "Ristretti Orizzonti". Sottolineando che le audizioni "confermano l’importanza del tema", Ferri ricorda che nel ddl del governo sulle modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale "c’è anche una parte dedicata all’ordinamento penitenziario sulla finalità rieducativa della pena". La legge delega "già approvata dalla Camera e ora al Senato - continua l’esponente del governo - contiene, tra i principi e i criteri di delega, il riconoscimento del diritto all’affettività per le persone detenute. Il tema è quindi già parte di un disegno di legge governativo e ben venga l’incardinamento in commissione di questa proposta di legge". Ferri, al termine delle audizioni via Skype in commissione Giustizia alla Camera sulla proposta di legge Zan aggiunge: "Noi stiamo lavorando a un modello di carcere diverso, garantire sì la certezza della pena ma anche lavorare sulla rieducazione. I due cardini sono il lavoro penitenziario e le modalità attuative del tema dell’affettività, che è questione più delicata". Secondo il sottosegretario, "occorre trovare un punto di equilibrio tra le ragioni di sicurezza e il diritto alla affettività che non riguarda solo chi è internato ma anche chi non c’entra niente con la sua storia processuale, ossia il coniuge, il compagno, il figlio, tutti coloro che con il detenuto hanno un legame affettivo". Zan: bene Ferri, in altri penitenziari già si pratica "Il commento del sottosegretario Ferri è soddisfacente". Lo ha detto all’agenzia Dire il parlamentare padovano del Pd Alessandro Zan, primo firmatario della proposta di legge che tanto sta facendo discutere sulle "stanze dell’affettività", ovvero locali nei penitenziari da realizzare appositamente dove i detenuti possano avere garantito il diritto all’affettività con parenti, amici, figli, amanti. "Il Governo seguirà con la massima attenzione" la proposta di legge, ha detto oggi il sottosegretario, Cosimo Ferri, al termine delle inedite audizioni via Skype, sul testo a prima firma di Zan, che hanno permesso alla commissione guidata da Donatella Ferranti, di ascoltare alcuni dei detenuti presso l’Istituto penitenziario "Due Palazzi" di Padova. Coinvolti anche i loro familiari, persone che svolgono attività di volontariato nel carcere e rappresentanti della redazione della rivista "Ristretti Orizzonti". "C’è una legge delega del Governo approvata dalla Camera che parla di affettività in carcere- ha detto Zan- Il Dap ha condotto uno studio interno con una pubblicazione su questo, che mostra gli effetti positivi sul carcere, sul detenuto, con il riconoscimento dell’affettività. Dove si valorizza l’amore, l’affetto, in questi campi si hanno sempre benefici. L’uomo assume atteggiamenti positivi quando vive bene le relazioni sociali". La certezza della pena "è garantita dall’obiettivo dell’inserimento sociale. Sono cose che devono andare di pari passo, devono andare insieme". Ora la legge "è incardinata in commissione giustizia. Troveremo il modo con la relatrice Michela Marzano, di presentare emendamenti e di continuare una strada d’intesa con il Governo per arrivare alla soluzione migliore". Precedenti già ci sono: "Il penitenziario di Bollate già pratica questa cosa, quindi ci sono già sperimentazioni avanzate". Stanze dell’affettività in carcere, i cari del detenuto "non scontino anche loro la pena" di Adriano Gasperetti Dire, 4 novembre 2015 I famigliari dei detenuti "non scontino anche loro la pena". Il testo sul diritto dell’affettività in carcere "è una proposta di legge che ha attraversato più di una legislatura, è stata presentata dai radicali e da altri detenuti". A raccontarlo all’agenzia Dire il parlamentare padovano del Pd Alessandro Zan, primo firmatario della norma che tanto sta facendo discutere. La proposta "è tesa a garantire il diritto all’affettività in carcere - si legge - intesa in senso ampio: dalla sessualità all’amicizia, al rapporto familiare". Un diritto all’affettività "che sia diritto ad avere incontri in condizioni di intimità". In locali realizzati apposta, potrebbero quindi esserci incontri che possono durare, una volta al mese, dalle 6 ore e oltre. Secondo Zan "si è parlato in modo strumentale di stanze dell’amore - ha spiegato. Questa proposta di legge nasce dall’esperienza della redazione di Ristretti Orizzonti, periodico che si occupa diritti di persone private della libertà". Come detto, "i famigliari dei detenuti non hanno colpe, non possono scontare una pena anche loro". Oggi nei colloqui i detenuti "sono sorvegliati dalle guardie, con i bimbi piccoli", quindi un contesto "non civile". Tutto in piena intimità: "Parliamo della possibilità di avere uno spazio riservato, senza telecamere, senza qualcuno che ti guardi, come i pesci in un acquario, dove persone possono darsi un bacio o scambiarsi una carezza. Perché una donna o un uomo deve scontare una pena e non avere la possibilità di abbracciare il proprio caro, o avere un contatto fisico? O perché i figli non possono farlo con il padre?", si chiede Alessandro Zan del Pd. "La questione sicurezza - osserva ancora - non c’entra, il problema esiste sempre, anche durante i colloqui. È una sfida che abbiamo davanti, se vogliamo che le famiglie non paghino colpe che non sono loro". Zan sottolinea che oltre confine questa "è una cosa normale, banale che esiste in Paesi europei, quelli considerati non liberali come la Russia". Si è parlato di stanze del sesso: "Perché il nostro è un paese morboso e sessuofobo. La sessualità fa parte della vita e delle persone, non ci vedo nulla di male se un detenuto o una detenuta, ha un partner che ama e che vuole continuare ad avere una relazione con quella persona. Eviteremo situazioni di violenza e degrado nelle carceri. La sessualità - conclude - può trovare forme di degenerazione, come i rischi di violenza sessuale". La priorità della sinistra: "dare affetto ai carcerati" di Nino Materi Il Giornale, 4 novembre 2015 La "stanza dell’amore" promossa dai familiari dei detenuti: "Scelta di civiltà". Ma la Lega insorge: "Un bordello in galera". Davanti al carcere Due Palazzi di Padova ci sono la figlia e la moglie di un ergastolano. Sono emozionate. Ma determinate: "Oggi è un giorno speciale", ci dicono. Tra qualche minuto parleranno via Skype con i parlamentari della commissione Giustizia che hanno dato il via all’operazione "stanze dell’affetto". L’amore di una figlia e l’amore di una moglie per un uomo che ha sbagliato e che sta pagando il proprio debito con la giustizia. Due testimonial ideali per una "scelta di civiltà", che però la Lega ha subito bollato come "totale follia". Il cancello del carcere di Padova si spalanca, le donne entrano nel luogo delle loro angosce. Ma anche, da oggi, delle loro speranze. Inizia così l’iter per la realizzazione di "locali idonei dove i detenuti possano intrattenere rapporti affettivi senza controllo visivo". La proposta di legge porta la firma del deputato padovano del Partito Democratico, Alessandro Zan. È lui l’organizzatore di una videoconferenza "storica": per la prima volta dei detenuti (con i loro cari) si collegano direttamente con il Parlamento. Un miracolo che poteva avvenire solo in un carcere modello come quello padovano, dove gli "orizzonti" sono tutt’altro che "ristretti". Si chiama cosi - "Ristretti Orizzonti" - il centro di documentazione che ha trasformato, insieme alla Cooperativa Giotto e all’Associazione Granello di Senape, decine di detenuti in lavoratori a tempo pieno: la dimostrazione che il carcere, come strumento di rieducazione e reinserimento sociale, non è una chimera, ma può diventare realtà. Dopo il call center, il laboratorio di pasticceria, il laboratorio artigianale che crea valigie e manichini, ora è la volta di un altro esperimento; se anche questo sarà destinato al successo (come i precedenti), lo vedremo in futuro. Ma il percorso legislativo per le "stanze dell’affettività familiare" si preannuncia accidentato: su un tema simile demagogia e strumentalizzazioni sono pronte infatti a vanificare anche le migliori idee. E non c’è dubbio che questa che - impropriamente - è stata battezzata la "cella del sesso", rappresenti un progetto condivisibile. Se non fosse che a sinistra hanno subito cominciato a cavalcarlo come se fosse una "priorità del Paese", mentre a destra già si è iniziato a demolirlo senza neppure conoscerne i dettagli. Le "stanze dell’affettività" prevedono una visita al mese che può durare dalle 6 alle 24 ore. "Un tempo in cui non penseremo certo al sesso - spiega al Giornale la moglie di un detenuto, ma a ristabilire un’intimità che i colloqui tradizionali, sotto l’occhio vigile degli agenti di custodia, non possono certo garantire. Ambienti in cui avranno accesso le persone più vicine. Illudendosi che quella stanza possa, almeno per un po’, trasformarsi nel salotto di casa di un uomo "libero"". Obiettivo: ricreare, per ciò che è possibile in un carcere, il calore di un ambiente riservato, l’intimità di una relazione interpersonale. La proposta dell’onorevole Zan è stata sottoscritta da altri 20 parlamentari di vari partiti, ma la polemica è dietro l’angolo. Nicola Molteni della Lega Nord, su Facebook ha accusato la proposta di legge di "trasformare il carcere in un bordello". Ma Zan chiarisce: "Il sesso non c’entra nulla, qui stiamo parlando di altro. Un detenuto è giusto che venga punito perché ha commesso un reato, ma non è giusto che sia punita anche la famiglia. Sono luoghi dove ci potrà essere sicuramente un bacio, degli abbracci, delle carezze affettuose, ma nulla di più. Esistono già nelle carceri di tutta Europa luoghi di questo tipo, è un diritto di civiltà, solo in Italia non esistono". "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione", sosteneva Voltaire. Forse aveva ragione. Giustizia: domani parte il maxi processo a Mafia Capitale di Ivan Cimmarusti Il Tempo, 4 novembre 2015 Alla sbarra politici, criminali, funzionari comunali. Carminati e Buzzi in video-collegamento dal carcere. Ben 46 imputati, con accuse che vanno dall’associazione per delinquere di tipo mafioso alla corruzione, abuso d’ufficio e falso. Una vera struttura piramidale, capeggiata dal presunto boss Massimo Carminati e dal suo "braccio imprenditoriale", Salvatore Buzzi, che si sarebbe avvalsa di politici e funzionari pubblici che avrebbero piegato la propria funzione istituzionale per far massimizzare il business di Mafia Capitale. Il processo parte domani nell’aula Occorsio del Tribunale di Roma. Sono previste quattro udienze la settimana che si svolgeranno, dalla seconda, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. A giudicare il "mondo di mezzo" la decima sezione penale. L’indagine è stata svolta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall’aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, che hanno coordinato gli accertamenti investigativi dei carabinieri del Ros Lazio. L’associazione mafiosa sarebbe così composta: Carminati, il suo braccio armato Riccardo Brugia, Luca Gramazio (politico ex consigliere comunale e consigliere regionale Pdl), Fabrizio Franco Testa (per i rapporti istituzionali), Buzzi (rapporti imprenditoriali), Cristiano Guarnera (imprenditore), Giuseppe Ietto (imprenditore), Agostino Gagliano, Franco Panzironi (ex ad di Ama), Carlo Pucci (pubblico ufficiale), Roberto Lacopo (gestisce distributori di carburanti per l’organizzazione), Matteo Calvio (estorsioni e recupero crediti), Fabio Gaudenzi (riciclaggio e reinvestimento dei guadagni), Nadia Cerrito (segretaria di Buzzi), Carlo Maria Guarany (collaboratore di Buzzi), Alessandra Garrone (compagna di Buzzi), Paolo Di Ninno (commercialista di Buzzi), Claudio Caldarelli (rapporti istituzionali), Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero (vicini alla cosca di ‘ndrangheta Mancuso di Limbadi). Intanto ieri Luca Odevaine, ex componente del Tavolo tecnico sull’immigrazione del ministero dell’Interno, ha lasciato il carcere per i domiciliari. La misura è stata attenuta dopo la collaborazione che l’ex pubblico ufficiale ha avviato con la Procura di Roma. Sempre ieri, infine, Buzzi ha presentato una terza richiesta di patteggiamento. Istanza che potrebbe essere ancora una volta rigettata dai pubblici ministeri. Giustizia: Mafia Capitale. Il radicale Magi "la politica si emancipi dai tic giustizialisti" di Marianna Rizzini Il Foglio, 4 novembre 2015 La mala-gestione dei campi rom e quella dell’accoglienza profughi, cioè due grosse fette del core-business di Mafia Capitale, "sono questioni che potevano essere risolte con una risposta politica prima che diventassero un fatto giudiziario", dice Riccardo Magi, neosegretario trentanovenne di Radicali Italiani appena eletto a Chianciano (con Valerio Federico tesoriere e Marco Cappato presidente), ma anche ex consigliere radicale a Roma nel consiglio appena sciolto per via del caso Marino. "Avevo in mano i dati che riguardavano gli atti illegittimi su campi rom e gestione profughi, e ho denunciato il tutto prima che scoppiasse l’inchiesta", dice Magi: "Poi ho anche chiesto un provvedimento politico, solo che non c’era la volontà politica di risolvere". Rapporti difficili con il Pd, dunque, per Magi, ma pure con l’ex sindaco. E qui la storia si complica: già segretario dell’associazione Radicali Roma nonché, come si è autodefinito, "estremista del diritto, della legalità e della trasparenza", Magi nel 2013 si era candidato (ed era stato eletto) proprio nella lista civica di Marino. "Un solo radicale può fare la differenza", aveva detto allora Emma Bonino, dopo che già alla Regione Lazio, in epoca Polverini, i Radicali avevano lottato in tema di "trasparenza". E tanto ha fatto la differenza, Magi, nel senso dell’opposizione interna al sindaco marziano, che a un certo punto Marino ha chiesto le sue dimissioni (per via del voto radicale contrario alla delibera sulla dismissione degli immobili del Comune a prima firma di Pierpaolo Pedetti, consigliere Pd arrestato con l’accusa di aver favorito Salvatore Buzzi nell’ambito di quel provvedimento). Ma tra l’ex sindaco e il radicale già c’erano stati momenti duri, con Magi che, sugli sprechi di Atac e Ama, faceva - dice - "critiche costruttive, accompagnate però sempre da denunce, proposte e soluzioni". Dopo dieci giorni di sciopero della fame e un video appello a Matteo Renzi, il consigliere aveva ottenuto l’adozione dell’Anagrafe dei rifiuti, ma ora che il consiglio è sciolto e lui è stato eletto segretario di Radicali italiani, l’attenzione, dice, deve concentrarsi su due punti: "Sarebbe imperdonabile, da parte nostra, non ripartire dalle città, dopo le esperienze positive e i risultati ottenuti dai consiglieri radicali a Roma e a Milano. Dobbiamo cercare di creare le condizioni per una nostra più diffusa presenza dove è più forte il disagio e la qualità della vita è più bassa". Da consigliere Magi si è accanito contro la cosiddetta "manovrina d’aula", la "prassi decennale", dice, con cui, "attraverso il bilancio, i consiglieri si spartivano i fondi pubblici destinandoli ad associazioni amiche per nutrire il bacino elettorale". Da neosegretario pensa che i Radicali "abbiano molto da dire", ma non soltanto sui tradizionali temi della giustizia e delle carceri: "Dal 2014, con Renzi al governo - dice sono entrati in agenda alcuni dei temi che i Radicali avevano affrontato negli ultimi venti-trent’anni, anche per via referendaria: dalle riforme istituzionali a quella del lavoro. Non abbiamo detto nulla, ma adesso dobbiamo incalzare: le riforme renziane, pur avendo affrontato alcuni nodi, l’hanno fatto in modo insoddisfacente". Non è un radicale tipico nell’aspetto e nell’eloquio, Magi - non lo si vedrà mai con le giacche squadrate e le strane scarpe che, a un certo punto degli anni Novanta, spopolavano tra i pannelliani. Forse perché, fino al 2008-2009, da federalista laureato in Storia dell’Europa, militava in modo più defilato. E a Roma, fino a pochi anni fa, era conosciuto come un tranquillo appassionato di politica soltanto nella cerchia poststudentesco-giornalistico-libraria, con propaggini nei giri allargati dei centri sociali e dei licei frequentati da Magi in gioventù, ma poi forse insospettabili bacini di voti anche non radicali quando si è candidato al Comune. Come prima cosa, Magi chiederà un incontro al commissario Tronca, per inoltrargli le "proposte che potrebbe mettere subito in atto, con i poteri che ha". Giustizia: Mafia Capitale; prima condanna per un uomo del clan Buzzi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 novembre 2015 Il giudice conferma che si tratta di mafia. La sentenza dà forza alle tesi della Procura nel maxi-processo al via domani. Cinque anni e quattro mesi di carcere per corruzione, più di quanto aveva chiesto l’accusa e con lo sconto dovuto al rito abbreviato, sono una pena che può definirsi esemplare. Ma ciò che più conta, nel verdetto che ieri ha condannato Emilio Gammuto - ex detenuto per tentato omicidio, rapina e armi, poi "reinserito socialmente" e divenuto stretto collaboratore di Salvatore Buzzi nella gestione della cooperativa "29 giugno" - è l’aggravante di aver favorito, con i propri comportanti illeciti, l’associazione mafiosa. Che quindi è stata riconosciuta come tale dal giudice che ha emesso la sentenza. È la prima volta che avviene nella fase del processo vero e proprio, finora tutte le pronunce (compresa quella della Cassazione) erano limitate alle ordinanze di arresto; ora invece, al momento di decidere se un imputato è colpevole o innocente, un giudice ha stabilito che il "sodalizio criminale" capeggiato da Massimo Carminati e Buzzi non solo esiste, ma può essere a buon diritto chiamato "Mafia Capitale". Di qui l’aggravante addebitata a Gammuto; imputato minore ma non troppo, nella costruzione dei pubblici ministeri che l’avevano messo sulla linea di confine tra i "mafiosi" propriamente detti e gli altri; lasciandolo al di qua perché proprio la gravità dell’accusa richiede un livello probatorio molto elevato. Ma Gammuto, per dirne una, è stato intercettato con Carminati mentre organizzavano la bonifica degli uffici della cooperativa, per proteggerla da eventuali microspie. A parte la singola condanna, il riconoscimento dell’aggravante mafiosa è il miglior viatico per la Procura in vista del dibattimento che comincia domani; una sorta di maxi-processo con 46 imputati (tre in videoconferenza, considerati i vertici dell’organizzazione) dai risvolti politici talmente evidenti da aver provocato - di fatto - la crisi in Campidoglio con conseguente "scioglimento" del consiglio comunale; non per mafia ma per il venir meno delle condizioni di governabilità a partire da ciò che l’inchiesta sul "mondo di mezzo" ha messo in luce fin dalla prima retata di fine 2014. Anche nel processo principale che si svolgerà col rito ordinario e si aprirà con schermaglie procedurali tra accusa e difesa che non saranno solo formali, la sfida principale resta la stessa: l’esistenza o meno dell’associazione mafiosa "originale e originaria", come l’hanno definita i pubblici ministeri; "originale perché presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note (come Cosa nostra o la ‘ndrangheta, ndr), e originaria perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali". È il tema sul quale da mesi si alimentano polemiche, più giornalistiche che giuridiche, che prevedibilmente accompagneranno tutto il processo. Sebbene accusato solo di corruzione, uno degli imputati più noti è Luca Odevaine, che ieri ha ottenuto gli arresti domiciliari. Dopo 11 mesi di detenzione preventiva ieri i pm hanno dato parere favorevole alla scarcerazione, e si apprestano a siglare con i suoi avvocati il patteggiamento della pena. Odevaine (già vicecapo di Gabinetto nella giunta guidata da Walter Veltroni, poi messo "a libro paga" da Buzzi e dalle coop bianche de La Cascina) ha ammesso buona parte delle proprie responsabilità, ed è stato giudicato credibile dalla Procura; a differenza di Buzzi. Nei suoi interrogatori il "facilitatore nei rapporti con la pubblica amministrazione", come da autodefinizione, ha accennato tra l’altro a presunti accordi tra maggioranza e opposizione in Campidoglio dai tempi dell’ex sindaco Alemanno (inizialmente indagato per associazione mafiosa e ora imputato di corruzione), in modo che ogni consigliere avesse una sorta di "quota di spesa" garantita nel bilancio comunale. E gli accertamenti della Procura proseguono anche in altre direzioni; a partire dalle intercettazioni effettuate dai carabinieri del Ros, nonché dalle chiamate in correità di Buzzi che hanno bisogno di approfondimenti nonostante la patente di inattendibilità attribuita all’ex "signore delle cooperative". Per questo sono già indagati l’ex capogruppo del Pd in Comune Francesco D’Ausilio, il suo alter ego Salvatore Nucera e altri personaggi citati nelle conversazioni di Buzzi. Giustizia: Stato-mafia; l’ex ministro Mannino assolto, la procura aveva chiesto 9 anni di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 novembre 2015 Calogero Mannino era accusato dalla procura di Palermo di aver avviato la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici di Cosa nostra, all’inizio del 1992. In corte d’assise gli altri imputati, l’ex ministro Nicola Mancino, il generale Mario Mori e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. "Assolto per non avere commesso il fatto". Il gup Marina Petruzzella ha scagionato Calogero Mannino dall’accusa di aver avviato all’inizio del 1992 la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici di Cosa nostra, questa la contestazione che la procura di Palermo muoveva all’ex ministro Dc, sollecitando la sua condanna a 9 anni. Mannino era imputato per il reato di "violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario" previsto dall’articolo 338 del codice penale. La decisione è arrivata dopo un’ora di camera di consiglio e due anni e mezzo di processo. È il primo verdetto per l’inchiesta "Stato-mafia", Mannino aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato; in corte di assise sono ancora imputati gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e Mauro Obinu, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri, ma anche i boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Fra gli imputati pure il pentito Giovanni Brusca. Il giudice Petruzzella ha annunciato che la motivazione della sentenza sarà depositata fra 90 giorni. Mannino - difeso dagli avvocati Carlo Federico Grosso, Grazia Volo, Nino Caleca e Marcello Montalbano - era presente in aula al momento del verdetto. "Spero che sia per Mannino la fine di un incubo giudiziario", dice l’avvocato Caleca. "I processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la storia. Si fanno con i fatti e per accertare precise condotte penali". Il pubblici ministeri annunciano: "Andremo avanti, impugneremo la sentenza". A rappresentare l’accusa, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi con i sostituti Francesco Del Bene, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia. Estesi i poteri di revoca della condanna da parte del giudice dell’esecuzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 Cassazione, Sezioni unite penali, informazione provvisoria 29 ottobre 2015. Un altro passo che rende meno rigido il principio di intangibilità del giudicato. Il giudice dell’esecuzione può revocare una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore di una legge che ha abrogato il reato, quando la legge non è stata presa in esame da parte del giudice della cognizione. Lo chiariscono le Sezioni unite della Cassazione con l’informazione provvisoria resa nota al termine della camera di consiglio del 29 ottobre. Viene sciolto in questo modo un contrasto che aveva visto contrapposte le Sezioni semplici della Corte e che era stato espresso da una pluralità di sentenze. Nel primo orientamento si sottolineava l’impossibilità di procedere a revoca della sentenza, sulla base di quanto stabilito dall’articolo 673 del Codice di procedura penale, nei casi in cui l’abrogazione della norma incriminatrice avviene prima della decisione del giudice. In questo caso, infatti, si tratterebbe di un errore dell’autorità giudiziaria non rimediabile in sede di esecuzione. A disposizione ci sarebbero invece stati gli ordinari mezzi di impugnazione previsti per la fase della cognizione. In questo filone va collocata anche la sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 che ha respinto come infondato il dubbio di costituzionalità dell’articolo 673 perché non comprende tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna anche il cambiamento di giurisprudenza prodotto da una pronuncia delle Sezioni unite che esclude la rilevanza penale del fatto giudicato. Un altro orientamento, quello poi fatto proprio dalle Sezioni unite, anche se le motivazioni saranno disponibili solo tra qualche tempo, sostengono che la revoca della condanna per abolizione del reato deve essere disposta anche quando la condanna è pronunciata per errore dopo l’avvenuta abrogazione. L’assunto di base è che né l’articolo 673 del Codice di procedura nè l’articolo 2 del Codice penale distinguono tra giudicato formatosi prima o dopo la soppressione del reato. Nell’ordinanza che ha rinviato la questione alle Sezioni unite, la n. 24399/15 della Prima sezione penale, si sottolineava peraltro che quest’ultima linea sembra rifarsi a quelle osservazioni della dottrina in base alle quali in realtà l’applicazione dell’articolo 673 non ha come conseguenza innovazioni profonde, fatta salva un’ancor più radicale incrinatura al principio dell’autorità del giudicato a causa della cancellazione della condanna o di proscioglimento con formule meno favorevoli. La stessa sentenza della Corte costituzionale e le sue argomentazioni potrebbero essere aggirate valorizzando il fatto che in questo caso si tratta di una vera e propria abolitio criminis provocata dalla successione di leggi penali nel tempo (era in questione la mancata esibizione di documento d’identità da parte di una cittadina extracomunitaria irregolarmente soggiornante in Italia) e non invece un più gestibile cambiamento della giurisprudenza. Il minimo edittale non apre le porte alla tenuità del fatto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 La determinazione della pena nel minimo non è incompatibile con la negazione della tenuità del fatto. Questa la conclusione della Corte di cassazione che, sul punto, ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di un imputato che aveva provato a fare valere il fatto che una pena fissata nel minimo edittale può rappresentare un ideale viatico all’applicazione della nuova causa di non punibilità. La sentenza n. 44417 delle Sesta sezione penale depositata ieri ha affrontato l’impugnazione della condanna a 4 mesi per resistenza a pubblico ufficiale pronunciata dalla Corte d’appello di Milano, confermando il giudizio del tribunale di Monza, nei confronti di un cittadino extracomunitario. Veniva respinta dalla Corte d’appello anche la richiesta di applicazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto. A fare propendere per il no era stato soprattutto il protrarsi nel tempo della condotta violenta. La Cassazione affronta il ricorso ricordando innanzitutto che la condizione di particolare tenuità del fatto era già utilizzata dal Codice penale come presupposto per la diminuzione della pena; con l’introduzione nel Codice del nuovo articolo 131 bis il legislatore ha previsto un meccanismo di esclusione da sanzione nel rispetto dei principi di proporzionalmente adeguatezza e e gradualità, non estranei al nostro ordinamento e che oggi però trovano ampio spazio nel diritto comunitario. In questo contesto allora è chiaro, avverte la sentenza, che la nozione di particolare tenuità del fatto non si identifica con quella dell’inoffensività del fatto. La Corte d’appello ha escluso la tenuità per l’intensità assai elevata del dolo per effetto del prolungarsi della condotta di resistenza. È del resto lo stesso articolo 131 bis a incanalare il giudizio sulla concessione del beneficio collegandolo alle modalità della condotta. È vero poi che la pena inflitta è quella minima prevista dal Codice penale, ma questo non apre la strada alla tenuità "perché si tratta di operazioni interpretative rette da rationes differenti". Infatti, la particolare tenuità del fatto non ha natura di causa di giustificazione, precisa la Cassazione, ma rappresenta una semplice condizione di non punibilità che esclude l’irrogazione della pena. Il fatto giudicato particolarmente tenue, poi, resta ancora offensivo e, pertanto, resta ferma l’antigiuridicità della condotta che trova traccia anche nel casellario. Il Riesame può ancora integrare le motivazioni carenti del Gip sulla custodia cautelare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 Il tribunale del riesame può sempre integrare la motivazione della custodia cautelare. La riforma, contenuta nella legge. 47 del 2015, che ha modificato anche l’articolo 309 comma 9 del Codice di procedura penale, non impedisce al Tribunale di intervenire sulle motivazioni carenti dell’ordinanza che gli è stata sottoposta confermandola "per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso". Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 44433 della Sesta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato dalla difesa di un uomo nei confronti del quale era stata rinnovata la misura della custodia cautelare sul presupposto dell’esistenza di gravi indizi di colpevolezza. La difesa aveva sostenuto l’errore del Tribunale del riesame secondo il quale l’eventuale mancanza di motivazione sulle esigenze cautelari non comporta profili di nullità restando in capo al Tribunale il potere di integrazione delle motivazioni. Potere che sarebbe escluso solo in caso di totale assenza di motivazioni nell’ordinanza del Gip. La Cassazione però conferma la valutazione data dal Riesame sul perimetro dei suoi poteri anche dopo la riforma: l’integrazione alle motivazioni resiste e trova il solo limite della loro totale assenza sull’esistenza dei presupposti per la detenzione preventiva, in sintonia peraltro con l’altra ipotesi di assenza di un’autonoma valutazione da parte del Gip rispetto alle tesi della pubblica accusa. Quanto alla natura delle motivazioni, la Cassazione sottolinea che non deve essere espressa attraverso "formule sacramentali". È invece sufficiente la messa in evidenza di uno spessore cautelare di notevole rilevanza. E allora il Riesame ha operato correttamente quando, nel confermare la custodia cautelare, ha ricordato i rischi elevatissimi di recidiva da parte dell’interessato. Quest’ultimo, infatti, ancora pochi mesi prima del giudizio, risultava coinvolto in contesti di narcotraffico ben radicati nel territorio nazionale, potendo contare su una pluralità di canali di approvvigionamento. La difesa aveva invece cercato di fare valere l’età avanzata, oltre 70 anni, sottolineando l’eccezionalità delle esigenze che sole avrebbero giustificato il carcere anche a fronte di gravi indizi di colpevolezza. Internet e Skype per i detenuti, il Dap detta le regole di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 Internet e Skype per i detenuti, con precise limitazioni. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria detta le linee guida sulle moderne tecnologie informatiche a sostegno dei percorsi rieducativi dei singoli detenuti e per ampliare le potenzialità dei progetti "trattamentali" attivati in collaborazione con il mondo dell’imprenditoria, del privato sociale e con gli enti locali. La circolare 2 novembre 2015 fa il punto sul monitoraggio delle sperimentazioni in corso all’interno di diverse strutture penitenziarie e, in attesa che sia strutturato un modello di riferimento per l’uso dell’infrastruttura tecnologica, spiega quali sono le regole. Connessione Internet - È del 2000 la norma che consente la possibilità di tenere personal computer nelle camere di pernottamento e nelle sale destinate alle attività comuni ma senza alcuna possibilità di collegamento all’esterno. La circolare conferma questa preclusione e prevede che l’accesso ad internet, per studio, formazione e aggiornamento professionale, avverrà esclusivamente dalle postazioni attivate nelle aree adibite allo svolgimento di progetti, quali ad esempio le biblioteche. La configurazione delle postazioni e la predisposizione delle politiche di sicurezza saranno curate a livello centrale, mentre le limitazioni poste all’infrastruttura di rete consentiranno di instradare il singolo utente esclusivamente verso una white list di siti selezionati per i quali è stato autorizzato. Accesso a Skype - La circolare autorizza, inoltre, i detenuti a utilizzare Skype per facilitare i rapporti con i familiari. L’esperienza e gli sviluppi normativi hanno convinto le autorità che l’utilizzo di questi strumenti potesse essere consentito. Nella stessa direzione va il Parlamento che, con il Ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario, ora all’esame del Senato, sostiene il diritto all’affettività in carcere e alle relazioni parentali, anche utilizzando collegamenti audiovisivi. Gli obiettivi - Il Capo del Dap Santi Consolo evidenzia l’importanza del provvedimento che "garantisce alla popolazione detenuta l’utilizzo delle tecnologie informatiche nel pieno rispetto delle esigenze della sicurezza. Si tratta, infatti, di un autentico progetto di inclusione sociale che passa anche attraverso la conoscenza e l’utilizzo della tecnologia da parte dei detenuti; soprattutto per quelle persone che provengono da situazioni di marginalizzazione e che, proprio in carcere, potranno avere la possibilità di sperimentare nuove tecniche di apprendimento, di studio e di formazione". Per realizzare l’ambizioso obiettivo di estendere questa possibilità a tutti i detenuti anche per conseguire titoli di studio e abilitazioni professionali, il Capo del Dipartimento ha intrapreso una collaborazione con Poste Italiane e Fondazione Poste Insieme Onlus al fine di ottenere computer da destinare a tutti gli istituti penitenziari. Grande distribuzione, il direttore del punto vendita risponde degli alimenti avariati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 novembre 2015 n. 44335. È il direttore del singolo punto vendita e non il rappresentante legale della catena di supermercati a rispondere penalmente della vendita di prodotti in cattivo stato di conservazione. A meno che non si accerti la presenza di un vizio a monte come, per esempio, la mancata adozione da parte dell’intera azienda delle procedure comunitarie sul controllo dei prodotti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 44335/2015, accogliendo il ricorso di un amministratore condannato a pagare un’ammenda di 350 euro. La vicenda - A seguito della segnalazione di un cliente, gli ispettori della Asl accertarono la presenza di "prodotti alterati e scaduti" nel reparto salumi del banco frigo e nella cella frigorifera. La Corte di merito ne addossò la responsabilità al rappresentante legale in quanto la funzione di controllare lo stato della merce non era stata attribuita con delega scritta a nessuno dipendente. Il ricorrente, però, si è difeso sostenendo che la complessità dell’organizzazione aziendale - la società gestiva 10 punti vendita - comportava l’automatica divisione delle responsabilità, del resto il negozio aveva un suo "direttore" che esercitava in concreto tutti i poteri ed i doveri gestori. La motivazione - Una ricostruzione condivisa dalla Suprema corte. I giudici di Piazza Cavour, infatti, pur non ignorando l’esistenza di un diverso indirizzo interpretativo che ritiene necessaria sia la delega che la forma scritta, hanno affermato che "in casi di organizzazioni complesse, la sussistenza di una delega di responsabilità, anche organizzativa e di vigilanza, per le singole sedi, si deve presumere "in re ipsa", anche in assenza di un atto scritto". Per cui, con riferimento alla disciplina degli alimenti, "il legale rappresentante della società gestrice di una catena di supermercati non è responsabile qualora essa sia articolata in plurime unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto qualificato ed investito di mansioni direttive, in quanto la responsabilità del rispetto dei requisiti igienico-sanitari dei prodotti va individuata all’interno della singola struttura aziendale, non essendo necessariamente richiesta la prova dell’esistenza di una apposita delega" (n. 11835 /2013). In definitiva è lo stesso organigramma aziendale a disegnare funzioni e responsabilità in seno all’azienda, al punto che, prosegue la sentenza, sarebbe "contraddittorio" escludere sotto il profilo penalistico una responsabilità, quella derivante dalla conduzione di un ramo dell’impresa, che invece viene pacificamente riconosciuta sotto il profilo civilistico in quanto parte del sinallagma contrattuale e determinante ai fini della retribuzione. Dunque, mentre in ambito amministrativo si richiede sempre un atto scritto, nel settore privato "la realtà delle delega è nell’articolazione dell’azienda". Dunque la responsabilità del titolare, "che resta il destinatario principale del precetto penale", va ricostruita su altre basi, ed in particolare sulla possibilità o meno di costruire un addebito colposo. Per questo la Cassazione ha accolto il ricorso con rinvio ed ora la Corte territoriale dovrà accertare se le dimensioni del supermercato fossero tali da non permettere un controllo effettivo da parte del direttore, la sua "idoneità e capacità tecnica", e soprattutto l’assenza di "cause strutturali" dovute a scelte di pertinenza esclusiva del titolare dell’impresa, quale, in ipotesi, l’omessa adozione delle procedure di autocontrollo contenute nei manuali adottati in conformità al Regolamento CE n. 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari e validati dal ministero della Salute. Lettere: boss, Papa, politica… a ciascuno il suo di Gian Marco Chiocci Il Tempo, 4 novembre 2015 In questo mondo di mezzo ci saranno sommersi e salvati col maxiprocesso di Mafia Capitale. Ci saranno sommersi e salvati perché è la legge naturale dei procedimenti giudiziari, che ridefinisce e spiega dinamiche, rapporti, ruoli. Vedremo come andrà a finire questo verseggiare quasi epico su una nuova mafia che tante suggestioni nazionalpopolari ha suscitato diventando un fenomeno di culto, culturale, tristemente cinematografico. Vedremo se sarà mafia o se "soltanto" corruzione. Vedremo se davvero abbiamo avuto a che fare con incalliti criminali e vedremo anche se e quanto macchiettismo della Roma dei bassifondi criminali davvero c’è in certi atteggiamenti, certe frasi, certi folkloristici modi di fare che in questi mesi sono trapelati dalle carte processuali. Vedremo se questo affresco umano di figure che si mettono l’una a fianco all’altra sarà davvero il ritratto della fine di un’epoca cittadina. Se non altro, però, lo start, la linea di inizio, è assodata. Si parte da un’incrostazione di malaffare, intrecci non trasparenti, condizionamenti della cosa pubblica inaccettabili in una società culturalmente evoluta e per questo in grado di distinguere tra il bene e il male. Si parte da un filo di malcostume che avvolge tre diverse amministrazioni (checché ne dica Marino) e l’ultimo quindicennio, dove il colore delle foglie è cambiato con le stagioni della democrazia ma il sottobosco è rimasto sempre lo stesso, umido e marcio. Aver scoperto questo sottobosco, aver tirato quel filo è e sarà il merito del procuratore Giuseppe Pignatone. Non c’è bisogno di aspettare questo percorso, di stilare, appunto, la lista dei sommersi e dei salvati per comprendere come Roma, già oggi, non sia più la stessa. Insieme al disfacimento politico-delinquenziale oggi assistiamo al diroccamento delle due colonne di quella che per oltre un secolo e mezzo è stata l’architettura civile di questa città, poste l’una al di là e l’altra al di qua del Tevere. Politica e Chiesa. La prima, messa sottovuoto dopo il disastro dell’amministrazione Marino (i cui influssi, inutile negarlo, si ravvisano nella storia di Mafia Capitale) in un disastro che si tenta di anestetizzare nell’illusione di un "dreams team" e di un rispettabilissimo Mister Wolf che risolva tutti i problemi, quando il problema numero uno è democratico. L’altra, la Chiesa, bersagliata da uno sciame di scandali ancora tutti da scoprire, destinati a pungere il nervo scoperto del rapporto tra il fedele e l’autorità della Fede, cioè la gestione delle finanze e il rapporto tra realtà ed aspettative. Roma è in ginocchio, oggi. E ognuno deve fare il suo mestiere. La magistratura accertare le responsabilità. La Chiesa, come direbbe il Papa, custodire le anime. E la politica sanare le ferite di questa città. Ecco, ognuno ora faccia il suo e remi per sé. Altrimenti si affonda. Lettere: lezione d’Oltretevere, non confondere giustizia con buonismo di Carlo Nordio Il Messaggero, 4 novembre 2015 La reazione severa e immediata della Santa Sede alla divulgazione illegale di notizie segrete si inserisce, e ne siamo lieti, nella migliore tradizione penitenziale della Chiesa: la quale non concede gratuitamente il perdono, ma lo subordina alle condizioni canoniche della confessione, della espiazione e del fermo proposito redentivo. Questo dovrebbe esser di avvertimento a quanti, buonisti interessati, vedono il Cristianesimo come un’incondizionata paternità indulgenziale. Al di là di questo, la procedura che ha condotto all’arresto dei due collaboratori infedeli ci sollecita ad alcune considerazioni, costituenti, tanto per restare nel lessico liturgico, un monito salutare. La prima. La signora Chaouqui, incriminata di un reato che il Vaticano considera, e a ragione, molto grave, è stata liberata subito dopo aver manifestato l’intenzione di collaborare. Quando questo accade in Italia, si scatena in genere un’ondata di indignazione, e si accusa la magistratura di usare le manette per costringere alla confessione e alla delazione. Noi magistrati rispondiamo, in genere, che l’arresto è un caso che riguarda persone socialmente pericolose, e come tale va isolato. Ma quando c’è la decisione di dissociarsi viene meno la pericolosità, e quindi anche l’esigenza cautelare. È consolante vedere che anche la Chiesa, maestra di vita e carità, ha seguito lo stesso criterio. Speriamo che ciò sia un suggello definitivo alla correttezza - con le dovute eccezioni - anche della magistratura italiana. La seconda. Nell’imminenza della pubblicazione dei libri contenenti le rivelazioni illegali, la Santa Sede ha voluto colpire subito e per primi i responsabili della fuga di notizie. Questo atteggiamento è saggio e significativo. Orbene, noi da anni ci battiamo perché la porcheria delle divulgazioni delle intercettazioni venga severamente repressa. Ma con altrettanta energia predichiamo, inutilmente, che la soluzione non risiede nel punire il giornalista, che fa il suo dovere, ma il depositario infedele - magistrato, cancelliere, avvocato o altro - che ha passato callidamente al cronista la velina. Ora pare che il Parlamento stia affrontando la questione. Impari dal Vaticano e curi il cancro alla fonte. La terza. Nel caso odierno, l’unanime e giusta reazione di sdegno è stata indirizzata ai responsabili del grave reato. Nessuno si è sognato di prendere le loro difese sostenendo che i fedeli hanno comunque diritto di sapere cosa si decida tra le mura leonine, come la pensi il Papa, e cosa di lui pensino i Cardinali. Nessuno ha invocato il diritto di cronaca, né la trasparenza né la completezza informativa. Ed è giusto che sia così, perché tutte le persone, dal Sommo Pontefice al più umile mendicante hanno un sacrosanto diritto alla riservatezza. Peccato che da noi accada esattamente l’opposto. Quando sono stati intercettati, più o meno legalmente, capi di stato, ministri e privati cittadini, e quando sono state diffuse, quasi sempre illegalmente, le loro chiacchierate intime e ininfluenti alle indagini, nessuno ha gridato allo scandalo. Eppure ce ne sarebbe stato buon motivo, anche giuridico, visto che l’art 15 della Costituzione protegge come inviolabile la segretezza delle nostre conversazioni. No, qui da noi il coro è stato quasi unanime: poco importa che una mano criminale abbia allungate delle veline riservate, e magari alterate: noi abbiamo il diritto di sapere. Così molte reputazioni sono state distrutte e, guarda caso, molte poltrone sono state liberate. Forse il prudente atteggiamento odierno deriva dal rispetto verso S.Pietro. O forse dal fatto che il suo seggio non è in gioco, e comunque è inaccessibile. Lettere: il brutto scherzo del Ris su Yara, un video falso confezionato per i media di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 novembre 2015 Yara Gambirasio, di Brembate di Sopra, fu uccisa nel 2010. Il processo contro Massimo Giuseppe Bossetti, presunto assassino, è in corso. Ma il processo mediatico contro di lui è già stato celebrato. Non è simpatico, Bossetti. Al pubblico, soprattutto, piace "la prova schiacciante" con cui è stato individuato: un mega screening del Dna di mezza bergamasca. Prova scientifica. Noi possiamo solo sperare che, se verrà condannato, lo sarà per prove certe: il solo Dna, al momento non sembra esserlo. Ma al processo è accaduta una cosa più grave, se osservata con il necessario rigore del garantismo. Il quotidiano Libero ha riportato un dialogo tra l’avvocato difensore e il comandante del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) di Parma, Giampietro Lago, a proposito di un video divenuto famoso sui media, e a cui è stata data grande rilevanza "accusatoria", anzi "probatoria". Vi si vede il furgone bianco di Bossetti transitare in loop davanti alla palestra in cui Yara fu vista viva l’ultima volta. Ebbene, Lago ha ammesso che quel video, diffuso con il logo dei Carabinieri, è falso. È un fake, è un montaggio "concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa". Insomma è una "prova", ma solo per il processo mediatico. Per chiarezza: il suddetto falso è già stato scartato come prova processuale. Bene così. Ma che un gruppo investigativo specializzato delle Forze dell’ordine abbia anche solo potuto pensare di manomettere una possibile fonte di prova, e in modo "concordato con la procura", a uso e consumo della stampa, non può passare sotto silenzio. È un fatto che non può esistere in uno stato di diritto. Che poi, ahinoi, più o meno è sempre quello del caso Tortora. Reggio Emilia: il cappellano dell’Opg denuncia "vita disumana per chi resta in cella" reggiosera.it, 4 novembre 2015 Il cappellano denuncia: "Rimpallo di competenze fra Ausl e amministrazione penitenziaria. La nostra struttura è il simbolo dell’ipocrisia di chi sta al potere". Nell’Opg della città ci sono ancora 67 persone. Buona parte di esse è veneta, e sta aspettando che la Regione del Nord-Est apra le nuove strutture (qualcuno parla di luglio 2016). Poi ci sono 33 internati che non conoscono il loro futuro: sono detenuti non emiliano-romagnoli con infermità psichica sopravvenuta durante la carcerazione "normale" e detenuti minorati psichici. "Queste persone non sono state prosciolte, e non possono essere spostate presso le Rems competenti - spiega don Daniele Simonazzi, cappellano dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia dal 1 novembre 1990, esattamente 25 anni fa - ma dopo l’entrata in vigore del decreto legge 52 del 31 marzo 2014, chi si deve prendere cura di loro?". Don Daniele racconta di un rimpallo di competenze tra Azienda sanitaria locale e amministrazione penitenziaria: "Non c’è mai stato feeling tra queste due realtà, e giocano allo scaricabarile. Intanto chi è ancora in Opg vive in condizioni non umane, assolutamente non dignitose. La struttura è fatiscente, c’è molto sporco. Quando qualcuno prova a fare presente questa situazione, viene zittito e contraddetto. Ma chi lo contraddice mente sapendo di mentire: sono 2 anni che si va avanti così, e nessuno fa niente". Ad avvalorare la sua tesi, i lavori di ristrutturazione che sono stati fatti nelle due sezioni lasciate libere dopo il 31 marzo: "Ora in quelle sezioni entreranno i detenuti normali: così sono state spese migliaia di euro per cambiare tutti i sanitari, ritenuti inservibili. Ma perché, prima non lo erano? Perché in così poco tempo sono stati trovati fondi che si erano chiesti da tempo? Immagino perché c’è chi ritiene che esistano detenuti di serie A e detenuti di serie B". Queste 33 persone non prosciolte sono coloro che hanno mandato una lettera ai parlamentari locali di tutti gli schieramenti, al ministro Graziano Delrio e al sindaco reggiano Luca Vecchi per chiedere che non sia ridotto il personale medico, infermieristico e socio sanitario, che si occupa di loro: "Io ho fatto da tramite - continua don Simonazzi - ma la lettera è tutta farina del loro sacco. Chiedono che qualcuno dei destinatari entri in Opg e legga la lettera insieme con loro, per capire insieme che cosa succederà. Sono mesi che lo chiedono, ma nessuno si è mai fatto vivo". Nel frattempo anche tutte le attività previste un tempo hanno subito una battuta d’arresto: i corsi di teatro, la ginnastica correttiva: "La signora che venne assunta per fare lezione oggi viene gratuitamente. Mi sembra assurdo: anche lei avrebbe diritto a sostenere la sua famiglia". Per don Simonazzi è molto difficile provare a immaginare cosa succederà: "Purtroppo è anche una questione politica: la destra pensa di chiudere tutti dentro. La sinistra punta a far uscire tutti. Ma la realtà non è questa. Ci sono persone in Opg davvero molto pericolose, chiuse a loro tutela e a tutela di tutti gli altri. E la colpa di questa situazione è di persone incompetenti, non all’altezza del compito che si chiede loro di ricoprire. La nostra struttura è il simbolo perfetto dell’ipocrisia di chi sta al potere: da come la povera gente viene trattata si capisce il grado di civiltà di chi ci governa". Napoli: l’appello del Cardinale Sepe "baby boss, cambiate vita" di Rosanna Borzillo Avvenire, 4 novembre 2015 È un grido di dolore contro la criminalità, ma anche un invito a non rassegnarsi, ad alzare la testa e a dire "basta". Con il cardinale Crescenzio Sepe, i preti di Barra, Forcella, Ponticelli, Sanità, San Giovanni a Teduccio, Scampia, Secondigliano: tutti quartieri di Napoli in cui baby boss senza scrupoli, in questi ultimi mesi, hanno diffuso paura e morte. Ieri sera in cattedrale, guidati dal loro pastore, sacerdoti e religiosi hanno voluto "gridare con il popolo, con i giovani, le mamme e i lavoratori onesti - ha sottolineato Sepe - che vogliono vivere nella legalità, nella giustizia e nella pace". Troppe lacrime senza ragione, troppe famiglie devastate si interrogano senza trovare risposte. In duomo si legge la lunga lista delle vittime di una "guerra" che sta insanguinando le strade della città. Sepe parla di "strage degli innocenti, causata dalla scelleratezza dell’uomo". Dopo l’omicidio di Genny Cesarano, 17 anni, al rione Sanità, i parroci dei quartieri più in difficoltà, si sono riuniti in questi ultimi due mesi, stanchi di veder omicidi nelle loro strade e hanno deciso di far fronte comune. Hanno scritto una lettera, diffusa alla vigilia della celebrazione di ieri, nella quale si impegnano "ad accompagnare il popolo nella richiesta di giustizia e di normalità per i loro martoriati quartieri". "Una sola vita umana che si spegne per un atto di violenza è offesa a Dio ed è manifestazione di inciviltà e di barbarie", ribadisce l’arcivescovo, durante la celebrazione che è preghiera e denuncia. Così Sepe lancia un appello forte: alle Istituzioni, a cui chiede di "fare ogni sforzo per dare sicurezza e serenità ai cittadini, soprattutto in quei territori che presentano particolari criticità di ordine pubblico". Ai camorristi, affinché si pentano e depongano le armi. "Lasciate la strada della perdizione! Pensate ai vostri figli e ai vostri cari, che spesso pagano un prezzo troppo alto per colpa vostra", è l’invito del pastore che ribadisce: "Non c’è disonore. Anzi ravvedersi significa comportarsi da uomini veri, significa far prevalere lo spessore morale, significa salvare la propria vita e quella degli altri". E, in particolare, l’arcivescovo si rivolge ai "baby boss": "Rincorrete falsi idoli, per dimostrare forza e potenza, per brama di danaro. State sprecando gli anni più belli della vostra esistenza. Vi dico con cuore di padre: siete ancora in tempo per cambiare. La strada imboccata è senza futuro, rischiate di essere uccisi e con voi, magari senza colpa alcuna, anche i vostri familiari". "La vostra morte non lascia traccia - sono le dure parole del pastore - ma il sangue versato dagli innocenti è linfa di vita nuova, è il lievito di una società più giusta e migliore, apre alla verità, alla giustizia, alla libertà". I parroci dei quartieri più difficili, intanto, parlano di una città spaccata in due. "La comunità cristiana di Napoli è un unico popolo, così come unico dovrebbe essere il modo di amministrare la città. Purtroppo ad oggi - sottolineano i preti - c’è la Napoli "bene" e la Napoli "malamente"". Quarantotto omicidi hanno devastato una parte del territorio, ma non annientato la voglia di riscatto. Sabato 5 dicembre, infatti, si prosegue, con una manifestazione pubblica, nella quale verranno consegnate, a quelli che in questo momento hanno responsabilità di governo, le richieste che stanno emergendo soprattutto dall’ascolto delle mamme dei territori. Significativo che soprattutto le donne dei quartieri più emarginati ed oppressi abbiano iniziato a chiedere per i loro figli telecamere per la videosorveglianza, più scuola e più sicurezza. In Duomo, ieri pomeriggio, tra gli altri, i genitori dell’ultima vittima Genny Cesarano, una rappresentanza di carcerati, (con il delegato diocesano per la pastorale carceraria, don Franco Esposito), il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Carmine Antonio Esposito, il vice sindaco Raffaele Del Giudice. Taranto: il carcere un corso di formazione per "operatore calcinaio calce e canapa" Ansa, 4 novembre 2015 Si è concluso a Taranto il corso di formazione per "Operatore calcinaio calce e canapa" (Fondo Sociale Europeo-Regione Puglia) organizzato dall’Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi a dalla direzione del carcere di Taranto per la reintroduzione di persone svantaggiate, a cui viene consentito di accedere ai servizi finalizzati all’accrescimento professionale, al reinserimento lavorativo o alla autoimprenditorialità. Un gruppo di detenuti ha partecipato al corso che riconsidera la figura del calcinaio nell’ottica dell’innovazione dell’impiego della canapa in edilizia. Il biocomposito di calce e canapa riduce infatti le emissioni di diossido di carbonio grazie alle sue proprietà di isolamento termico e di sequestro di CO2 nella struttura degli edifici. I corsisti hanno contribuito alla sistemazione dell’area verde della casa circondariale per gli incontri della popolazione detenuta con i figli minori. Inoltre è stata allestita la squadra Mof (Manutenzione ordinaria fabbricato) in cui saranno inseriti con assunzione intramuraria tre corsisti per ripristinare eventuali problematiche legate alla struttura della casa circondariale: impianti idrici, termici, sanitari ed opere edili in generale. Gli organizzatori hanno ottenuto la disponibilità della ditta partner di progetto ‘Canapa e Co" all’assunzione a fine pena dei detenuti più competenti e sono in via di definizione le convenzioni con diversi stakeholder locali per l’avvio di un macro-progetto di semina e coltivazione di canapa all’interno del carcere per sviluppare successivamente aree progettuali artigianali nel settore tessile, cartaceo e alimentare. Firenze: "detenute morse dai topi nelle celle", la denuncia della Uil-Pa Penitenziari gonews.it, 4 novembre 2015 Ci giunge notizia solo oggi di un fatto davvero increscioso, ovvero la presenza di topi nelle sezioni detentive, nello specifico nelle stanze di pernottamento delle detenute. Sembrerebbe che alcuni giorni fa, due detenute, durante la notte, siano state morse dai topi, le quali sono dovute ricorrere alle cure sanitarie del vicino pronto soccorso. Quanto è accaduto è gravissimo essendo presenti in tali sezioni anche bambini al di sotto dei tre anni. Questa la denuncia di Eleuterio Grieco, Coordinatore Provinciale della Uil-Pa Penitenziari di Firenze. Le problematiche gestionali e strutturali di Sollicciano sono state puntualmente denunciate dalla Uil-Pa Penitenziari a tutti i livelli, ma evidentemente la classe dirigente di questa amministrazione ha perso la misura delle proprie responsabilità e la garanzia di quelli che sono i diritti sanciti dalla carta costituzionale, sia per ciò che concerne la detenzione che per quanto riguarda i diritti del personale di Polizia Penitenziaria e del Comparto Ministeri e di quanti accedono nella struttura. Aggiunge Grieco - lavorare in contesti disorganizzati, insalubri, fatiscenti, pericolanti e senza nessuna forma di tutela, fa si che tutto il sistema vada in un decadimento che porta a schiacciare le libertà ed i diritti individuali. In conclusione Grieco afferma è necessario un cambiamento di tutta la catena di comando per ristabilire quell’l’insieme di regole che sono in vigore in uno Stato e che rispondono al bisogno di ognuno ovvero di vivere in una società il più possibile ordinata e tranquilla. Frosinone: detenuto tenta il suicidio ingerendo 15 pile, portato in ospedale è fuori pericolo di Marina Mingarelli Il Messaggero, 4 novembre 2015 Il drammatico episodio è avvenuto ieri mattina intorno alle 13,30 all’interno del carcere di via Cerreto a Frosinone. Autore del terribile fatto un detenuto di 40 anni. Forse una crisi depressiva la molla che lo ha indotto all’insano gesto. Sta di fatto che ieri mattina i compagni di cella hanno dato l’allarme agli agenti di polizia penitenziaria quando hanno visto il loro compagno in preda a dei fortissimi dolori. L’ambulanza del 118 ha trasportato il detenuto presso l’ospedale di Frosinone. Ed è stato proprio nel corso della gastroscopia che si è scoperto il motivo di quei dolori lancinanti. L’uomo aveva ingoiato ben quindici pile. Il medico che lo ha visitato ha impiegato circa tre ore per estrarre con una pinze particolare le piccole batterie dal suo stomaco. A questo c’è da aggiungere che il paziente è affetto anche da patologie cardiache. Dunque per evitare possibili complicazioni si è dovuto procedere con molta cautela. Dalle informazioni ricevute sembra comunque che l’uomo, ricoverato nel nosocomio frusinate, sia ora fuori pericolo. Non è la prima volta che all’ interno del carcere i detenuti cerchino di togliersi la vita. Qualcuno, meno fortunato del quarantenne è riuscito a porre fine ai suoi giorni, qualcun altro è stato salvato in extremis dalle guardie carcerarie. Sovente - dicono gli psichiatri- il regime carcerario, proprio perché così restrittivo, porta a peggiorare situazioni che erano già considerate "a rischio". Già da tempo il "Sappe" (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) ha evidenziato le numerose malattie psichiatriche delle quali soffrono tanti detenuti. Da qui la necessità di aumentare le unità lavorative proprio per tutelare maggiormente la salute fisica e mentale dei carcerati. Augusta (Sr): inaugurata un’area verde adibita a parco giochi per i figli dei detenuti siracusanews.it, 4 novembre 2015 Il 23 Ottobre 2015 si è svolta presso il carcere di Augusta l’inaugurazione del parco giochi allestito in un cortile adibito a luogo d’incontro tra i detenuti e i loro piccoli. Durante il 2015 sono state svolte numerose iniziative promosse dai detenuti stessi in collaborazione con l’Inner Wheel di Augusta, Club Service impegnato nel sostegno e nel servizio per le categorie fragili della società e del territorio. Spettacoli teatrali, concerti di Natale, vendita di manufatti sono alcune delle iniziative che hanno visto come protagonisti i detenuti e che hanno accolto numerosi consensi tra la cittadinanza megarese. L’Inner Wheel Club di Augusta ha sostenuto e aiutato fattivamente nella realizzazione degli eventi e ha provveduto all’acquisto di alcuni giochi da giardino che renderanno più naturale e spensierato per i figli dei detenuti l’incontro con i genitori tra le mura del carcere. Alla presenza di una rappresentanza dei detenuti, delle socie Inner Wheel, dei giornalisti, della polizia penitenziaria e del personale della casa circondariale di Augusta, dopo i saluti del Direttore della casa di reclusione il Dott. Antonino Gelardi e della Presidente del club Inner Wheel di Augusta Ivana Amato Sarcià è avvenuta l’inaugurazione del parco giochi incastonato in una suggestiva cornice rappresentata da murales realizzati dai detenuti stessi. Dopo l’inaugurazione la Dott.ssa Lo Iacono, magistrato e scrittrice ha presentato insieme ad alcuni detenuti il prossimo progetto in corso d’opera per il Natale, una rappresentazione teatrale basata sulle storie dei detenuti. Jungle city, la nuova frontiera interetnica di Marino Ficco Il Manifesto, 4 novembre 2015 Francia. Ottomila disperati alla periferia di Calais in attesa di attraversare la Manica e arrivare in Gran Bretagna. Ad aprile in Francia è nata una nuova "città". La chiamano la "Jungle" (la giungla) di Calais. Si trova a nord-est del Paese, non lontano da Inghilterra e Belgio. Si sviluppa in un terreno paludoso grande un chilometro per cinquecento metri vicino al mare. Alla sua fondazione accoglieva 2000 abitanti provenienti da molti Paesi d’Europa, Asia e Africa. Questa colonia è diventata in pochi mesi il terzo agglomerato più popolato del comune di Calais. Al 24 ottobre le autorità francesi stimano che la Jungle ospiterebbe 8000 abitanti. "Gli abitanti della Jungle vengono da paesi in conflitto o sono fuggiti da un sistema economico asfissiante ed ingiusto", spiega Assan, che viene dal Darfur, dove studiava lingue. Adesso spera di poter riprendere i suoi studi a Londra o Manchester al più presto. Gani è kosovaro. Vive qui da quattro mesi. È molto spigliato e si regge su due stampelle. "Mi sono rotto la gamba destra cadendo dal treno che collega Parigi a Londra", dice in un francese perfetto. "So che è pericoloso ma appena potrò ci riproverò perché in Kosovo non c’è lavoro e poi mi piace tanto l’Inghilterra" ribadisce con orgoglio dopo averci dato il suo biglietto da visita, dove l’indirizzo che appare è Prishtine Hotel Jungle. La Jungle è il campo profughi voluto dal sindaco Natacha Bouchart nella periferia di Calais lo scorso aprile. In questo modo si è voluto concentrare tutti i migranti in fuga da fame, guerre e disequilibri economici in un unico terreno fino ad allora inutilizzato e abbastanza lontano dal centro abitato e turistico. Inutilizzato per due motivi: è una zona d’interesse ecologico e faunistico di tipo 1 (Znieff), cioè sarebbe un’area protetta intoccabile; al tempo stesso la Jungle si trova in una zona Seveso, cioè considerata a rischio per la presenza di due industrie altamente tossiche e pericolose quali la Interor e la Synthexim. Da aprile i migranti non hanno il diritto di accamparsi altrove. "Lì non danno più fastidio a nessuno e adesso la città è più pulita" dice un ristoratore che lavora nella piazza principale di Calais. Eurotunnel e porto presidiati. La città non sembra più la stessa. Oramai è quasi impossibile imbattersi in un migrante e sono state cancellate tutte le tracce del loro passaggio. Tuttavia continuano a lamentarsi gli operatori turistici della zona, secondo i quali la presenza dei migranti in città avrebbe fatto perdere loro molti clienti. Eppure a partire da aprile il ministro degli Interni Cazeneuve ha incrementato quasi ogni mese la presenza delle forze dell’ordine a presidio dell’Eurotunnel e del porto. Molto spesso questi poliziotti vengono da regioni molto lontane (Alsazia ed Ile de France) e passano le loro trasferte pernottando negli hotel della zona. Inoltre gli albergatori che si lamentano dimenticano che numerose famiglie più agiate degli altri migranti (soprattutto siriane) preferiscono pernottare in hotel piuttosto che nella Jungle pagando in nero grazie alla complicità degli albergatori stessi. Per arrivare alla Jungle bisogna superare il porto, entrare nella zona industriale e continuare finché sei camionette delle Crs (corpo di polizia anti-sommossa francese) annunciano l’ingresso ovest. Da qui seguiamo Muhamed, un giovane iracheno fuggito dall’avanzata di Daesh che è contentissimo di poter parlare con qualcuno. In mano ha "The Secret Adversary", un romanzo di Agatha Christie. L’ha preso in una delle numerose biblioteche della Jungle: "così potrò migliorare il mio inglese". Ci chiede di seguirlo fino alla sua tenda, nella zona degli iracheni. Gli abitanti della Jungle si sono raggruppati per Paese di provenienza o per etnia. Il "quartiere" irakeno è abitato prevalentemente da curdi. Famiglie intere composte da nonni, genitori e bimbi di pochi anni. I più fortunati, coloro che hanno ancora un po’ di soldi e quanti si sono stabiliti da più di un mese vivono in delle baracche fatti di legno, plastica e stoffa. Tutti gli altri si devono accontentare di una tenda che in altri contesti farebbe la gioia dei campeggiatori e degli scout. Aspettando il passeur. Muhamed, muratore di 44 anni, viene da un paese vicino Mosul. Ha portato tutta la famiglia a Calais. "Vorrei raggiungere mio fratello in Inghilterra per poter ricominciare a vivere tranquillo e per dare un futuro ai miei figli". Sorseggia un thè in attesa di essere chiamato dal "passeur" (lo scafista) per provare a raggiungere l’Inghilterra nascondendosi in una macchina o in un camion che si imbarcherà in uno dei numerosi ferry diretti alle bianche scogliere di Dover. La Jungle è attraversata da due strade principali nord-sud e ovest-est. Attorno a queste vie principali gli afghani hanno aperto tanti ristoranti e qualche negozio. Il momento della cena è l’occasione per conoscere Ahmed, cuoco cinquantenne nato a Kabul e da tre anni in Italia. Dopo aver ottenuto i documenti ha lavorato per tre anni nella ristorazione a Catania. "Quattro mesi fa sono stato licenziato e sono stato costretto a partire per cercare lavoro in Inghilterra" ci racconta in un italiano perfetto con un accento siciliano. "Poi sono arrivato qui a Calais. Ho visto le condizioni in cui viveva la gente e ho deciso di aprire un ristorante. Penso di rimanere otto o nove mesi e poi tornerò a Catania". Da fuori il locale è anonimo. La struttura improvvisata in lamiera, cartone e assi di legno cela al suo interno un unico ambiente ben riscaldato ed illuminato grazie ad un generatore. Sulla destra si trova la cucina ed una bacheca con il menu: riso, carne, verdure, patatine fritte, acqua, birra, thè e caffè sono sempre disponibili. Un pasto completo costa mediamente tre euro a persona. Mentre mangiamo un buonissimo riso accompagnato da pollo arrosto ne approfittiamo per osservare le pareti ricoperte da stoffe e tessuti dai colori e motivi più disparati. Per strada è possibile comprare beni alimentari e di elettronica fino a tardi a prezzi non molto differenti da quelli disponibili in città. Night club Etiopia. È sabato sera. Le strade ed i ristoranti sono pieni di giovani che hanno voglia di divertirsi e di scaricarsi un po’ dallo stress. Esiste addirittura un teatro, da dove esce il suono elegante di lontane note iraniane. "Tenaistellin! Demen andaru?" Non trovando ristoranti etiopi, proviamo a chiedere in amarico a tre ragazzi di Addis Abeba dove possiamo gustare dell’autentico ‘ndoro wat. Dopo averli seguiti per qualche minuto ci ritroviamo in un night club etiope ed eritreo. Gli etiopi hanno preferito concentrarsi su questo genere di esercizi commerciali. E infatti nella loro zona è pieno di discoteche dove è possibile trovare, oltre alla musica, alcol, droghe e prostitute. L’indomani mattina i cristiani etiopi ed eritrei festeggiano la ricorrenza dell’arrivo del cristianesimo nel Corno d’Africa e ci invitano alla Messa nella chiesa principale, che dura dalle 8 di mattina fino alle 12, terminandosi con un pranzo comunitario. La chiesa è semplice ma elegante e funzionale come gli altri numerosi edifici di culto della Jungle come le chiese protestanti e le moschee. "Ma in tutto questo che fa lo Stato?", si chiede Yoann, giovane studente che è venuto da Parigi per vedere con i propri occhi la situazione. Il ministro dell’interno Cazeneuve ha annunciato che sarà incrementata la presenza delle forze dell’ordine. Inoltre verranno distribuite delle "tende riscaldate" ed aumenteranno i posti letto per donne e bambini al centro d’accoglienza diurno Jules Ferry. Da aprile ogni giorno centinaia di volontari provenienti da Inghilterra, Francia ed altri Paesi si mettono a completa disposizione per provare a migliorare le condizioni di vita dei residenti della Jungle. Insieme alle grandi associazioni ed Ong, tutte presenti, da Medici Senza Frontiere alla Caritas, è una vera e propria gara di solidarietà tra famiglie che portano vestiti, cibo, materiale da costruzione, professori che vengono ad insegnare il francese, addirittura bimbi che vengono a condividere i loro giocattoli… François studia lingue a Lille e viene ogni fine settimana per organizzare dei corsi di lingua nella scuola che si trova vicino al cinema. "Un giorno una mia amica mi ha invitato a conoscere dei suoi amici sudanesi che vivevano qui e da allora non me ne sono più andata", racconta Marguerite, che il 24 sera ha organizzato la proiezione del film di Chaplin "Tempi moderni" che ha riscosso un grande successo. Ad ogni ora del giorno e della notte arrivano furgoni carichi di cibo e vestiti. Spesso vengono distribuiti senza alcuna logica con lunghe code che causano momenti di tensione e talvolta di violenza. Manca una gestione dei rifiuti, che spesso vengono bruciati causando nubi nere di diossina. "Manca una gestione centrale di tutti gli aiuti che la società civile vorrebbe apportare a questi 8000 disperati", commenta frustrato, un pensionato di Bruxelles che vorrebbe distribuire vestiti e sapone ma non ha idea di come muoversi e a chi rivolgersi. È sabato sera, prima di andare in tenda seguiamo la luce di una lampada all’interno della chiesa etiope. Un uomo è chino con un pennello su una tela dove cominciano a delinearsi i tratti di un angelo che infilza un demone con una lancia. "Sono un artista. Sono un pittore eritreo. Sono io che decoro la chiesa". Così si introduce Paulos. Come lui altre 8000 persone, altre 8000 storie, dimenticate dietro i numeri e le generalità. Mentre la popolazione della Jungle aumenta. Il ricatto di Ankara e i timori balcanici di Angela Merkel di Carlo Lania Il Manifesto, 4 novembre 2015 "Adesso il mondo dovrà rispettarci", manda a dire Recep Tayyip Erdogan forte del successo elettorale ottenuto domenica dal suo Akp. Un messaggio rivolto a tutti, ma in modo particolare ai leader europei che di fronte alle violazioni di diritti umani, ai giornalisti incarcerati e alla repressione dei curdi fino a oggi hanno preferito prendere tempo e non rispondere alle richieste avanzate dalla Turchia di accelerare il processo di integrazione all’Unione europea, ma soprattutto di vedersi riconosciuto come un alleato sicuro nel fronteggiare le due cose che oggi l’Europa teme forse più di tutto: i terroristi dell’Isis e una nuova ondata di profughi diretti verso le sue frontiere. Non a caso mentre la Casa Bianca non nasconde la preoccupazione per il successo ottenuto dal Sultano, da Bruxelles arrivano parole molto più caute. Come quelle usate ieri dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk che in una lettera inviata al premier turco Ahmet Davutoglu per congratularsi del risultato ottenuto, ha si ricordato come le elezioni si siano svolte "in una situazione di sicurezza difficile e in un contesto di crescenti restrizioni per i media", ma si è anche affrettato ad augurarsi una ripresa veloce del negoziato sulla crisi dei migranti e sull’ingresso della Turchia nell’Ue. Per l’Europa del resto il tempo dell’attesa è finito ed è arrivato il momento di trovare un accordo con Ankara, "piaccia o non piaccia", come ha ricordato qualche giorno fa il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. L’Ue aspettava di vedere come sarebbero finite le elezioni sperando in un successo meno netto di Erdogan per poter trattare da una posizione di vantaggio. Per questo ha rimandato a dopo la chiusura delle urne una risposta alle richiesta di liberalizzazione dei visti, di classificazione della Turchia come paese sicuro e di ripresa del percorso di avvicinamento all’Ue. Tutti punti che il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermas aveva inserito in un accordo con Ankara dato per fatto alla fine di settembre ma bocciato dai capi di Stato e di governo. Che pure non hanno chiuso nessuna porta alla trattativa, come dimostra la decisione di rimandare la pubblicazione dell’annuale rapporto sulla Turchia dove, stando a quanto anticipato dalla Reuters, non mancherebbero pesanti critiche per l’adozione "di una legislazione nel campo della libertà di espressione e di assemblea che va contro gli standard europei". Un giudizio che va in senso decisamente contrario ai desiderata di Ankara. I dubbi e le incertezze adesso rischiano però di passare in secondo piano di fronte alla necessità sempre più urgente di convincere Erdogan a fermare i migranti. Necessità che fa leva anche su una forte pressione economica, visto che l’Ue ha promesso tre miliardi di euro l’anno per la realizzazione di nuovi campi profughi in Turchia e un maggior controllo delle frontiere. Che da oggi l’Europa possa essere sotto ricatto da parte di Ankara sembra quindi quasi scontato. Anche perché a peggiorare le cose non mancano nuovi segnali della rottura che la crisi dei profughi ha creato in seno all’Unione. Uno arriva dal parlamento ungherese che ieri ha votato a stragrande maggioranza, 141 voti contro 27 e una sola astensione, una risoluzione con cui Budapest contesta alla Commissione europea il diritto a istituire una sistema di quote per la distribuzione dei migranti tra i paesi membri. Un altro bastone tra le ruote del già fragile meccanismo dei ricollocamenti. E che va ad aggiungersi alla pericolosa rete di micro conflitti in corso nei Balcani sulla gestione dei profughi. Conflitti che preoccupano molto Angela Merkel che teme lo scoppio di nuovi conflitti nell’area. "Non voglio dipingere tutto a tinte fosche - ha confidato ieri la cancelliera in un incontro di partito - ma accade più velocemente di quanto si pensi che da una lite si passi a una zuffa e da questa a cose che non vogliamo. Non vorrei che lì (nei Balcani, ndr) fossero di nuovo necessari dei confronti militari". Canapa medica, il decreto Stato-Regioni di Giorgio Bignami Il Manifesto, 4 novembre 2015 Il 20 ottobre scorso la Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di decreto del Ministro della Salute "Organismo statale per la Cannabis", il primo passo per l’uso terapeutico della canapa. Ma le ombre non mancano. Il 20 ottobre la Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di decreto del Ministro della Salute "Organismo statale per la Cannabis": un atto previsto dalla Convenzione internazionale sulle droghe, per la disciplina delle autorizzazioni alla coltivazione della pianta di canapa. In questa e in altre sedi si sono spesso denunciate la lentezza e la vischiosità delle operazioni mirate ad eliminare i molti ostacoli che per lungo tempo hanno minimizzato la disponibilità della cannabis terapeutica - quindi a prima vista il decreto pare un pur tardivo passo in avanti. In effetti, esso consente un notevole ampliamento delle indicazioni terapeutiche rispetto a quanto approvato nel 2013 per il Sativex. Cioè oltre all’uso per i fenomeni spastici dolorosi nella sclerosi multipla, sono previsti: l’uso nel dolore neuropatico di altra natura; l’uso antiemetico e anticinetosico nei pazienti oncologici e con Aids sofferenti per le terapie ricevute; l’uso a scopo ipotensivo nel glaucoma; l’uso mirato a stimolare l’appetito in caso di anoressia e cachessia in pazienti oncologici o affetti da Aids o da anoressia nervosa, e quello mirato alla riduzione dei movimenti involontari nella sindrome di Gilles de la Tourette. Positiva è anche l’indicazione di un’ampia gamma di forme farmaceutiche, comprese quelle più vicine al prodotto naturale (estratti, tinture), utilizzabili per le preparazioni galeniche magistrali e assumibili per diverse vie, compreso il vaporizzatore. Ciò costituisce un riconoscimento sia del valore dei prodotti che conservano l’intero mix dei numerosi principi attivi della Cannabis, sia dell’importanza delle preferenze dei singoli pazienti, espresse attraverso il dialogo con i curanti, per l’uno o l’altro tipo di prodotto e l’una o l’altra via di assunzione (a condizione ovviamente di non pregiudicare l’effetto terapeutico). Il provvedimento, tuttavia, contiene alcune gravi "magagne" che ne sminuiscono non poco il valore. Primo, tutte le suddette indicazioni sono "per esclusione", cioè autorizzate solo dopo il fallimento delle terapie sinora in uso. Questa è una limitazione inaccettabile: per esempio, nei pazienti con gravi effetti collaterali delle terapie oncologiche, i rimedi disponibili sono in genere assai meno efficaci dei preparati di cannabis, che andrebbero quindi considerati "prima scelta". (Non vi è spazio per discutere cosa possa accadere al prescrittore che non rispetti la clausola "per esclusione", di fatto un equivalente della frequentissima prescrizione "off the label" di farmaci o analisi - cioè al di fuori delle indicazioni ufficialmente approvate). Inoltre, se è legittimo l’avvertimento contro l’uso di cannabis in bambini e adolescenti ancora lontani dal completamento dello sviluppo, pare ingiustificata, se non addirittura terroristica, l’insistenza sulla frequenza e gravità dei danni soprattutto neuropsichici. Molti di questi, infatti, sono stati ripetutamente "scontati" da qualificate analisi in base a una più puntuale disamina del ruolo dei fattori concomitanti cosiddetti di confondimento. Infine, come già notato dai radicali, mentre il decreto è in accordo col Testo Unico del 1990, che consente a chiunque di candidarsi per la coltivazione di cannabis, l’allegato, parte integrante del decreto stesso, in base al precedente accordo col Ministero della Difesa conferma il monopolio della coltivazione e successive lavorazioni dello Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze. Così si creano le premesse per un contenzioso che rischia di riprodurre quelle vischiosità e quegli ostacoli di cui si è detto all’inizio. Stati Uniti: Obama all’attacco della "deriva punitiva" per mitigare gli effetti del carcere di Luca Celada Il Manifesto, 4 novembre 2015 Lunedì il presidente Obama ha disposto che le agenzie federali non debbano considerare i precedenti penali come discriminanti nell’assunzione di impiegati statali. Il provvedimento fa parte della più recente battaglia di Obama: mitigare la portata e gli effetti sociali del mastodontico sistema criminale penale del paese che incarcera 2,3 milioni di cittadini, la più alta percentuale al mondo. Fra le conseguenze della detenzione sistematica c’è la privazione dei diritti civili, compreso il diritto al voto degli ex detenuti. Un precedente penale grave squalifica anche automaticamente dal servizio militare e fino ad oggi dall’assunzione come impiegato federale. Il complesso penale-industriale è una delle moderne anomalie americane, come il sistema sanitario pubblico disastrosamente inefficiente ed iniquo o la cultura e diffusione delle armi da fuoco le cui conseguenze sono tristemente note. Obama ha investito quasi tutto il proprio iniziale capitale politico nel tentativo di riformare la sanità. Sulle armi, malgrado una agghiacciante catena di stragi, non è riuscito a sbloccare la potente opposizione della lobby delle armi (e di una diffusa cultura nazionale). La riforma del sistema penale di massa potrebbe essere una delle ultime spinte riformiste della sua amministrazione. La "deriva punitiva" rappresenta un fenomeno relativamente recente pur nell’ambito di un sistema giudiziario notoriamente severo. Il numero di detenuti in America è praticamente quadruplicato nei quarant’anni dall’era reaganiana. Grazie alla retorica sulla sicurezza e l’ordine pubblico del movimento conservatore si sono diffuse leggi che impongono severissime condanne ai recidivi. Il modello è stata la famigerata "three strikes" che in California obbliga i giudici ad imporre condanne di oltre venti anni al terzo reato anche se minore. Parallelamente la war on drugs, la "tolleranza zero" nella futile guerra alla droga varata da Nixon, ha avuto l’effetto di riempire le galere di milioni di individui condannati per crimini non violenti legati all’uso e lo spaccio di stupefacenti; la criminalizzazione cioè dell’economia del "proletariato etnico". La guerra alla droga, che non ha intaccato i grandi conglomerati del traffico, si è tradotta così soprattutto in guerra ai poveri e alle minoranze. È paradigmatica in questo senso la penalizzazione della cocaina che prevede pene assai più severe per lo spaccio di crack di uso prevalente fra neri che per la coca in polvere, preferita da bianchi facoltosi. Un sistema penale punitivo che non prevede alcuna vera riabilitazione, ma anzi si assicura di ostacolare il reinserimento degli ex detenuti imponendo le squalifiche al voto e all’impiego. Dato che il 40% dei detenuti sono afro americani (che rappresentano solo il 13% della popolazione nazionale) il sistema assicura la massiccia sottrazione di diritti civili dalle minoranze e rappresenta un meccanismo di controllo sociale che spesso inizia nelle scuole militarizzate e pattugliate dalle forze dell’ordine. A fronte di un fenomeno ormai insostenibile, Obama, attraverso il suo primo attorney general, Eric Holder, ha cominciato ad articolare la critica a un sistema razzista che sostiene per di più un fiorente settore di prigioni private che si aggiudicano lucrosi appalti statali. Holder è stato il primo ministro di giustizia a denunciare "un utilizzo eccessivo della carcerazione" come rimedio sociale, insostenibile in termini economici oltreché "umani e morali". Una fondamentale inversione di tendenza rispetto al giustizialismo e l’omertà politica che per quarant’anni hanno riempito le galere americane. Holder e Obama, che a luglio è stato il primo presidente in carica a visitare un penitenziario federale, hanno attaccato il "circolo vizioso di povertà, criminalizzazione e incarcerazione che intrappola troppi americani". Dopo una prima mandata di amnistie per detenuti che scontavano lunghe pene per stupefacenti, il provvedimento contro la squalifica degli ex detenuti rappresenta l’ultimo passo di un tentativo di riforma che comincia a trovare consensi anche dentro l’ipertrofico apparato di giustizia e che potrebbe rappresentare una delle ultime significative battaglie politiche dell’era Obama. Pakistan: pena di morte; eseguite altre 4 condanne, da dicembre oltre 250 esecuzioni Aki, 4 novembre 2015 Altre quattro condanne a morte a morte sono state eseguite nella provincia del Punjab, in Pakistan. Secondo la tv locale Dunya, un detenuto è stato impiccato stamani all’alba nella prigione di Kasur e altri tre prigionieri sono stati impiccati nel carcere di Gujarat. I detenuti mandati al patibolo erano stati tutti condannati per omicidio. L’uomo impiccato a Kasur aveva ucciso un connazionale a Lahore nel 1998. I tre impiccati a Gujarat avevano assassinato due fratelli nel 2000. Il Pakistan ha deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone, per lo più bambini. Da allora, secondo Dunya, sono state eseguite più di 250 condanne.