"Stanze dell’affettività": oggi i detenuti di Padova in collegamento skype con la Camera Corriere del Veneto, 3 novembre 2015 Proposta di legge per realizzare in carcere le "stanze dell’affettività famigliare", dove i detenuti possano vivere la loro affettività. Primo firmatario della proposta di legge è il parlamentare padovano del Pd Alessandro Zan. Martedì 3 novembre in commissione giustizia alla Camera, audizione in videoconferenza via skype con alcuni detenuti del carcere di Padova che porteranno la loro testimonianza. E interverranno anche una figlia e la moglie di un detenuto che racconteranno le difficoltà di relazione in carcere. Per la prima volta un gruppo di carcerati che sta scontando la pena in una sezione di alta sicurezza verrà ascoltato in Parlamento. E saranno sentite in audio-conferenza anche le famiglie. La proposta di legge di Alessandro Zan punta a concedere ai detenuti il diritto all’intimità: figli, mogli, mariti, fidanzati, conviventi, amici. Un diritto che in altri paesi europei è già legge. Le "stanze dell’affettività" prevedono una visita al mese che può durare dalle 6 alle 24 ore in locali realizzati appositamente, senza controlli visivi e auditivi. Sulla proposta di Zan, realizzata in collaborazione con Ristretti Orizzonti e sottoscritta da altri 20 parlamentari di vari partiti, è già polemica. Nicola Molteni della Lega Nord, su Facebook ha accusato la proposta di legge di "trasformare il carcere in un bordello". Ma Zan chiarisce: "Il sesso non c’entra nulla, qui stiamo parlando di altro. Un detenuto è giusto che venga punito perché ha commesso un reato, ma non è giusto che sia punita anche la famiglia. La proposta per il diritto all’affettività vuole garantire soprattutto ai figli una situazione di famiglia e di intimità più riservata per gli incontri, riproducendo una situazione di vita famigliare. Sono luoghi dove ci potrà essere sicuramente un bacio, degli abbracci, delle carezze affettuose, ma non incontri sessuali. Esistono già nelle carceri di tutta Europa luoghi di questo tipo, è un diritto di civiltà, solo in Italia non esistono. L’obiettivo è garantire la continuità affettiva ai familiari dei detenuti, soprattutto ai coniugi e ai figli, che attualmente si vedono costretti a fare visita in carcere ai propri cari senza alcuna garanzia di riservatezza e in locali inadeguati, in presenza di molte altre persone. Non a caso martedì, nella prevista audizione via Skype dal carcere di Padova, i parlamentari della commissione Giustizia potranno ascoltare la testimonianza diretta della figlia e della sorella di un ergastolano. Non possiamo permettere che il regime carcerario, così come è attualmente strutturato, annienti l’affettività di queste famiglie, causando ulteriori sofferenze anche a chi non ha colpe". Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia alla Camera, dice: "Il diritto all’affettività dei detenuti è una questione di sesso in carcere: il problema è ben più serio e investe il rispetto della dignità umana e la necessità di garantire accettabili e non umilianti condizioni di vita negli istituti di pena. L’audizione in Parlamento dei carcerati di martedì è innovativa per le modalità - spiega l’esponente del Pd. Ci sembra importante, nell’ambito dell’istruttoria su diverse proposte di legge che riguardano il diritto all’affettività, conoscere più nel dettaglio il modello operativo virtuoso sperimentato nel carcere di Padova". Del resto, sottolinea Ferranti, "il riconoscimento del diritto all’affettività dei reclusi è contenuto già nei principi di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario che abbiamo di recente approvato alla Camera votando la riforma del processo penale". La presidente della commissione Giustizia, respinge le accuse leghiste: "È propaganda e banalità l’idea che si voglia trasformare le celle in bordelli: il diritto all’affettività non coinvolge solo i detenuti, ma si estende a tutte quelle persone, dal coniuge ai figli e ai familiari, con cui vi è un rapporto d’amore che il carcere non può e non deve spezzare". Una stanza per l’amore in carcere: al via l’iter parlamentare della legge di Ilario Lombardo Il Secolo XIX, 3 novembre 2015 Nei casi di buona condotta concessi "spazi di intimità affettiva" con mogli e compagne. Alessandro Zan, ex Sel, oggi deputato convertito al renzismo, chiede di non ridurre tutto a una questione di "sesso". E non gli piace troppo che ora si parli solo di "stanze dell’amore". Ci scuserà, l’onorevole, la sintesi giornalistica a volte è brutale, ma in questo caso è giustificata dai fatti e dalle loro logiche conseguenze. La sua proposta di legge che oggi inizierà il cammino parlamentare prevede di concedere ai detenuti che si sono comportanti meglio spazi di intimità dentro i quali condividere, per un tempo limitato, gli affetti familiari, con tutto quello che questo significa e comporta. A determinate condizioni, e sempre sotto l’egida del giudice di sorveglianza, i carcerati potranno vedere figli, conviventi, fidanzati, mogli e mariti "in locali adibiti e realizzati a tale scopo senza controlli visivi e auditivi". La proposta, erede di quella dei radicali che nella battaglia contro l’ergastolo hanno sempre cercato di addolcire di umanità le condizioni nelle patrie galere, è nata a Padova, città di Zan, dopo aver osservato, grazie all’associazione Ristretti Orizzonti, quanto forti fossero le esigenze dei figli di stare più tempo possibile con i propri genitori. "Le colpe che i padri o le madri è giusto che paghino non possono ricadere sui figli" spiega Zan che ha già raccolto tra Sei e Pd altri 20 firmatari a sostegno della propria legge. L’impianto piace anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando e non è escluso che, qualora ci dovessero essere difficoltà lungo la strada parlamentare, si opterà per una delega al governo. Intanto sono stati fissati i principi di una norma che estende i permessi "di necessità" anche ad "eventi familiari di particolare rilevanza affettiva". Spente le telecamere, nessuno può impedire ai carcerati che in quelle stanze si consumino anche rapporti di amore, che certo sono classificabili tra gli "eventi di particolare rilevanza affettiva". "È ovvio - continua Zan - visto che non ci sono guardiani né occhi orwelliani, c’è la possibilità di godere di un’intimità anche sessuale". È quella una libertà che diventerebbe possibile in un luogo dove la libertà non c’è. Uno scampolo di normalità in una situazione che normale non è : fare del proprio corpo, costretto in una stanza di pochi metri quadrati, lo strumento di una dignità riconquistata. Zan è prudente a parlare di sesso, come invece non lo sono mai stati i radicali, perché non vuole che il dibattito si riduca "all’imbarbarimento di chi come la Lega dice già che stiamo aprendo i bordelli nei carceri". Non sarà così, non è così. Basta leggere il testo che prevede visite della durata minima di sei ore e massima di 24 ore, per un totale di 45 giorni all’anno, circa quattro giorni al mese di media. E potranno beneficiarne "solo i condannati che hanno tenuto una regolare condotta". La legge si porta dietro anche un’altra grande novità. Per la prima volta nella storia dal dopoguerra in poi saranno audite da una commissione parlamentare persone che stanno scontando la propria pena in una prigione. Il colloquio avverrà via Skype. Debutteranno i detenuti del carcere di Padova. Poi potrebbe toccare anche agli ergastolani. Oggi, però, cominceranno le famiglie. La figlia e la sorella di un carcerato racconteranno la voglia di amare e di abbracciare che le sbarre di una cella non potranno mai cancellare. "Stanze dell’amore", scontro tra Pd e Lega sul sesso in carcere di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 3 novembre 2015 La commissione Giustizia della Camera ascolterà oggi in audio-conferenza dal carcere Due Palazzi la testimonianza dei familiari di due detenuti, che sosterranno la proposta di legge presentala da Zan (Pd) per l’avvio dei colloqui riservati dei reclusi con i loro familiari. Martedì 3 novembre, in commissione giustizia alla Camera, audizione in videoconferenza con due detenuti del carcere patavino Due Palazzi. Ne dà notizia un deputato della Lega Nord, Nicola Molteni, che in un post su Facebook si scaglia contro la proposta definendola "ennesimo delirio targato Pd, galere come bordelli". Mogli, mariti, fidanzati, figli, ma anche amanti, conviventi, amici: la proposta di legge per concedere ai detenuti il diritto all’intimità, diritto che in altri paesi europei è già legge, inizierà così il suo iter legislativo in commissione Giustizia. Per la prima volta nella storia repubblicana verrà audito in Parlamento un gruppo di carcerati che stanno scontando la pena nella sezione di alta sicurezza del carcere di Padova. I tecnici della Camera hanno già predisposto la logistica. Il Dap ha dato la sua autorizzazione: Il collegamento verrà effettuato via Skype. Ci saranno anche ergastolani, verranno sentite anche le famiglie, una figlia e una sorella porteranno la loro testimonianza. Nella proposta di legge portata avanti da Zan e firmata da 20 parlamentari, non solo del Partito democratico, è prevista una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di 24 ore "in locali adibiti e realizzati a tale scopo senza controlli visivi e auditivi". Ma una secca smentita arriva dallo stesso primo firmatario, Zan: "Niente a che fare con il sesso, la proposta di legge vuole solo aumentare i colloqui famigliari con chi ha un caro dietro le sbarre - sottolinea il deputato padovano del Pd - oggi i colloqui avvengo in stanzoni grandi alla presenza di altre persone. Non è giusto per la privacy, i figli, ma anche il coniuge non hanno commesso nulla e hanno il diritto di avere con il loro caro un rapporto riservato. Al massimo ci si potrà avere il bacio, ma la notizia delle stanze dell’amore è travisata e esagerata". "Sarebbe buona cosa non strumentalizzare una tematica complessa e delicata come il diritto all’affettività dei detenuti riducendola a una questione di sesso in carcere: il problema è ben più serio e investe il rispetto della dignità umana e la necessità di garantire accettabili e non umilianti condizioni di vita negli istituti di pena". Così Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia alla Camera. "È un’audizione innovativa per le modalità - spiega l’esponente del Pd - che abbiamo deciso a maggioranza di tre quarti dei componenti in ufficio di presidenza, perché ci sembra importante, nell’ambito dell’istruttoria su diverse proposte di legge che riguardano il diritto all’affettività, conoscere più nel dettaglio il modello operativo virtuoso sperimentato nel carcere di Padova". Del resto, sottolinea Ferranti, "il riconoscimento del diritto all’affettività dei reclusi è contenuto già nei principi di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario che abbiamo di recente approvato alla Camera votando la riforma del processo penale". La presidente della commissione Giustizia, dunque, respinge come "propaganda e banalità l’idea che si voglia trasformare le celle in bordelli: il diritto all’affettività - osserva - non coinvolge solo i detenuti ma si estende a tutte quelle persone, dal coniuge ai figli e ai familiari, con cui vi è un rapporto d’amore che il carcere non può e non deve spezzare e che può invece favorire il recupero e il reinserimento. Ciò che va approfondito e verificato, in definitiva, sono le modalità per consentire la continuazione delle relazioni affettive esistenti prima della detenzione senza tuttavia pregiudicare le esigenze di sicurezza". Inizia da Padova l’iter per realizzare le "stanze dell’amore" in carcere padovaoggi.it, 3 novembre 2015 La proposta di legge è stata presentata dal deputato padovano del Partito Democratico Alessandro Zan. Oggi, in commissione Giustizia, audizione in videoconferenza con due detenuti del Due Palazzi Inizia oggi, l’iter in commissione Giustizia per la realizzazione delle "stanze dell’amore" in carcere, ovvero locali idonei dove i detenuti possano intrattenere rapporti affettivi senza controllo visivo. La proposta di legge sull’affettività in carcere, è stata presentata dal deputato padovano del Partito Democratico Alessandro Zan. Martedì, saranno ascoltati in videoconferenza due detenuti del carcere di Padova. "Questa proposta di legge prevede l’introduzione nel nostro ordinamento di una norma di civiltà già vigente nei principali Paesi europei - spiega Zan, primo firmatario della pdl - l’obiettivo è garantire infatti la continuità affettiva ai familiari dei detenuti, soprattutto ai coniugi e ai figli, che attualmente si vedono costretti a fare visita in carcere ai propri cari senza alcuna garanzia di riservatezza e in locali inadeguati, in presenza di molte altre persone. Non a caso domani (martedì, ndr), nel corso della prevista audizione via Skype dal carcere di Padova, i parlamentari della commissione Giustizia potranno ascoltare la testimonianza diretta della figlia e della sorella di un ergastolano. Non possiamo permettere che il regime carcerario, così come è attualmente strutturato - conclude - annienti l’affettività di queste famiglie, causando ulteriori sofferenze a non ha colpe". "Ennesimo delirio targato Pd - sbotta su Facebook il capogruppo della Lega Nord in commissione Giustizia, Nicola Molteni - stanze per il sesso in carcere per allietare i detenuti. In pratica il partito di Renzi vuole trasformare le galere in veri e propri bordelli con una proposta di legge sulle "relazioni affettive dei detenuti". Domani, in commissione Giustizia, ci sarà l’audizione in videoconferenza di due detenuti dal carcere di Padova. Anziché calendarizzare la nostra proposta di legge sulla legittima difesa, portano avanti una legge per offrire sesso ai detenuti. Ormai siamo alla follia totale". Giustizia: circolare Dap sull’uso dei personal computer e connessione internet in carcere Comunicato Dap, 3 novembre 2014 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato una circolare innovativa che detta le linee guida sulle seguenti materie: utilizzo dei personal computer; connessione internet per motivi di studio, per la formazione e l’aggiornamento professionale; uso di Skype per facilitare i rapporti tra detenuti e familiari. La circolare disciplina l’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche a sostegno dei percorsi rieducativi dei singoli detenuti e per ampliare le potenzialità dei progetti trattamentali attivati in collaborazione con il mondo dell’imprenditoria, del privato sociale e con gli Enti Locali. La circolare, datata 2 novembre 2015, consente la possibilità di tenere personal computer nelle camere di pernottamento e nelle sale destinate alle attività comuni; l’accesso ad internet avverrà esclusivamente dalle postazioni attivate nelle aree adibite allo svolgimento di progetti trattamentali, quali ad esempio le biblioteche. La configurazione delle postazioni e la predisposizione delle politiche di sicurezza saranno curate a livello centrale, mentre le limitazioni poste all’infrastruttura di rete consentiranno di instradare il singolo utente esclusivamente verso i siti (white list) per i quali è stato autorizzato. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo evidenzia l’importanza del provvedimento che garantisce alla popolazione detenuta l’utilizzo delle tecnologie informatiche nel pieno rispetto delle esigenze della sicurezza. Si tratta, infatti, di un autentico progetto di inclusione sociale che passa anche attraverso la conoscenza e l’utilizzo della tecnologia da parte dei detenuti; soprattutto per quelle persone che provengono da situazioni di marginalizzazione e che, proprio in carcere, potranno avere la possibilità di sperimentare nuove tecniche di apprendimento, di studio e di formazione. Significativi sono i campi applicativi quali, a titolo esemplificativo, l’apprendimento delle lingue, la scrittura di testi di narrativa, le attività che impegnano molti detenuti anche al di fuori dei percorsi scolastici, con risultati importanti sotto il profilo della crescita personale. L’obiettivo ambizioso è quello di estendere tali possibilità a tutti i detenuti anche per conseguire titoli di studio e abilitazioni professionali. Il Capo del Dipartimento ha intrapreso una fattiva collaborazione con Poste Italiane e Fondazione "Poste Insieme Onlus" al fine di ottenere computer da destinare a tutti gli istituti penitenziari. Giustizia: ufficio per il processo, misure organizzative al via di Eleonora Pergolari edotto.com, 3 novembre 2015 Come annunciato con nota del ministero della Giustizia del 28 ottobre, sulla Gazzetta Ufficiale n. 225 del 2 novembre 2015 è stato pubblicato del Decreto ministeriale del 1° ottobre contenente misure per l’attuazione dell’ufficio per il processo, a norma dell’articolo 16-octies del Decreto legge n. 179/2012, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 221/2012. Il testo definisce le misure organizzative necessarie per il funzionamento dell’ufficio del processo. Organizzazione delle strutture. Nel provvedimento, viene precisato che spetta al presidente della corte di appello o del tribunale provvedere all’articolazione delle strutture organizzative denominate "ufficio per il processo", e ciò tenendo conto del numero effettivo di giudici ausiliari o di giudici onorari, nonché del personale di cancelleria e di coloro che svolgono stage o la formazione professionale. Gli uffici del processo vengono, quindi, assegnati a supporto di uno o più giudici professionali, tenuto conto, in via prioritaria, del numero delle sopravvenienze e delle pendenze, nonché, per il settore civile, della natura dei procedimenti e del relativo programma di gestione. I presidenti di sezione, o i giudici delegati sono tenuti al coordinamento e al controllo dei vari uffici. In capo ad una o più strutture possono essere accentrate anche attività di cancelleria che sarebbero di competenza di più sezioni, incluse le rilevazioni statistiche e la risoluzione delle problematiche derivanti dall’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalla adozione di nuovi modelli organizzativi. Al Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria è stato affidato il compito di predisporre un modello standard di domanda di ammissione allo stage presso l’ufficio del processo, modello che verrà pubblicato sul sito internet del ministero della Giustizia entro novanta giorni dalla pubblicazione del Decreto in oggetto. Il medesimo Dipartimento provvede, altresì, a predisporre un sistema informatico volto alla rilevazione dei dati inerenti le varie strutture, al fine di constatare le corti di appello e i tribunali presso i quali le stesse sono presenti, il numero delle strutture articolate presso ciascuno, le categorie dei soggetti che ne fanno parte, l’assegnazione di esse a supporto di uno o più magistrati, nonché l’eventuale articolazione di strutture accentrate. Giustizia: la capitale immorale di Alberto Asor Rosa Il Manifesto, 3 novembre 2015 Questione romana. Defenestrazione dall’alto di un sindaco inviso al potere. Marino, ostacolo democraticamente rappresentativo, viene sostituito con la figura del commissario. E il Vaticano scarica sulla città la sua forza. Senza misericordia. Adesso basta. Roma ha più del doppio degli abitanti di Milano (2.869.169 contro 1.342.385). Quanto ad estensione, il confronto non è neanche pensabile (1.287,36 kmq contro 181,67; se si parla delle due città metropolitane, il divario si allarga a dismisura: 5.363,28 kmq, contro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quarticciolo e arriva a Porta San Giovanni: non entra neanche nella porzione storica e monumentale della Capitale. Non si capisce quale senso abbia la vana chiacchiera di trasferire il modello dell’una (se c’è) sull’altra. Naturalmente, si può governare bene una città di medie dimensioni (come Milano) e male una metropoli (come Roma), come anche viceversa. Le dimensioni e i rapporti, però, sono incommensurabili. Roma è al quarto posto fra le grandi città europee, dopo Londra, Berlino e Madrid, non a caso tutte capitali dei rispettivi Stati. Milano si colloca nel campo delle città di medie dimensioni (al tredicesimo posto al livello europeo, credo). Se si deve ipotizzare un rapporto a livello mondiale, l’unica città italiana degna d’esser presa in considerazione è Roma (per questi, e soprattutto per altri motivi, sui quali tornerò più avanti). Milano "capitale morale"? Qualche anno fa apparve un bel libro, Il mito della capitale morale, forse recentemente ristampato, di Giovanna Rosa (non ci sono parentele, neanche a metà, fra me e l’autrice): libro che nessuno cita, e nessuno mostra di aver letto. Il "mito", appunto: non "la capitale morale". Un lungo percorso dal Risorgimento a oggi, fatto di fatti, illusioni e disillusioni, cadute e riprese, riprese e cadute. Del resto, se prendessimo alla lettera per Milano la definizione di "capitale morale", dovremmo chiederci sul piano storico come sia stato possibile che da siffatta realtà politico-urbanistico-civile siano precipitate sull’Italia le due sciagure politico-istituzionali ed etico-politiche più terrificanti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mussolini e Silvio Berlusconi. Che Torino, culla della nostra unità nazionale, per questo e per altri motivi, sia più degna di tale definizione? Su Roma, la Capitale, l’unica città italiana in grado di entrare in una competizione e classificazione internazionale, sono precipitate nel tempo tutte le contraddizioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o incapace) questo disgraziato paese, - l’Italia. Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio e il Governo, il Senato, la Camera dei Deputati, i Ministeri, gli organismi dirigenti della Magistratura, della scuola, dell’Università, dei corpi separati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovviamente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orientati a difendere interessi che con Roma non avevano niente a che fare. Roma, per quanto mi concerne, è se mai vittima, non carnefice. Quando ha preso democraticamente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Alemanno ha dato il peggio di sé, sul piano etico, civile e amministrativo. Anche questo oggi è ampiamente e vistosamente dimenticato e accantonato, per non interferire neanche mentalmente con le procedure di esecuzione sommaria dell’ultimo Sindaco. A Roma, poi (anche questo avete dimenticato?), c’è il Vaticano. Il Vaticano è al tempo stesso una grande potenza religiosa e una grande potenza temporale, terrena. E, - lo dico con assoluta persuasione, - non può essere che così. Non può essere che così, nessuno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impedirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getsemani e poi sulla croce). La proclamazione del presente Giubileo ne è la più vicina e lampante testimonianza. Esprimo il mio stupore: non c’è commentatore di qualche portata che si sia soffermato come meritava su questo passaggio. Un bel giorno Papa Francesco proclama un Giubileo straordinario della Misericordia. È l’ultima mazzata: trenta milioni di pellegrini e migliaia di cerimonie nella Capitale, molto immorale forse, ma di certo molto, molto strapazzata. Siccome è improbabile che il Giubileo si svolga dentro le mura dello Stato Vaticano, che del resto non accoglie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intera ne sarà travolta. Ci sono state consultazioni preventive in proposito? Qualcuno, al di qua del Tevere, ha risposto che andava tutto bene? Improbabile. Dunque, il Vaticano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già accaduto altre volte nella storia, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti inevitabilmente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un messaggio universalistico-religioso di tale portata? Ma il messaggio universalistico-religioso si trasforma rapidamente in una serie di Ukase politico-temporali sempre più assillanti e persino da un certo momento in poi anche violenti: avete chiuso le buche? Avete rattoppato le metropolitane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garantire il ristoro? E la sicurezza, la sicurezza, come va? Il grande evento di Misericordia vale dunque per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cittadini, né per i suoi amministratori, che infatti, in tutte le occasioni possibili, sono trattati a pesci in faccia, cooperando inevitabilmente (e diciamo consapevolmente) alla distruzione della loro credibilità e del loro prestigio. A Roma non ci sono gli "anticorpi"? Sì, questo è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse settimane, e con accelerazione crescente negli ultimi giorni, si è consumata la più imponente e capillare distruzione di anticorpi che si sia mai vista in Italia dalla Liberazione a oggi. Anche qui esprimo il mio stupore: osservatori, avete colto davvero quel che è accaduto a Roma nelle scorse settimane e con accelerazione crescente negli ultimi giorni? Il giudizio sul comportamento e le attitudini dirigenziali del sindaco Marino, - un "marziano", un inetto, un incapace, un supponente, da un certo momento in poi anche uno poco corretto, - non ha niente a che fare con lo svolgimento e la conclusione della faccenda. Se si dovessero rimuovere dai loro incarichi Sindaci, Presidenti delle Regioni, Ministri, Direttori Generali, Rettori, ecc. ecc., - perché "marziani", inetti, incapaci, supponenti, poco corretti, ecc. ecc, - assisteremmo in poco tempo al crollo verticale dell’intera macchina politico-istituzionale italiana (sarebbe comunque affare della magistratura, come talvolta già accade, non dei politici). Quel che invece è accaduto a Roma è la defenestrazione dall’alto, - per vie politiche, non legali, intendo, - di un uomo politico che non era in grado (e probabilmente non voleva) garantire le attese dei principali poteri interessati alla vicenda: la nuova forma della politica oggi dominante in Italia, il Vaticano, i poteri economici all’arrembaggio della nuova torta. Il risultato di tutta la vicenda è che esiste oggi in Italia un Potere Supremo il quale è in grado di sbarazzarsi di qualsiasi ostacolo democraticamente rappresentativo, sostituendolo con la figura fin qui anomala ed eccezionale del Commissario, il quale ovviamente è, e non potrebbe non essere, un delegato al servizio di quel medesimo Potere Superiore. Il quale, essendo anch’esso non determinato dal voto popolare ma, diciamo, da una sorta di autocommissariamento del medesimo (com’è noto, il nostro Presidente del Consiglio non ha goduto di tale investitura), tende a riprodursi per geminazione secondo le medesime modalità. Roma, se è e resta la Capitale d’Italia, la quarta città europea, una delle più importanti del mondo, dal punto di vista del patrimonio artistico e culturale è senza ombra di dubbio la prima. Questo suscita da un bel po’ di tempo una corrente d’invidia e di gelosia, nazionale e internazionale, da far spavento. Essa si collega, e strettamente si congiunge, al progetto dell’attuale potere politico italiano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria. A Roma, più che in qualsiasi altra città italiana, abbiamo a che fare con una massa di potere inimmaginabile altrove: Vaticano, poteri economici forti, potere politico di tipo nuovo, incline al commissariamento della Nazione ovunque sia possibile e a suo avviso necessario, procedono affiancati, e nella medesima direzione (non c’è bisogno di pensare a incontri segreti a Via dei Penitenzieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vecchio a Firenze: basta pensarla nello stesso modo). Ce la faranno Roma, e i romani, a rovesciare questa mostruosa tendenza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diventare un’astrazione, sono delusi, confusi, smarriti. Come volete che siano? Avevano votato trionfalmente per Marino esattamente per dare una svoltata alla storia. Ora forze potenti della politica e dell’informazione si affannano quotidianamente a spiegar loro che Marino era semplicemente un "marziano", un inetto, un incapace, un supponente, uno poco corretto, ecc. ecc., e a spiegarglielo sono esattamente innanzitutto quelli del suo proprio partito, quelli che avevano chiesto loro di votarlo (neanche uno dei consiglieri comunali "dem" che abbia resistito alla sferza del capo, che vergogna!). Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rabbia cupa e violenta, contro tutti quelli che hanno realmente combinato tutto questo, il Potere Superiore e i suoi molteplici alleati. La Capitale immorale giace così sotto il peso degli errori commessi, quelli suoi, certo, ma soprattutto, soprattutto quelli degli altri. Come ultimo schiaffo viene inviato a governarla un Prefetto dal nome beneaugurante di Tronca. All’Expo, - per sue dichiarazioni, - si è occupato dell’ordine pubblico; in precedenza, dei Vigili del fuoco. Competenze, queste, indubitabilmente adeguate a governare la metropoli Roma, le sue contraddizioni e lacerazioni, e a suscitare in lei i nuovi anticorpi. Nel frattempo il Potere Superiore garantisce che il Giubileo sarà un successo come l’Expo. Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vaticano soddisfatto annuisce. Per sottrarsi a questa nefasta spirale, ed evitare altre cantonate, ci vorrà un lavoro lungo e in profondità, razionale, sì, ma anche rabbioso. Il tempo delle mediazioni è finito, ne comincia un altro, meno disponibile alle prese in giro. Se ci sono voci disposte a parlare in questo senso, si facciano sentire presto. Giustizia: Mafia Capitale, ecco la "lista dei 101" e arrivano i primi verdetti di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 3 novembre 2015 La prima sentenza per il dipendente coop Gammuto e la dipendente capitolina Salvatori è attesa in giornata. Da decidere anche il risarcimento per il Campidoglio. È il primo verdetto sulla corruzione del "capitale istituzionale" di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Ma è anche la giornata che decide se, e in quale misura, al Campidoglio spetti un risarcimento per esser diventato il simbolo (spavaldo) della corruzione nella pubblica amministrazione. La prima sentenza con rito abbreviato per i due imputati di Mafia Capitale - il dipendente coop Emilio Gammuto e la funzionaria capitolina Emanuela Salvatori (accusata di corruzione e finita ai domiciliari non risponde del reato di associazione mafiosa) - è prevista in giornata. Con il verdetto sulla funzionaria si misureranno anche le aspirazioni al riconoscimento del danno da parte del Campidoglio. Non solo per quanto stabilirà la giudice Anna Criscuolo sulla vicenda ma soprattutto perché una condanna per corruzione spianerebbe la via dei risarcimenti istituzionali alla corte dei Conti, dove 5 inchieste stanno valutando il danno arrecato al Comune dai funzionari corrotti. Nel frattempo è caduto anche l’ultimo segreto dell’inchiesta. Centouno nomi e le vicende allegate alla relazione del prefetto Franco Gabrielli al ministro dell’Interno, Angelino Alfano. La lista equivale a una sorta di indice (Gabrielli la chiama "guida" alla propria relazione anche se era stato il suo predecessore a scriverla) di delibere e atti amministrativi piegati alle esigenze del mondo di Mezzo. Decisioni avallate e firmate da presidenti di commissione, delegati, capi di gabinetto, semplici consiglieri e dirigenti dell’amministrazione capitolina. La lista degli ipotetici infedeli è grosso modo sovrapponibile a quella degli indagati/imputati di Mafia Capitale. Ma c’è anche chi, come l’ex vicesindaco di Alemanno, Sveva Belviso, pur non avendo a che fare direttamente con Buzzi avrebbe però veicolato favori al suo entourage nella concessione in affitto a Riccardo Mancini, uomo di Alemanno ed ex amministratore delegato di Eur spa, di uno dei campi da rugby più appetiti della città. Nello stesso ruolo di vicesindaco, ma stavolta per il centrosinistra della giunta Marino, si trova il suo ex numero due, Luigi Nieri. Non indagato Nieri, ma nominato in qualche caso da Buzzi, avrebbe avuto una parte nel prolungare artificialmente incarichi per l’emergenza sfratti alle coop buzziane. Nell’elenco anche l’ex segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, il delegato allo Sport Alessandro Cochi (spiega Buzzi intercettato: "Cochi non è comprato ma è ‘n amico"), Erica Battaglia, Eugenio Patané. Lista e relazione saranno depositati al maxi processo che inizierà giovedì 5 novembre. Giustizia: Bagheria si rivolta contro il pizzo, 36 imprenditori denunciano il racket di Nino Amadore Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Ha pagato per trent’anni, schiavo dei ricatti e delle minacce dei boss. C’era ancora la lira, erano gli anni Ottanta quando cominciò a pagare il pizzo e certo il clima era completamente diverso da quello di oggi. Con la mafia non si discuteva: si obbediva e basta. Lui, Domenico Toia, era un imprenditore edile di Bagheria (Palermo) e ha pagato, in silenzio, tre milioni al mese alla famiglia del reggente del mandamento che era in carcere e ha anche versato a Cosa Nostra significative percentuali dell’importo degli appalti aggiudicati mentre i politici facevano pressioni per ottenere vantaggi. Pagamenti continui fino a dissanguarsi: tre milioni al mese quando c’era ancora la lira. Lo ha dovuto fare lui e dopo la sua morte il figlio che porta il suo nome. Sembrava una cosa scontata nel pesantissimo mandamento mafioso della provincia di Palermo che fu rifugio dorato del latitante Bernardo Provenzano e che è stato luogo di latitanza anche per Matteo Messina Denaro. La piovra mafiosa gli ha succhiato il sangue portando Toia al fallimento: prima la chiusura dell’azienda, poi la vendita dell’abitazione per far fronte alle richieste estorsive e infine la richiesta da parte dei boss di due milioni di euro per uscire da una società che, hanno raccontato i pentiti, era soltanto dell’imprenditore. Lui, Toia junior, è uno dei 36 imprenditori che hanno denunciato e detto di no alla mafia e al racket. Una ribellione che fa dire al presidente del Consiglio Matteo Renzi su Twitter: "Grazie al coraggio di chi rifiuta ricatti, grazie a Carabinieri e inquirenti. Bagheria non è cosa loro". Il sistema della mafia bagherese era scientifico. Pagavano "poco" ma pagavano tutti: supermarket, attività all’ingrosso di frutta e verdura e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse, imprese edili. Sono una cinquantina le estorsioni documentate. E le denunce circostanziate degli imprenditori sono alla base dell’operazione "Reset 2" coordinata dalla Procura antimafia di Palermo guidata da Franco Lo Voi e condotta ieri dai carabinieri che hanno eseguito 22 ordinanze di custodia cautelare in carcere: i soggetti (alcuni già detenuti) sono quasi tutti pezzi da novanta dell’organizzazione mafiosa del palermitano come i Mineo, gli Scaduto, Eucaliptus, Flamia. Boss che una volta finiti in carcere venivano sostituiti da altri in quella che qualcuno ha definito una sorta di staffetta: "Quando gli esattori vengono arrestati - dice il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci - subentrano altri che poi finiscono in cella, in un alternarsi continuo". E forse nemmeno gli stessi boss, abituati a trovare vittime silenziose e accondiscendenti si aspettavano tante denunce e ammissioni con una forza paragonabile, visto il territorio, a una vera e propria ribellione di massa. "Vale la pena sottolineare la valenza organizzativa e la strategia operativa sul filone delle estorsioni e le pressioni che Cosa nostra fa sul tessuto imprenditoriale della provincia - dice il comandante provinciale dei carabinieri Giuseppe de Riggi. Un filone su cui intendiamo proseguire anche grazie alla collaborazione con le associazioni antiracket e degli imprenditori". E il procuratore di Palermo aggiunge: "Ci sono occasioni, come quella odierna, in cui è necessario presentare all’opinione pubblica i risultati di alcune indagini, senza ovviamente emettere alcun giudizio. È necessario presentare i risultati soprattutto quando si parla di mafia e in un territorio come quello di Bagheria, che in passato ha visto operare soggetti di primo piano per garantire la latitanza di Bernardo Provenzano. È necessario rendere noti i risultati di queste indagini quando ci si confronta con la mafia che continua a soggiogare l’economia, il territorio, gli imprenditori. E quando quasi quaranta imprenditori decidono di collaborare con lo Stato ammettendo o denunciando l’estorsione". Una vittoria dello Stato e degli imprenditori onesti, sottolinea il ministro dell’Interno Angelino Alfano: "La gente - dice -, gli imprenditori onesti, quella stragrande maggioranza di persone che vede nella mafia la fine di ogni possibilità di riscatto e di sviluppo, è scesa in campo con più determinazione e non ha avuto paura di farlo, perché ha fiducia nelle istituzioni e crede convintamente nella legalità". Dello stesso tenore il commento del presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi "Va sottolineata - dice -la scelta coraggiosa di tanti imprenditori che hanno deciso di rompere il muro dell’omertà". Di fatto questi arresti dimostrano la vitalità del movimento antiracket in luoghi da sempre controllati militarmente da Cosa Nostra. Come sottolineano le associazioni Addiopizzo e Libero Futuro, che hanno dato supporto ad alcuni imprenditori che hanno denunciato e che possono vantare un bilancio di tutto rispetto: dal 2008 a oggi hanno ricevuto 300 richieste di aiuto da parte degli imprenditori e 150 di questi hanno avuto esito processuale ma "i numeri di Bagheria pesano doppio" dice Enrico Colajanni, presidente di Libero Futuro. E il presidente di Confindustria Palermo Alessandro Albanese, un pezzo di quella Confindustria siciliana guidata da Antonello Montante che da anni continua a sostenere gli imprenditori che vogliono denunciare, accompagnandoli se è il caso anche dai carabinieri, dice: "La rivolta delle imprese è importantissima. Confindustria è compatta su questa battaglia e a fianco di chi si ribella. Pagare non paga, non conviene: bisogna denunciare tutto un minuto dopo la richiesta estorsiva". E sul tema, ovviamente su Twitter e sul suo blog, interviene persino Beppe Grillo: "Un abbraccio ai 36 imprenditori che si sono ribellati: siamo con voi! Manda un messaggio di sostegno alla loro iniziativa con #BagheriaOnesta su Twitter. L’onestà sta tornando di moda!". Giustizia: ma ora lo Stato mantenga promesse e speranze di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Non pagare paga. Lo hanno capito anche gli imprenditori di Bagheria che hanno detto no alle estorsioni di Cosa nostra e alla pretesa di diventare il bancomat a disposizione di alcune cosche. Lo avranno capito meno i boss siciliani e i loro gregari-marionette che, in tempo di crisi economica e finanziaria, hanno riscoperto il gusto vigliacco del pizzo. Costi quel che costi e si rischi quel che si rischi. Del resto a sottolinearlo è la Dia (Direzione Investigativa Antimafia) che nell’ultima relazione presentata al Parlamento scrive che questo "polmone finanziario" continua ad alimentare il circuito dell’economia criminale siciliana. E allora diventa un muro contro muro in cui la forza della legalità delle imprese medie, piccole o piccolissime comincia a creare nuove crepe nei mattoni della violenza e della prevaricazione mafiosa messi uno sopra l’altro da Cosa nostra, così come dalla camorra dei Casalesi e dalla ‘ndrangheta. Un’opposizione che non sarebbe oggi possibile se non si fosse partiti da lontano -contro l’omertà di un tempo non troppo remoto nel quale si negava persino la parola mafia - nel momento in cui, prima gli industriali nisseni, poi quelli siciliani e infine quelli riunitosi nel codice etico nazionale di Confindustria non avessero sfidato il conformismo dell’epoca. Quello in cui - tanto per essere chiari - Confindustria non ebbe il coraggio di prendere una posizione netta, univoca e trasparente nell’omicidio a Palermo dell’imprenditore Libero Grassi. Uno di loro ma non uno di tutti loro. Un percorso partito da lontano - accompagnato da associazioni antiracket sul territorio e da una scossa della cosiddetta società civile - che non ha mancato di avere uno dopo l’altro tasselli di legalità che oggi danno più forza a chi vuole denunciare ogni illegalità. Per tutti si citino le costituzioni di parte civile nei processi per mafia, a fianco dello Stato e contro quegli imprenditori che hanno tradito legalità, libero mercato ed etica d’impresa. Dopo quello di Bologna contro la ‘ndrangheta predatoria della cosca Grande Aracri anche il processo di Roma sul "mondo di mezzo", tra due giorni, vedrà ad esempio Confindustria parte civile. E sarà (o è stato) la prima volta al Nord e la prima volta al centro. Un processo di consapevolezza e risveglio lungo anni che, nonostante i torbidi tentativi di delegittimazione e le resistenze interne ed esterne, ha visto sempre gli imprenditori al fianco di una magistratura e di forze dell’ordine che diventano sempre più forti grazie alla forza della ribellione di imprenditori, commercianti, professionisti e gente comune. Lo Stato è forte se forte è la partecipazione della collettività amministrata. Un percorso di rinascita che, paradossalmente, viene aiutato dalla risacca della crisi economica e finanziaria. Da alcuni anni, infatti, le imprese hanno due strade abissalmente distanti l’una dall’altra: cedere alle lusinghe degli usurai e dei protettori criminali oppure resistere e denunciare. Tertium non datur. Solo che la prima via conduce dritta nelle mani dei sistemi criminali e trascina con sé la spoliazione del corpo (l’impresa) e dell’anima (l’imprenditore), pronti a cadere nella trasparenza di facciata di riciclatori senza scrupoli. La seconda, invece, affidarsi cioè allo Stato e ai suoi migliori Servitori, oltre ad essere un esercizio di democrazia e della sua scala di valori e principi, accelera lo scorrere del tempo che conduce i criminali a pagare il conto con la Giustizia. Perché la legge - prima o poi - se non arriva è quantomeno pronta ad arrivare e interrompere una ricchezza sporca e a orologeria. Questa volta a Bagheria è successo. Non è la prima volta e, se lo Stato sarà in grado di mantenere le promesse di legalità e sicurezza, come ricorda il capo della Procura nazionale antimafia Franco Roberti, non sarà l’ultima. Giustizia: se la "mafia" diventa il doping di ogni inchiesta spompata di Renzo Rosati Il Foglio, 3 novembre 2015 Il teorema giudiziario-mafioso-finanziario su Palenzona (Unicredit) è durato 21 giorni. A Roma, il romanzo fa già sentenza. Giuseppe Creazzo, chi è costui? È il capo della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, e detiene un record: il teorema giudiziario-mafioso-finanziario con vita più breve. Indagine lanciata l’8 ottobre tra paginate di giornali e intercettazioni sul costruttore siciliano Andrea Bulgarella e sul vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona, sullo sfondo un evergreen quale il boss Matteo Messina Denaro. Inchiesta smantellata il 30 ottobre dal Tribunale del riesame fiorentino, che ha demolito i due pilastri della procura: che Palenzona avesse concesso finanziamenti di favore a Bulgarella, e che quest’ultimo abbia legami con il più famoso latitante di Cosa nostra. "L’Unicredit non approvò alcun piano di ristrutturazione del debito di Bulgarella", dice l’ordinanza, e "la considerazione di Bulgarella non era certo quella di un imprenditore colluso con la mafia, ma l’esatto contrario". Con un simile K.O. ci si possono chiedere almeno tre cose. La prima: il procuratore Creazzo continuerà a lavorare all’antimafia di Firenze, magari proprio all’indagine Palenzona-Bulgarella (infatti queste vicende diventano anche medaglie al valore, vedi Antonio Ingroia e Luigi De Magistris), oppure il Csm lo manderà a chiamare? Seconda cosa: Mafia Capitale, il maxi-processo romano, apre i battenti fra tre giorni preceduto dalla grancassa che sappiamo. Il dubbio che della parola mafia si faccia uso e abuso a sproposito troverà cittadinanza anche nell’aula Occorsio? Terzo: ci sono evidenze di una riflessione, se non dell’avvio di un’autocritica, nella magistratura e nel circo che l’accompagna, magari sulla scia dello scambio di accuse - sul versante però dei rapporti con la politica - tra Raffaele Cantone e l’associazione magistrati? A far dubitare delle buone intenzioni c’è intanto un dettaglio, piccolo ma indicativo. Andatevi a vedere sui grandi giornali le firme che illustrarono l’impianto di accuse per Palenzona e Bulgarella, nobilitando le intercettazioni che oggi vengono lette al contrario, e quelle che raccontano l’ordinanza del Riesame. Sono gli stessi giornalisti? Neanche per idea: caso singolare di separazione delle carriere. Punto due: per la sentenza garantista di Firenze sono bastati 21 giorni. Quanto basta per creare qualche sussulto tra i risparmiatori. Di smottamenti, in Borsa, se n’è visti anche in seguito ai casi che hanno coinvolto Giuseppe Orsi (Finmeccanica), Paolo Scaroni (Eni), e Silvio Scaglia (Fastweb) rispettivamente prosciolto, assolto e prosciolto. E poi: il persistere del reato di concorso esterno in associazione mafiosa - che nella vicenda Palenzona-Bulgarella non ha fatto in tempo a concretizzarsi, ma hai visto mai - dichiarato nullo dalla Corte europea dei diritti umani per Bruno Contrada, ma sistematicamente tirato in ballo (Marcello Dell’Utri sta scontando sette anni nel carcere di Parma). Mai definito dal Parlamento, quel reato, secondo Giovanni Fiandaca, uno dei più grandi giuristi italiani, è la dimostrazione di come "il legislatore non faccia il suo dovere e dunque la magistratura si sostituisca alle leggi". Uno degli ultimi parlamentari che ne presentò una formulazione certa, compresa la pena, fu Luigi Compagna nel 2013. Pietro Grasso, appena trasmigrato dalla Direzione nazionale antimafia alla presidenza del Senato, lo stese così: "La proposta Compagna è una vergogna. Spero che non la ripresentino". Vedremo se a Roma la procura cadrà nelle stesse vecchie tentazioni, se quello che si apre tra poche ore sarà il circo di sempre. Con le solite firme sui giornali e i soliti talk-show. A Firenze un giudice c’è stato. A Roma per ora neppure l’ombra. Giustizia: ammette spaccio di hashish per 5 €, il giudice lo assolve per "tenuità del fatto" di Franco Vanni La Repubblica, 3 novembre 2015 Prosciolto, per la "particolare tenuità" del reato. Questa la decisione con cui 0 giudice delle direttissime ha rimandato a casa un giovane pachistano, che in aula aveva ammesso di avere venduto dell’hashish a un ragazzo per 5 euro. In pratica, il reato di cessione di stupefacenti è stato accertato, ma non è stato ritenuto grave al punto da comportare una condanna. Ilaria Freddi - giudice della prima sezione penale del Tribunale, in turno il giorno dell’arresto del pakistano - ha applicato l’articolo 131 bis del codice penale, riformato di recente dal parlamento ed entrato in vigore nella nuova formulazione il 2 aprile. Il decreto legislativo 28, che ha modificato la norma, ha infatti introdotto il criterio della "esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto" in caso di reati non gravi, con pena massima comunque inferiore ai cinque anni. E il giudice ha deciso che questo fosse il caso. Per Mauro Strami, avvocato difensore dell’imputato, la sentenza del giudice Freddi ha una valenza che va oltre il caso del suo assistito: "In attesa di una legislazione più progressista sul tema-dice il legale-è importante sapere che oggi già esistono gli strumenti giuridici per non punire chi è responsabile della cessione di piccole quantità di hashish o marijuana". La vendita risale a settembre. Il passaggio di mano avvenne a un concerto, durante una serata al festival musicale Latino Americano, nel piazzale del Forum di Assago. Il giovane pakistano, cresciuto a Milano e regolare in Italia, fu sorpreso a vendere una quantità di hashish che nello stesso verbale di arresto fu definita "modesta". Il giovane che aveva acquistato il fumo confermò alle forze dell’ordine di avere pagato 5 euro, così il pachistano fu portato in cella di sicurezza. E da lì nell’aula delle direttissime, per la convalida dell’arresto. L’udienza si concluse con un rinvio. L’accusa, sostenuta da un vice procuratore onorario, ha chiesto per l’imputato una condanna a quattro mesi di reclusione, in base alle norme del testo unico sulla droga (Dpr 309 del 1990). L’avvocato Straini, in nome della modifica dell’articolo 131 bis del codice penale, ha suggerito invece l’applicazione della non punibilità per la tenuità del fatto. Il deposito delle motivazioni della sentenza, emessa la scorsa settimana, è atteso per i prossimi giorni Perché un reato possa essere considerato non punibile, la tenuità dell’offesa non è comunque considerata sufficiente. Il decreto di modifica della norma ha previsto infatti una serie di altri requisiti perché l’imputato possa essere prosciolto: non deve esserci stata crudeltà nelle sue azioni, la vittima non deve essere un minore, l’azione non deve avere provocato danni gravi, e la condotta criminale non deve essere abituale. E nel caso del giovane pachistano, non è stato in alcun modo dimostrato che lo fosse. Il ragazzo ha anzi un lavoro e un domicilio stabile. Giustizia: quando la toga fa politica con le sentenze sui rom di Giuliana De Vivo Il Giornale, 3 novembre 2015 "Etnia discriminata": i giudici vanno oltre la legge e giustificano così la condanna di Borghezio. Sono "facce di c... che qualche presidente della Camera riceve", "spero che non portino via gli arredi della Camera": così parlò Mario Borghezio, europarlamentare della Lega Nord, l’8 aprile del 2013 durante un collegamento con la sempre tagliente trasmissione radiofonica La Zanzara, su Radio 24. Si parlava della visita da parte di otto giovani di etnia rom a Montecitorio, su invito della presidente Laura Boldrini. Affermazioni che trasudano razzismo - e anche una certa facile banalità, per esempio nell’altro passaggio in cui l’esponente del Carroccio sostiene che rispetto al lavoro "sono come l’acqua con l’olio" - e per le quali era arrivata lo scorso 26 giugno una condanna a pagare mille euro di multa per il politico leghista. Perché, hanno scritto i giudici della decima sezione penale nelle motivazioni della sentenza rese note ieri, quelle opinioni denotano "inequivocabilmente un sentimento di avversione" e "l’idea di fondo evidenzia un evidente pregiudizio razziale nei confronti di un’intera etnia, giudicata inferiore culturalmente e socialmente rispetto agli italiani". I giudici vanno anche oltre, si allargano in una riflessione sociologica e politica, quando mettono nero su bianco che "la valenza discriminatoria delle dichiarazioni rilasciate dall’imputato" deve essere riconosciuta in un "momento storico" in cui "i rom sono una delle minoranze più discriminate e colpite da pregiudizi, come è provato anche dai numerosi articoli prodotti dalla difesa relativi allo sdoppiamento di una linea di autobus da parte del Comune di Borgaro, in provincia di Torino, che ha destinato un autobus a servire i cittadini "integrati" e l’altro i rom". Il riferimento è alla decisione, risalente a circa un anno fa a Borgaro Torinese, in Piemonte, di "sdoppiare" la linea del bus 69, che ha una fermata proprio davanti al campo rom: di fronte ai soprusi e alle denunce dei cittadini, si era deciso di destinare un bus ad uso esclusivo dei rom e un altro a tutti gli altri. Tradotto: per dare corpo alle sue motivazioni il giudice va a riesumare un caso di cronaca politica avvenuto da tutt’altra parte, e che per luogo e tempo non c’entra nulla con le frasi razziste pronunciate de Borghezio. E ad onor di cronaca: la proposta di "segregare" i rom in un bus ad hoc fu approvata in consiglio comunale - attenzione - da Pd e Sel. Cioè due partiti ideologicamente parecchio lontani dalla Lega Nord. Non bastava fermarsi a delle motivazioni tecniche? C’è sempre questa verve politica sotto traccia, o sotto la toga, questo rivendicare indipendenza e poi mettere in mezzo la politica, scomodare consigli comunali fuori dai confini di competenza, anche dove basterebbe la legge a fare giustizia, con buona pace della separazione dei poteri di montesquieuiana memoria. Sarebbe bello se i giudici si preoccupassero di applicare bene la legge, i politici di realizzare il bene comune, i comici di farci ridere e gli imprenditori di creare lavoro. Ma forse è pura utopia. La Cassazione ribadisce le differenze tra concussione e induzione indebita di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 ottobre 2015 n. 42607. La Cassazione con la sentenza della Sezione VI, 23 luglio 2015- 22 ottobre 2015 n. 42607, Puleo ribadisce i principi già espressi dalla Sezioni unite (sentenza 24 ottobre 2013, Cifarelli ed altri) per l’individuazione dell’esatto discrimine tra la concussione (articolo 317 del Cp) e la nuova figura della induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319 quater del Cp), alla luce delle incisive modifiche introdotte dalla legge 6 novembre 2012 n. 190. Come è noto, la concussione, già prevista dall’articolo 317 del Cp, è stata, infatti, radicalmente modificata dalla legge n. 190 del 2012. Finora si aveva concussione quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, "costringeva" o "induceva" taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. Ora, nella fattispecie della concussione rimane solo la figura della concussione mediante "costrizione". L’intervento della normativa anticorruzione - La legge n. 190 del 2012 ha scorporato, infatti, dall’ articolo 317 del Cp la condotta in precedenza punita a titolo di concussione per induzione, costruendo la nuova fattispecie incriminatrice regolata dall’articolo 319 quater del Cp, laddove si punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, "induce" taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. La pena è prevista in termini sensibilmente minore rispetto alla originaria fattispecie concussiva, prevedendosi la pena della reclusione da tre a otto anni (a differenza della pena della reclusione da quattro a dodici anni, di cui al testo originario dell’articolo 317 del Cp, che, quindi, non distingueva tra la concussione per costrizione e quella per induzione). Nel nuovo reato, però, il privato, con scelta innovativa, non è più una vittima, essendone prevista, nel comma 2 del nuovo articolo 319 quater del Cp, la punibilità con la reclusione fino a tre anni. La nuova fattispecie dell’induzione indebita a dare o promettere utilità si caratterizza, all’evidenza, per l’assenza di condotta "coercitiva" da parte del soggetto pubblico (la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" si riferisce essenzialmente proprio al reato di concussione per costrizione punito dall’articolo 317 Cp). Va poi ricordato che, nella nuova fattispecie concussiva, a differenza che in quella dell’induzione indebita, il soggetto attivo è limitato al solo pubblico ufficiale, con esclusione dell’incaricato di un pubblico servizio. Ne deriva che il fatto "costrittivo" commesso da un incaricato di un pubblico servizio deve ora trovare risposta sanzionatoria in altre fattispecie di diritto comune, quali l’estorsione, la violenza privata, la violenza sessuale, aggravate ex articolo 61, numero 9, del Cp. Il discrimine tra le due fattispecie - Il punto delicato è quello di cogliere l’esatto discrimine tra le due fattispecie incriminatrici, su cui sono intervenute le Sezioni unite, con la citata sentenza, cui fa richiamo anche la sentenza della Sezione VI qui riportata. Questo il discrimine: il reato di concussione (articolo 317 del Cp, come modificato dalla legge 6 novembre 2012 n. 190) è designato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o -più di frequente- mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio indebito per sé, è posto di fronte all’alternativa secca di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito. Invece, il reato di induzione indebita (articolo 319 quater del Cp, introdotto dalla citata legge n. 190 del 2012) è designato dall’abuso induttivo del pubblico ufficiale, con più tenue valore condizionante la libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce con il prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale. In sostanza, entrambe le fattispecie richiedono una prevaricazione del pubblico ufficiale tale da indurre l’altro soggetto in una posizione di soggezione. Per la configurazione della concussione, peraltro, occorre che la condotta costrittiva del pubblico ufficiale si risolva nella prospettazione di un danno antigiuridico, senza alcun vantaggio indebito per il privato. Con la conseguenza che per distinguere i casi dubbi assumono immediato rilievo i criteri di valutazione rappresentati dalla prospettazione da parte del pubblico ufficiale di un danno antigiuridico ovvero dall’esistenza di un vantaggio del privato. È soprattutto quest’ultimo criterio di valutazione che assume importante valenza dimostrativa, per escludere la concussione e fondare piuttosto l’induzione indebita. È in effetti il vantaggio indebito per il privato che qualifica la fattispecie induttiva e giustifica la punizione del privato: questi, pur sempre libero di accedere alla richiesta indebita, accetta per poter ottenere un vantaggio non dovuto (esemplificando, a seguire la sentenza, scongiurare una denuncia, un sequestro, un arresto legittimi; assicurarsi comunque un trattamento di favore; ecc.) e ciò giustifica la sua punizione ex articolo 319 quater, comma 2, del Cp. Guida in stato di ebbrezza: sì alla particolare tenuità, ma la patente va sospesa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 novembre 2015 n. 44132. La non punibilità per la "particolare tenuità del fatto" può essere applicata anche alla guida in stato di ebbrezza. Tuttavia, il giudice dovrà comunque disporre la sospensione della patente di guida perché così prevede la norma. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 44132/2015, riformando sul punto la condanna emessa dalla Corte di appello di Milano ai danni di un automobilista sorpreso a guidare di notte con un tasso alcolemico pari a 0,82g/l, dunque di pochissimo superiore alla soglia penale (0,80g/l). Nel motivare l’applicabilità del nuovo articolo 131-bis del codice penale (introdotto dal Dlgs 28/23015), la Suprema corte affronta la questione della sua compatibilità con i reati connotati da precise soglie. A seconda del tasso alcolemico, infatti, la "Guida sotto l’influenza dell’alcool", viene punita con una sanziona amministrativa o con due diversi reati di gravità crescente. Tuttavia, osserva la sentenza, da una parte, la collocazione della fattispecie nella "parte generale" del codice rende evidente l’intenzione di non limitarne l’efficacia a particolari reati. Dall’altra, la previsione di soglie, quale ne sia la funzione, "non è incompatibile con il giudizio di particolare tenuità del fatto perché in ogni caso la soglia svolge le proprie funzioni sul piano della selezione categoriale mentre la particolare tenuità conduce ad un vaglio tra le epifanie nella dimensione effettuale, secondo il paradigma della sussidiarietà in concreto". Ma la Cassazione fa i conti anche con un altro insidioso argomento contrario quello per cui così opinando una condotta più grave, in quanto penale, lascerebbe il colpevole privo di pena, mentre chi resta colpito dalla sola sanzione amministrativa incorre in sanzioni. Ma anche questo argomento viene demolito dalla Suprema corte che ricorda come vi sia "piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali". E fa il caso della "depenalizzazione" dei reati dove, salvo diverse disposizioni transitorie, di norma non viene applicata la sanzione amministrativa, che dunque colpisce solo le condotte future. Non vi è dunque alcun profilo di irragionevolezza, prosegue la sentenza, "nell’esito che vede il reo sottratto ad ogni conseguenza per effetto dell’applicazione dell’articolo 131-bis cod. pen. e colui che ha commesso un illecito amministrativo "sotto la soglia di rilevanza penale" mantenuto destinatario di ogni sanzione". Infine, osservano i giudici, anche un fatto integrante il reato più grave "ben può risultare particolarmente tenue", perché la causa di non punibilità "impegna alla valutazione della complessiva tenuità del fatto; dovendosi quindi cogliere non soltanto l’entità dello stato di ebbrezza, ma anche le modalità della condotta e l’entità del pericolo o del danno cagionato". Ciò implica, per un verso, "la sicura ipotizzabilità del fatto di particolare tenuità" anche in presenza di tassi alcolemici alti; per l’altro, "la decisività, degli altri fattori". Si pensi, prosegue la decisione, "al reato che si sia concretizzato nel guidare per pochi metri in stato di ebbrezza, con valore superiore a 1,5 g/I, una bicicletta in una strada poco o nulla interessata dal traffico". I tutti i casi però va ricordato che la norma prevede comunque, sia pure per periodi diversi, la sanzione della sospensione della patente che dunque dovrà essere comminata dal giudice. Revoca patente, effetti dal giorno del reato di Alessio Totaro Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 I tre anni che chi subisce la revoca della patente per alcol o droga deve attendere prima di poter fare gli esami per ottenerne un’altra vanno contati a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Dunque, sbaglia il ministero delle Infrastrutture, che fa partire il conteggio dalla data in cui la sentenza di condanna è passata in giudicato. Lo ritiene il Tar Veneto, con la sentenza n. 156 del 9 marzo 2015. L’incertezza riguarda il comma 3-ter dell’articolo 219 del Codice della strada, che a luglio 2010 ha inasprito le sanzioni su alcol e droga alla guida, prevedendo tra l’altro che a seguito della revoca della patente si possa ottenere una nuova licenza solo dopo tre anni dall’"accertamento del reato". Un’espressione tutta da interpretare. Tl Tar del Veneto ritiene che il termine iniziale è il giorno in cui è stato posto in essere il comportamento che ha portato alla sanzione. Sulla questione è intervenuto anche il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. La nota ministeriale n. 15040/2014 ha precisato che la data di accertamento del reato va intesa quale data di passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. Evidentemente, però, la nota non tiene conto dello stato della giustizia penale italiana, che richiede in media cinque anni per giungere ad una decisione passata in giudicato. Ed è proprio su tale argomento che poggia la decisione del Tar Veneto, che ha rilevato come il termine iniziale va individuato nella data in cui il reato è stato commesso poiché, al contrario, la durata della sanzione risulterebbe di volta in volta soggetta ai tempi della giustizia penale. Motivazione che appare condivisibile e lineare in quanto, diversamente interpretando la norma, la sanzione avrebbe di fatto una durata diversa a seconda che il procedimento penale venga incardinato in un Tribunale virtuoso piuttosto che in un altro ben più lento o a seconda che l’imputato decida di impugnare o no le decisioni di primo e secondo grado. Il rifiuto del test non raddoppia la sospensione della patente di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Ha prevalso la soluzione più garantista: il raddoppio del periodo di sospensione della patente per guida in stato di ebbrezza grave che scatta quando si guida un veicolo altrui non può essere esteso al caso in cui il guidatore rifiuta di sottoporsi ai test per determinare il tasso alcolemico. Lo hanno deciso le Sezioni unite della Cassazione nella camera di consiglio del 29 ottobre, sulla quale si è avuta ieri notizia con un’informazione provvisoria. Al momento, non si è saputo nulla sull’altra questione analoga che doveva essere affrontata nella stessa camera di consiglio: se le aggravanti per chi guida in stato di ebbrezza grave e provoca un incidente possano scattare anche in caso di rifiuto del test. Problemi analoghi per la guida sotto l’effetto di droghe, il cui sistema sanzionatorio è uguale all’ebbrezza grave. Per stato di ebbrezza grave s’intende un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro. I test il cui rifiuto è al centro della questione sono tutti quelli possibili e cioè quello preliminare col precursore sia la prova dell’etilometro sia l’esame del sangue. Il raddoppio della sospensione in caso di guida di veicolo altrui è stato previsto per evitare che ci si scambi i mezzi per evitarne la confisca (che non è ammessa quando il proprietario è estraneo al reato). I problemi erano stati sollevati dalla Quarta sezione penale della Cassazione, che con le ordinanze 15756 e 15757 depositate il 15 aprile, le ha rimesse alle Sezioni unite. Tutto nasce dal fatto che gli articoli 186 (per l’alcol) e 187 (per la droga) del Codice della strada puniscono il rifiuto rinviando alle sanzioni previste in caso di positività al test. Ma queste ultime, a loro volta, vanno combinate con altri commi o periodi che le aggravano in casi particolari, come la guida di veicolo altrui e l’aver causato un incidente. In entrambe le ipotesi, l’aggravante comporta il raddoppio del periodo di sospensione della patente. Nel caso dell’incidente, si aggiunge l’inapplicabilità del beneficio della conversione della pena in lavoro di pubblica utilità. Quanto al raddoppio della sospensione, l’ordinanza che aveva rimesso la questione alle Sezioni unite (15756/2015) citava sentenze del 2014, due che lo applicano (22687 e 51731) e due che lo escludono (9318 e 43845). Tra i problemi sollevati, il fatto che i rinvii al caso dell’ebbrezza grave riguardano le "pene", mentre la sospensione della patente ha natura amministrativa. La linea garantista era stata anticipata dalla stessa Quarta sezione l’estate scorsa, decidendo su un caso urgente (se si fossero attese le Sezioni unite, sarebbe scattata la prescrizione, si veda Il Sole 24 Ore del 26 agosto). Illeciti tributari e reati fallimentari, violazione del principio del ne bis in idem Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Previdenza - Reato di omesso versamento delle ritenute, ex articolo 2, comma primo bis, D.L. n. 463 del 1983 - Precedente condanna alla sanzione civile di cui all’articolo 116, comma ottavo, lett. a), L. n. 388 del 2000 - Violazione del principio del ne bis in idem - Esclusione. Non sussiste violazione del principio del ne bis in idem in caso di condanna per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, di cui all’articolo 2, comma primo bis, D.L. n. 463/1983 (convertito con modificazioni in L. 11 n. 638/1983), di soggetto già condannato alla sanzione civile prevista dall’articolo 116, comma ottavo, lett. a), della L. n. 388/2000, per mancato o ritardato pagamento dei contributi, in quanto tale sanzione ha natura sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistica. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 luglio 2015 n. 31378. Cosa giudicata - Divieto di un secondo giudizio - Principio ne bis in idem - Condanna per occultamento o distruzione di documenti contabili - Successivo giudizio per bancarotta fraudolenta documentale - Violazione del principio del ne bis in idem - Esclusione. Non sussiste la violazione del principio del ne bis in idem qualora alla condanna per illecito tributario faccia seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, stante la diversità delle suddette fattispecie incriminatrici, richiedendo quella penal- tributaria la impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi o il volume degli affari, intesa come impossibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta; diversamente, l’azione fraudolenta sottesa dall’articolo 216, n. 2 L. F. si concreta in un evento da cui discende la lesione degli interessi creditori, rapportato all’intero corredo documentale, risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta, ben potendosi apprezzare la lesione anche dalla sottrazione di scritture meramente facoltative. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 26 aprile 2011 n. 16360. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Delitto di appropriazione indebita di beni sociali - Estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita - Successiva dichiarazione di fallimento della società - Bancarotta fraudolenta per distrazione dei medesimi beni - Principio del ne bis in idem - Inesistenza - Ragioni. La decisione irrevocabile d’estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita imputato all’amministratore di una società non preclude, dopo l’intervento della dichiarazione di fallimento della società, l’esercizio dell’azione penale nei confronti dello stesso per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione dei medesimi beni. La Corte ha precisato che le due fattispecie sono strutturalmente diverse, integrando, se consumate contestualmente, un reato complesso con assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in quello di bancarotta fraudolenta, e, se realizzate in tempi diversi, un reato progressivo. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 2 febbraio 2009 n. 4404. Reati fallimentari - Condanna per un fatto di bancarotta - Identità della procedura concorsuale - Nuovo procedimento a carico dello stesso imputato ad oggetto fatti diversi - Principio del ne bis in idem - Preclusione - Insussistenza. La condanna definitiva per il reato di bancarotta non impedisce di procedere nei confronti dello stesso imputato per altre e distinte condotte di bancarotta relative alla medesima procedura concorsuale. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 26 maggio 2011 n. 21039. Confisca per equivalente e modalità di applicazione per ciascun concorrente Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015 Confisca per equivalente ai sensi dell’articolo 322 ter cod. pen. - Pluralità di reati - Esecuzione nei confronti di uno solo dei concorrenti per l’intera entità del profitto - Ammissibilità - Limiti. Nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può eccedere nel quantum nè l’ammontare del profitto complessivo, né in caso di imputato cui non sono attribuibili tutti i reati accertati - il profitto corrispondente ai reati specificamente attribuiti al soggetto attinto dal provvedimento ablatorio. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 26 giugno 2015 n. 27072. Confisca per equivalente ai sensi dell’articolo 322 ter cod. pen. - Pluralità di indagati per lo stesso reato - Ripartizione pro quota dell’importo corrispondente all’ammontare totale del prezzo o del profitto del reato - Necessità - Sussistenza - Ragioni. In caso di concorso di persone nel medesimo reato, la confisca per equivalente di cui all’articolo 322 ter cod. pen. non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di prezzo o profitto a lui attribuibile, anche quando nei confronti degli altri correi non può essere disposto alcun provvedimento ablatorio, attesa la natura sanzionatoria di tale tipologia di misura. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 14 maggio 2015 n. 20101. Concorso di persone nel reato - Reati contro il patrimonio - Confisca per equivalente ex articolo 648 quater cod. pen. - Applicabilità per ciascuno dei concorrenti per l’intera entità del profitto. In caso di concorso di persone nel reato, la confisca per equivalente prevista dall’articolo 648 quater cod. pen. può essere disposta per ciascuno dei concorrenti per l’intera entità del profitto. • Corte di cassazione, sezione Fallimentare, sentenza 17 agosto 2009 n. 33409. Misure di sicurezza reali - Confisca per equivalente ex articolo 322 ter cod.pen. - Pluralità di indagati per lo stesso reato - Ripartizione pro quota dell’importo corrispondente all’ammontare totale del prezzo o del profitto del reato - Necessità. In caso di pluralità di indagati quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali è consentita la confisca per equivalente ex articolo 322 ter cod. pen., tale misura non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di prezzo o profitto a lui attribuibile. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 marzo 2009 n. 10690. Sequestro funzionale alla successiva confisca per equivalente - Pluralità di indagati quali concorrenti nel medesimo reato - Estensione del sequestro per l’intero ammontare del profitto nei confronti di ciascuno di essi - Condizioni. In caso di pluralità di indagati quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali, ai sensi dell’articolo 322 ter cod. pen., può disporsi la confisca per equivalente di beni per un importo corrispondente al prezzo o al profitto del reato, il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione di detta misura può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l’ammontare complessivo dello stesso. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 5 maggio 2009 n. 18536. Cagliari: i risultati dell’autopsia "detenuto è morto per una dose letale di morfina" Agi, 3 novembre 2015 Una dose di morfina iniettata con una siringa avrebbe provocato la morte di Simone O., il 32enne deceduto tra venerdì e sabato scorsi, nel carcere di Uta (Cagliari). Sono questi i primi risultati dell’autopsia, disposta dal pm Gaetano Porcu, ed eseguita questa mattina dopo il conferimento formale dell’incarico. I primi risultati degli accertamenti fanno dunque propendere per l’ipotesi del suicidio, così come confermato dall’avvocato Adriano Sollai - che tutela la famiglia del ragazzo - convinto che con una maggiore sorveglianza si sarebbe potuta evitare la tragedia. Il giovane era seguito dal centro di igiene mentale e sarebbe dovuto uscire il prossimo 21 novembre. Di recente però, aveva ricevuto un revoca di sospensione della pena, che aveva spostato la data della libertà al 2017. Roma: Cisl; la detenuta morta a Rebibbia per "arresto cardiaco" non mangiava da giorni newtuscia.it, 3 novembre 2015 Il 31 ottobre una detenuta è deceduta nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia-Roma, sembra a seguito di un arresto cardiaco. L’intervento del personale che ha allertato i sanitari è risultato invano. La detenuta di origine nigeriana, entrata da poco in carcere, non si alimentava da giorni, sembra che probabilmente aveva problemi psichiatrici, la struttura non permette di aver in custodia detenuti del genere. Per la Fns Cisl Lazio occorre che si intensifichi la sanità penitenziaria, anche c/o strutture esterne dei luoghi di cura, che si ricorda che è gestita dalla Regione Lazio e non dal ministero della Giustizia, al fine di evitare situazioni del genere che seppur il personale penitenziaria ha preventivamente allertato i sanitari, la sanità penitenziaria non ha evitato la morte. Costantino Massimo Segretario Generale Aggiunto Fns-Cisl Viterbo: Cisl-Fns; detenuto si barrica nell’infermeria del carcere e dà fuoco a degli stracci tusciaweb.eu, 3 novembre 2015 Paura a Mammagialla dove un detenuto romano si è barricato nell’infermeria del carcere viterbese incendiando degli stracci. L’area sarebbe sia stata invasa da una densa nuvola di fumo e che i detenuti siano stati fatti evacuare. Solo lievi ferite per il detenuto romano che si sarebbe procurato delle escoriazioni sulla gamba destra. Il gesto poteva avere delle conseguenze catastrofiche ma a scongiurare il peggio ci hanno pensato gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Mammagialla. "Solo grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria si è evitato il peggio - ha commentato Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Cisl-Fns. Un plauso al personale intervenuto". Bolzano: perquisizione in cella, ritrovati due telefoni cellulari perfettamente funzionanti Alto Adige, 3 novembre 2015 Allarme sicurezza in via Dante dove i controlli nelle celle non sembrano adeguati. Il rischio è quello che - senza maggior rigore - possano entrare anche armi. L’altro giorno nel corso di una perquisizione di controllo disposta in tutte le celle dal nuovo comandante degli agenti di polizia penitenziaria, Marco Santoro, sono stati scoperti due telefoni cellulari perfettamente funzionanti (con le batterie cariche e relativi carica-batteria) di cui i detenuti non avrebbero potuto essere in possesso. I due telefoni sono stati sequestrati ma l’episodio ha messo in rilievo un problema di sicurezza nella gestione del carcere di Bolzano. Con troppa facilità, a quanto pare, si riesce a far entrare in cella oggetti non ammessi per le limitazioni imposte ad ogni detenuto e per motivi di sicurezza. In effetti così come in due occasioni è stato possibile far arrivare in cella un telefono cellulare (per comunicazioni clandestine con l’esterno) con altrettanta facilità qualcuno potrebbe pensare di far arrivare a qualche detenuto anche un’arma. Ecco perché il rinvenimento dei due telefoni cellulari viene considerato "allarmante e grave" da Franco Fato del sindacato "Penitenziari della Uil". Lo stesso sindacato di categoria, con un comunicato stampa a firma del segretario regionale Leonardo Angiulli, esprime soddisfazione per la nomina del nuovo comandante degli agenti di polizia penitenziaria (in tutto una settantina) in servizio nella casa mandamentale di Bolzano. In precedenza il comando degli agenti in servizio nel carcere di Bolzano era stato affidato ad un funzionario inviato in missione da Verona per tre giorni alla settimana. Avere finalmente un comandante in servizio permanente nel carcere di Bolzano è dunque salutato molto positivamente dalla "Uil penitenziari". La vicenda dei telefoni cellulari scoperti all’interno delle celle pone comunque interrogativi sulla gestione dei controlli nel corso degli incontri dei detenuti con i propri familiari. "Noi non siamo in grado di accusare nessuno - dice Franco Fato - ma dobbiamo prendere atto che il sistema di controllo così come previsto dalle nuove disposizioni è molto limitato in quanto in un’unica stanza possono avvenire diversi incontri tra detenuti e familiari su tavolini singoli sparsi per la sala, tipo bar". Insomma, tenere tutto sotto controllo è praticamente impossibile e la vicenda dei due telefonini (con relativo caricatore) ne è la dimostrazione più lampante. Cagliari: leggere in carcere, il "Libro Sospeso" arriva anche in Sardegna La Nuova Sardegna, 3 novembre 2015 In due librerie fino al 30 novembre 2015 è possibile acquistare un romanzo, un saggio, un testo di poesie e destinarlo ai detenuti dei penitenziari dell’isola. Arriva anche a Cagliari, #LiberidiLeggere, l’iniziativa del Libro Sospeso che viene acquistato per un detenuto. L’iniziativa si conclude il 30 novembre 2015 e hanno aderito la Libreria Einaudi, via Petrarca, 11/13 e la Libreria Murru, via Machiavelli,42/F che sono aperte anche la domenica mattina. L’idea è nata da Michele Gentile e si è diffusa in tutta Italia, creando una corrente benefica per librai e lettori. Ora il Libro Sospeso diventa anche un modo per portare nuove letture e idee dietro le sbarre dei penitenziari italiani, le cui biblioteche hanno bisogno di essere rinnovate (o persino create dal nulla). La raccolta per #LiberidiLeggere, che in altre parti d’Italia è cominciata il 12 ottobre 2015 e si è conclusa il 31, richiede un impegno minimo: i clienti delle librerie aderenti all’iniziativa comprano un libro senza copertina rigida (secondo i regolamenti carcerari) che lasciano "sospeso" in negozio, come un caffè per un amico, solo che quest’amico non lo conoscete ed è detenuto. Una volta raccolto un certo numero di volumi, i libri saranno inviati ai detenuti degli istituti penitenziari. Sondrio: "Chi c’è oltre il muro?", un convegno sulla situazione delle carceri in Italia di Morris Bertolini valtellinanews.it, 3 novembre 2015 "Chi c’è oltre il muro? L’estrema periferia del carcere". Questo il tema affrontato nella lezione di questa settimana della scuola permanente di Morbegno organizzata dall’associazione culturale "Insieme per conoscere" presieduta da Silvana Tirloni. Gianpiero Dell’Oca, nuovo direttore della scuola, ha deciso di inserire nel programma del percorso 2015-2016 una lezione sulle carceri andando a conoscere meglio come si svolge la vita dei detenuti al loro interno, una vita segnata dalla sofferenza e piena di contraddizioni. Relatore dell’incontro Francesco Racchetti, garante dei diritti dei detenuti presso il carcere di Sondrio nominato dal consiglio comunale nel marzo del 2011. "Sono molto contento di questo invito - ha ammesso il relatore - sono stato insegnante per alcuni anni qui a Morbegno e ci torno sempre volentieri trovando sempre un clima di interesse e vivacità sociale, la prima cosa da dire è che il carcere è un mondo complesso e delicato con tante contraddizioni, un ambiente molto nascosto, quello che si vede è un muro ma il problema è che dietro a quel muro ci sono delle persone e ognuna di questa ha una sua storia e vissuto vicende diverse. Chi è detenuto in carcere ha tanti bisogni ma il primo di tutto è l’essere riconosciuto come persona. La mia esperienza nel carcere è iniziata come volontario mentre ora il mio ruolo è istituzionale per conto del consiglio comunale di Sondrio che mi ha nominato, la prima cosa da fare in un carcere è ascoltare i detenuti che sembra una cosa facile ma invece è molto difficile. Quando si parla di un carcere dal di fuori se ne parla sempre male ma chi ne parla non è chi lo vive dal di dentro, per conoscerlo bisogna varcare questi cancelli e sentire voci, esperienze, pene, paure, speranze e arroganze. Chi è detenuto in carcere ha tanti bisogni ma il primo di tutto è l’essere riconosciuto come persona. Un detenuto in genere prova due sentimenti, il dolore in quanto stare in carcere è una situazione di sofferenza e poi di ipocrisia in quanto il carcere non è quello che le leggi dicono dovrebbe essere: l’articolo 27 dice che dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato ma questo non viene rispettato. È la sofferenza che aiuta la persona a cambiare? Chi entra in un carcere per scontare la sua pena si sente una vittima e questo lo blocca, gli impedisce di guardarsi dentro". Lo stato italiano nel gennaio del 2013 è stato condannato dalla Corte europea per i diritti umani in quanto il sistema di trattamento nelle nostre carceri è stato definito di tortura. "La dimensione di una cella è di 7 metri e mezzo che sembrano abbastanza ma abbiamo 2 metri quadri occupati dalla branda, 1 metro dal gabinetto poi c’è anche un tavolino e uno sgabello quindi lo spazio vivibile è pochissimo, l’Italia è stata punita dalla Corte europea per il poco spazio e il sovraffollamento delle nostre carceri ma anche per la qualità della vita del detenuto che nel periodo di reclusione fa poco o spesso nulla, questa è tortura e va contro all’obiettivo della rieducazione. Ha senso preparare una persona al reinserimento nella società isolandola completamente impedendole di svolgere qualsiasi attività, senza studiare, lavorare e nessun interesse? Questa è una contraddizione enorme". Altro problema del carcere sono le relazioni. " Si può pensare di rieducare un detenuto togliendogli gli affetti? Sarebbero piuttosto da rafforzare le relazioni positive, non tutti i detenuti hanno dei parenti che li vanno a trovare, alcuni perché sono lontani da casa e poi ci sono i trasferimenti da un penitenziario all’altro a volte anche ingiustificati e questo danneggia anche il mio ruolo visto che nel momento in cui sto portando avanti un progetto c’è il trasferimento del detenuto, alcuni di questi cerco comunque di seguirli anche nelle carceri al di fuori di Sondrio a volte entrando come garante e a volte come semplice amico. Un detenuto può incontrare parenti o amici 6 volte al mese per un’ora in un ambiente molto affollato e promiscuo dove è difficile parlarsi dal vero eppure in quell’ora a volte bisogna definire certe situazioni e prendere decisioni importanti e a farlo in quell’ambiente si viene a creare un certo imbarazzo sia da parte del carcerato che da parte del parente o dell’amico. Per quanto concerne il telefono un detenuto ha la possibilità di effettuare una chiamata a settimana di 10 minuti a numeri che devono corrispondere a persone con cui lo stesso può avere delle relazioni, per i detenuti più pericolosi la telefonata è possibile solo ogni 15 giorni e anche questo è un controsenso perché a questo punto se uno è pericoloso si potrebbe vietare del tutto la possibilità di fare chiamate". Il relatore è poi passato a cercare di capire cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione nelle nostre carceri con la consapevolezza che non è vero che non c’è nessun altra soluzione alle condizioni attuali. " La prima cosa da capire è che il carcere così come è adesso esiste dal lontano 700 - ha spiegato Racchetti - prima di allora c’erano i prigionieri che erano dei poveri, vagabondi e mendicanti che subivano delle pene come punizioni corporali ma poi venivano lasciati liberi e nelle carceri di oggi troviamo ancora fondamentalmente poveracci appartenenti a una fascia che non fa notizia sui giornali. L’Italia timidamente sta cercando di migliorare la situazione di vivibilità nelle carceri, un primo passo è che il numero dei detenuti negli ultimi anni è sceso da 69.000 a 52,300 che evidentemente è un calo consistente ma bisogna andare a vedere chi è uscito: sono usciti i detenuti che avevano i reati meno gravi e di questi solo un terzo sono stranieri che se guardiamo il tipo di reati per il 33% ne commettono di gravità minore e solo un 1% di tipo grave. Il motivo è che a chi è uscito è stata sostituita la detenzione in carcere con i domiciliari ma il problema è che spesso gli stranieri non hanno un domicilio e spesso quindi restano dentro a scontare la pena loro inflitta anche se magari era in origine la stessa di altri detenuti che sono usciti avendo un domicilio ove terminarla. Poniamoci poi il problema di quando un detenuto ha finito di scontare la sua pena e deve quindi uscire dal carcere e spesso si ritrova senza un lavoro e senza una casa e si ritrova in strada e facendo il ragionamento che forse in carcere soprattutto d’inverno si stava meglio e allora tornano a commettere reati". E di altro cosa si potrebbe fare? " In Brasile per esempio dove sono attivo con una associazione c’è un metodo di giustizia che tende a reinserire i giovani condannati attraverso l’affidamento a centri educativi riconosciuti dal magistrato dove svolgono dei lavori formativi e delle attività socialmente utili anche a favore delle persone verso cui hanno compiuto il loro reato- ha affermato il relatore - un tipo di esperienza questo che si potrebbe sviluppare anche con gli adulti che avrebbero molto bisogno di ripensare alla propria vita inseriti in un contesto sociale dove prendere consapevolezza delle proprie doti perché uno dei problemi del carcere è che la persona si deresponsabilizza al punto che quando la pena sta per finire viene afflitto da angoscia chiedendosi dove andare, cosa fare non avendo ne soldi ne una casa". Racchetti ha poi riportato alcuni dati sulle carceri italiane. "Ci sono in Italia diversi tipi di carceri, in alcuni si svolgono attività rieducative e produttive, momenti di riflessione mentre in altri la vita è veramente durissima: la differenza sta nell’organizzazione che viene data da chi dirige il penitenziario. Un detenuto costa allo Stato 150 euro al giorno, di queste 4,9 euro sono per il vitto mentre soli 22 centesimi per l’attività educativa, tutto il resto va a coprire le spese di gestione e manutenzione del carcere. Nelle carceri italiane ci sono casi di suicidio 16 volte più frequenti che in altri ambiti, abbiamo poi degli atti di autolesionismo con alcuni detenuti che credono che l’unico modo per poter comunicare sia procurarsi delle ferite sul corpo. Mi ha molto colpito infine il titolo del vostro percorso di quest’anno "L’uomo padrone o custode?", dal mio punto di vista custode è chi si prende cura di qualcuno, i detenuti avrebbero tanto bisogno di custodi ma nel senso positivo". Catania: dal 27 al 29 novembre la VII Conferenza Nazionale della Crivop Onlus di Michele Recupero (Fondatore della Crivop Onlus) Ristretti Orizzonti, 3 novembre 2015 Anche quest’anno la Crivop Onlus sta organizzando la VII Conferenza Nazionale, che si terrà da venerdì 27 a domenica 29 novembre 2015, presso la sala conferenze dell’Hotel "Il Gelso Bianco" di Catania. Gli importanti passi avanti compiuti in questi anni nel campo penitenziario saranno documentati durante il raduno con filmati video, fotografie, testimonianze da parte di ex detenuti che hanno realizzato un cambiamento di vita grazie al sostegno e alle attività svolte nelle carceri, evidenziando anche lo slancio nell’impegno sociale compiuto dall’Associazione e gli obiettivi che ancora si prefigge di raggiungere. Saranno presenti oltre un centinaio di volontari penitenziari, provenienti da tutta Italia e la partecipazione della neo-eletta Vicepresidente Nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Viviana Neri. Già vice presidente di Aics provinciale e fondatrice dell’associazione "Con…tatto", è stata nominata vice presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia che raggruppa tutte le conferenze regionali volontariato e giustizia assieme ad altre associazioni di volontariato derivanti sia dal mondo cattolico che laico. Il suo scopo è quello di offrire una piattaforma di dialogo e confronto alle realtà impegnate nel campo della giustizia. La Conferenza è stata fondata nel 1998, ha sede a Roma e raggruppa le 18 Conferenze regionali volontariato e giustizia, più altre associazioni nazionali tra cui A.I.C.S., Antigone, A.R.C.I., Caritas Italiana, C.N.C.A.- Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Comunità Papa Giovanni XXIII, Forum Salute in Carcere, J.S.N.- Jesuit Social Network Italia Onlus, Libera, S.E.A.C.: fanno riferimento alla Conferenza nazionale circa 10mila volontari in tutta Italia. Darà il proprio contributo nel seminario di Sabato 28 novembre 2015 inerente un argomento molto sentito nelle carceri, salvare gli affetti delle persone detenute è importante, anche come investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena. Cinema: la sacralità di Lea Garofalo secondo Marco Tullio Giordana di Maurizio Porro Corriere della Sera, 3 novembre 2015 Altri 100 passi di Marco Tullio Giordana in direzione del cinema civile. Se nel film di 15 anni fa con Lo Cascio si ricordava Peppino Impastato in lotta contro la mafia in cui militava il padre, "Lea", che apre l’11 novembre il RomaFiction Fest coordinato da Piera Detassis, è la storia di una vittima della ‘ndrangheta in cui milita tutta la famiglia. Dice il regista: "Lei aveva fatto vedere I cento passi alla figlia, dicendo che avrebbe fatto la stessa fine: quel film è stato un punto di riferimento. Questo ricorda uno dei fatti di cronaca più spaventosi, un omicidio tribale e orrendo che viene da un mondo remoto". Ancora anime nere: la Calabria in trasferta al Nord e una donna che non vuole accettare il malaffare atavico e cerca di resistere con la figlia Denise, sotto scorta. Quando il programma di protezione viene revocato, Lea scompare, il 24 novembre 2009. Spetta a Denise infiltratasi nella cosca familiare per denunciare i veri colpevoli, fratello e padre, smascherati da un pentito, finché il corpo viene trovato: ergastolo per tutti, anche per la 24enne Denise che vive da sorvegliata speciale. Una vera tragedia greca. "Gli elementi ci sono tutti - dice Giordana -. Il film è in ordine cronologico: la adolescenza calabrese di Lea, inseguendo un romanzo di formazione, girando a Milano, ricostruendo aule del tribunale e telecamere di sorveglianza. Solo alla fine ho inserito veri documenti del funerale con la città intera mobilitata. L’eloquenza di quelle facce ed espressioni non si poteva replicare, volevo fosse chiaro che avevamo raccontato una storia vera". Tornando alla tv, dove piantò un paletto d’autore con La meglio gioventù, Giordana la vede come un supporto importante: "Proposta l’idea, ho girato come un fulmine in 6 settimane". Lea (produzione Rai e Angelo Barbagallo con l’Associazione Produttori Tv e la Fondazione Cinema per Roma, col sostegno di Regione Lazio, Camera di commercio) passerà su Rai1 il 18 novembre. "Non è solo un film-tv di rara forza, ma è anche un’opera di grande valore civile, anzi di denuncia. Un impegno che per noi è prioritario", sottolinea il direttore Rai Fiction Tinny Andreatta. Tensioni sul set? "No - riprende Giordana - ho avuto appoggi basilari, come quello di don Ciotti, interpretato da Diego Ribon. Lui e l’avvocato Vincenza Rando hanno spiegato che la denuncia contro l’omertà, la rottura con le famiglie, è il passo che mette in crisi i meccanismi automatici di obbedienza, le leggi non scritte della ‘ndrangheta". E qui è la madre Lea a ribellarsi: "Quando le donne rompono la linea di continuità si apre la frattura, la crisi vera. Don Ciotti rivela che, dopo Lea, è stato avvicinato da molte donne terrorizzate, il fenomeno è in crescita, è l’unico modo per rompere il blocco, la fortezza impenetrabile". Per Lea un cast di volti nuovi di cui Giordana è entusiasta, partendo dalle due eroine, Vanessa Scalera (Lea) e Linda Caridi (Denise). Ma fra quei cento passi e questi c’è continuità: "È sempre l’universo familiare, clan a delinquere fondato sul sacro vincolo di sangue. Lea si ribella e cambia vita perché pensa ai figli, cioè al futuro. Gli uomini hanno perso credibilità, le donne sono concrete, a loro spetta educazione e trasmissione di valori. L’elemento rivoluzionario è femminile". La prova? È nel testo che Giordana prepara dell’irlandese Colm Tòibìn, Il testamento di Maria con Michela Cescon, dal 17 novembre allo Stabile di Torino. "Le due figure archetipe di madri, una laica, l’altra sacra, la Madonna, due ribelli che protestano contro il ruolo attribuito, vogliono esser se stesse". Anche Lea ha una sua religione in fondo? "In lei c’è sacralità. Ex agnostico e incredulo, oggi ho la massima curiosità e invidia per chi ha la fede. Penso che Lea credesse: quel sentimento di maternità l’avvicina alla religione. Perciò metto il film a disposizione della società civile. Ma di politica non ne voglio più nemmeno sentir parlare". Colombia: avviate le pratiche per l’estradizione di Manolo Pieroni, detenuto da 4 anni di Carlo Baroni La Nazione, 3 novembre 2015 Avviate le pratiche per l’estradizione di Manolo Pieroni, uno dei tre casi più importanti di connazionali detenuti in uno Stato estero e di cui anche La Nazione si è occupata più volte. Il 33enne di Segromigno in Monte è in carcere in Colombia infatti da 4 anni - a dire dei familiari ingiustamente -, e in base alla legge colombiana dovrà scontare una pena di 21 anni. Ora le pratiche per l’estradizione. Lo annuncia l’avvocato pisano Rolando Rossi a cui Pieroni ha conferito l’incarico da una ventina di giorni. Rossi, penalista di lungo corso e alle prese sempre con casi rilevanti, aggiunge: "Ho già sentito più volte e a lungo il mio assistito, non escludo che nelle prossime settimane possa volare in Colombia per un primo incontro dal vivo". "Il quadro è indubbiamente complesso - spiega Rossi - anche perché Pieroni è stato condannato con sentenza passata in giudicato, ma lui si dice vittima di un complotto ai suoi danni: stiamo cercando di portarlo in Italia a scontare la pena. A Lucca, inoltre, deve comparire davanti al giudice per altra vicenda". La storia di Manolo Pieroni è iniziata l’8 luglio del 2011 all’aeroporto di Calì, in Colombia. Nella sua valigia sono stati trovati sette chilogrammi di cocaina. Poi il processo e la condanna a 21 anni e 4 mesi di reclusione per "traffico internazionale e fabbricazione di stupefacenti". L’avvocato Rossi conferma gli atti in corso: "Ci siamo rivolti al Ministero di Grazia Giustizia perché si attivi, nei mondi e nelle forme previste dall’ordinamento, in modo da ottenere l’estradizione dell’imputato". A contattare l’avvocato Rossi è stata la compagna di Manolo Pieroni, Solange Del Carlo, prima tramite mail dalla Colombia, poi di persona: tutti questi contatti si sono infine concretizzati in una posta elettronica certificata con il conferimento ufficiale dell’incarico. Attualmente Manolo Pieroni si trova nel carcere di Palmira, il "Villa Las Palmas". Si è sempre dichiarato innocente e, secondo le sue dichiarazioni, sarebbe una vittima dei trafficanti di droga, tramite la pratica che viene chiamata "mula involontaria", "cioè quella pratica - spiega Rossi - che permetterebbe di inserire grosse quantità di stupefacenti nelle valigie di persone ignare per farle arrivare fino in Europa". Pieroni, infatti, quando è stato sorpreso stava rientrando in Italia. Guatemala: la lettera di Samuele Corbetta "grazie per l’aiuto, ma qui si vive nella paura" di Daniele De Salvo Il Giorno, 3 novembre 2015 Samuele Corbetta è stato condannato in Guatemala per l’accusa di abusi su una minorenne ma le norme giuridiche del paese centroamericano rendono difficile dimostrare la sua innocenza. "Qui si vive nella paura perenne di una rivolta". La sorte di Samuele Corbetta sta tenendo in apprensione i genitori, certi della sua innocenza. L’ambasciatore italiano in Guatemala ha avuto assicurazioni sul trattamento rispettoso in carcere. Cari amici vi scrivo... Samuele Corbetta, il volontario 34enne di Sirtori prigioniero in un carcere del Guatemala da ormai 27 mesi per un’infamante condanna per abusi su una minorenne al termine di un processo farsa, in una accorata lettera si rivolge ai suoi concittadini e agli amici che lo sostengono a distanza per ringraziarli con varie iniziative, come ad esempio la vendita di profumi che riesce a confezionare dalla sua cella e a spedire in patria per guadagnare qualche soldo. "Non so che dire, grazie per l’appoggio e la fiducia in me e nei miei genitori: sono momenti difficili per tutti noi, però grazie anche a tutti voi tiriamo avanti con la fronte in alto! Spero tutto finisca presto!". È consapevole che il suo è un caso difficile, non solo per le complicate norme giuridiche che vigono nello stato centroamericano e che rendono quasi impossibile provare la sua innocenza, ma anche per la complessa situazione politica nel Paese dove è detenuto. Tuttavia rassicura tutti: "Perlomeno, grazie ai funzionari e ai diplomatici dell’ambasciata italiana mi trovo in un settore molto tranquillo, con persone "importanti" e piuttosto educate: siamo solo 19 qui. Nei vari settori comuni sono anche 200 o di più. Tra di noi la passiamo bene, anche se si vive con la paura perenne di una rivolta: in totale siamo più di 5mila prigionieri, in un penitenziario che è stato fatto per non più di 2000 persone. Ogni giorno che passa tranquillo è un peso meno addosso, aspettando che passino i mesi". Dispone di una cameretta privata, di un cortile, cinque frigoriferi e fornelli elettrici personali per cucinare. Dove si trova c’è anche un campetto da calcio che lui e gli altri compagni possono utilizzare un paio d’ore per quattro giorni a settimana. Inoltre ha diritto a tre giorni di visita: mercoledì, sabato e domenica, dalle 8 alle 16. "Sotto questo punto di vista non mi posso lamentare, stiamo meglio che molte altre persone private di libertà. Anche se alla fine il detto è certo: "aunque de oro, la jaula siempre jaula es!" cioè "anche se d’oro, la gabbia sempre gabbia è". Fortunatamente ho una salute di ferro, non mi sono mai ammalato in questi due anni: speriamo di andare avanti così". I suoi genitori, papà Roberto e mamma Emiliana, sono molto preoccupati per lui, temono per la sua incolumità, ma a dicembre andranno a trovarlo. Della sua vicenda si sta interessando anche il ministro degli Esteri e i sottosegretari della Farnesina, oltre che l’ambasciatore Fabrizio Pignatelli della Leonessa che è andato a trovarlo di persona e che ha assicurato che, comunque si evolva la vicenda legale nelle aule dei tribunali, il brianzolo non verrà spostato in altre sezioni. Gli avvocati sono inoltre all’opera per ottenere il dimezzamento della pena di otto anni di reclusione a quattro, ma si lavora pure per la firma di un trattato bilaterale per estradarlo in Italia. Arabia Saudita: pena di morte, decapitato cittadino pakistano accusato di traffico di droga La Repubblica, 3 novembre 2015 Dai report periodici di Nessuno Tocchi Caino - l’organizzazione umanitaria della "galassia" radicale che realizza un monitoraggio attento sulla pratica della pena di morte in tutto il mondo - arrivano notizie dai paesi in cui il patibolo, vuoi nelle sue forme più medievali come il taglio della testa, o in quelle più "civili" (per così dire) dell’iniezione letale, è ancora la soluzione prescelta per esercitare la giustizia. Arabia Saudita, decapitato un pakistano. Un cittadino pakistano è stato decapitato in Arabia Saudita dopo essere stato riconosciuto colpevole di traffico di droga. Si tratta di Nimat Allah Mola Baksh il quale, secondo quanto riportato da un comunicato del Ministero degli Interni saudita, avrebbe ingerito delle confezioni contenenti eroina. L’uomo è stato giustiziato nella regione orientale del Paese. Con quest’ultima esecuzione giungono a 138 le persone giustiziate in Arabia Saudita dall’inizio di quest’anno, sulla base di un conteggio tenuto dalla Agence France Press. In tutto il 2014 le esecuzioni erano state 87. Florida, giustiziato Jerry Correll. Il 29 ottobre è stato giustiziato Jerry Correll, 59 anni, bianco, con una iniezione letale, usando il protocollo a 3 farmaci con il Midazolam. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto 7-2 la richiesta di sospendere l’esecuzione, in attesa che la stessa corte si pronunci nei prossimi mesi sulla costituzionalità della legge capitale dello stato, che viene contestata per il fatto che non impone l’unanimità dei giurati popolari, e inoltre consente al giudice di scavalcare il voto della giuria popolare. Correll era accusato di aver ucciso, il 30 giugno 1985, 4 membri della sua famiglia: la propria figlia di 5 anni, la ex moglie Susan Correll, la sorella e la madre della donna, Marybeth Jones e Mary Lou Hines. Correll diventa il 2° giustiziato di quest’anno il Florida, il 91° da quando la Florida ha ripreso le esecuzione nel 1979, il 25° dell’anno negli Stati Uniti, e il n. 1419 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni mel 1977. Pakistan, mandati a morte altri due detenuti. Il 27 ottobre 2015 due condannati a morte sono stati impiccati nelle carceri di Dera Ghazi Khan e Bahawalpur, mentre l’esecuzione di due condannati è stata rinviata. Un condannato per duplice omicidio, Abdul Majeed, è stato impiccato nel carcere distrettuale di Dera Ghazi Khan per aver ucciso il fratello, Ali Ahmed e il nipote Abdul Aziz, nel novembre 2002, per una disputa sulla proprietà. Un altro detenuto, Muhammad Azam, è stato giustiziato nella nuova prigione centrale di Bahawalpur, per aver ucciso il suo rivale nel 1997 per una vecchia inimicizia, mentre l’esecuzione di Muhammad Khadim Hussain è stata rinviata su ordine del tribunale. Anche l’esecuzione di Ibrar Hussain, nel carcere distrettuale di Toba Tek Singh, è stata rinviata dopo che le parti rivali hanno raggiunto un accordo. Aveva ucciso Muhammad Akram nel 1997. Dal 17 dicembre 2014, almeno 286 persone sono state impiccate in varie prigioni del Paese. Stati Uniti: Obama "70 milioni di americani pregiudicati, diamo lavoro agli ex carcerati" contattonews.it, 3 novembre 2015 Il Presidente americano Barak Obama torna a chiedere una riforma complessiva del sistema carcerario, sottolineando ancora una volta come sia fondamentale arrivare a una riforma. Lo ha fatto ieri dal New Jersey dove ha annunciato una serie di iniziative per rendere più semplice agli ex carcerati trovare un lavoro o una casa e così far rientrare nella società le persone che hanno alle spalle un passato di crimini. Si tratta di corsi di formazione attraverso i quali sarà possibile accedere a impieghi all’interno di agenzie federali o statali. La decisione arriva in un momento molto importante per gli Stati Uniti, visto che il mese scorso la United States Sentencing Commission aveva deciso di scarcerare 6.000 detenuti delle prigioni federali prima che finissero di scontare le loro pene. Si tratta di una mossa che ha coinvolto i prigionieri che hanno commesso crimini minori legati soprattutto alla droga. In tutto questo il presidente americano insieme al Congresso e ai singoli Stati sta lavorando a una iniziativa di legge che riduca o renda meno severe le sentenze per coloro che hanno commesso crimini non violenti. Obama ha infine ricordato che sono 70 milioni gli americani che hanno commesso un crimine. Di questi uno ogni tre è in età lavorativa. "Ci sono persone che hanno attraversato momenti difficili - ha detto Obama - hanno commesso errori ma con un piccolo aiuto possono andare nella giusta direzione". Obama ha infine ricordato ai datori di lavoro che è fondamentale non "ignorare" gli ex carcerati ma "dare loro una possibilità di avere un lavoro". Una delle iniziative tra l’altro prevede che nel corso dei colloqui non sia più obbligatorio fornire la propria fedina penale, evitando così di essere discriminati per un passato in carcere. Siria: Human Rights Watch "i ribelli mettono in gabbia i detenuti come scudi umani" Askanews, 3 novembre 2015 I gruppi armati siriani attivi nella regione Eastern Ghouta, fuori Damasco, mettono in gabbia gli ostaggi, compresi i civili, per usarli come "scudi umani" contro i raid del regime di Damasco e dell’aviazione russa. È quanto ha denunciato Human Rights Watch, sottolineato come tale pratica rappresenti "una presa di ostaggi e un oltraggio alla loro dignità personale, che sono entrambi crimini di guerra". Un video diffuso due giorni fa dalla rete Shaam News, dell’opposizione locale, ha mostrato camion che trasportavano le gabbie, in ognuna delle quali erano rinchiuse dalle quattro alle otto persone, sia uomini che donne. "I ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ognuna delle gabbie contiene circa sette persone, ed è in atto il piano di distribuire 1.000 gabbie in Eastern Ghouta - recita il testo - in diverse zone della città di Douma, in particolare nei luoghi pubblici e nei mercati che in passato sono stati attaccati dal regime e dall’aviazione russa". Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani la pratica sarebbe stata adottata dal potente gruppo Jaish al-Islam (esercito dell’islam). "Niente può giustificare la pratica di mettere in gabbia le persone, facendo loro rischiare intenzionalmente la vita, anche se l’obiettivo è quello di fermare gli attacchi indiscriminati del governo", ha detto il vicedirettore di Hrw per il Medio Oriente, Nadim Houry. Eastern Ghouta è la roccaforte dei ribelli fuori Damasco, presa spesso di mira dai raid aerei di Damasco. Solo la scorsa settimana almeno 70 persone sono morte e altre 550 sono rimaste ferite in un attacco a un mercato nella città di Douma. Città del Vaticano: "tradita la fiducia di Papa Francesco", arrestati i nuovi corvi di Marco Ansaldo La Repubblica, 3 novembre 2015 Un’altra Vatileaks: fermati monsignor Balda e la lobbista Chaouqui: "Divulgati documenti riservati e registrazioni di Bergoglio, no all’uscita di due libri". C’è chi lo definisce il ritorno dei corvi in Vaticano. Ma questa volta la Santa Sede ha chiuso subito il recinto, cercando di impedire che la possibile ondata di un nuovo scandalo per la diffusione di documenti segreti possa erompere in una seconda, imbarazzante Vatileaks. Un monsignore in cella, Lucio Angel Vallejo Balda, spagnolo, 54 anni, già segretario della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede. Una ex collaboratrice laica del Vaticano, Francesca Immacolata Chaouqui, 32 anni, calabrese di padre franco-marocchino, esperta in pubbliche relazioni ed ex membro della Commissione referente sulle strutture economico-amministrative della Santa Sede, anch’essa arrestata, poi rilasciata perché ha collaborato con le indagini. Sono i contorni della nuova bufera giudiziaria scoppiata Oltretevere per la fuga di notizie e di carte finite in inchieste giornalistiche, e ora anche in due libri in uscita. L’indagine, condotta dal comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani, era partita lo scorso maggio e si è concretizzata nella notte di Halloween, fra sabato e domenica scorsi, quando le due persone convocate dalle autorità vaticane per essere interrogate, sono state trattenute in stato d’arresto. Papa Francesco è stato subito informato dei provvedimenti. L’indagine di Giani aveva preso le mosse dalla pubblicazione di documenti riferitisi alla Commissione economica, presenti già in inchieste firmate sull’ Espresso dal giornalista Emiliano Fittipaldi. Poi si è accelerata per l’uscita, il prossimo 5 novembre, del volume di Fittipaldi "Avarizia" (Feltrinelli) e anche di "Via Crucis" di Gianluigi Nuzzi (Chiarelettere), quest’ultimo autore di quel "Sua Santità" con le carte fornite dal maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, nella Vatileaks che aveva portato a un inedito processo nel piccolo Stato. Ieri la Santa Sede ha rilasciato un comunicato duro. "Pubblicazioni di questo genere non concorrono a stabilire verità, ma a generare confusione e interpretazioni parziali e tendenziose. Bisogna evitare l’equivoco di pensare che ciò sia un modo per aiutare la missione del Papa". Il Vaticano sostiene che i libri annunciati, di cui potrebbe essere anche chiesto il ritiro, "anche questa volta, come già in passato, sono frutto di un grave tradimento della fiducia accordata dal Papa". Il libro "Avarizia" è un’inchiesta che partendo da documenti originali (verbali, bilanci, relazioni) intende svelare la ricchezza della Chiesa, dove il Papa sperimenta la resistenza a un cambiamento nella gestione del denaro. "Via Crucis" è un’analisi in cui si parte da registrazioni e documenti inediti per raccontare la difficile lotta di Jorge Bergoglio per cambiare la Chiesa. Con intercettazioni di Papa Francesco mentre sferra un attacco contro la nomenclatura a capo delle finanze, denunciando: "I costi sono fuori controllo. Ci sono trappole…". Ora monsignor Balda resta in cella, la stessa nel Palazzo della Gendarmeria dove per cinque mesi fu rinchiuso Paolo Gabriele. Non si sa ancora se per lui partirà anche un procedimento canonico. Francesca Chaouqui invece, come ha confermato il suo avvocato Giulia Bongiorno, "ha depositato documenti a supporto delle dichiarazioni rese", ed è già rientrata a casa. "Confido di uscire innocente dalla vicenda", ha detto. Nella Santa Sede la divulgazione di notizie e documenti riservati è un reato rafforzato da una legge adottata dopo il caso Vatileaks, che lo punisce con la reclusione fino a otto anni. L’Opus Dei ha preso le distanze dai due, accostati alla Prelatura, manifestando "sorpresa e dolore per queste notizie", e affermando che "gli unici superiori di monsignor Vallejo sono quelli della Santa Sede e il vescovo della diocesi spagnola dove è incardinato", mentre la Chaouqui "non è né è mai stata membro né cooperatrice dell’Opus Dei". Ma in Vaticano ci si chiede, a distanza di tre anni e mezzo dallo scandalo del maggiordomo, se questi nuovi casi rischino di macchiare l’azione riformista di Francesco. Le tre settimane di Sinodo, con ben tre casi eclatanti (l’ammissione di omosessualità di monsignor Charamsa, la diffusione della lettera dei 13 cardinali critici con Bergoglio, la falsa malattia del Papa) hanno fatto pensare a un possibile ritorno dei corvi. Per ora, ogni eventuale mossa è stata adesso neutralizzata. Stati Uniti: la fabbrica di pannelli solari che sfrutta il lavoro dei detenuti dell’Oregon di Anna Tita Gallo greenbiz.it, 3 novembre 2015 SolarCity è un nome ben noto negli Usa: è al top nel mercato delle installazioni nel segmento residenziale. Il fondatore è ancora più noto, visto che si tratta di Elon Musk, che ha creato l’azienda insieme a 2 cugini. Ecco perché non passa inosservata la notizia che l’azienda non abbia prestato abbastanza cura per i diritti umani, affidandosi a un fornitore che sfruttava il cosiddetto "prison labor", il lavoro dei detenuti. Naturalmente, la manodopera che lavora in prigione ha un costo minore, ecco perché stiamo parlando di una pratica molto diffusa negli Usa e si susseguono peraltro molte campagne che spingono i cittadini a boicottare i brand che utilizzano il prison labor per abbattere i costi. A SolarCity è capitato affidandosi ad un fornitore, la Suniva, con sede in Georgia ma che appunto utilizzava questa pratica per produrre pannelli solari contando sui detenuti dell’Oregon. SolarCity ha scelto Suniva nel 2012, al momento di lanciare un progetto in 2 campus universitari in Oregon. In realtà la Suniva è entrata in gioco in una seconda fase: prima di questa azienda la SolarCity si affidava ai prodotti della SolarWorld, pannelli realizzati in una fabbrica di Hillsboro, Oregon, dove i lavoratori erano pagati con salari che superavano quello minimo. Ma facciamo un passo indietro. Tutto è nato infatti quando la Oregon State University e l’Oregon Institute of Technology si sono uniti per installare pannelli solari, con la SolarCity che figurava come proprietario e gestore dell’impianto. I 2 campus non avrebbero investito un dollaro, insomma. Grazie ad un programma statale per la SolarCity era comunque un progetto di valore, visto che l’Oregon Department of Energy ha previsto un credito d’imposta di 11,8 mln di dollari per questo progetto da 27 mln. Incentivi generosi, offerti nell’ambito del Business Energy Tax Credit program, terminato nel 2014. Ebbene, il progetto rispondeva ai requisiti imposti per avere gli incentivi, tra cui quello della creazione di posti di lavoro. E i lavoratori che hanno realizzato i pannelli solari erano in effetti nell’Oregon, ma dietro le sbarre della Sheridan Federal Prison. Nessun programma per dare impulso all’economia locale, dunque, bensì salari miseri, di meno di un dollaro all’ora. Perché è accaduto? In realtà esiste un Prison Industry Enhancement Certification Program, PIE, del dipartimento di Giustizia che fissa standard elevati per il lavoro nelle prigioni. E si tratta spesso di attività che per un detenuto sono molto costruttive, che seguono ad una formazione adeguata e possono essere preziose al momento del reinserimento nel mondo del lavoro una volta che il detenuto termina di scontare la pena e torna nella società civile. Ma là dove lavoravano i detenuti per la SolarCity non c’è stata certificazione, ecco il motivo di quel salario tanto basso.