Il braccio di ferro con la burocrazia "chiedo alla S.V. di poter avere più affetti" Il Mattino di Padova, 30 novembre 2015 Chiedo alla Signoria Vostra di poter avere più affetti, se è possibile! Sono un detenuto come tanti in queste mura un po’ rigide e alle volte troppo spesse dove, non si sa per quale motivo, anche i colloqui e le telefonate sono contati. Ma, veramente, si può quantificare l’amore della propria famiglia in poche ore trascorse in sale prive di calore affettivo, e per di più passate insieme ad altre persone che stanno cercando di coltivare anche loro, in quel poco tempo a disposizione, quel sentimento che dovrebbe essere sempre vivo in una famiglia? Una richiesta pressante che spesso si scontra con le lungaggini della pubblica amministrazione. Sto a 800 km da casa, la pena la scontano anche i miei cari Vorrei approfondire proprio il discorso sugli spazi che ci concedono per i colloqui, spesso troppo affollati di familiari che provengono a volte da città molto lontane, come la mia; quei volti non possono nascondere la stanchezza delle ore interminabili di viaggio per venire qui, solo per qualche ora, prima di scappare di nuovo alla propria vita. Questo alle volte, invece di consolarci per l’emozione di aver rivisto i nostri cari dopo tanti mesi, diventa angosciante perché sappiamo di fatto subire loro lo stress delle ore trascorse tra aerei, treni, taxi, il caldo afoso o un freddo pungente, senza contare le spese per il viaggio, costato sicuramente un occhio della testa. Il tempo che ci viene concesso per i nostri cari sembra scorrere più rapidamente di quello trascorso normalmente in carcere, che resta il primo nemico da combattere la mattina appena svegli. Sembra così bel lo vedere dei bambini che neanche si conoscono giocare tra loro nelle sale colloqui, quando in realtà, pensandoci bene, solo da grandi capiranno il disagio di essersi persi per anni la possibilità di trascorrere insieme al loro papà una giornata importante come il compleanno o una semplice giornata al parco; per lo meno quelle creature sono così innocenti da non capire che saranno punite anche loro, perché sono i figli o nipoti di detenuti. Non potrò mai dimenticare quando da piccolo mi veniva detta la solita storiella, che mio padre era lì lontano da casa perché stava lavorando; poi crescendo si capisce che questo posto è solamente un luogo di pena. Sono tanti i disagi che vivono questi parenti, che soffrono più di noi, ma sono pronti ad affrontare viaggi lunghissimi, ore di attesa, perquisizioni personali, un vero calvario pur di vedere il loro caro, per la semplice ragione che provano amore per il proprio familiare detenuto, accettandolo per come è. Personalmente in questi anni non ho mai avuto la libertà e il piacere di sedermi a tavola con i miei cari, non ho mai potuto abbracciare mia madre in un’area più ampia e più familiare che mi permettesse di esprimerle quanto la amo. In questi anni purtroppo è venuto a mancare anche qualche parente; l’istituzione che vorrebbe rieducarmi però non mi ha neanche concesso di salutare per l’ultima volta queste persone, perché allora sulle mie spalle pesava la parola "ergastolo" e quindi ero considerato totalmente pericoloso. Queste sono cose che non si dimenticheranno mai, ma la cosa più straziante però sono state proprio quelle sale colloqui, dove mi si è lacerato il cuore, nel vedere mia madre, che già soffriva quel giorno per la morte di suo fratello, schiacciata dal peso di tutti gli anni di carcere che mi avrebbero diviso da lei. Quelle sale che dovrebbero essere il luogo del mio recupero, anche attraverso i miei affetti, molte volte sono state il mio peggior incubo, quasi un principio d’inferno che mi passa nella testa come la pellicola di un brutto film. E provo rabbia, perché non è giusto che questo conto debbano pagarlo anche i familiari, non è giusto che quelle giornate di assoluta delicatezza per me e la mia famiglia, per la perdita di un parente, abbiamo dovuto passarle nell’assoluto sconforto condividendo il dolore davanti ad altre persone. Chi rappresentava l’istituzione non ha avuto la sensibilità di farmi fare una telefonata straordinaria, volevano rieducarmi a modo loro, togliendomi l’amore al posto di darmelo. Dicono che questo mondo del carcere debba somigliare a quello esterno, ma sinceramente non vedo niente di tutto ciò. Per i miei errori non credo però di dover vivere dove venga calpestata la mia dignità, dove io venga privato dei miei affetti. Tutto questo dipende anche dal fatto che la regola che dovrebbe garantire la possibilità di scontare la propria pena vicino a casa non viene rispettata e così io mi ritrovo ad avere i miei cari ad 800 km: come posso fare per non perdere i miei affetti per i prossimi 20 anni? Raffaele Delle Chiaie Peggio che in Slovenia, servono più telefonate e colloqui via Skype Mi chiamo Mullai Pellumb, sono nato in Albania 60 anni fa e da trent’anni vivo a Monaco di Baviera con la mia famiglia. Siamo mia moglie ed io con due figli ormai grandi e laureati che si stanno costruendo il loro futuro in Germania, una terra che offre molto ai giovani che intendono costruire qualcosa di importante per il loro futuro. Circa due anni fa hanno diagnosticato un cancro al seno a mia moglie, in casa c’era la disperazione, ma ci siamo uniti per dare battaglia al male e vincerlo. Qualche mese dopo, l’8 aprile 2014, sono stato arrestato all’aeroporto di Lubiana in Slovenia per espiare una condanna di tanti anni fa; l’indomani mia moglie doveva iniziare un ciclo di chemioterapia a Monaco. Ero disperato, ma abbiamo due figli eccezionali che sono rimasti vicini alla madre, mentre io ero in carcere lontano da casa. Fortunatamente in Slovenia, per le persone detenute, non cessa il diritto di parlare con la famiglia, perciò, finché sono rimasto lì, potevo parlare con la mia famiglia quanto volevo. Era sufficiente acquistare una tessera telefonica e si potevano utilizzare le cabine poste nei reparti detentivi dalla mattina alle 7 fino alle 18. Finché sono rimasto là ho potuto sentire mia moglie parecchie volte durante il giorno, lei mi dava le notizie circa le sue cure in tempo reale, e questo ci consentiva di affrontare con maggiore forza e speranza la lontananza e la malattia. La situazione era tragica, ma vincevamo l’angoscia di quei giorni parlandoci, ascoltando le nostre voci, scambiandoci a vicenda il coraggio di arrivare all’indomani. Dopo un mese sono stato trasferito in Italia e sono arrivato alla Casa di Reclusione di Padova. In Italia c’è una realtà completamente differente dalla Slovenia. Intanto ho dovuto aspettare mesi che mi concedessero l’autorizzazione per chiamare il numero di casa. La burocrazia impone tempi lunghi che non tengono conto delle emozioni degli esseri umani. L’unico modo di restare in contatto con mia moglie e i figli erano i telegrammi. Ogni giorno ci scambiavamo informazioni, ma stranamente mi arrivavano sempre buone notizie. Non potevo ascoltare il tono della voce dei miei familiari per capire se dicevano la verità sulle reali condizioni di mia moglie. Ero disperato, non sapevo dove sbattere la testa. Fortunatamente qui a Padova una Direzione illuminata aveva concesso di utilizzare una scheda che consente di velocizzare le telefonate, di fare due telefonate straordinarie al mese e anche i colloqui via Skype di 15 minuti a settimana per chi non può ricevere visite dai familiari che vivono lontano. Finalmente arrivò l’autorizzazione e riuscii a parlare con mia moglie e i figli. Mia moglie ha dovuto subire due interventi chirurgici: una mastectomia (per il cancro al seno) e successivamente ha subito l’asportazione di un tumore dal polmone. Questo calvario è durato esattamente un anno e mezzo. Mia moglie ora si trova in convalescenza, dovrà rimanere sotto osservazione a lungo e per almeno 5 an n i sarà soggetta a una grave invalidità. L’incubo non è finito, continua ancora. Valutate voi se possono bastare quattro colloqui di 15 minuti con Skype e sei telefonate (da dieci minuti ciascuna) al mese per mantenere un rapporto con la famiglia. Mullai Pellumb Giustizia: Camere Penali; niente braccialetti elettronici, da oggi stop alle udienze di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 30 novembre 2015 Saranno migliaia i braccialetti rossi mostrati in bella mostra. Saranno tanti quanti ne mancano - a Napoli e in altri contesti difficili - per rendere esecutiva ed efficace la norma che avrebbe dovuto offrire una possibilità alternativa al carcere. Parliamo dei braccialetti elettronici (anche se nei fatti si tratta di congegni piazzati alla caviglia), nati alla fine degli anni Novanta per decongestionare le carceri e assicurare l’esecuzione delle condanne nel chiuso di un domicilio. Una possibilità mai decollata del tutto, come denunciano le camere penali del distretto napoletano, in piena sintonia con gli altri direttivi italiani. Una questione su cui i penalisti varano un nuovo pacchetto di scioperi (dopo quelli di inizio novembre), con l’astensione dalle udienze da oggi al prossimo venerdì quattro dicembre. Un problema nazionale, con inevitabili ripercussioni in un distretto difficile come quello napoletano: se ne discute questa mattina alle 11.30, in una conferenza stampa in piazza Cenni (Palazzo di giustizia) tenuta dal presidente della Camera penale Attilio Belloni e dagli altri esponenti della sua giunta. Iniziativa fortemente voluta dall’osservatorio carceri, il cui responsabile nazionale è il penalista napoletano Riccardo Polidoro, anche alla luce dei dati statistici raccolti in questi mesi. Qualche numero per chiarire le idee a tutti: gli apparecchi elettronici attualmente a disposizione sono circa 2.000 e costano allo Stato 11 milioni di euro l’anno (5.500 euro l’uno), versati a una compagnia telefonica che ha incassato 80 milioni di euro dal 2001 al 2011, per l’utilizzo dei primi 114 braccialetti. Numeri bassi, se si pensa che in questo decennio sono stati in realtà pochissimi quelli utilizzati. Confermano tutto i vertici della Camera penale di Napoli, alla luce della particolare "giurisprudenza" presente sul territorio. Si parte da uno slogan: "Il braccialetto elettronico? Non c’è e tu resti in galera". Come a dire: quando un giudice decide di disporre una pena alternativa al carcere, come i domiciliari condizionati all’applicazione del controllo elettronico, si trova di fronte alla mancanza di dispositivi. Quindi? Si decide di fare marcia indietro, e di lasciare in carcere un detenuto che invece poteva cominciare un percorso di riabilitazione agli arresti domiciliari. Un fenomeno variegato, si parla anche di liste di attesa cui sono sottoposti i detenuti nella speranza che venga reperito un bracciale elettronico. Per qualche giorno, infatti, i detenuti napoletani entrano in una sorta di "limbo", dove possono sperare di lasciare il carcere, solo a condizione che venga trovato un apparecchio elettronico. Quasi sempre, di fronte alla mancanza di congegni, lo scenario resta immobile: carcere per chi poteva essere scarcerato, un procedimento giudiziario che aveva dato esito favorevole che viene vanificato da una carenza endemica. Spiegano i penalisti: "Il sondaggio promosso dall’osservatorio descrive una situazione raccapricciante per uno stato di diritto. Restare in carcere, pur potendo uscire dalla cella, era ed è davvero inimmaginabile". Quindici anni fa dovevano "risolvere" l’emergenza sovraffollamento delle carceri, oggi sono sotto accusa. Meccanismi costosi, non in linea con la tecnologia informatica e digitale dei nostri tempi, i braccialetti oggi saranno sventolati nelle camere penali italiani, ovviamente in modo simbolico. Ce ne sono novemila, sembrano i contrassegni colorati di un villaggio vacanze, sono l’obiettivo polemico dell’astensione dalle udienze che ha inizio questa mattina. Stop ai processi, a meno di un mese dalla protesta - tutta napoletana - sulla carenza di personale amministrativo a Napoli e nel Tribunale di Napoli nord. Giustizia: gli avvocati "meno carcere e più braccialetti" La Repubblica, 30 novembre 2015 Gli avvocati delle Camere penali chiedono che si diffonda l’uso del bracciale elettronico al posto della detenzione in carcere. Una fascetta arancione da mettere al polso con lo slogan: "Più braccialetti meno carcere". La consegneranno gli avvocati della Camera Penale questa mattina, con un presidio davanti al Palagiustizia di Torino, per sensibilizzare l’uso del braccialetto elettronico ai detenuti. Un’iniziativa che fa parte della protesta nazionale dei penalisti che hanno proclamato l’astensione dalle udienze dal 30 novembre al 4 dicembre. Salterà così l’udienza per i quattro No Tav accusati di terrorismo e anche la testimonianza di Sergio Chiamparino al processo per i locali dei Murazzi. Questa "non è un’iniziativa corporativa e non ha un carattere di protesta sindacale: si tratta di proteggere diritti fondamentali che sono messi in pericolo non solo dalla prassi, ma anche da alcuni progetti di riforma" ha spiegato l’avvocato Roberto Trinchero, presidente della Camera penale del Piemonte Occidentale. Secondo i penalisti, il 90 per cento dei fascicoli cade in prescrizione per ritardi e inconvenienti (nullità dei capi d’accusa, testimoni non citati, notifiche sbagliate), e non per le strategie degli avvocati. "Noi - ha commentato Trinchero - non miriamo alla prescrizione. Noi vogliamo processi celebrati in tempi ragionevoli". Mentre a Torino i processi vengono fissati per il 2017 e il 2018. L’uso del braccialetto elettronico, invece (che in realtà è indossato dal detenuto ai domiciliari alla caviglia), è stato introdotto nel 2001, ma per anni è rimasto "dimenticato". Nel 2013 un appalto ne ha previsti 2mila in Italia, e solo nell’ultimo anno hanno preso "piede": non bastano però e ci sono detenuti costretti a rimanere in carcere. "Il tribunale di Torino ha fatto da apripista spiegano gli avvocati - ma ora il loro utilizzo si è arenato, perché non ce ne sono abbastanza. È necessario rendere effettivo questo strumento, ma bisogna impiegare nuove risorse. Ci sono casi di detenuti che, dopo essere stati posti ai domiciliari con il braccialetto, sono rimasti in carcere per mesi perché il dispositivo non era reperibile". Ne servirebbero, secondo i legali, almeno 5mila. Ogni detenuto costa allo Stato circa 100 euro al giorno, e questo strumento consentirebbe risparmi, meno sovraffollamento in carcere, sollevando le forze dell’ordine dai controlli "a casa" degli arrestati. Giustizia: dall’Islam un aiuto ai detenuti, imam e mediatori culturali nelle carceri di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 novembre 2015 L’accordo è stato siglato tra il ministero della giustizia e l’Ucoii. Porta la data precedente del 5 novembre scorso, prima dell’attacco terroristico messo in atto il 13 novembre a Parigi dall’Isis, il protocollo di intesa firmato tra le parti che prevede l’ingresso negli istituti di pena italiani di ministri di culto islamico (imam) e mediatori culturali per offrire quello che definisce "un valido sostegno religioso e morale ai ristretti provenienti dai paesi di fede islamica". Per iniziare, si parte con una sperimentazione di sei mesi per poi proseguire per due anni rinnovabili. Il ministero della giustizia d’intesa con l’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) prova così a potenziare la libertà di culto nelle carceri italiane in un’ottica imprescindibile di controllo contro ogni rischio di radicalismo religioso e attentato alla sicurezza pubblica. Secondo quanto riportato nel protocollo, ci sono oltre 10 mila reclusi di fede islamica, distribuiti principalmente negli istituti del nord Italia e incontri di preghiera in quasi tutti gli istituti: uno scollamento notevole tra la diffusione del credo religioso con le pratiche attinenti e la sparuta compagine di guida al culto e alla mediazione culturale che l’Italia ha finora messo in campo per i detenuti musulmani. Basti pensare che "ben 52 istituti dispongono di un locale adibito alla preghiera mentre in 132 il culto è esercitato nelle stesse celle o in locali occasionali per via delle carenze strutturali. A fronte di questo dato", informa il protocollo, "si è riscontrata un’esigua presenza della comunità esterna visto che accedono solo nove soggetti che rivestono il ruolo di imam e 14 mediatori culturali". Serve quindi fare di più, soprattutto per favorire e potenziare il contributo esterno ai detenuti che senza riferimenti, secondo quanto si legge nel documento, si ritrovano spesso protagonisti di atti di autolesionismo dentro e fuori le mura carcerarie. Secondo gli accordi tra le parti, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero fornirà, attraverso l’Ufficio incaricato dell’annuale monitoraggio sulle moschee negli istituti, la lista degli istituti più interessati dalla presenza dei detenuti musulmani e l’Ucoii per parte sua, la lista delle persone interessate a fare volontariato nelle carceri come imam e mediatori interculturali. Gli istituti saranno successivamente tenuti a relazionare periodicamente al Dap sull’andamento del progetto che prevede una formazione pratica delle figure scelte curata dal ministero della giustizia. Il protocollo prevede una mappatura completa del territorio nazionale ma nell’ormai prossima fase di sperimentazione della durata di sei mesi, è previsto un avvio limitato a otto istituti di pena: Torino, i due istituti milanesi, Brescia, Verona, Modena, Cremona e Firenze. L’obiettivo è però quello di allargare il protocollo a tutti gli istituti di pena interessati dalla presenza dei detenuti di fede islamica e a convenzioni con le università e gli enti di formazione in grado di formare quei volontari che avranno assicurato presenza continuativa e capacità, sentito anche il parere dell’Ucoii. Giustizia: Consulta, il premier vuole vincere tre giudici a zero di Ugo Magri La Stampa, 30 novembre 2015 Renzi punta a eleggere un pacchetto e blindare l’Italicum. Ma questo rende arduo il voto di domani in aula, specie su Pitruzzella. Se Renzi si accontentasse di un pari, o di vincere senza esagerare, domani il Parlamento metterebbe la parola fine al tormentone della Consulta, e non rischieremmo la fumata nera numero 29 sui tre giudici ancora da eleggere. Per evitarla, basterebbe che il premier venisse a patti coi Cinque Stelle, i quali stavolta sembrano disposti ad aggiungere i loro 130 voti in cambio di qualche compromesso. Darebbero certamente l’ok nel caso in cui, per esempio, al posto di Augusto Barbera il Pd proponesse il costituzionalista Massimo Luciani (che molto piace alla minoranza bersaniana e, per questo, un po’ meno al premier). Idem i grillini ci starebbero se Forza Italia spingesse avanti il referendario Giovanni Guzzetta anziché Francesco Paolo Sisto. Il quale nell’ottica pentastellata ha l’handicap di aver difeso da avvocato, insieme con innocenti e fior di delinquenti, un "babau" come Verdini. Per parte loro i grillini vorrebbero il professor Franco Modugno, su cui domani potrebbe convergere Sel. Ma, a quanto risulta, Renzi non intende minimamente venire a patti. La vera posta. Il premier ha urgenza di mettere in sicurezza la Corte costituzionale, dove presto si discuterà di "Italicum", e nessuno sa quale sarebbe la sorte di questa legge così fondamentale nella strategia del premier se alla Corte venissero elette figure del tutto prive di cordone ombelicale. L’esito sarebbe incerto perfino nel caso in cui Renzi si limitasse a vincere per 2 a 1, due nuovi giudici disposti a votare la costituzionalità della riforma, e uno solo contrario (Modugno). Ecco perché Renzi tenterà quella che dal suo punto di vista è una mossa quasi obbligata: prosciugare l’area del dissenso parlamentare e portare a casa i tre nomi già bocciati nella scorsa votazione. In base ai riscontri di Palazzo Chigi, tanto Barbera quanto Sisto sono pro "Italicum" alla pari del candidato centrista Pitruzzella. Dunque meritevoli di riprovarci anche a costo di fare fiasco daccapo. Giorno sfortunato. Peccato che domani sia la data meno adatta per tentare l’affondo, in quanto tra 4 giorni a Catania il Gip deciderà se rinviare o meno a giudizio Pitruzzella (è una vicenda su cui i pm avevano già chiesto l’archiviazione). Con questa spada di Damocle, è improbabile che l’attuale presidente dell’Antitrust possa farcela: già gli mancavano 79 voti per superare la soglia dei due terzi, figurarsi adesso. Per poterci riprovare, Pitruzzella avrebbe bisogno prima di essere scagionato, dunque di attendere il suo verdetto. Ma siccome la votazione sulla Consulta è fissata per le 13 di domani, è possibile che i sostenitori di Pitruzzella si astengano sugli altri due candidati per non farlo restare indietro da solo. Magari saranno qualche decina al massimo, ma rischiano di essere letali anche per Barbera e per Sisto. Mix micidiale. Il gap verrebbe forse colmato se la Lega scendesse in campo e sostenesse i tre. In cambio il Carroccio chiede la nomina dell’ex senatore Leo alla Corte dei conti. Sono in corso trattative "ad hoc". I renziani tentano di riportare all’ovile pure quella cinquantina di parlamentari che hanno sostenuto Piepoli in parte per protesta (nessuno li aveva consultati), in parte perché vorrebbero in cambio una poltrona di governo. Anche qui, le trattative sono brutali. Ma Brunetta, capogruppo "azzurro", si stupisce "dello stupore che manifestano le anime belle. In tempi di compromesso furono eletti alla Consulta anche personaggi che non ne avevano titolo. Nei tempi grami attuali, tutto diventa più complicato". Giustizia: indagini europee ed esecuzione delle pene, gli schemi di Dlgs approvati dal Cdm di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2015 L’invio nelle aule parlamentari di ben dieci schemi di decreti legislativi "targati penale", per i pareri di rito, trascina con sé anche il "restyling" in cantiere per il praticantato, il tirocinio formativo per l’accesso alla professione forense. Si va dalla depenalizzazione "silente" di tutti i reati puniti con pena pecuniaria, con qualche eccezione, alla modifica delle indagini in ambito europeo con le squadre investigative comuni e il sequestro probatorio. Ormai il processo penale nella fase delle indagini (mandato arresto, ordine d’indagine, squadre investigative, sequestro probatorio e preventivo e così via) e in quella dell’esecuzione della pena (reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, delle sentenze e delle decisioni penali che irrogano pene detentive o misure restrittive della libertà personale, delle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo, delle misure alternative alla detenzione cautelare) risente in modo importante della legislazione comunitaria. Resta in mezzo la fase del giudizio, anche se alcune direttive tendono a coprire anche questo segmento del processo (la direttiva 2012/29/Ue sulle vittime del reato, la 2013/48/Ue e la 2010/64/Ue sui diritti dell’imputato). I provvedimenti approvati dal Cdm del 13 novembre - Nel comunicato n. 90 del Consiglio dei ministri si scopre un consistente intervento operato - nella forma di schemi di decreti legislativi - che riguarda i seguenti ambiti: 1) la depenalizzazione dei reati (composta da due articolati); 2) le disposizioni in materia di abrogazione dei reati e l’introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie; 3) i provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio; 4) il reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie; 5) il reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni penali che irrogano pene detentive o misure restrittive della libertà personale; 6) il reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo; 7) il reciproco riconoscimento delle misure alternative alla detenzione cautelare; 8) l’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali; 9) le squadre investigative comuni. Questi provvedimenti - ora sono approdati in Parlamento per i pareri che dovrebbero esser dati quasi tutti entro l’anno - attendono un nuovo passaggio al Cdm per poi arrivare in "Gazzetta". Il "restyling" all’accesso alla professione forense - Anche la professione forense, in particolare l’accesso, i requisiti per la continuità professionale e la società tra avvocati sono oggetto di un’importante trasformazione, grazie allo strumento del decreto ministeriale di attuazione. Giustizia: trattori in corteo per l’agricoltore che uccise un ladro con la roncola di Agostino Gramigna Corriere della Sera, 30 novembre 2015 L’uomo è in cella. Sfilano sindaci e assessori: "Ha fatto bene". Quando i carabinieri, il 4 agosto, sono arrivati sul posto in cui giaceva il cadavere del siriano ucciso a colpi di roncola, a stento hanno trattenuto il controllo. Per l’orrore che s’è presentato ai loro occhi. Un braccio staccato, la schiena spaccata, il volto fatto a pezzi. Un delitto terribile. Che da sabato ha un colpevole, un agricoltore finito in galera dopo aver confessato. Ma anche un paese, Cologno al Serio (Bergamo), che s’è stretto attorno a lui. Sindaco e assessori compresi. La dimostrazione di solidarietà pubblica è stata organizzata in trattore: circa 60 mezzi hanno sfilato all’annuale "Festa del Melgòt" (granturco) che si svolge ogni anno in paese con il patrocinio Coldiretti. Sui cartelli il nome dell’agricoltore arrestato: "Sebastiano". Mentre un mega fusto del latte è stato usato per la raccolta di soldi. La vittima, Ibrahim Basam era un siriano che viveva in Italia da venti anni, con precedenti per furti, ospite di una famiglia di giostrai in una cascina non distante da quella dove abita chi l’ha ucciso. I carabinieri lo hanno ritrovato cadavere sotto gli alberi nella frazione di Fornasette, in una zona di campagna. Dopo tre mesi di indagini l’arresto: ad avere ucciso Ibrahim è stato Sebastiano Arnoldi, padre di tre figli. Quel giorno aveva in mano un roncola quando avrebbe visto il siriano vicino a un’auto. "Era una Panda nera, e stava rubando", ha detto ai carabinieri. "Mi sono avvicinato per dirgli di smetterla e lui ha minacciato di dare fuoco alla mia casa e di uccidere la mia famiglia. Ho perso la testa e l’ho colpito". Con trenta roncolate. Il siriano, cinquantenne, era conosciuto in zona, soprattutto dai carabinieri. Arnoldi ha detto di aver subito in passato già altri furti da Bassam. "Una volta la borsetta di mia moglie che si trovava nella sua auto". Per questo ieri alla festa "del gran turco" il corteo ha preso un significato diverso dal solito: solidarietà all’uomo che per i paesani li ha liberati da un ladro. Il sindaco leghista, Claudio Sesani, ha dichiarato "incondizionata solidarietà e vicinanza a Sebastiano e alla sua famiglia". "C’era un problema di furti a Cologno al Serio. Da quando è morto il siriano è stato risolto". L’assessora ai Servizi sociali, Stefania Boschi, è stata più esplicita: "Al suo posto avrei fatto la stessa cosa. Tempo fa ho ricevuto minacce da alcuni marocchini che avevo sfrattato". Durante la settimana, un gruppo di persone, guidato dal dentista del paese, era andato a casa per offrire sostegno alla famiglia dell’arrestato. "Sono in difficoltà economiche, con un grosso mutuo sulle spalle per l’acquisto della cascina". Nei prossimi giorni è prevista una fiaccolata allo scopo di raccogliere fondi per sostenere le spese processuali. Alla festa del "gran turco" c’era pure il parroco, don Zanoli, che ha benedetto il raccolto e gli agricoltori. Ma ha invitato ad essere prudenti e a non farsi strumentalizzare da nessuno. "Conosciamo il peccato ma non sta a noi giudicare il peccatore". Le indagini erano partite subito dopo il ritrovamento del cadavere. Inizialmente si pensava a un regolamento di conti all’interno della comunità di immigrati. Poi qualcosa deve essere emerso per aver dirottato le indagini su Arnoldi. Pare anche una lettera anonima, ricevuta dai carabinieri, in cui c’era scritto di indagare su un Pick-up (l’auto di proprietà dell’agricoltore). Intanto della Panda nera, la macchina che secondo Arnoldi stava per essere aperta e frugata da Bassam, non si sa nulla. Il sindaco ha lanciato un appello affinché il proprietario della vettura esca allo scoperto e racconti ai carabinieri cosa avrebbe visto. Per il momento nessuno s’è fatto vivo. Il permesso di colloquio all’indagato sottoposto a misura cautelare in carcere spetta al Gip di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 17 settembre 2015 n. 37834. La competenza a concedere, durante la fase delle indagini preliminari, il permesso di colloquio all’indagato sottoposto alla misura cautelare in carcere spetta al Gip, che provvede dopo aver acquisito il parere del pubblico ministero. Lo hanno stabilito i giudici penali sella prima sezione della Cassazione con la sentenza n. 37834 del 2015. Nel caso specifico - La Corte, accogliendo il ricorso della difesa, ha annullato con rinvio il provvedimento con cui il Gip, richiesto di revocare il divieto di colloquio imposto dal pubblico ministero procedente, aveva dichiarato non luogo a provvedere sull’istanza, ritenendo erroneamente la competenza esclusiva dell’organo inquirente a provvedere al riguardo nel corso delle indagini preliminari, ai sensi degli articoli 11 e 18 dell’ordinamento penitenziario. Le motivazioni della Cassazione - La Cassazione ha argomentato la propria conclusione valorizzando la natura giurisdizionale (e non amministrativa) del permesso di colloquio, garantita appunto dall’intervento del Gip, desumibile dal fatto che si tratta di provvedimento destinato a incidere in senso restrittivo sull’estrinsecazione della libertà personale dell’indagato, e che giustifica, del resto, come avverso il provvedimento adottato in materia, siccome idoneo a comportare un inasprimento del grado di afflittività della misura, sia prevista la ricorribilità diretta in Cassazione ex articolo 111, comma 7, della Costituzione. Il riconoscimento normativo - Tale conclusione (già, per vero, affermata in giurisprudenza: in termini, sezione V, 4 luglio 2013, Stefani), trova, secondo la Corte, un riconoscimento normativo di natura testuale nel disposto dell’articolo 34, comma 2-ter, lettera b), del Cpp, che - nell’escludere, con riferimento ai ""provvedimenti relativi ai permessi di colloquio" previsti dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, l’operatività della causa di incompatibilità a tenere l’udienza preliminare o a partecipare al giudizio del giudice che abbia esercitato le funzioni di Gip nel medesimo procedimento, prevista dal precedente comma 2-bis, postula necessariamente che l’emissione di tali provvedimenti sia di competenza del Gip, e non del pubblico ministero. La Cassazione conclude affermando, a conforto del principio di diritto, che non sussiste quindi alcuna ragione che osti all’estensione alla materia dei permessi di colloquio della previsione di adeguamento all’attuale sistema processuale delle competenze originariamente sancite dall’articolo 11, comma 2, dell’ordinamento penitenziario - mediante attribuzione del relativo potere al giudice che procede e, prima dell’esercizio dell’azione penale, al Gip - contenuta nell’articolo 240 delle disposizioni di attuazione del Cpp con esplicito riguardo ai provvedimenti in tema di trattamento sanitario del detenuto. Le aggravanti dei motivi futili e abietti sono diverse e non possono coesistere di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 29 settembre 2015 n. 39358. Anche se accomunate nella formulazione dell’articolo 61, numero 1, del Cp, le aggravanti del motivo futile e del motivo abietto sono concettualmente diverse, come indicato dalla disgiuntiva "o" utilizzata nella norma. Ne deriva che difficilmente le due aggravanti possono coesistere e quindi, laddove contestualmente contestate, possono essere entrambe ravvisate solo in presenza di una adeguata motivazione. Questo il principio dei giudici della prima sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 39358 del 2015. L’annullamento con rinvio della Corte - In base alle premesse espresse nel principio di diritto, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza per una rinnovata valutazione in ordine alla ravvisata compresenza delle due aggravanti in una vicenda in cui l’omicidio contestato all’imputato era stato ritenuto aggravato sia dai motivi abietti, siccome motivato da ragioni di predominio territoriale, sia dai motivi futili, consistiti in una ritorsione per un litigio per ragioni di frequentazione di una donna. La diversità delle aggravanti - La Cassazione valorizza la diversità delle circostanze aggravanti dei motivi futili e dei motivi abietti, pur configurate nella stessa disposizione (articolo 61, numero 1, del Cp ): la prima è soggettiva, mentre l’altra è oggettiva, e comunque ciascuna è ancorata a dati fattuali e antitetici, così che difficilmente esse possono coesistere. Infatti, l’aggravante dei futili motivi sussiste allorché la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento: si tratta, in sostanza, di un non-motivo. Mentre per motivo abietto deve intendersi quello turpe, ignobile, che rivela nell’agente un grado tale di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello che, secondo il comune modo di sentire, è espressione di un sentimento spregevole o vile, che provoca ripulsione ed è ingiustificabile per l’abnormità di fronte al sentimento umano: si tratta di un motivo non giustificato dal sentire comune. Mediazione obbligatoria "inevitabile" di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2015 Tribunale di Firenze - Sezione III civile - sentenza del 15 ottobre 2015, n. 3497. Se le parti compaiono davanti al mediatore limitandosi a manifestare la loro intenzione di non dare seguito alla mediazione obbligatoria, senza quindi fornire ulteriore e più specifica indicazione degli impedimenti all’effettivo svolgersi del procedimento, il giudice deve sanzionare tale ingiustificata volontà di sottrarsi ad essa dichiarando la improcedibilità sia della domanda proposta con il decreto ingiuntivo sia di quella riconvenzionale proposta nel giudizio di opposizione. Perviene a queste conclusioni la sentenza con la quale la sezione imprese del Tribunale di Firenze (estensore Scionti) del 15 ottobre 2015 ha risolto la controversia tra una banca ed una società relativa ad un conto corrente ed un conto anticipi export (con contestazioni per applicazione di tassi superiori al tasso soglia di usura e con illegittima capitalizzazione e applicazione di commissioni di massimo scoperto). Il giudice fiorentino, dopo aver concesso la provvisoria esecutorietà del decreto opposto, disponeva che le parti esperissero il procedimento di mediazione obbligatorio ex lege (rientrando la lite nella materia dei contratti bancari) con onere di impulso a carico di parte opposta. Alla successiva udienza il Tribunale rilevava dal verbale di mediazione che al primo incontro le parti avevano dato atto che "allo stato non sussistono i presupposti per poter dare avvio al procedimento di mediazione" senza fornire idonea, specifica e motivata giustificazione al mancato avvio di un effettivo tentativo di mediazione. Il giudicante ribadisce infatti che l’effettivo esperimento del procedimento di mediazione "non è rimesso alla mera discrezionalità delle parti", per cui le stesse non sono libere, una volta depositata la domanda di avvio della procedura e fissato il primo incontro dinanzi al mediatore, di "manifestare il proprio disinteresse nel procedere al tentativo". La norma in base alla quale il mediatore, durante il primo incontro, deve invitare le parti e i loro avvocati "ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione", deve difatti essere interpretata nel senso di "attribuire al mediatore il compito di verificare l’eventuale sussistenza di concreti impedimenti all’effettivo esperimento della procedura e non già quello di accertare la volontà delle parti in ordine all’opportunità di dare inizio alla stessa". Diversamente la mediazione più che obbligatoria sarebbe facoltativa e "rimessa al mero arbitrio delle parti con sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva". Se da un lato dunque resta aperta la vexata quaestio circa l’improcedibilità del decreto ingiuntivo da dichiararsi nell’ambito del giudizio di opposizione allo stesso, dall’altro si allarga il fronte dei giudici che mirano a rafforzare il ruolo del mediatore nella fase introduttiva della mediazione - non senza qualche preoccupazione sulla individuazione dei confini delle sue funzioni - al fine di scoraggiare comportamenti opportunistici delle parti. Venezia: giovane detenuto muore in cella, la Procura dispone l’autopsia La Nuova Venezia, 30 novembre 2015 Manuel Valesin, 38 anni, sarebbe dovuto tornare libero a breve, ma è crollato al suolo ieri mattina Il pm vuole accertare le cause del decesso, la famiglia teme una cattiva somministrazione di farmaci. Un giovane detenuto è morto in una cella del carcere di Santa Maria Maggiore: Manuel Valesin, veneziano, aveva 38 anni e si trovava agli arresti per resistenza a pubblico ufficiale, dopo una precedente condanna per rapina. A ucciderlo è stato probabilmente un arresto cardiaco improvviso, ma trattandosi di un giovane uomo detenuto (quindi, una persona la cui salute e sicurezza è affidata allo Stato) e in trattamento con farmaci anti-trombosi, il pubblico ministero Roberto Terzo ha deciso di disporre l’autopsia, per fugare qualsiasi dubbio. Così nei prossimi giorni sarà eseguito l’esame del corpo: la stessa famiglia ha manifestato l’intenzione di affidarsi ad un legale per seguire l’indagine, temendo che il giovane uomo possa essere morto in seguito a una cattiva somministrazione dei farmaci. Sono stati per primi i compagni di cella di Manuel Valesin, ieri mattina, a dare l’allarme, quando è crollato all’improvviso a terra: il personale del carcere si è attivato con un massaggio cardiaco, ma all’arrivo del Suem 118, ai medici non è restato che constatare il decesso. Valesin stava finendo di scontare una pena a 6 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, nel corso di una rissa scoppiata a San Pantalon, all’interno di un locale pizzeria-kebab: un’accusa per la quale solitamente non si finisce in carcere, ma Valesin aveva avuto precedenti sentenze penali a suo carico per rapina (l’aggressione a tre ragazze trevigiane, insieme ad un complice, nel 2004), un patteggiamento a 4 mesi per il furto di uno scooter e un altro patteggiamento nell’ambito di un’inchiesta per spaccio di sostanze stupefacenti (8 mesi). Così, alla fine, per lui si erano aperte le porte di Santa Maria Maggiore, dove tra poche settimane sarebbe dovuto uscire per fine pena. Manuel Valesin si trovava in carcere in seguito ad una condanna per resistenza a pubblico ufficiale: era il gennaio 2009, quando a San Pantalon arrivano volanti, vigili, carabinieri per evitare che Valesin aggredisca il titolare di un kebab. In quell’occasione, visibilmente alterato, l’uomo aveva raccontato di essere stato picchiato poco prima da uno stranierio (mostrando i segni sulla faccia) che il titolare della pizzeria-kebab non aveva mosso un dito. Motivo del contendere, alcune bevande non pagate da Valesin e due suoi amici. Alla vista di agenti, carabinieri e vigili era stato un crescendo di intemperanze, proseguite anche al pronto soccorso, fino all’arresto. La morte di Manuel Valesin pare avere una causa naturale, ma certo arriva al termine di un anno molto difficile per il carcere di Santa Maria Maggiore, dove ci sono state proteste dei detenuti legate alle condizioni di sovraffollamento (262 a fronte dei 180 teorici) anche con un caso di suicidio a gennaio. Suffragate anche dai sindacati di polizia penitenziaria che segnalano la mancanza di personale (100 agenti contro i 180 in pianta organica). Cuneo: report della visita ispettiva al carcere, nessun problema di organico di Fabiana Dadone (Movimento 5 Stelle) targatocn.it, 30 novembre 2015 Venerdì 27 novembre, accompagnata dal direttore del carcere di Cuneo, dottor Claudio Mazzero, unitamente a Manuele Isoardi, consigliere comunale del MoVimento 5 stelle di Cuneo ed i membri del Sappe di Torino ho fatto visita alla Casa Circondariale di Cuneo. Lo scopo della mia visita era volto a capire se ci fossero problematiche in tale struttura penitenziaria e in che modo si potessero eventualmente risolvere. In primo luogo deve essere evidenziato come, a differenza della Casa di Reclusione di Saluzzo, a cui ho fatto visita il 23 ottobre, non vi sia alcun problema di organico. Buono il lavoro svolto all’interno del nuovo padiglione che ospita la quasi totalità dei detenuti perché vi è un sistema totalmente automatizzato che permette la vigilanza ed il controllo di più ambienti da un’unica postazione. Le celle di sicurezza saranno ristrutturate nel 2016 mentre la camminata sopra al muro di cinta, che ha in corso lavori di ristrutturazione, sarà terminata entro il mese di marzo del 2016. Mi è stato segnalata, inoltre, la mancanza di una fermata dell’autobus di fronte alla struttura (presente ad esempio nella Casa Circondariale di Torino) che sarebbe utile non solo per le famiglie dei detenuti ma anche per il personale, per gli assistenti sociali, per i volontari che frequentano quotidianamente tale struttura ed in generale per tutte quelle persone che lavorano nell’iter del carcere. Ho potuto osservare che all’interno della Casa Circondariale si svolgono varie attività, funzionali alla rieducazione della pena (garantita dall’art 27 della Costituzione), quali corsi scolastici di primo e secondo grado, corsi di scuola alberghieri e un corsi di scuola edile. Restando in attesa delle risposte del vice Ministro Costa riguardo le interrogazioni da me presentate sulle carceri di Alba e Saluzzo concluderò le mie personali visite alle strutture penitenziarie del cuneese con la città di Fossano. Massa Carrara: sentieri e mulattiere, a rimetterli a nuovo ci pensano i detenuti di Francesca Vatteroni Il Tirreno, 30 novembre 2015 Progetto di carcere, Comune e Cai per il reinserimento I partecipanti: una splendida opportunità per riscattarci. Nasce con la collaborazione della Casa circondariale di Massa Carrara, del Comune di Massa e del Cai (Club alpino Italiano), un progetto che apre la strada a nuove forme di collaborazione tra società e detenuti. Un progetto grazie al quale un piccolo gruppo di carcerati, 5 più un detenuto agli arresti domiciliari, ha partecipato, assieme ad altrettanti soci membri del Cai, ai lavori di manutenzione dei sentieri di montagna sulle nostre Apuane. Da luglio fino ad ottobre di quest’anno, per 2 giorni la settimana, i detenuti venivano accompagnati alle 7 a Massa sotto il palazzo comunale, da dove, con mezzi dei soci, venivano condotti a Canevara presso la sede Cai; da lì quindi, una volta indossati gli abiti da lavoro e recuperate le attrezzature in dotazione (guanti e scarponi), partivano alla volta della zona di intervento, lungo sentieri e mulattiere. Le fila dell’esperienza si tirano durante una conferenza stampa, ieri mattina, nella sala-cinema della casa circondariale, alla presenza della direttrice del carcere, dottoressa Maria Martone e dell’assessore alla cultura Mauro Fiori. "È stato un lavoro duro" è l’esordio del Presidente Cai Quadrelli che scende poi nei dettagli e racconta le nostre montagne, ne descrive la bellezze e le asperità: "Un lavoro duro - chiarisce il concetto - perché comunque le Alpi Apuane sono alte quasi 2000 metri e hanno sentieri difficili, a volte impervi". Poi entra nel vivo e racconta l’esperienza "entusiasmante" fatta con i detenuti. Entusiasmante - motiva - sotto diversi profili: per i ragazzi che hanno dimostrato una gran voglia di rendersi utili, per i membri del Cai, che sono riusciti a instaurare un ritmo di lavoro ed un affiatamento di squadra con i detenuti. Bella esperienza - aggiunge - e anche per gli abitanti dei paesi dove il gruppo è passato, che hanno dimostrato accoglienza e grande soddisfazione verso i ragazzi e l’iniziativa. Alcuni ragazzi sono presenti anche alla conferenza stampa e raccontano l’esperienza fatta in montagna, colta come una bellissima opportunità: "Se siamo qua è per una scelta sbagliata- dice uno di loro - ma voglio ringraziarvi - e si rivolge alle istituzioni presenti - per averci dato la possibilità di compiere un passo verso la reintegrazione nella società. E per avermi fatto conoscere gli splendidi paesaggi, scorci per me fino ad ora completamente sconosciuti". La direttrice del carcere spiega come sono stati selezionati i detenuti che hanno partecipato al progetto: "I ragazzi sono stati scelti in base alla loro sensibilità e al loro senso di responsabilità". Poi Maria Martone chiarisce come il progetto sia partito grazie alla modifica dell’art. 21 della Legge sull’Ordinamento penitenziario, la quale introduce il volontariato fra i detenuti. Quella stessa legge ha, infatti, permesso di attivare anche altre collaborazioni importanti tra cui quelle con il Tribunale, il WWF, la Caritas, tutte nel segno del riscatto sociale. Un progetto tanto riuscito che il Club Alpino Italiano, nel divulgare l’esperienza attraverso congressi e meeting, ha ricevuto, anche da parte di istituzioni europee, richieste di spiegazioni circa le modalità operative seguite e commenti entusiastici di molti escursionisti. Messina: Sippe e Ugl: "nella Casa circondariale mancano acqua calda e servizi igienici" di Danilo Loria strettoweb.com, 30 novembre 2015 Denuncia del Segretario Generale del Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) Carmine Olanda e del Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale sulle condizioni della casa circondariale di Messina. È chiara e forte la denuncia del Segretario Generale del Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) Carmine Olanda e del Segretario Nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Alessandro De Pasquale: "da oltre 6 mesi manca l’acqua calda nella caserma e mensa che sono tuttavia in funzione nonostante venga meno il rispetto delle norme igienico sanitarie e del D.Lgs. 81/80. Inoltre, nel reparto Femminile mancano i servizi igienici ponendo il personale operante in grosse difficoltà e imbarazzo poiché obbligato ogni volta ad informare i propri superiori per sopraggiunti bisogni fisiologici, modalità che, a nostro avviso, viola la legittima Privacy", concludono. Caserta: dodici internati ex Opg nel centro Sir, la rivolta in Consiglio comunale Il Mattino, 30 novembre 2015 Il Consiglio Comunale di Vairano è stato aperto da una comunicazione del sindaco Bartolomeo Cantelmo sulla proposta di spostare nel centro Sir di Marzanello una parte dei detenuti ex Opg, almeno 12. Il Consiglio ha, in realtà, criticato il ritardo con cui sono state date le informazioni sulla vicenda del trasferimento dell’Opg a Marzanello, dal momento che ci sono stati incontri formali con l’Asl di sindaco e vice sindaco e lo stesso Comitato d’Ambito di Teano che ha approvato un documento critico, contro questa possibile scelta dell’Asl. Lo precisa il gruppo consiliare Torre guidato da Lino Martone. Documento letto in Consiglio dal sindaco stesso. Il Comitato di Teano si preoccupa di dover far fronte a nuove spese per la dotazione di spazi e strutture agli infermi che non possono convivere insieme ai provenienti dall’Opg, sia pure temporaneamente, chiedendo nuove coperture finanziarie ai comuni facenti parte dell’Ambito. "Ci è stato comunicato - spiegano dal Comitato - che l’eventuale spostamento dei provenienti dall’Opg è temporanea, due-tre mesi, il tempo necessario per terminare i lavori della struttura nel comune di Calvi Risorta, comunque non sarebbe stata modificata la destinazione Sir della struttura di Marzanello e sarebbero accelerati i lavori per terminare la destinazione della struttura presso la ex scuola "Leonardo da Vinci" a Vairano Scalo". Il Consiglio ha terminato la discussione approvando all’unanimità un ordine del giorno proposto da Martone, consigliere comunale, il quale si è deciso di convocare un Consiglio straordinario: "Non c’è alcuna comunicazione formale di un provvedimento assunto dall’Asl - spiega Martone - e l’Autorità Sanitaria rimane il sindaco, dunque qualsiasi provvedimento edilizio sulla struttura di Marzanello, per sicurezza o altro, deve essere autorizzato dal Comune". Il Consiglio straordinario si terrà in via urgente a Vairano Scalo, aperto a tutti i cittadini e con invito ufficiale alla presenza di dirigenti Asl e Regione Campania. Saranno chiesti impegni anche per tutta la struttura sanitaria di Vairano, ripristinando l’efficienza dell’Ambulatorio dal momento che attualmente le semplici analisi a costo pubblico si possono fare solo a Piedimonte. Reggio Calabria: con l’associazione Mutraka la musica arriva dietro le sbarre ntacalabria.it, 30 novembre 2015 Musica e solidarietà alla Casa circondariale di Arghillà, per una mattina davvero speciale che ha visto protagonisti il Gruppo Mutraka e i detenuti. La bella iniziativa, fortemente voluta da Don Francesco Megale, cappellano del carcere e dalla Direttrice della Casa di reclusione ha fornito l’ennesima prova di come il legame forte tra mondo della solidarietà ed universo della musica possono essere un volano per la crescita umana di tutta la comunità. Grazie alla preziosa e fattiva collaborazione del commissario Domenico Paiano, dell’educatore sig. Domenico Speranza e di tutti gli agenti penitenziari il noto gruppo reggino si è esibito nella mattinata di sabato 28 novembre all’interno della struttura del carcere, regalando qualche ora di svago ed intrattenimento ai detenuti. La consueta e sapiente unione delle sonorità tradizionali calabresi con quelle proprie della migliore musica pop, che fin dagli esordi caratterizza i Mutraka, ha istantaneamente coinvolto gli spettatori presenti, senza distinzione alcuna, a dimostrazione che la musica non ha né colori né bandiere e unisce tutti. "Questa manifestazione è stata sicuramente uno dei momenti più coinvolgenti e significativi della nostra carriera - ha dichiarato Nino Paviglianiti, presidente dell’associazione Mutraka e chitarrista del gruppo - perché la risposta dei detenuti alle nostre canzoni, il calore che ci hanno dimostrato, la gioia e la voglia di vivere che ci hanno trasmesso sono indescrivibili. Abbiamo voluto donare un po’ di spensieratezza e felicità a chi sta vivendo una fase difficile della propria vita e abbiamo voluto ricordare a tutti, e soprattutto a noi stessi, che nelle carceri ci sono persone, esseri umani con un cuore e delle emozioni. Gli errori sono cadute, ma tutti devono avere il diritto di rialzarsi e di porvi rimedio". Il Papa apre la Porta Santa a Bangui "Deponete le armi, vinca l’amore" di Marco Ansaldo La Repubblica, 30 novembre 2015 Blindati bianchi e marcantoni neri, armati di tutto punto. E ai lati una folla indistinta. Ma festosa, tenuta a fatica, che urla: "Papa, Papa!". Per un giorno Bangui, da ultima periferia e capitale del Paese più povero dell’Africa, diventa "capitale spirituale del mondo". Parola di Francesco. Nella Cattedrale del Centrafrica sconvolto dalla guerra civile, un Papa coraggioso che non ha deflettuto un attimo dall’intenzione dichiarata di venire qui, allarga le braccia e pronuncia la suggestiva formula di inizio Giubileo: "Aprite le porte di giustizia". È la prima volta che un Pontefice non battezza l’Anno Santo a Roma, centro della cristianità. Per le strade di Bangui polvere e caschi blu. Mitragliatrici pesanti e lanciarazzi in spalla. Gli uomini della sicurezza vaticana sono attentissimi. La tensione delle forze che devono proteggere Jorge Bergoglio in un Paese diviso anche da odi religiosi, soprattutto dopo gli attentati di Parigi, è palpabile. Francesco non rinuncia a usare la papamobile scoperta. Per cinque chilometri lo fa, per altri quattro va a macchina chiusa. "L’Anno Santo della Misericordia viene in anticipo in questa terra che soffre da anni per l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Tutti noi chiediamo misericordia, riconciliazione, perdono: per Bangui, per tutta la Repubblica Centrafricana e per tutti i Paesi. Chiediamo pace, amore e perdono tutti insieme, con questa preghiera cominciamo l’Anno Santo in questa capitale spirituale del mondo oggi". Durante la liturgia il Papa si alza, lascia l’altare, entra nella navata dove in prima fila c’è l’imam musulmano di Bangui. Scambia con lui l’abbraccio della pace. Lo stesso fa con il rappresentante degli evangelici. Nell’omelia appena pronunciata ha detto: "Una delle esigenze essenziali della vocazione alla perfezione è l’amore per i nemici, che premunisce contro la tentazione della vendetta e contro la spirale delle rappresaglie senza fine". E ancora: "Lancio un appello a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo: deponete questi strumenti di morte. Armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace". Si torna fuori. Francesco è stretto dagli uomini della Gendarmeria che, con discrezione, indossano giubbotti antiproiettile. Visita il campo profughi di St. Sauveur. È accolto con grande calore. Dicono le suore che lo accarezzano con lo sguardo: "Qui tutti ci hanno dimenticato, ogni tanto parlano di noi, ma solo il Papa si è ricordato davvero ed è venuto a trovarci". Poi Francesco si concede un fuori programma: va in un ospedale di bambini e porta uno scatolone zeppo di medicinali. Con i giovani improvvisa un dialogo. "Resistete. Non fuggite: non è una soluzione. Fate come l’albero di banano che sempre cresce, sempre dà i frutti con tanta energia, è resistente. E io penso che questa sia la strada proposta in questo momento di divisioni: la strada della resistenza. Diceva un vostro amico che alcuni di voi vogliono andarsene. Ma fuggire alle sfide della vita mai è una soluzione, è necessario resistere, avere il coraggio della resistenza, della lotta per il bene. Chi fugge non ha il coraggio di dare vita". Bergoglio mette oggi la Repubblica Centrafricana al centro dell’attenzione mondiale. Lo fa anche con il suo discorso davanti al Corpo diplomatico e al Capo di Stato di transizione, la signora Catherine Samba-Panza, al Palais de la Renaissance. La Presidente coglie la forza delle parole del Pontefice, la sua "lezione di coraggio e di determinazione che dovrebbe insegnare" qualcosa anche alla politica e alle istituzioni. Gli riconosce il coraggio di aver mantenuto la visita e, da parte sua, recita un inedito "mea culpa" per le inadempienze dei responsabili e per tutti coloro che hanno insanguinato il Paese. "Con abomini - dice - commessi in nome della religione e da persone che si definiscono credenti". Francesco tornerà in Italia oggi pomeriggio. Ma prima di partire, qui, altri due momenti forti: l’incontro con la comunità musulmana nella Moschea di Koudoukou, nella capitale, e la messa finale nello Stadio. Tutta l’Africa lo osserva. C’è uno Stato Islamico che ha già vinto: l’Arabia Saudita di Kamel Daoud (Traduzione Ettore C. Iannelli) la Repubblica, 30 novembre 2015 L’Occidente non può combattere Daesh e nello stesso tempo stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti. Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira. Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo, spera di ristabilire un fantomatico califfato basato sul deserto, un libro sacro e due luoghi santi, Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la donna, la preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose spietate. Ciò si traduce nell’odio ossessivo contro l’immagine e la rappresentazione, quindi l’arte, ma anche il corpo, la nudità e la libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le generazioni estremiste più giovani del cosiddetto mondo arabo non erano nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con un’industria immensa che produce teologi, leggi religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive. Si potrebbe ribattere: l’Arabia Saudita stessa non è un possibile bersaglio di Daesh? Sì, focalizzarsi su questo significherebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero da cui dipende la sua stabilità - e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta: indeboliti dalle leggi di successione che incoraggiano il ricambio, si aggrappano a legami ancestrali tra il re e i predicatori. Il clero saudita produce l’islamismo che minaccia il Paese legittimando al contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l’immenso potere dei canali televisivi religiosi di trasformare la società raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili: famiglie, donne, aree rurali. La cultura islamica è diffusa in molti Paesi - Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Ci sono migliaia di giornali islamici e autorità religiose che impongono una visione unitaria del mondo, le tradizioni e l’abbigliamento in pubblico, le leggi statali e i costumi sociali che ritengono contaminati. Vale la pena leggere certi giornali islamici per constatare le loro reazioni agli attacchi di Parigi. L’Occidente è rappresentato come una terra di "infedeli". Gli attacchi sono il risultato dei massacri contro l’islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei secolari e degli ebrei. La questione palestinese è associata alla devastazione dell’Iraq e al ricordo del trauma coloniale, ed è confezionata in un discorso messianico volto a sedurre la massa. Quei discorsi vengono diffusi all’interno della società mentre, esternamente, i leader politici mandano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica si accompagna alla negazione delle aree oscure dell’Arabia Saudita da parte dell’Occidente. Questo ci fa diffidare delle altisonanti dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope, in quanto mira all’effetto piuttosto che alla causa. Dato che Daesh è anzitutto una cultura, non una milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si uniscano al jihadismo se rimane intatta l’influenza della Fatwa Valley e del suo clero, della sua cultura e della sua immensa industria editoriale? La cura della malattia è dunque semplice? È difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato dell’Occidente in numerosi scacchieri mediorientali. È preferita all’Iran, a quel triste Daesh. Ed è qui la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Il jihadismo è denunciato come il flagello del secolo senza considerare cosa l’abbia creato o sostenuto. In questo modo si salvano le facce ma non le vite. Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo apparato religioso- industriale. Finché non si comprende questo, si possono vincere le battaglie, ma si perderà la guerra. I jihadisti saranno uccisi, solo per rinascere nelle generazioni future e crescere sugli stessi libri. Gli attacchi di Parigi hanno nuovamente evidenziato questa contraddizione, ma questa, come è accaduto dopo l’11 settembre, rischia di essere cancellata dalle nostre analisi e coscienze. Un accordo firmato sotto il ricatto di Erdogan sui rifugiati di Andrea Bonanni La Repubblica, 30 novembre 2015 Restano grandi le distanze con Erdogan sui diritti umani calpestati e la libertà di stampa negata Mogherini ha ricordato la necessità di riavviare il processo di pace con i curdi. Negoziare su tutto, non dire mai di no, guadagnare tempo, evitare temi controversi: messi sotto ricatto dalla Turchia, che controlla il rubinetto dei rifugiati, gli europei hanno applicato le regole base di qualsiasi buon negoziatore in una presa di ostaggi. Il primo vertice euro-turco si è concluso ieri a Bruxelles con l’adozione di un "action plan" che contiene molte promesse, tutte da verificare, in cambio dell’impegno turco a frenare l’afflusso di migranti irregolari verso le coste europee, anche quello tutto da verificare. Raramente, nella storia pur non lineare della diplomazia europea, la distanza tra le cose dette e le cose veramente pensate è stata più grande. Gli europei promettono di dare tre miliardi ai turchi per aiutarli nell’accoglimento dei due milioni di rifugiati siriani. Ma chi dovrà mettere i soldi, come e quando, non è ancora definito. Altra promessa europea è la liberalizzazione del sistema dei visti di ingresso, che dovrebbe scattare a ottobre. Ma si tratterà solo di visti turistici per tre mesi. E, secondo il premier bulgaro Borisov, la liberalizzazione potrebbe essere ristretta solo ad alcune categorie professionali, come imprenditori o studenti turchi che vogliono venire in Europa. Infine Bruxelles si impegna a riaprire una serie di capitoli nel negoziato di adesione della Turchia alla Ue, bloccati da anni per il veto franco-tedesco. Ma, anche qui, la distanza tra l’apertura di un negoziato e la sua chiusura resta grande soprattutto se, come dice Renzi, "bisogna mantenere alta l’asticella" degli standard europei. Non è che ai turchi queste reticenze ed ambiguità europee siano sfuggite. Ma il solo fatto di aver costretto i ventotto capi di governo dell’Ue a venire in questo vertice per dimostrare la loro volontà di ristabilire relazioni privilegiate con Ankara è una vittoria politica per il regime di Tayyp Erdogan, che si trova in questo momento sotto il fuoco di riflettori ben poco amichevoli. L’abbattimento dell’aereo russo, la condanna di due giornalisti che avevano rivelato le complicità turche con Daesh, l’uccisione dell’avvocato dei curdi, definita da Ankara "un incidente", pongono in questo momento la Turchia ai margini dell’Occidente e della coalizione internazionale che si sta delineando per combattere l’Is. Il vertice di ieri, evitando di sollevare tutti questi problemi, ha ridato ad Erdogan una patina di rispettabilità internazionale di cui il presidente turco ha, in questo momento, disperatamente bisogno. Non tutti, però, hanno fatto finta di niente. Ieri al tavolo del Consiglio europeo Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera della Ue, ha puntualmente sollevato, sia pure in modo diplomatico, le molte questioni che in questo momento avvelenano i rapporti con la Turchia. "Tutti noi sappiamo che, al di là dell’incontro di oggi, viviamo in tempi molto duri e dobbiamo lavorare con la Turchia su questioni difficili ma molto importanti per tutti noi: dalla Siria alla situazione interna turca", ha detto Mogherini, citando, tra l’altro, "i diritti umani, la libertà di stampa e la necessità di riavviare il processo di pace con i curdi". Questi temi, comunque, ieri sono rimasti fuori dalle conclusioni finali. Quello che resta è il riconoscimento da parte europea che la questione turca non può più essere ignorata. E che, come ha detto ieri il premier turco Ahmet Davutoglu, "tutti i Paesi sono d’accordo sul fatto che la Turchia e la Ue hanno un destino comune". Poco importa se questo riconoscimento è stato ottenuto da Ankara con la minaccia di aprire il rubinetto dei rifugiati diretti in Europa. Poco importa se, al fondo, le perplessità degli europei nei confronti di Erdogan restano intatte e, come ha detto ieri Angela Merkel, "ancora molto resta da fare". D’ora in poi, Turchia e Ue terranno un vertice ogni sei mesi. Bruxelles cercherà di usare questo dialogo rafforzato per riportare il governo turco a rispettare standard accettabili di democrazia e a risolvere la questione curda. Ankara tenterà di ottenere il sostegno europeo al suo disegno strategico nella partita mediorientale. Nessuno dei due, verosimilmente, otterrà quello che vuole. Il vero negoziato su due milioni di rifugiati-ostaggio è solo alle sue battute iniziali. Tre miliardi alla Turchia è l’aiuto Ue per i migranti. Renzi: no frasi muscolari di Alberto D’Argenio la Repubblica, 30 novembre 2015 Ma l’Italia vuole chiarezza sui due giornalisti arrestati da Ankara. E sull’Is: decisiva una diplomazia forte. Sono in pochi a dire quello che tutti pensano, a criticare, seppure non con energia tale da far saltare il tavolo, l’atteggiamento sempre più autoritario di Erdogan. Così il vertice Ue-Turchia scorre senza scossoni e in tre ore mantiene le promesse. I leader europei firmano la dichiarazione grazie alla quale ad Ankara andranno tre miliardi per aiutare ad ospitare i 2,2 milioni di rifugiati siriani diretti in l’Europa. C’è l’impegno a liberalizzare i visti per i turchi che vorranno viaggiare nel Vecchio Continente e c’è la ripartenza del negoziato di adesione all’Ue. In cambio i turchi promettono di chiudere le frontiere, di non permettere più che centinaia di migliaia di migranti salpino verso le coste greche per poi incolonnarsi sulla rotta balcanica e arrivare in Nord Europa. Richiesta fondamentale per Angela Merkel e per le istituzioni di fronte a una crisi, quella dei migranti, che sta minando la coesione europea e indebolisce la leadership di diversi capi di governo. Ieri Erdogan però non si è presentato a Bruxelles, ha mandato il premier Davutoglu. Gli europei, dal canto loro, non hanno ancora deciso chi metterà i soldi: la Commissione propone di pagare 500 milioni chiedendo che gli altri 2,5 miliardi vengano sborsati dai governi, che però non ne vogliono sapere. Quando alla riapertura dei negoziati di adesione, viene indicato un solo capitolo (politica economica) mentre vengono stralciati gli altri cinque su richiesta di Cipro e Grecia che non vogliono promettere troppo ai turchi. Sul tavolo anche l’impegno europeo di prendersi carico di parte dei rifugiati accolti in Turchia in cambio della chiusura delle rotte migratorie. La Merkel ha riunito i leader di Austria, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Grecia e la stampa tedesca ha parlato di un numero tra i 100 e i 400mila richiedenti asilo che verrebbero redistribuiti tra i Ventotto. Il premier olandese Mark Rutte ha però smentito la cifra. Visto il ritardo con il quale i governi stanno procedendo allo smistamento di 160mila siriani sbarcati in Italia e Grecia, a Bruxelles ci si aspetta che i numeri finali saranno ben più contenuti. Nella dichiarazione finale non vengono stigmatizzati i diritti umani violati, l’ambiguità della politica di Erdogan in Siria, la libertà di stampa sotto pressione e la tensione con Putin. Gli europei però sperano che la riattivazione dei rapporti politici con Ankara possa addolcire Erdogan. Le critiche al Sultano vengono poste solo da alcuni leader e dall’Alto rappresentante Federica Mogherini. Arrivando a Bruxelles Renzi premette: "Teniamo alta l’asticella sui diritti umani". Nel vertice afferma di avere con sé la lettera ai leader Ue dei due giornalisti turchi imprigionati da Erdogan per avere scavato sui rapporti tra Ankara e Daesh: "Non possiamo far finta che non ci sia così come non è possibile far finta di nulla sulla questione curda". Renzi con la stampa parla anche di Siria, difendendo la scelta di non bombardare senza prima avere una strategia politica: "La posizione italiana è la più forte in prospettiva, le grandi crisi non si risolvono con qualche dichiarazione muscolare, ci vuole la diplomazia". Turchia: l’Ue non chiuda gli occhi sulle violazioni della libertà di stampa di Alberto Custodero La Repubblica, 30 novembre 2015 I due giornalisti arrestati: "Il dramma dei migranti non pregiudichi il costro impegno per i diritti umani". La "preoccupazione" di Federica Mogherini e le dure critiche del Consiglio d’Europa. E Borghezio, della Lega, attacca Erdogan. Una lettera aperta ai leader Ue per chiedere di non chiudere gli occhi sulle "pratiche che violano i diritti umani e la libertà di stampa" della Turchia in cambio di un accordo sulla crisi migratoria. A inviarla dal carcere di Silivri, a Istanbul, dove vengono detenuti da giovedì sera, sono ildirettore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, quotidiano di opposizione. Il testo della lettera. "La volontà di risolvere la crisi dei migranti non pregiudichi il vostro impegno per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione, che sono valori fondamentali del mondo occidentale". "In quanto giornalisti noi crediamo che la Turchia faccia parte della famiglia europea e che dovrebbe essere un membro dell’Unione. La libertà di pensiero e di espressione sono valori imprescindibili della nostra civiltà. Noi siamo stati arrestati e detenuti in attesa di giudizio per aver esercitato queste libertà e per aver difeso il diritto dei cittadini a essere informati". "Il premier turco, che voi incontrerete questo fine settimana, e il regime che rappresenta sono noti per le loro politiche e pratiche che ignorano completamente la libertà di stampa e i diritti umani. I vostri governi stanno negoziando con Ankara sulla crisi dei migranti, una crisi che preoccupa e spezza il cuore a tutti. Ci auguriamo veramente che questo vertice porti a una soluzione duratura per questo problema. Ma auspichiamo anche che la vostra volontà di mettere fine alla crisi non pregiudichi il vostro impegno per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione, che sono valori fondamentali del mondo occidentale". "Ricordiamo che i nostri valori condivisi possono essere protetti solo facendo fronte comune e con la solidarietà, e questa solidarietà è oggi più importante e urgente che mai", hanno concluso. L’arresto. La cattura dei due giornalisti è avvenuta giovedì, con la minaccia di pene pesantissime per divulgazione di segreto di stato. I due giornalisti avevano indagato sul presunto coinvolgimento dell’intelligence di Ankara in un traffico di armi con i ribelli turcomanni anti Assad in Siria. La preoccupazione di Lady Pesc. "È, questo, un ulteriore elemento di preoccupazione per gli europei", ha detto la portavoce dell’alto rappresentante per la politica estera comune, Federica Mogherini, che ha ricordato "l’importanza fondamentale della libertà d’espressione" per l’Ue. L’episodio è stato anche aspramente criticato dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. La lega attacca Erdogan. Il primo commento politico in Italia arriva dalla Lega, attraverso l’europarlamentare Mario Borghezio: "Personalmente - ha dichiarato Borghezio - ho denunciato più volte con interrogazioni la violazione della libertà di stampa in Turchia. Prendo atto, però, che fino a ora l’Ue ha fatto orecchie da mercante. La necessità di tenersi buona la Turchia affinché non faccia entrare nel territorio europeo un eccessivo numero di rifugiati non deve impedirci di prendere una posizione chiara. "Se ci mettiamo in queste mani - sottolinea l’europarlamentare leghista - siamo fregati: non possiamo affrontare l’immigrazione consentendo a un satrapo islamista come Erdogan di ricattarci. Sarebbe una posizione suicida". Il precedente. Dopo aver oscurato i suoi due canali, Bugun tv e Kanalturk, ostili a Erdogan, il 29 ottobre scorso gli amministratori nominati dal tribunale che hanno assunto la gestione del gruppo editoriale turco Ipek hanno bloccato anche la pubblicazione dei due quotidiani controllati, Bugun e Millet. Stati Uniti: il terrorista anti aborto e l’imbarazzo dei repubblicani ultra cristiani di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 30 novembre 2015 Dopo l’assalto armato compiuto da Robert Lewis Dear contro la clinica di Colorado Springs con un bilancio di tre morti e una decina di feriti. Per due giorni è stato assordante il silenzio dei candidati repubblicani alla Casa Bianca dopo l’assalto di un uomo armato contro la clinica degli aborti di Colorado Springs: all’inizio il tragico bilancio (tre morti e una decina di feriti) era stato commentato solo da Mike Huckabee. Ma forse sarebbe stato meglio se anche lui avesse taciuto: dopo aver definito il massacro provocato da Robert Lewis Dear "un’incredibile tragedia", l’ex governatore dell’Arkansas aveva accostato, pur senza indicare correlazioni, la violenza consumata dall’assassino che ha cominciato a sparare fuori dall’ambulatorio, con quella che, secondo la destra cristiana, viene commessa all’interno dei centri di "Planned Parenthood": la soppressione dei feti con gli aborti. Un silenzio imbarazzato, visto che i video che criminalizzano questa organizzazione per il controllo delle nascite fanno parte integrante della campagna elettorale dei candidati della destra. "Planned Parenthood", una non profit, è stata accusata di aver fatto soldi vendendo tessuti fetali, ignorando le spiegazioni date: solo rimborsi, del tutto legali, per la cessione di tessuti fetali per ricerca medica e trapianti, come previsto dalla legge. Accuse che attirano, oltre a proteste legittime, gesti violenti. Invocando il "free speech", i conservatori non hanno rinunciato alla loro retorica anti aborto, ma, dopo la spiegazione data dal folle Lewis Dear per il suo gesto ("adesso smetteranno di vendere bambini a pezzi") Huckabee ha cambiato rotta ("abominevole, questo è terrorismo interno: non faccio come John Kerry che cerca spiegazioni razionali per la strage di Charlie Hebdo"). E Ben Carson, un ex chirurgo che è stato anche un ricercatore, alla fine ha trovato il coraggio di dire che sulle questioni legate alle nascite è ora di cambiare tono: lasciarsi alle spalle l’attuale "retorica intrisa d’odio e aprire una discussione civile, tra gente matura".