Stati Generali: istruzioni per l’uso. Intervista a Glauco Giostra a cura della Redazione Ristretti Orizzonti, 2 novembre 2015 Abbiamo chiesto a Glauco Giostra, coordinatore del Comitato scientifico, di spiegarci in sintesi il senso degli Stati Generali e come si può aprire un dialogo con la società "esterna" sui temi che riguardano l’esecuzione delle pene. Gli Stati Generali dell’esecuzione della pena hanno concluso la fase iniziale dei lavori. Ognuno dei 18 Tavoli che sono impegnati in questa impresa, volta a un ripensamento del sistema delle pene e del carcere, ha prodotto un primo report che spiega a grandi linee quello che è stato fatto finora, e poi altri materiali, tutti reperibili nel sito del Ministero della Giustizia. Ristretti Orizzonti pubblica ogni giorno una Rassegna Stampa su questi temi, e vuole contribuire ad allargare il dibattito perché gli Stati Generali diventino davvero un’occasione per tutti, addetti ai lavori ma anche "società civile", studenti, insegnanti, persone interessate a questi argomenti, di esprimere la loro opinione, raccontare un’esperienza significativa in questo ambito, fare domande. A Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale all’Università la Sapienza di Roma, che degli Stati Generali è il coordinatore del Comitato scientifico, abbiamo chiesto di spiegarne in sintesi finalità e prossimi obiettivi. Ci può riassumere brevemente il senso di questa iniziativa? "Quest’anno l’ordinamento penitenziario compie quarant’anni e non è certo senza significato politico e culturale che la legislazione penitenziaria del 1975, per condiviso riconoscimento tra le più avanzate anche a livello internazionale, non abbia impedito all’Italia di subire l’umiliante condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo (c.d. sentenza Torreggiani), per trattamento inumano e degradante delle persone detenute. Se le novelle del biennio appena trascorso hanno perseguito e conseguito l’obbiettivo di risolvere con urgenza il problema dell’intollerabile sovraffollamento carcerario e di sopperire alle carenze denunciate dalla Corte di Strasburgo, non si poteva eludere il compito di un ripensamento complessivo del sistema dell’esecuzione della pena, non soltanto carceraria. Il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (recentemente approvato dalla Camera) mira appunto a restituire effettività alla funzione rieducativa della pena, rimuovendo ostacoli normativi alla realizzazione di un progetto individualizzato di recupero del condannato. Ma questi quarant’anni di storia penitenziaria dimostrano, appunto, che le riforme normative sono necessarie, e però non bastano, se non cambia nel sentire sociale il senso della pena: nessuna importante novità legislativa, infatti, farà mai presa sulla realtà, se prima le ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese. L’inedita iniziativa degli Stati generali intende proprio, ambiziosamente, cercare di promuovere un diverso, più consapevole, approccio culturale al problema dell’esecuzione penale". Come possono i cittadini interessati a questi temi "interloquire" con gli Stati Generali, comunicare le loro riflessioni, esprimere le loro critiche? "Diciotto Tavoli tematici, intorno ai quali più di duecento esperti provenienti dal mondo accademico, dalla magistratura, dall’avvocatura, dalla cooperazione internazionale, dal volontariato e, naturalmente, dal settore penitenziario, stanno da mesi ragionando sulle problematiche cruciali dell’esecuzione penale, anche avvalendosi di visite ad istituti penitenziari italiani e stranieri di particolare significatività. Sul sito del Ministero della Giustizia sono già riportati i temi e la composizioni dei tavoli; la documentazione raccolta; le iniziative intraprese; le pubblicazioni in tema; un report di medio-termine per illustrare lo stato, ancorché provvisorio e in progress, dei lavori; un indirizzo mail cui far pervenire suggerimenti o indicazioni di buone prassi o di soluzioni positivamente sperimentate in Italia o all’estero. Ma è con la conclusione del lavoro dei Tavoli - presumibilmente, entro fine novembre - che si procederà a un vero e proprio interpello sui temi affrontati: le proposte elaborate dai Tavoli saranno sottoposte ad una pubblica consultazione e ad audizioni per ricevere suggerimenti, critiche, integrazioni. Al termine di questa sorta di "ascolto democratico", il Comitato scientifico degli Stati generali elaborerà un documento finale, che confido possa contenere materiale prezioso a più livelli: indicazioni per l’attuazione della Delega "penitenziaria"; suggerimenti per una migliore organizzazione della vita carceraria, che valorizzi l’individuo, responsabilizzandone certo le scelte, in un contesto, però, rispettoso della sua dignità e dei suoi diritti, che ripudi ogni processo di incapacitazione vòlto ad indurre una rassegnata minorità; indicazioni tecniche per una rimodulazione dell’edilizia penitenziaria esistente e per una corretta pianificazione di quella futura; promozione di ogni forma di collegamento (lavoro, istruzione, cultura ecc.) tra il carcere e il territorio. Soprattutto, questo documento, con l’insostituibile contributo degli operatori dell’informazione, dovrebbe individuare le forme più idonee per veicolare una corretta conoscenza della realtà carceraria da parte della società "esterna". Nella convinzione che, senza una nuova cultura della pena, ogni riforma sarà presto corrosa da sempre ricorrenti istanze securitarie che continueranno a proporre, fallacemente, un carcere chiuso ad ogni opportunità e ad ogni speranza di riabilitazione, come una garanzia per la sicurezza sociale. Auspicare una nuova cultura della pena, giova forse precisarlo, non significa ignorare le ragioni delle vittime, ma semmai adoperarsi affinché la tutela di tali ragioni si converta da pretesa di cieca punizione del colpevole in forme di promozione e di valorizzazione di ogni sua attività vòlta a compensare il danno morale e materiale causato". Ragazzi "cattivi" o ragazzi in difficoltà? Il Mattino di Padova, 2 novembre 2015 Quando succedono gravi fatti di cronaca che hanno per protagonisti adolescenti, bisogna cercare di comprendere il senso e le motivazioni della trasgressività dei giovani, per trovare risposte adeguate e impedire che degeneri in delinquenza, quella che poi apre le porte del carcere minorile, e alla fine anche del carcere per adulti. La testimonianza che segue è di un detenuto che tanti anni fa ha sperimentato il carcere minorile, che per lui è stato proprio l’anticamera di quello per adulti. Pubblichiamo poi un contributo di uno psicoterapeuta, che si occupa da anni di minori autori di reato, e che fa capire esattamente questo: che il carcere NON è la soluzione, la vera sfida è progettare con questi ragazzi una vita nuova. Se non fossi stato in carcere da minorenne, forse non sarei diventato un criminale Spesso i giovani che entrano in carcere da minorenni sono ragazzi difficili, credo che non siano però cattivi, ma lo diventano dopo, stando in galera. Nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti minorenni provengono da nuclei famigliari complicati. Molti hanno solo sfiorato l’amore di un padre o di una madre, pochi hanno conosciuto l’amore di una famiglia. Hanno solo conosciuto la parte più cinica della società, prima la cattiveria innocente dei bambini, poi quella dispettosa dei ragazzi e alla fine quella malvagia del carcere. Credo che molti giovani detenuti diventeranno da adulti dei delinquenti perché in carcere si sentono soli e indifesi. E si convincono che nel mondo nessuno gli voglia bene. La prima volta che entrai in carcere, tanto tempo fa, avevo sedici anni e l’impatto fu tremendo. Fu anche la prima volta che un gruppo di guardie mi massacrò di botte. A dire la verità un po’, ma solo un pochino, me lo meritavo. Avevo tirato un piatto di patate in faccia al brigadiere. Non lo dovevo fare. Ma era stato più forte di me. Non riuscivo a stare zitto se mi offendevano mia madre. E il brigadiere mi aveva chiamato figlio di puttana perché avevo fame e mi ero lamentato che le patate erano poche e crude. Mi ricordo che mi entrarono in cella e mi riempirono di calci e pugni, ma soffrii più per le parolacce che mi dicevano che per le botte. Non dissi però nulla. E non mi lamentai come facevano gli altri ragazzi quando venivano picchiati. Non gli diedi questa soddisfazione. Loro s’incazzarono e mi picchiarono più forte. Ricordo che mi rannicchiai in un angolo e mi coprii la testa con le braccia. Quando andarono via piansi come un ragazzino perché in fondo, anche se avevo commesso una rapina in un ufficio postale con una pistola giocattolo, ero solo un ragazzo. Avevo dolore dappertutto, ma quello che mi faceva più male era l’umiliazione e l’impotenza. Mi ricordo che giurai a me stesso che da grande mi sarei vendicato contro la società e il carcere. E credo di esserci riuscito perché quando uscii dal carcere da maggiorenne avevo appreso la cultura e la mentalità per diventare un criminale. Pensavo che certe cose nelle carceri minorile non accadessero più, ma un giovane detenuto pugliese mi ha raccontato che le cose non sono cambiate così radicalmente dai miei tempi. Adesso nelle carceri minorili le punizione non sono più fisiche come in passato, sono molto più sottili. E spesso più che sul corpo ti picchiano sul cuore e sull’anima. Sono convinto che le carceri minorili rischiano di essere delle vere fabbriche di delinquenza per creare i detenuti che riempiranno le carceri da adulti. Non credo che ci sia la possibilità di migliorarle o riformarle, si può solo abolirle perché chiudere un ragazzo in una cella è un crimine ancora più brutto di quello che lui ha commesso. Penso spesso che forse, se non fossi stato in carcere da minorenne, non sarei diventato il criminale che sono diventato dopo. Non ne sono però sicuro. Forse lo sarei diventato lo stesso, ma una cosa è certa, i giovani sono più influenzabili degli adulti. E durante la mia carcerazione da minorenne è cresciuto il mio odio verso lo Stato e tutte le istituzione che lo rappresentano. Carmelo Musumeci Intervenire con minori che hanno commesso reati senza usare il carcere è una vera sfida Lavoro da più di vent’anni, come psicologo e psicoterapeuta, con i Servizi della giustizia minorile della Lombardia. Nella maggior parte dei casi, l’intervento penale minorile si svolge al di fuori del carcere, con minori in misure esterne o inseriti in comunità. Nel sistema penale minorile il carcere è davvero residuale. Intervenire con persone che hanno commesso reati senza usare il carcere è una vera sfida. È quasi paradossale che il sistema penale minorile abbia voluto giocare questa sfida, introducendo più di vent’anni fa un nuovo codice di procedura penale e una misura, la messa alla prova, che esemplifica una logica di intervento non basato sulla punizione. La messa alla prova è una misura in base alla quale è offerta al minore la possibilità di un accordo con il Tribunale, per realizzare un programma di sviluppo e di riparazione. Il programma normalmente consiste nell’impegno scolastico o lavorativo, un’attività di tempo libero strutturata e una attività di riparazione sociale, oltre ad una disponibilità all’incontro con gli operatori dei Servizi. La cosa più interessante, rispetto ad altri Paesi in cui ci sono provvedimenti analoghi, è che non si tratta di una misura alternativa alla detenzione. La messa alla prova è alternativa al processo, che viene sospeso. Lo Stato, quindi, interviene senza punire. Se ci pensiamo, è sconvolgente che questo orientamento provenga dal sistema penale. Immaginate che cosa potrebbe succedere se in famiglia o a scuola si dovesse decidere di rinunciare a punire i bambini o gli allievi. Sospendere le punizioni e fare un patto per regolare il loro comportamento. Che questo avvenga nel sistema penale, nelle situazioni più gravi e non di fronte a trasgressioni lievi di regole educative, è una sfida davvero importante. Qual è la logica su cui si basa questo intervento? Le persone che commettono reati, dal punto di vista psicologico, tendono ad avere alcune caratteristiche. Sono persone senza freni, perché non riescono a limitare la loro impulsività, agiscono e non sono in grado di fermarsi. Persone che non hanno paura delle conseguenze delle loro azioni, sono spavalde, sono temerarie. E infine sono persone che spesso non hanno pietà, non sentono il dolore dell’altro. Di fronte a queste caratteristiche, che cosa può fare il sistema penale? Ci sono tre livelli di intervento. Il primo tipo di risposta è una reazione: se una persona non si sa limitare, la rinchiuderemo, se non ha senso di colpa la colpevolizzeremo, e se non ha paura, la minacceremo, usando la pena come deterrente. Queste reazioni sono logiche: se chi commette reato ha queste caratteristiche, è naturale reagire così. Il problema è che la letteratura scientifica internazionale indica che questa modalità di reazione, se è giustificata socialmente, non è efficace, perché invece di ridurre il rischio di recidiva, lo aumenta. Non produce cambiamento. (…) Una seconda logica di intervento non è punitiva, ma rieducativa o riabilitativa. Se una persona non è in grado di controllarsi, di provare pietà per l’altro, di capire le conseguenze delle sue azioni, di aver paura, di essere consapevole dei rischi che corre o che fa correre agli altri, il sistema penale dovrebbe cercare di fare in modo che questa persona impari a controllarsi, a capire il senso del dolore dell’altro, la conseguenza delle sue azioni. (…) Noi abbiamo cercato di sviluppare una terza logica di intervento, basata sull’idea che alla base di un comportamento come un reato ci sia un bisogno realizzato in modo improprio. Se un ragazzo commette un furto, impulsivamente, io posso fare in modo che capisca la necessità di controllare la sua impulsività, che non si può avere tutto subito, che è sbagliato appropriarsi di cose altrui. In un’altra prospettiva posso cercare di capire qual è il bisogno alla base del furto. Per bisogno non intendo una necessità economica, ma un bisogno psicologico, come un bisogno di identità. Oggi gli adolescenti spesso rubano un cellulare, un oggetto che ha un valore di status al di là del suo valore economico. Avere un cellulare di un certo tipo significa essere qualcuno, avere una reputazione, un valore sociale. Il bisogno alla base di quel furto è un bisogno di identità sociale. A questo punto è possibile distinguere due livelli di obiettivi d’intervento: il controllo dell’impulsività e la risposta al bisogno di valore sociale. La messa alla prova può andare in queste due direzioni, ma l’intervento più efficace è quello che riesce a cogliere il bisogno che è alla base del comportamento trasgressivo e antisociale, e a dargli una risposta. Il bisogno di valore sociale è legittimo, mentre il modo di ottenerlo è sbagliato, non per un giudizio morale, ma perché è inefficace. Per riconoscere questo bisogno e rispondervi è possibile, allora, mettere l’imputato alla prova. L’obiettivo della messa alla prova non sarà imparare a controllarsi, a rendersi conto dell’errore, a colpevolizzarsi, ma un’acquisizione di valore e di riconoscimento sociale. È una logica progettuale, orientata da un patto e da un progetto di sviluppo personale. La notizia positiva è che questo sistema funziona. Abbiamo circa l’80% di messe alla prova che si concludono positivamente. Le ricerche dicono che il livello di recidiva per i ragazzi che hanno avuto la messa alla prova è più basso sia di chi ha avuto una condanna, sia di chi è stato perdonato. Alfio Maggiolini, psicoterapeuta, docente di Psicologia del ciclo di vita a Milano Bicocca Giustizia: sesso in carcere, in arrivo una legge di Claudio Marincola Il Messaggero, 2 novembre 2015 Mogli, mariti, fidanzati, figli, ma anche amanti, conviventi, "amici: il carcere si prepara ad aprire le porte alle "stanze dell’amore". La proposta di legge per concedere ai detenuti il diritto all’intimità, diritto che in altri paesi europei è già legge, inizierà domani il suo iter legislativo in commissione Giustizia. Il primo firmatario è Alessandro Zan, ex Sel e ora deputato Pd di fede renziana. L’accordo politico c’è già. E ci sarebbe, garantisce Zan, anche il via libera del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per la prima volta nella storia repubblicana verrà audito dai parlamentari della commissione un gruppo di carcerati che stanno scontando la pena nella sezione di alta sicurezza del carcere di Padova. I tecnici della Camera hanno già predisposto la logistica. Il Dap ha dato la sua autorizzazione: Il collegamento verrà effettuato via Skype. Ci saranno anche ergastolani, verranno sentite anche le famiglie, una figlia e una sorella porteranno la loro testimonianza. Walter Verini, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia rileva il valore "on solo simbolico". Spiega: "Dopo i risultati raggiunti nella lotta al sopraffollamento occorre proseguire l’impegno per rendere le carceri luoghi davvero umani e non barbari, dove la pena significhi formazione, lavoro, recupero, reinserimento. Il tema dell’affettività è centrale in questa direzione: investire in carceri umane vuole dire investire in sicurezza per i cittadini". Percorso ad ostacoli. "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione", sosteneva Voltaire. Se il motto del filosofo francese fosse ancora valido oggi - e lo è - noi italiani non ci faremmo una gran figura. "Viviamo in un Paese civile, il carcere deve essere punizione ma non barbarie - ribadisce il concetto Alessandro Zan, che ha sostenuto la proposta di audizione - è in gioco il rispetto della dignità umana. L’alternativa alla proposta di legge è dare una delega al governo ma si vada fino in fondo. I tempi ci sono". Si vuole fare sul serio, insomma, mandare avanti una battaglia che in passato fu sponsorizzata soprattutto dai radicali e - fatalmente - s’arenò strada facendo. E intanto accelerare perché il disegno di legge sulle Unioni civili sia approvato entro l’anno. Due strade - pardon due percorsi ad ostacoli - che andranno avanti in parallelo. Incontri discreti. Nella proposta di legge portata avanti da Zan e firmata da 20 parlamentari, non solo democrat, è prevista una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di 24 ore "in locali adibiti e realizzati a tale scopo senza controlli visivi e auditivi". Di fatto una modifica della legge 26 luglio 1975, n. 354. La visita potrà avvenire con qualsiasi persona che già effettua i colloqui ordinari. I permessi "di necessità" possono essere concessi non solo in caso di morte o malattia grave ma anche "per eventi familiari di particolare rilevanza affettiva", la nascita di un figlio ad esempio. Il magistrato di sorveglianza potrà concederli solo ai "condannati che hanno tenuto una regolare condotta" ed estenderli come premio fino a un massimo di 45 giorni. Il diritto all’affettività è un tema già discusso in passato che ha creato sempre polemiche e divisioni tra favorevole e contrari. I primi definiti "buonisti". I secondi "forcaioli". E c’è una terza classificazione: quella morbosa, di chi riduce tutto alle "celle a luci rosse". "Quando si parla di spazi intimi non si fa alcun riferimento al sesso - chiarisce Ornella Fornero, direttrice di "Ristretti Orizzonti", l’associazione che ha organizzato l’audizione con i detenuti di Padova e che da sempre si batte su queste tematiche - definirle così avvilente non solo per i detenuti ma anche per le famiglie che hanno diritto a incontri riservati, "normali". Giustizia: la nostalgia per i giudici non in cerca di notorietà di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 novembre 2015 Forse ha ragione Massimo Bordin: forse giudici come si vorrebbe che fossero i giudici non ve ne sono mai stati, e neanche la nostalgia, come è noto, è più quella di una volta. Però, anche sull’onda delle ultime esternazioni di un giudice che anticipa sui social network le idee alla base dei verdetti che emetterà, che nostalgia struggente per i giudici che parlavano solo con le sentenze. Che se ne stavano chini sui codici e le carte della giurisprudenza invece di rilasciare interviste, farsi applaudire ai convegni, atteggiarsi a capipopolo. Giudici che studiare studiare studiare invece che resistere resistere resistere contro il governo che stava loro antipatico. Che inviavano avvisi di garanzia, o come diavolo si chiamavano, prima agli indagati e poi ai giornali. Che non vedevano l’ora di far uscire migliaia di pagine di intercettazioni telefoniche sui fatti privati anche di persone non indagate. Che non facevano conferenze stampa dando alle inchieste nomi suggestivi di modo che i giornali ne parlassero con più spazio. Che nelle conferenze stampa non emettevano già giudizi di colpevolezza attenendosi al principio costituzionale, questo ferrovecchio da compatire, questa mania garantista di quattro rompiscatole, della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Che nostalgia per magistrati e giudici formalisti, convinti che nello Stato di diritto la forma è tutto e che il sostanzialismo, l’andare al sodo senza rispettare garanzie e diritti, sia l’inizio della barbarie. Che cercavano faticosamente le prove di quello che sostenevano e giudicavano se c’erano prove sufficienti per condannare qualcuno. Giudici che si vergognavano un po’ della notorietà e non telefonavano in continuazione ai media per far circolare il proprio nome. Giudici che volevano apparire imparziali, addirittura terzi. Giudici scrupolosi, che non protestavano se un provvedimento del governo accorciava di qualche giorno le meritate vacanze. Giudici e magistrati che non volevano sottoporre le leggi in discussione in Parlamento al loro vaglio preventivo. Giudici che rispettavano scrupolosamente il principio della separazione dei poteri, che non è un’invenzione di Al Capone ma di un garantista peloso (chissà perché i garantisti sono "pelosi") come Montesquieu. Giudici che non postavano detti su Facebook riguardanti materie su cui dovevano esprimersi con le sentenze. Mai esistiti giudici così? Qualcuno sì. Che nostalgia. Rimpiangere, rimpiangere, rimpiangere. Giustizia: il partito dei manager che commissaria la politica di Antonio Polito Corriere della Sera, 2 novembre 2015 Dal carisma al curriculum, dal popolo al fatturato. Il commissariamento della politica sembra essere il futuro delle grandi città italiane. Privi di una classe dirigente locale all’altezza, i partiti cercano manager per Milano e Roma. Giuseppe Sala, Alfio Marchini, Paolo Scaroni, Corrado Passera: non troverete un politico di primo piano tra i nomi più gettonati del momento. E le primarie fanno paura proprio perché rischiano di catapultare sulla sedia di sindaco un politico di secondo piano, con gli effetti stupefacenti già osservati nel caso Marino. Non è solo una tendenza dei partiti tradizionali. Perfino i Cinque Stelle sembrano alla ricerca di un Papa straniero: dicono che Casaleggio se ne sia convinto quando ha assistito in tv alla povera performance dei quattro tenori grillini di Roma. È una dichiarazione di impotenza della politica democratica. La quale, in teoria, dovrebbe essere non solo gestione ma anche organizzazione del consenso, idealità, sistema di valori, selezione di classe dirigente. Tutta merce che i partiti non sembrano più in grado di offrire. In fondo è una rivincita del primo berlusconismo, quello del kit del candidato e della mentina: via i "professionisti della politica" dalla gestione della cosa pubblica. Ma la nouvelle vague sta conquistando a sorpresa anche il PdR (il partito di Renzi), che pure si era presentato sulla scena annunciando il ritorno della politica nella cabina di regia. Un tempo spettava al dirigente di maggior peso candidarsi a sindaco nella sua città: fu il caso di Bassolino a Napoli, di Rutelli (e di Fini) a Roma, di Cacciari a Venezia, di Chiamparino a Torino; oggi nessuno penserebbe di candidare Orfini al Campidoglio, e d’altra parte di candidarsi a Milano Salvini non ci pensa proprio. Gli unici politici rimasti nelle città sono quelli di ritorno, a fine carriera, da Fassino a Torino, a Bianco e Orlando in Sicilia, fino al possibile bis di Bassolino a Napoli. È un vero e proprio divorzio tra le città e la politica dei partiti. Cinque anni fa un’analoga crisi produsse primarie a sorpresa, che imposero gente nuova, uomini più radicali e meno compromessi con il passato, talvolta veri e propri populisti. Alcuni hanno fallito come a Roma e a Genova, altri esperimenti sono riusciti ma si sono dimostrati non ripetibili come Pisapia a Milano, altri ancora si sono sciolti nel movimento, come de Magistris a Napoli. Non a caso il pur ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha affrontato da Palazzo Chigi questo declino della democrazia dei sindaci con il "modello Expo". Il commissariamento di Roma con il prefetto di Milano, che passa direttamente dalla gestione della fiera alla gestione della capitale, dove troverà già commissariato il Giubileo, ne è l’emblema più perfetto. La nomina di Sala, commissario dell’Expo, a candidato sindaco del Pd per le prossime elezioni di Milano, ne può tra breve essere il completamento. E a Napoli quasi un terzo della città, l’enorme area di Bagnoli, è stata affidata a un commissario governativo, tra gli strepiti del sindaco che grida all’usurpazione. Questa nuova formula di governo locale si appella a criteri di efficienza e rapidità, punta a semplificare le procedure della politica, dimette un sindaco eletto nell’ufficio di un notaio piuttosto che in Consiglio comunale, prescinde dall’appartenenza politica dei prescelti (Sala e Marchini sono votabili sia a destra che a sinistra). Ma è una formula che ha sempre bisogno di un Grande Progetto, un Grande Evento, un Giubileo o una Expo, un’azione parallela che consenta di riversare soldi pubblici su amministrazioni pubbliche altrimenti esangui. Perché il primo grande cambiamento che è avvenuto nella politica locale è proprio questo: quando vent’anni fa cominciò la stagione dei primi cittadini eletti direttamente dal popolo i Comuni erano pieni di soldi, e di conseguenza i sindaci erano pieni di voti anche dopo il primo mandato. Ora nei Comuni non c’è più una lira, e i sindaci diventano rapidamente impopolari. Così è esplosa l’antipolitica. E ora la politica non sembra avere più le forze a livello locale per fronteggiarla in prima persona. Si è fatta troppo leaderistica, troppo affaristica, con partiti troppo leggeri, quasi inesistenti sul territorio, per produrre sindaci di valore in proprio. La terza via che si sta profilando è quella che Alfio Marchini chiama la "soluzione del civismo: uomini di buona volontà sorretti dalla politica per battere l’antipolitica". Stelle locali contro Cinque Stelle. Funzionerà? Giustizia: imprese e legalità, l’iniezione di anticorpi per "Mafia capitale" di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2015 Inizia tra tre giorni, nell’aula bunker di Rebibbia, il processo a 50 imputati di "Mafia capitale". I primi arresti - Buzzi, Carminati, Odevaine eccetera - risalgono al 2 dicembre 2014, perciò dopo soli 11 mesi la vicenda è già davanti al tribunale per il primo grado di giudizio. Tutti dovrebbero compiacersi per la rapida definizione di un caso così grave e invece - mentre il sindaco traballa e i Casamonica celebrano il loro spudorato Pantheon di pregiudicati - c’è chi protesta e organizza scioperi contro le modalità scelte per il dibattimento, affiancato da una quota minuscola, ma non secondaria, di opinion maker da 11 mesi impegnati in una campagna contro i pubblici ministeri, indicati come gli autori di una farsa mediatico-giudiziaria utile solo a restare sotto i riflettori, a scapito di una borghesia capitolina al massimo "colpevole" di maneggi locali (usuali, ancorché milionari), di banalissimi favori ai potenti ricambiati con ovvi nepotismi. Sì, insomma: niente altro dei soliti affidamenti senza gara, favoriti dal lubrificante cash dovuto all’onnivora burocrazia romana. Perché lo sanno tutti, a Roma, che vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. E tu, Procura, più non di mandare. Ma così, dopo aver fallito nella prevenzione, si corre il rischio di vanificare anche l’occasione per iniettarsi una buona dose di anticorpi offerta dal processo. Perché le torbide pratiche attribuite a delinquenti comuni, amministratori e partiti, ora oggetto di giudizio penale, sono le stesse da decenni. La novità è solo una: nel porto giudiziario della Capitale si è finalmente diradata la nebbia che faceva incagliare ogni inchiesta ed è ora possibile a tutti osservare da vicino gli intrighi lucrosi a danno dei cittadini romani e del Paese, contare i parenti assunti nelle municipalizzate e - come prima conseguenza - chiudere i circoli di partito "dannosi e pericolosi". Perciò questo processo senza ossequi né carezzevoli attenzioni è un’occasione per testare un’ipotesi di convivenza civile in cui non trovino posto borseggiatori, pusher, ladri georgiani, ma nemmeno bancarottieri e grandi evasori. Un contesto di garanzia in cui si perseguono le responsabilità per la morte di Stefano Cucchi, si sequestrano i beni mafiosi e si bussa anche all’Anas, all’Inps, all’Ospedale israelitico e - perché no - al Campidoglio. Uno scossone all’albero ormai quasi soffocato dai frutti marciti. Utopia? Forse. Oppure innesco di rilancio, se fuori dall’aula bunker si comincerà (o continuerà) a fare con coscienza ciascuno la propria parte. L’anomalia che deve destare allarme non è un dibattimento dal calendario serrato o che utilizzi la tecnologia per snellire i tempi, ma lo svuotamento semantico di aggettivi come "legale" o "normale" a opera di spregiudicati maître à penser che non si peritano di salmodiare "in fondo è soltanto la solita corruzione". Sarà snobismo irresponsabile, proprio mentre il Paese cerca di ripartire su basi nuove, o pura e semplice difesa degli interessi più retrivi? Lo sapremo presto. Quando, per esempio, si udranno le prime lamentazioni per il 41 bis rifilato ad alcuni imputati, proprio come ora si odono quelle per il ricorso alla videoconferenza. L’anomalia è che non ci sia ancora vergogna di vivere in un Paese nel quale da Sanremo a Boscoreale, da Bari a Reggio Calabria, centinaia di dipendenti comunali possono rubare lo stipendio sotto lo sguardo assente o impotente di superiori e colleghi. Per non dire dei sabotaggi ai mezzi comunali, dei falsi sugli elicotteri antincendio, dei vergognosi fallimenti sulla raccolta dei rifiuti. Il processo ai corrotti e ai mafiosi della Capitale non risolverà alcuno di questi problemi. Ma potrà servire a far decidere da che parte stare, su quale piatto della bilancia mettere il proprio sassolino. Le campagne d’opinione più inattuali proseguiranno, magari in nome di princìpi sacrosanti quali il garantismo, la libertà d’opinione, la libertà economica. Il dibattimento che prende il via giovedì sarà utile se - condanne e assoluzioni a parte - spingerà politici, amministratori, imprenditori, baristi, vigili urbani, venditori ambulanti, a interpretare il loro ruolo con un copione riscritto da capo. Giustizia: il rischio che Roma diventi la nuova capitale del circo mediatico giudiziario di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 novembre 2015 Quando il prossimo cinque novembre nell’aula Occorsio di Roma si aprirà il processo "Mafia Capitale" i procuratori della Repubblica e forse anche alcuni amici giornalisti faranno bene a osservare con attenzione il succo di una polemica gustosa che si sta sviluppando da alcuni giorni tra i campioni della magistratura chiodata, l’Anm, e un magistrato improvvisamente ribelle di nome Raffaele Cantone. La polemica, apparentemente, riguarda solo il ruolo dell’Associazione italiana magistrati, il suo posizionamento, la sua continua tendenza a battagliare con la politica e la tentazione costante da parte della Sabelli Band a rapportarsi con i governi non da una posizione paritetica ma culturalmente e antropologicamente persino da una vetta superiore. Alla Marchese del Grillo - "Perché io so io e voi non siete un cazzo". Cantone, parlando qualche mese fa con il nostro giornale, ha detto di non sentirsi più rappresentato dall’Anm, da questo gruppo di magistrati che si preoccupa troppo di ferie e che ormai non rappresenta più nessuno, e ha formulato la sua critica all’attuale mondo della magistratura - del quale evidentemente il capo dell’anticorruzione si sente complice solo fino a un certo punto - mettendo agli atti una serie di accuse clamorose che vale la pena sintetizzare. Le correnti della magistratura, ha detto Cantone, sono un male assoluto, "un cancro". L’obbligatorietà dell’azione penale è diventata una grande farsa, è sostanzialmente "discrezionale". Il ruolo del Csm non esiste più, ormai è un "centro di potere vuoto". I magistrati appartengono a una casta e "sono l’ultima categoria che fa carriera in modo automatico senza che vi siano demeriti". E anche il ruolo di Magistratura Democratica bisogna ammettere che è diventato ambiguo, così come il suo "settarismo" e l’insostenibile "utilizzo della giustizia come lotta di classe". C’è tutto questo all’interno della dialettica tra Cantone e l’Anm ma al centro c’è un tema più forte che non potrà che essere cruciale anche nell’ambito di quel grande show che promette di essere il processo su "Mafia Capitale". L’accusa di Cantone è importante e colpisce dritto al cuore perché arriva proprio da quello che da molti punti di vista è diventato l’eroe del moralismo dell’era renziana. E anche se il capo dell’Anac rivendica il ruolo pedagogico del magistrato non rinuncia però a dire che il nostro paese vive un grande dramma che si chiama gogna giudiziaria. Il ragionamento di Cantone parte da una riflessione legata alle conseguenze nefaste del processo sulla trattativa stato-mafia - "un pentolone all’interno del quale ho visto confluire molti degli ingredienti del processo mediatico, o meglio della gogna mediatica, dove tutto è contorto, metagiudiziario quanto ad analisi socioeconomiche e storico-politiche, e silente quanto al movente delle persone di stato" - ha scritto Piero Tony nel suo libro "Io non posso tacere", con una tesi condivisa pubblicamente dallo stesso Cantone. E proprio le scelleratezze di quel processo, con i suoi cortocircuiti, dovranno in qualche modo essere una lezione da cui prendere le distanze per i giudici romani. Finora, come ha ricordato su queste pagine il presidente delle Camere Penali, Mafia-Capitale non è stato solo un evento di cronaca giudiziaria, ma ha segnato una svolta qualitativa nei rapporti fra politica e magistratura, fra media e procure e fra procure e magistratura nel suo complesso, "mostrando improvvisamente nuovi modi di organizzare l’impatto mediatico delle indagini e un nuovo rapporto, inedito in parte, fra politica e magistratura; con la procura anti-mafiosa che diventa l’immagine del bene assoluto, che ridisegna la storia, che vuole riscrivere i codici e che, attraverso la sua azione giudiziaria, modella la Verità, mutata nella sua stessa Rappresentazione". Da molti punti di vista, il nuovo contesto politico romano, con tutti i vuoti legati al dopo Marino e alla imminente campagna elettorale, trasformerà la capitale in un teatro di campagna politico-morale- giudiziaria in cui le procure potranno rafforzare il proprio ruolo di supplenza e indebolire la formazione di una classe dirigente. Le tentazioni sono note. E non fatichiamo a pensare che ci saranno magistrati che si occuperanno anche di morale, e non solo di penale; che ci saranno pm che sfrutteranno il periodo delicato della città anche per occuparsi di peccati, e non solo di reati; e che ci saranno improvvisamente intercettazioni bignè che verranno gentilmente offerte ai giornalisti; e che ci sarà un interesse collettivo a portare avanti non solo il processo in aula ma anche il processo mediatico. Gli ingredienti per far sì che qualcuno sfrutti mafia capitale per fare campagna elettorale ci sono tutti. E ci piacerebbe dire che la denuncia di Cantone sarà un monito sufficiente per disincentivare i colleghi di Pignatone a fare l’occhiolino a Grillo e a trasformare Roma nella capitale del circo mediatico giudiziario. Ci piacerebbe, appunto. Perché sappiamo bene, purtroppo, che molti pm di Roma non appena vedranno la spia rossa accesa sopra le telecamere ci metteranno un attimo a trasformare il processo penale in un processo mediatico. Specie poi se la mafia annunciata e declamata e raccontata a mezzo mondo dovesse risultare una mezza farsa buona al massimo per un sequel cinematografico dei compagni di Suburra. Misure cautelari: forme di presentazione dell’istanza di riesame. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2015 Misure cautelari - Istanza di riesame - Forme - Presentazione nella cancelleria di giudice incompetente - Inammissibilità. La richiesta di riesame deve essere presentata, anche per via telegrafica o postale, nella cancelleria del Tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento ed è, pertanto, inammissibile il gravame presentato nella cancelleria di altro Tribunale. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 luglio 2015 n. 31961. Misure cautelari - Istanza di riesame - Forme - Istanza di riesame trasmessa via fax - Proposizione irrituale. Le norme riguardanti la presentazione o spedizione dell’impugnazione (applicabili, oltre alle parti private, anche al pubblico ministero), prevedono, a pena di inammissibilità, forme particolari, atte a garantire non solo la ricezione, ma anche e soprattutto l’autenticità e la provenienza, per cui è inammissibile il gravame proposto a mezzo di telefax, poiché tale strumento tecnico, la cui utilizzazione non è prevista dalle norme in tema di impugnazione, non è comunque idoneo a garantirne la provenienza. Deve considerarsi irritualmente proposta un’istanza di riesame trasmessa a mezzo fax essendo la dichiarazione di impugnazione un atto a forma vincolata le cui modalità di presentazione e ricezione costituiscono requisiti di forma che non ammettono equipollenti. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 19 giugno 2014 n. 26475. Misure cautelari - Istanza di riesame - Presentazione nella cancelleria di giudice incompetente - Inammissibilità - Sussistenza. In tema di misure cautelari reali, la richiesta di riesame deve essere presentata nella cancelleria del Tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento ed è, pertanto, inammissibile il gravame presentato nella cancelleria di altro Tribunale. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 22 aprile 2013 n. 18281. Misure cautelari - Istanza di riesame - Presentazione nella cancelleria di giudice incompetente - Inammissibilità - Sussistenza. In tema di misure cautelari reali, la richiesta di riesame deve essere presentata (ex art.324, commi 1 e 5, cod. proc. pen. ) nella cancelleria del Tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento; è, pertanto, inammissibile il gravame presentato nella cancelleria del Tribunale avente sede nel capoluogo del distretto. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 4 ottobre 2002 n. 33337. Il legittimo impedimento dell’imputato agli arresti domiciliari. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2015 Processo penale - Legittimo impedimento a comparire dell’imputato - Imputato agli arresti domiciliari per altra causa - Comparizione in giudizio - Richiesta dell’autorizzazione al giudice competente - Onere dell’imputato - Sussistenza. L’imputato sottoposto ad arresti domiciliari per altra causa, qualora intenda comparire in udienza, ha l’onere di chiedere tempestivamente al giudice competente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, non essendo, in tal caso, configurabile un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporne la traduzione. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 27 febbraio 2015 n. 8876. Processo penale - Contumacia dell’imputato - Legittimo impedimento a comparire dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa - Sussistenza - Onere di tempestiva comunicazione - Esclusione - Ragioni. La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 5 maggio 2014 n. 18455. Processo penale - Imputato agli arresti domiciliari per altra causa - Legittimo impedimento a comparire - Dichiarazione di contumacia - Onere di pronta comunicazione dell’impedimento - Esclusione - Nullità della dichiarazione di contumacia - Fondamento. L’imputato che si trovi agli arresti domiciliari per altra causa, in forza di un provvedimento sopravvenuto alla notificazione del decreto di citazione a giudizio, è legittimamente impedito a comparire, per cui è nulla la dichiarazione di contumacia pronunciata sul presupposto della mancata tempestiva comunicazione al giudice procedente della situazione detentiva. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 10 febbraio 2002 n. 41252. Processo penale - Imputato agli arresti domiciliari per altra causa - Mancata traduzione - Legittimo impedimento a comparire - Sussistenza. L’imputato che si trovi agli arresti domiciliari per altra causa e nei cui confronti, essendo nota al giudice procedente tale sua situazione, non sia stata disposta la traduzione, è da considerare legittimamente impedito a comparire e non può, quindi, essere dichiarato contumace; non rileva in contrario il fatto che egli non abbia manifestato tempestivamente la sua volontà di essere presente al dibattimento, chiedendo quindi al giudice la rimozione del suddetto impedimento, atteso che non è configurabile a suo carico un siffatto obbligo, mentre spetta comunque al giudice il dovere di porre l’imputato in grado di esercitare il suo diritto di essere presente al giudizio. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 4 aprile 2001 n. 13593. Omissione atti d’ufficio: punita non la mancata adozione ma l’inerzia del funzionario di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 ottobre 2015 n. 42610. La Cassazione chiarisce i profili del reato di omissione di atti d’ufficio (articolo 328, comma 2, del Cp ) e lo fa con la sentenza della sezione VI, del 22 ottobre 2015 n. 42610. La disposizione, si osserva, incrimina non tanto l’omissione dell’atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse. Pertanto, l’omissione dell’atto non comporta ex se la punibilità dell’agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l’atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, cioè, non già la mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa. Quando si consuma il reato - Ne discende, coerentemente, che il reato si consuma allorquando, a fronte della richiesta scritta del privato di cui all’articolo 328, comma 2, del Cp, che deve assumere la natura e la funzione tipica della "diffida ad adempiere" (deve cioè essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono), sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato. La ricostruzione della Suprema corte - La ricostruzione della Cassazione è ineccepibile, perché focalizza l’attenzione su tutti gli elementi fattuali rilevanti per la sussistenza del reato. Presupposto essenziale e ineludibile del reato è la "richiesta" del privato. Dal punto di vista materiale, il rapporto tra privato e pubblica amministrazione è infatti normativamente costruito, nell’articolo 328, comma 2, c.p., sulla "richiesta" che il primo rivolge al funzionario pubblico, sollecitandogli, pena la configurabilità del reato, il compimento di un atto dovuto cui sia "interessato" ovvero, in alternativa, l’esplicitazione delle ragioni giustificative del relativo ritardo. La richiesta de qua è quindi collegata, da un lato, a un apprezzabile interesse del richiedente e, dall’altro, a uno dei possibili sbocchi ipotizzati dalla norma medesima: definizione della pratica, spiegazione del ritardo, sanzione penale in mancanza dell’una o dell’altra, nel termine legale di giorni trenta. Va sottolineato, pur non essendo tematica qui direttamente affrontata dalla Corte, che la richiesta presa in considerazione dall’articolo 328, comma 2, del Cp non va confusa con quella (istanza, domanda, ecc.) mediante la quale il privato ha (già) chiesto all’amministrazione l’adozione dell’atto cui è interessato, costituendo, invece, qualcosa, anche ontologicamente, di diverso, e di necessariamente successivo. La diffida ad adempiere - La richiesta de qua assolve, infatti, alla essenziale funzione di trasferire sul piano della rilevanza penale l’omissione e/o il ritardo nel provvedere rispetto all’istanza originaria, che, ex se considerate, non costituiscono, né potrebbero mai costituire, condotte penalmente significative, quantomeno ex articolo 328, comma 2. In questa prospettiva finalistica, tale richiesta viene così ad assumere, nella previsione di legge, natura e funzione di "diffida ad adempiere" (ergo, di costituzione in mora), che, con percepibile immediatezza, deve essere rivolta a sollecitare la definizione della pratica o a chiedere spiegazione del ritardo, venendosi a consumare il reato omissivo proprio quando, in presenza di tale essenziale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato. Risulta allora evidente, sotto il profilo "temporale", che la diffida ad adempiere può essere legittimamente formalizzata solo dopo che si sia inutilmente consumato il termine concesso ex lege all’amministrazione per provvedere. A una diffida fatta "in prevenzione" (cioè, in previsione della mancata soddisfazione dell’istanza) non potrebbe mai attribuirsi rilevanza, proprio per difetto del presupposto fattuale rappresentato dall’inerzia dell’amministrazione (si pensi, alla richiesta, pur avanzata richiamando il disposto della norma incriminatrice, che venga formulata contestualmente all’istanza con cui il richiedente chiede l’adozione del provvedimento): una formale costituzione in mora, infatti, ha un senso solo dopo che sia, in concreto, decorso infruttuosamente il termine che l’amministrazione ha per provvedere. E risulta altresì evidente, dal punto di vista del contenuto della diffida, che questa costituisce un atto formale e dal contenuto tipico: non può che collegarsi a uno dei tre possibili sbocchi ipotizzati dalla norma incriminatrice (definizione della pratica, spiegazione del ritardo, sanzione penale in mancanza dell’una o dell’altra nel termine legale di giorni trenta) e deve qualificarsi immediatamente, proprio per il suo tenore letterale, come diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario. Ciò che non si verifica, esemplificando, allorché la richiesta si risolve in una semplice richiesta di informazioni o di chiarimenti o di sollecitazione della collaborazione del destinatario al compimento di atti prodromici o strumentali al raggiungimento del fine del richiedente. La necessità della forma scritta - Il rilevato carattere tipico della "diffida" ha come inevitabile conseguenza la necessità della "forma scritta", imposta del resto dalla lettera della norma, risultando all’evidenza qualsiasi formalità alternativa (in primo luogo, quella orale) inidonea ad attivare il rigoroso meccanismo costruito dalla norma. Conclusione, del resto, imposta dai principi di tassatività e di determinatezza che stanno alla base del sistema della responsabilità penale, impeditivi di qualsivoglia interpretazione estensiva. La diffida ad adempiere, per rilevare ex articolo 328, comma 2, del Cp oltre a doversi distinguere, ontologicamente e temporalmente, dall’istanza diretta a ottenere il provvedimento e oltre ad assumere il contenuto tipico di cui si è detto, va correttamente "veicolata". È essenziale, quindi, che sia indirizzata all’articolazione dell’amministrazione competente a provvedere e che risulti giunta, con certezza, alla conoscenza del funzionario responsabile (ex pluribus, sezione VI, 8 giugno 2000, Spanò). La puntalizzazione della Cassazione - In questa prospettiva, è interessante la puntualizzazione qui fornita dalla Cassazione. In effetti, la diffida risultava indirizzata al Sindaco del Comune, e non direttamente all’imputato, responsabile dell’articolazione competente a provvedere e, quindi, a rispondere. Peraltro, ha evidenziato la Corte, il Sindaco aveva a sua volta rimesso al funzionario la richiesta del privato, con invito proprio a darne riscontro: ciò che consentiva di affermare che il funzionario era stato informato della richiesta e doveva provvedere in tal senso, adottando l’atto o comunque giustificando il ritardo. Il silenzio-rifiuto entro la scadenza del termine - Un’ultima notazione merita di essere fatta. La Cassazione, corrispondendo a specifico motivo di ricorso, ha ribadito che, ai fini della integrazione del delitto di omissione di atti d’ufficio, è irrilevante il formarsi del silenzio-rifiuto entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato. Ne consegue, in sostanza, che il "silenzio-rifiuto" deve considerarsi inadempimento e, quindi, come condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice. Ciò perché non può sovrapporsi la questione del rimedio apprestato dall’ordinamento contro l’inerzia della pubblica amministrazione con la responsabilità penale del pubblico funzionario, anche perché, con l’esperibilità dei rimedi giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non si soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela nei confronti della pubblica amministrazione (basti pensare al vizio di merito dell’atto amministrativo) (in questo senso, di recente, sezione VI, 17 ottobre 2013, Proc. gen. App. Messina in proc. Giuffrida). Livorno: il Garante comunale dei detenuti scelto per curriculum, ecco come candidarsi Il Tirreno, 2 novembre 2015 Da lunedì 2 novembre fino alle ore 13 di lunedì 16 novembre 2015 tutti coloro che aspirano all’incarico di "garante dei diritti delle persone private della libertà personale" possono presentare la propria candidatura, inviandola al Comune di Livorno ed indicando come oggetto "Candidatura alla nomina di Garante". Per la prima volta l’amministrazione comunale ha deciso di prendere in esame eventuali candidature per scegliere il garante, che sarà nominato direttamente dal sindaco, con proprio atto, scegliendo fra persone d’indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale. Le candidature devono essere corredate di dettagliato curriculum, dichiarando il possesso dei requisiti di cui al citato articolo 3 del regolamento ed indicando eventuali nomine, designazioni ed incarichi anche di tipo professionale conferiti da pubbliche amministrazioni. Le candidature dovranno essere presentate all’ufficio di relazioni con il pubblico, piazza del Municipio n. 1, dalle ore 9.alle ore 13 nei giorni dal lunedì al venerdì o dalle ore 15.30 alle ore 17.30 dei giorni di martedì e di giovedì, oppure inviate tramite la propria casella di posta elettronica certificata all’indirizzo: comune.livorno@postacert.toscana.it In caso di invio tramite posta non farà fede il timbro postale. L’amministrazione si riserva, se necessario, di modificare o revocare l’avviso di selezione, nonché di prorogarne o riaprirne il termine di scadenza. L’amministrazione si riserva, altresì, di non dare corso alla presente procedura selettiva in caso di sopravvenienza di previsioni normative o condizioni economico finanziarie ostative alla sua conclusione. Per proporre la propria candidatura è possibile utilizzare il modulo appositamente predisposto oppure sottoscrivere una dichiarazione personalizzata purché la stessa contenga tutti gli elementi utili ai fini della corretta candidatura. L’avviso pubblico e il modulo di domanda sono scaricabile dal sito del Comune di Livorno all’indirizzo comune.livorno.it nonché reperibili presso l’Ufficio Relazioni con il Pubblico. La Spezia: sospetto caso di tubercolosi nella Casa circondariale di Villa Andreino primocanale.it, 2 novembre 2015 Detenuto nordafricano sottoposto ad esami in ospedale e ora isolato. Sospetto caso di tubercolosi nel carcere della Spezia. Un detenuto di 30anni, originario del nordafrica, è stato ricoverato per accertamenti nel reparto infettivi dell’ospedale Sant’Andrea ed ora, dimesso, è in isolamento all’interno della casa circondariale Un detenuto di 30 anni, originario del nordafrica, è stato sottoposto tra venerdì e ieri ad approfonditi esami presso il reparto Infettivi dell’ospedale Sant’Andrea della Spezia. Nella serata di sabato l’uomo è stato dimesso. In attesa dell’esito delle analisi specifiche sul possibile insorgere della Tbc, è stato isolato in una stanza del carcere spezzino. Il detenuto era stato trasferito presso la struttura carceraria di via Fontevivo, circa tre settimane fa. I primi sintomi, con una violenta tosse, erano iniziati pochi giorni dopo. Vigevano (Pv): detenuti al lavoro gratuitamente per la pulizia di strade e marciapiedi di Andrea Ballone La Provincia Pavese, 2 novembre 2015 Accordo con la casa circondariale: si occuperanno gratuitamente della pulizia di strade e marciapiedi. I detenuti lavoreranno per conto del Comune. È stato siglato un accordo tra amministrazione comunale, casa circondariale e Agenzia per il lavoro di Pavia che porterà un gruppo di detenuti, scelti dalla casa circondariale in base al comportamento e al tipo di reato, a lavorare per conto del Comune. Da anni la legge disciplina questo tipo di interventi, attuati in varie zone d’Italia con il preciso obiettivo non solo di dare un contributo alla comunità, ma anche di reinserire i detenuti. Per lavorare per conto del Comune potranno uscire quattro giorni in un mese nella fascia oraria che va dalle 8.45 alle 12.14, rispettando una turnazione. Nell’accordo non è previsto alcun compenso. La convenzione (firmata da amministrazione comunale, casa circondariale e Apolf, l’agenzia provinciale per il lavoro) durerà tre anni e porterà diversi detenuti a lavorare per la città. Le mansioni riguardano la pulizia di strade e marciapiedi, ma anche eventuali interventi per l’emergenza neve. I detenuti saranno scelti dalla casa circondariale che, sulla base del piano di trattamento rieducativo, "individua i soggetti per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro esterno da proporre per l’approvazione al magistrato di sorveglianza". L’Apolf nell’ambito del progetto si occupa del coordinamento delle tempistiche, degli aspetti amministrativi, dell’attività di tutoraggio e del mantenimento dei rapporti fra tutti i soggetti coinvolti. Il Comune predisporrà una serie di progetti di pubblica utilità della durata minima di dieci giorni e della durata massima di sei mesi, indicando per ognuno il programma di lavoro, il luogo, gli orari e il funzionario responsabile per l’impiego. Saranno individuati anche il luogo e l’orario per il pasto. Como: al carcere del Bassone corso di intaglio, i detenuti creano sculture e bastoni di Paola Pioppi Il Giorno, 2 novembre 2015 Le risorse forestali della Lombardia diventano protagoniste di un corso professionale all’interno del carcere Bassone di Como. Parte infatti sabato 7 novembre, il secondo ciclo di lezioni realizzate all’interno della casa circondariale comasca, grazie a una sinergia che ha dato vita a un progetto per la realizzazione di bastoni e sculture in legno realizzate dai detenuti, con finalità rieducative e di insegnamento. La prima fase si è già svolta prima dell’estate, quando gli intagliatori del legno di Schignano, si erano trasformati in volontari per il carcere Bassone, docenti di un corso di intaglio professionale, utilizzando le materie prime provenienti dalle aree forestali lombarde. Oltre al corso teorico-pratico di cinque lezioni di intaglio, ma anche di formazione sulla gestione e conoscenza delle foreste di Lombardia, comprensivi degli gli aspetti etici e di sostenibilità del territorio, ha prodotto bastoni da passeggio in legno di nocciolo, nella prospettiva di ipotizzare una commercializzazione futura, in tutto sotto la guida di personale tecnico dell’Ersaf. Il progetto, varato per la prima volta al Bassone, è stato realizzato dalla casa circondariale comasca in collaborazione con Ersaf, l’ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, e portato avanti con il consigliere regionale Daniela Maroni, oltre alla disponibilità degli intagliatori. Parte ora nella sua seconda fase. Cinque giornate di intaglio artistico, sei ore ogni lezione, sotto la guida dei maestri mascherai di Schignano, che si sono messi a disposizione di altrettanti detenuti, scelti tra coloro che hanno dimostrato di avere caratteristiche adeguate a seguire il corso. Prima di tutto, la predisposizione a questo genere di lavori e alla manualità, fondamentale nell’approccio con la materia prima, ma anche al capacità di lavorare in gruppo e di condividere un obiettivo comune. Il tema del manufatto sarà scelto e studiato insieme, altro aspetto della valenza sinergica di questo laboratorio, che si affianca all’acquisizione di una professionalità. Il risultato di questo percorso, che terminerà a fine novembre, sarà sotto gli occhi di tutti: infatti la scultura finale sarà esposta a Schignano. "Assieme a Ersaf e ai mascherai di Schignano - commenta Daniela Maroni - abbiamo iniziato questi percorsi che hanno dato ottimi risultati". Verona: la Polizia penitenziaria protesta "il carcere è una bomba a orologeria" L’Arena, 2 novembre 2015 "Una bomba a orologeria pronta a esplodere". È così che gli agenti di polizia penitenziaria definiscono il carcere di Montorio. Timori che si protraggono ormai da tempo e che sono aumentati nelle ultime settimane dopo alcuni episodi particolarmente gravi. L’incendio divampato in tre celle circa un mese fa. Le aggressioni ormai quotidiane nei confronti degli stessi agenti da parte dei detenuti: l’ultima nei giorni scorsi, messa in atto con coltelli rudimentali. E poi ancora, circa 70-80 cellulari sequestrati nell’arco di un anno: telefoni il cui utilizzo è ovviamente vietato all’interno del carcere, con cui ora si può fare qualsiasi cosa, collegarsi a internet, contattare chiunque e, anche eventualmente commettere reati. "Sono segnali preoccupanti, che evidenziano alcune lacune a livello di sicurezza", spiegano i delegati sindacali degli agenti di polizia penitenziaria, che ieri si sono radunati davanti alla casa circondariale in segno di protesta. Una manifestazione unitaria, in linea con lo stato d’agitazione aperto nell’agosto del 2013, che ha visto scendere in piazza i rappresentanti di tutte le sigle: Alfredo Santagata dell’Osap, Gerardo Notarfrancesco del Sappe, Giulio Pegoraro dell’Uspp, Daniela Ferrari della Cisl Funzione Pubblica ed Elisabetta Rossoni della Cgil Funzione Pubblica. "Nel 2011 i detenuti ristretti a Montorio erano oltre un migliaio: ora sono 500, eppure gli elementi di criticità sono triplicati", spiegano i rappresentanti dei poliziotti, che puntano il dito contro la direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli. "Negli anni abbiamo assistito al progressivo smantellamento dell’organizzazione del servizio: i vertici, purtroppo, sono evidentemente inadeguati a gestire la situazione, per questo ne chiediamo la rimozione". La direttrice, interpellata da L’Arena per una replica, ha spiegato che in questa fase preferisce evitare commenti. Attualmente gli agenti operativi a Montorio sono circa 300 ma, come hanno spiegato ieri i rappresentanti sindacali, all’interno delle sezioni detentive spesso un solo poliziotto si ritrova a dover gestire anche 50-60 detenuti. "Questo è particolarmente pericoloso oggi, perché dal 2014 si è passati dal regime chiuso al regime aperto: ciò significa che i detenuti stanno almeno otto ore al giorno liberi nella sezione, non rinchiusi nella propria cella", proseguono. "Gestirli in gruppo diventa molto più difficile, senza contare che spesso si verificano piccoli furti all’interno delle celle, al punto che gli stessi detenuti si danno i turni per non lasciarle incustodite". Alla manifestazione era presente ieri anche il deputato del Pd Vincenzo D’Arienzo, che ha già presentato due interrogazioni sul tema. "Se gli agenti di polizia penitenziaria non lavorano serenamente, ciò fa venir meno la loro capacità di riabilitazione dei detenuti, che è l’obiettivo primario del carcere: i primi a risentire di questa situazione, quindi, sono le stesse persone rinchiuse nell’istituto". Siracusa: rieducazione detenuti, incontro al Liceo Quintiliano con il direttore del carcere nuovosud.it, 2 novembre 2015 Promuovere un’esperienza significativa di conoscenza e approfondimento dei temi della giustizia, del carcere e della pena, delle condotte antisociali, del pregiudizio, del reinserimento sociale dei detenuti: questa la finalità dell’incontro, organizzato ieri al liceo Quintiliano di Siracusa dalle insegnanti Anna Di Carlo e Ida Toscano, con il magistrato Simona Lo Iacono, il direttore del carcere di Brucoli Antonio Gelardi e il regista Aldo Formosa. "Attraverso lo schema educativo del carcere che entra nella scuola e della scuola che entra nel carcere - spiega Anna Di Carlo - abbiamo proposto ai ragazzi un confronto su un modello di giustizia inclusivo e riabilitativo in una prospettiva pedagogica e di riscatto, per sensibilizzarli ai valori dell’accoglienza, della solidarietà e del rispetto della dignità della persona". Il dottor Gelardi ha illustrato agli studenti le attività artistiche e sociali attraverso le quali " si cerca di dare un contenuto alla giornata, diversamente vuota, del detenuto", invitando i giovani a una riflessione su misure limitative della libertà alternative alla pena detentiva. "Una rieducazione è tale se guida la persona alla riappropriazione dei valori lesi della società, recuperando se stessa, il proprio talento, il senso del proprio stare al mondo, anche attraverso l’arte", ha affermato la Lo Iacono, che con la collaborazione di Aldo Formosa ha curato uno spettacolo teatrale dedicato alla vita di alcuni detenuti del carcere di Brucoli, autori della sceneggiatura e protagonisti della rappresentazione. Propositiva la partecipazione degli studenti delle Scienze Umane al dibattito stimolato dagli interventi dei relatori e dalla lettura di passi tratti dai libri Dei delitti e delle pene di Beccaria, Il processo di Kafla, Il segreto di Luca di Silone, Effatà della Lo Iacono. "L’educazione alla legalità - spiega Ida Toscano - è una delle finalità del progetto My body, my rights che abbiamo promosso al Quintiliano, ritenendo che l’educazione ai diritti umani debba essere una priorità di tutte le forze educative, se vogliamo creare le basi per la formazione di cittadini consapevoli dei propri diritti e delle responsabilità di ciascuno". Una proposta didattica complessiva, flessibile, interattiva, condivisa dai licei Leonardo da Vinci di Floridia ed Einaudi di Siracusa, realizzata con la collaborazione di Amnesty International ed Emergency, con diverse modalità di intervento ma con un unico filo conduttore: l’educazione alla "cittadinanza planetaria". Salerno: il ministero vuole chiudere il carcere a Sala Consilina? Il Sindaco smentisce di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 2 novembre 2015 Il carcere di Sala Consilina potrebbe essere chiuso a breve. La notizia proviene da ambienti interni alla casa circondariale del comune capofila del Vallo di Diano, che hanno confermato l’imminente firma del decreto di soppressione da parte del ministro Orlando. Più cauto sulla vicenda è invece il sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone. "Ho appreso ieri della imminente soppressione - ha dichiarato il primo cittadino - e questa mattina ho parlato con la dottoressa Felaco, direttrice della casa circondariale, mi ha detto che fino ad oggi non le è stato notificato alcun provvedimento di soppressione. Già da lunedì comunque ci attiveremo presso il ministero e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per far valere le nostre ragioni, alla luce anche del fatto che tempo fa abbiamo presentato un progetto che prevedeva l’ampliamento e l’adeguamento della struttura così come previsto dalla normativa vigente in modo tale da poter rispettare i requisiti minimi per poter lasciare aperto il carcere". La conferma della possibile chiusura arriva anche da un agente della Polizia penitenziaria in servizio a Sala Consilina che ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post con il suo sfogo per la decisione presa dal ministero. "Dopo 400 anni - scrive nel post - viene chiuso il carcere di Sala Consilina. Andranno via altre 50 famiglie dal Vallo di Diano, dobbiamo ringraziare i nostri politici che come sempre non fanno niente per il Vallo di Diano". "Ci stanno macellando - ha invece dichiarato Michele Galiano, avvocato e consigliere comunale di opposizione - noi paghiamo le tasse che pagano tutti e non abbiano nemmeno un servizio che hanno in altre realtà. Invito tutti i politici a dare un segno concreto a chi si trova nelle segreterie dei partiti". Milano: le volontarie che insegnano ai detenuti a preparare le ostie consacrate dal Papa di Cristina Bulgheri Il Tirreno, 2 novembre 2015 La straordinaria esperienza nel carcere Opera di Milano di tre volontarie della parrocchia di Santa Rita di Viareggio. Da Santa Rita a Milano, fino in Vaticano. È casuale, ma ha il sapore della Provvidenza il percorso che lega Viareggio al Papa e che passa dalle mani semplici e pulite di tre volontarie della parrocchia di Santa Rita di Viareggio, guidata da don Luigi Pellegrini, a quelle, certo meno candide, di tre detenuti del carcere di massima sicurezza Opera a Milano, per arrivare a breve in quelle di papa Bergoglio. Tutto è cominciato un po’ per caso, come accadono le cose straordinarie: Wallj, Rita e Patrizia sono tre parrocchiane che, oltre alla propria famiglia, dedicano il loro tempo al volontariato nella chiesa di santa Rita al Campo d’Aviazione. Il lunedì e il mercoledì mattina si ritrovano, da cinque anni a questa parte, in una delle stanze dell’oratorio e con gli attrezzi preposti producono le ostie per le celebrazioni: circa tremila a settimana. "Ci piaceva far nascere l’Eucarestia dalle nostre mani - spiega don Luigi - il pane come segno del sacrificio del nostro lavoro". Tutto in casa, tutto in famiglia. Fin quando Alessandro, un rappresentante di oggetti sacri, ha parlato di questa esperienza ad Arnoldo Mosca Mondadori, nipote del noto editore, consigliere di Cariplo e Mediaset, ma soprattutto uomo di grande impegno nel sociale. A lui si devono le sovvenzioni di tanti progetti tra cui alcuni legati al mondo delle case di reclusione, tipo la produzione di marmellate all’interno dello stesso carcere Opera di Milano. E allora perché non spingersi oltre e provare a scommettere sulla redenzione. Nasce così l’idea del progetto "Dalla morte alla vita" : insegnare ai detenuti a realizzare le ostie, che saranno poi utilizzate da un centinaio di parrocchie e che, nell’anno del Giubileo saranno consacrate da Papa Francesco durante una Messa speciale, da celebrare proprio nell’anno della Misericordia. È con questa missione che il 15 e il 16 ottobre scorsi Wallj Agostini, Rita Balsamo e Patrizia Palonti sono salite sull’auto di Alessandro (il rappresentante) e sono partite da Viareggio alla volta di Milano, non senza un po’ di batticuore e qualche perplessità: "Anche i nostri familiari - racconta Patrizia - hanno avanzato dei dubbi, erano preoccupati per eventuali rischi che potevamo correre, in fondo andavamo a casa di ergastolani e mafiosi. E siamo state davvero in crisi pensando anche al dolore delle persone che erano state vittime degli omicidi di questi detenuti: tanti gli interrogativi che ci hanno assalito nei giorni precedenti alla visita. Poi ci siamo dette che non sta a noi giudicare e siamo andate in nome della Provvidenza. E la nostra vita, dopo questa esperienza, è davvero cambiata". Come? "Intanto - tiene a puntualizzare Rita - la lista delle persone per cui preghiamo adesso si è allungata: ai tanti nomi che ricordiamo ogni volta abbiamo aggiunto quelli di Cristiano, Giuseppe e Ciro. In loro abbiamo potuto vedere il volto di un figlio, di un fratello, di un marito. È toccato ad altri questo destino, sarebbe potuto toccare a noi". "A loro - le fa eco Wallj - ho pensato quando siamo andati a Medjugorje prendendo dei braccialetti-rosario da regalare quando a metà novembre torneremo a Milano e li rincontreremo". Con Cristiano, Giuseppe e Ciro, i tre detenuti che il direttore e il cappellano di Opera hanno ritenuto degni di affrontare questa esperienza - le tre volontarie hanno passato due giorni intensi, fatti di pane e parole, ma anche di tanti lunghi silenzi, di tanto non detto eloquente più di qualsiasi vocabolo. Il giovane Cristiano, 29 anni, Ciro 50 anni, imbianchino e pittore, Giuseppe 45. Sulla loro fedina penale figurano colpe gravi: rapine, omicidi delitti di mafia, per i quali sono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza, quello che, giusto per capirsi, ospita personaggi del calibro di Totò Riina; sulle loro teste pesa l’ergastolo o non meno di 30 anni di detenzione. E un futuro che sembra non avere speranze. "Con loro abbiamo vissuto due giorni di emozioni reciproche, ci hanno raccontato le loro storie, la loro vita prima e durante il carcere, i loro desideri, la speranza magari di ottenere qualche permesso e incontrare i parenti, conoscere figli e nipoti mai visti, sui quali incredibilmente fanno progetti. Li abbiamo visti piangere. Uno di loro non lo faceva da vent’anni". Ora Ciro, Giuseppe e Cristiano - grazie al progetto "Dalla morte alla vita" - hanno un impegno da portare in fondo, che dà luce alle loro giornate: lavorano sei ore al giorno, realizzano le ostie e guadagnano 500 euro al mese. Sanno che il frutto della loro fatica - imbustato e messo sottovuoto, a volte surgelato - raggiunge varie parrocchie, anche all’estero. Si parla ad esempio di mandarle a Lione nella terra di Santa Teresa di Lisieux. Un’esperienza come poche altre che Wallj definisce "la mia Medjugorje" e aggiunge con convinzione: "Abbiamo imparato più in due giorni di Milano che in due anni di catechesi. Speriamo che con la buona volontà e l’aiuto del Signore questi nostri nuovi amici possano redimersi ed essere strumento di conversione per altre persone che hanno sbagliato". "Del resto - sottolinea Don Luigi - come ricorderemo il 1° novembre nella celebrazione della Festa dei Santi, una delle beatitudini che ci ha insegnato il Signore recita proprio: "Ero carcerato e sei venuto a trovarmi". All’inizio dell’anno della Misericordia la nostra comunità attraverso Wallj, Patrizia e Rita, ha cominciato con un’opera di misericordia". Quella che allora era cominciata un po’ per caso, si è rivelata una grande opportunità e un’occasione che gli organizzatori, capitanati da Arnoldo Mosca Mondadori, hanno voluto fissare e rendere pubblica come una testimonianza, che meritava di varcare i confini del carcere e del mondo delle parrocchie perché fosse conosciuto da molti: da cui l’idea di girare un documentario, che sarà presto proposto sulle rete Mediaset (Rete 4). Ecco che Wallj, Rita e Patrizia a metà mese torneranno su per definire i particolari della registrazione, ma soprattutto per riabbracciare Ciro, Cristiano e Giuseppe. Un altro passo di un lungo nuovo cammino. Caserta: applausi ai detenuti del carcere di Arienzo per lo spettacolo teatrale casertanews.it, 2 novembre 2015 Un pubblico entusiasta ha accolto gli attori detenuti della Casa Circondariale di Arienzo che sono andati in scena sul palcoscenico del teatro della Basilica S. S. Assunta nella serata di venerdì. Lo spettacolo teatrale "C’era una volta nel rione Sanità", una commedia interamente realizzata dai detenuti ha appassionato e emozionato gli spettatori della Valle di Suessola. La serata è stata voluta dal Prof. Clemente Affinita, che ha promosso è organizzato la rassegna culturale autunnale per la prima volta a S. Maria a Vico. Lo spettacolo è una produzione Terra di Cinema, nato da un laboratorio teatrale di Gaetano Ippolito, da anni impegnato nella promozione e realizzazione di eventi e documentari. Lo spettacolo aveva debuttato a giugno presso il Teatro Italia di Acerra, riscuotendo lo stesso successo di pubblico. I detenuti erano già stati protagonisti della rassegna "Teatro Itinerante per la Legalità", con la rappresentazione "Silvia ed i suoi colori", dedicato a Silvia Ruotolo, vittima innocente della camorra. Ma in quell’occasione, i ristretti erano stati impegnati soltanto nell’ideazione e realizzazione delle scene e dei costumi. Questa volta, invece, sono stati protagonisti dalla stesura del testo fino alla messa in scena. Il progetto "Le ali della libertà", ideato da Gaetano Ippolito, consiste in un percorso creativo finalizzato a portare i detenuti a superare le mura del carcere attraverso l’arte. Le rappresentazioni teatrali hanno anche lo scopo di favorire l’incontro della popolazione carceraria con la società civile. Il progetto si pone l’obiettivo di sostenere con forza l’inclusione sociale dei detenuti attraverso le uscite in permesso speciale. Il percorso creativo "Le ali della libertà" è stato sostenuto dalla direttrice della Casa Circondariale di Arienzo, la dottoressa Maria Rosaria Casaburo, da sempre favorevole alle attività educative perché il carcere deve essere visto non come luogo di detenzione, ma come laboratorio educativo e di recupero dei ristretti. Le attività sono state seguite dalle educatrici Rosaria Romano e Francesca Pacelli. Lo spettacolo è una commedia che nel primo atto vede protagonista un cafone che si reca al municipio per uno stato di famiglia. Tra equivoci e battibecchi tra l’impiegato e il cafone, lo spettatore si troverà immerso in un momento di esilarante comicità. Il secondo atto, il boss del quartiere confida ai suoi amici del bar le proprie pende d’amore. Rispetto allo spettacolo di Acerra, dove la cantante era una estera al carcere, ora a S. Maria a Vico, anche le canzoni saranno interpretate da un detenuto. L’evento rientra nella rassegna "L’autunno incontra la musica, il teatro e la cultura", organizzata dal Prof. Clemente Affinita, in collaborazione con le varie associazioni del territorio. La rappresentazione teatrale dei detenuti era l’ultima data della manifestazione. Roma: le detenute di Rebibbia ballano per il Papa sulle note dell’ass. Culturale Matra romatoday.it, 2 novembre 2015 Il flash mob è stato organizzato sulle note di "Pope is pop", registrata negli studi di Tagliolo con la supervisione di Gabriele Massa, e ha coinvolto 50 danzatrici di diverse nazioni e religioni. Senza barriere di nazionalità, né religione. Ha solide radici ovadese il flash mob andato in scena l’altro giorno presso il carcere di Rebibbia e dedicato a Papa Francesco. Detenute di religione cattolica, ortodossa, musulmana, buddhista (ed atee) e di diversa provenienza geografica albanesi, bosniache, brasiliane, bulgare, canadesi, cilene, filippine, italiane, liberiane, nigeriane, peruviane, portoghesi, rumene, tanzaniane hanno ballato tutte assieme sulle note della canzone realizzata a Tagliolo negli studi dell’associazione Culturale Matra. "Ci siamo occupati - conferma Gabriele Massa, tecnico del suono - della registrazione, del mixaggio e del master della canzone. L’evento, che è inserito nell’iter pedagogico-trattamentale che la Casa Circondariale Femminile del Carcere di Rebibbia realizza verso le proprie detenute, si è aperto con una conferenza stampa condotta dalla direttrice del carcere Ida Del Grosso e Igor Nogarotto l’autore della canzone "Pope is pop" e responsabile del progetto. Il brano - prosegue Massa - in queste ore è suonato da moltissime radio e televisioni italiane, anche dai network, RAI 1/2/3 SKY Vaticano. E la cosa non può che farci sapere". Le detenute che hanno ballato sono state circa 50, di varie nazionalità. Con loro ha danzato una delegazione di 10 "Poppers", movimento che da marzo scorso realizza flash mob per Papa Francesco, "attività" che durerà durante tutto il Giubileo. Libri: "Fine pena: ora", di Elvio Fassone sellerio.it, 2 novembre 2015 Una corrispondenza durata ventisei anni tra un ergastolano e il suo giudice. Non è un romanzo di invenzione, né un saggio sulle carceri, non enuncia teorie, ma si chiede come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. Una storia vera, un’opera che scuote e commuove. Una corrispondenza durata ventisei anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti, ammette l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Questo non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all’ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto della sua giovane età, con il quale il presidente della Corte d’Assise ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d’impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda: "se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare - caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al Csm, è diventato senatore, è andato in pensione, ma non ha mai cessato di interrogarsi sul problema del carcere e della pena. Anche Salvatore è diventato un’altra persona, da una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa disperazione fino a un tentativo di suicidio. Questo libro non è un saggio sulle carceri, non enuncia teorie, è un’opera che scuote e commuove, che chiede come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. Elvio Fassone (Torino, 1938) è stato magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura. Senatore della Repubblica per due legislature è autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). "Secureworld", la graphic novel nata nel carcere di Alessandria di Marco Madonia alessandrianews.it, 2 novembre 2015 Dal laboratori di stampa e incisione della Casa di reclusione di San Michele emerge qualche anticipazione della graphic novel che alcuni detenuti stanno realizzando insieme a membri del personale, al direttore e ai responsabili del laboratorio. "Un’esperienza unica, che porterà alla pubblicazione di un’opera davvero originale". Il carcere che riflette su se stesso, e lo fa attraverso un lavoro espressivo dal grande valore: è questo il risultato che si sta delineando per un progetto davvero innovativo promosso dalla casa di reclusione di San Michele e da alcuni detenuti, coinvolti in prima persona in un laboratorio di stampa e incisione che porterà alla creazione e alla distribuzione sul territorio nazionale di una vera e propria graphic novel, una sorta di romanzo per immagini. "Secureworld" diventa così un regno immaginario, mutuato da quello reale, dove il tempo è solo quello presente, l’attività principale è la creazione di ‘vuotò e i ruoli fra gli abitanti permanenti e i lavoratori, dotati di chiavi e custodi delle regole, sono assai ben definiti. Sarà un gatto, arrampicatosi per caso lungo il muro della città, a guidare il lettore a scoprirne l’interno, finendo per aprire una breccia nella struttura capace di metterla in contatto con il mondo esterno. La storia, scritta a più voci fra detenuti e personale del carcere, è ancora in fase di scrittura, ma intanto il laboratorio è già in funzione per studiare i personaggi e produrre i primi lavori. Dopo l’esperienza con il laboratorio di pittura (che è già ripartito, con l’obiettivo di dar vita a un’esposizione-vendita su... Marte, il negozio dei prodotti carcerari piemontesi) e con quello di fotografia (appena concluso con la stampa del catalogo, alla quale seguiranno diverse mostre), che hanno portato alla realizzazione di lavori di grande impatto e capaci di raccogliere un plauso unanime, Piero Sacchi ha così avviato un nuovo progetto con la casa di reclusione di San Michele, guidata dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri. Insieme alla professionista Valentina Biletta è stato così avviato il lavoro per la graphic novel, reso possibile dall’acquisto dei materiali avvenuto all’interno del finanziamento concesso dalla Fondazione Social per il progetto "povero nemico". La storia, l’incipit della quale potrete leggere in esclusiva qui sotto, è realizzata in collaborazione con una classe dell’Istituto comprensivo Galilei, che sta creando un personaggio, diversi membri del personale carcerario e la stessa direttrice. I laboratori si svolgono per l’intera giornata del giovedì (pittura) e il venerdì (incisione e stampa) dalle 9 alle 12 e dalle 13.30 alle 15.20 e vedono il coinvolgimento attivo di una dozzina di ospiti della struttura detentiva. Secureworld Secureworld, mondo distinto e particolare, esclusivo, a cui sono ammessi soltanto gli uomini, rarissime le donne e nessun bambino. Gli abitanti che vivono e dormono in modo permanente nel mondo di Secureworld sono protetti dalle sue alte mura, che ne percorrono l’intero perimetro. Essi sono la maggioranza e vestono ciascuno secondo le sue possibilità e il suo gusto. Non formano famiglia. Non hanno animali domestici. Non hanno vasi di fiori alle finestre. Ciascuno mette a disposizione degli altri la sua solitudine. Ciascun individuo della popolazione fissa è ammesso alla vita protetta di Secureworld su decisione del Ministero della Giustizia Sovrana. La decisione può essere emessa per un soggiorno definitivo limitato o illimitato: mesi, anni o l’intera parte restante della vita. L’altra parte della popolazione di Secureworld condivide lo stesso spazio generale, ma non il tempo. Essi sono, diciamo, giornalieri e sono ammessi su decisione dello stesso Ministero della Giustizia Sovrana, da cui dipendono direttamente. In pratica essi ne sono dipendenti, cioè non sono liberi, come avviene invece per i primi. Essi devono rispettare tempi e turni di lavoro, devono indossare una divisa, devono rispettare rigidamente le regole e i compiti assegnati. Il loro tempo di permanenza è lo stesso per tutti: l’intero periodo lavorativo della loro vita, salvo rare eccezioni. A Secureworld la principale produzione è il vuoto, che viene prodotto per il consumo interno e non per l’esportazione. Il consumo del vuoto è generalizzato e gratuito. La maggior parte del consumo è appannaggio della popolazione fissa, ma non è un privilegio esclusivo. Secureworld è governato da una Sovrana, non di stirpe ma di fiducia. Essa si avvale dei servizi del Comandante a cui debbono obbedienza diretta tutti gli abitanti in divisa. Gli abitanti di Secureworld, ma soltanto quelli fissi, hanno possibilità di effettuare delle pause nella produzione e nel consumo del vuoto. Durante le pause possono svolgere attività, in aree protette, Possono passeggiare, fare sport, coltivare hobby, talvolta anche prendersi cura di piante, fiori e ortaggi. Si tratta però di pause limitare e brevi, vissute senza vera gioia perché su tutto incombono lo spazio e il tempo pervasi dal vuoto. Causa e cura delle più diverse ossessioni è la presenza generalizzata del circuito televisivo negli edifici occupati dalla popolazione fissa. I monitor a colori sono infatti sempre in funzione in ogni luogo di soggiorno e di permanenza individuale. In pratica la produzione e il consumo di vuoto … non riempiono il vuoto e difficilmente possono esservi soluzioni che non nascano direttamente dall’interno delle persone, dalla loro volontà e iniziativa. Tra gli abitanti fissi, nonostante le diversità, nascono amicizie e conoscenze solidali. Non solo queste, vi sono anche contrasti e rancori, liti, talvolta violente. Ma le amicizie sono una realtà forte, con i suoi riti, i suoi pasti in comune. Tra la popolazione fissa e quella giornaliera i rapporti sono piuttosto freddi, Non si ricorda vi sia mai stata tra due di loro una vera amicizia. Due mondi separati sotto lo stesso tetto, lo stesso cielo. Le modalità di rapporto più usuali sono due: il rispetto o l’avversione. La divisa offre agli abitanti giornalieri la possibilità di esercitare il potere. Non un potere generalizzato, ma di controllo. Il mancato rispetto di talune regole da parte dei fissi offre la possibilità di redigere rapporti scritti. Le denunce presuppongono forme di punizione. Il simbolo più evidente di questo potere sono le chiavi tintinnanti e voluminose, che portano alla cintola, con le quali regolano tutti i percorsi: aperto si passa, chiuso si resta. In Secureworld le regole delle libertà sono contraddittorie, gli uni possono dove gli altri sono esclusi, gli uni sono esclusi dove gli altri possono. La divisa, e questa è la regola generale per tutte le divise e per tutte le gerarchie in divisa, accorda però un grado di potere superiore. Se la persona in divisa scrive, lo scritto porta a un provvedimento, se la persona libera di vestire scrive, lo scritto non porta a nulla. Come sempre, in tutti mondi possibili, quello che davvero conta sono i rapporti di amicizia tra le persone. Parliamo ora di un gruppo che nella vita di Secureworld ha un’importanza particolare: i compendianti, che amministrano la percezione del bene e del male. I loro amministrati sono tutti gli individui classificati tra popolazione fissa, su ognuno di loro incombe il dossier personale. Strana categoria tra il medico salvifico e il burocrate, i suoi membri, in numero esiguo, hanno la funzione di regolare i comportamenti, nel bene e nel male, nel tempo presente. Da essi dipendono tutte le assegnazioni alle attività alternative alla produzione e al consumo di vuoto. Non hanno divisa, nè chiavi, non hanno potere, ma la loro influenza è molto forte e pervasiva. Così scorrono uguali le giornate di Secureworld, protette, sorvegliate a che nulla di grave e di male accada. Nel grigio del tempo e nel predominio del vuoto è difficile capire se ancora ci siano davvero un bene e un male, chi ne sia l’oggetto e chi il soggetto. I ruoli definiscono le posizioni e le loro variabili. Liberi forse soltanto i cuori, i pensieri non detti, le parole non scritte. Fuori dalla zona protetta dal muro esiste il più vasto mondo in cui Secureworld è collocato, ma di cui non è parte. Il più vasto mondo popolato di uomini, donne e bambini. Anche nel più vasto mondo è diffusissima la produzione di vuoto, ma non altrettanto generalizzata ed esclusiva. Secureworld e il più vasto mondo quasi non si conoscono. Pochi i rapporti e tanti i pregiudizi. Vige infatti la convinzione che la popolazione fissa che il muro protegge vi sia in realtà ristretta a forza, a motivo della protezione dovuta agli individui che popolano il più vasto mondo e che da Secureworld sono esclusi. Esistono rapporti esclusivamente funzionali, per lo scambio indispensabile dei servizi e dei beni, secondo gli esili fili che collegano i ruoli e le persone. Il fatto che l’unico tempo di Secureworld sia il tempo presente, non elimina il fatto che, fuori, il passato e il futuro permangano nella memoria e nel desiderio delle persone. Ci sono pertanto persone del più vasto mondo che bussano alle porte chiuse di Secureworld, mercanti di passato e di futuro per le persone ivi protette. Spiragli tra i mondi, nel rispetto e nella certezza della separazione, socchiusi con cautela. Ogni sconvolgimento è aborrito, come il caos che rimescola l’ordine. In Secureworld c’è un popolo di gatti. Non sono stati ammessi nella zona protetta per decreto. Ci si sono trovati. Hanno genealogie improbabili, ispida pelliccia. Ne ignori il miagolio. Gatti senza poltrone, né dedizione d’affabili zitelle. Vivono randagi nelle corti interne dell’invalicabile recinto, spontaneamente accuditi dagli abitanti d’Secureworld con quotidiana improvvisata cura: un piatto di plastica e un pezzo di stagnola, un po’ d’acqua e d’avanzo di cucina. Ristretti a vita, non hanno esperienza del mondo più vasto. Non conoscono le livree preziose dei gatti di lusso, buona e cattiva sorte d’altri felini. Conoscono il volo degli uccelli che varcano il muro a volo, i merli che becchettano al suolo e la miriade degli insetti minuti. Poco distante, un micio campagnolo, cucciolo curioso dal manto morbido e pezzato, bianco e nero, vaga a bordo d’un fosso, al di là del muro, Guarda in basso con disgusto l’acqua del fosso, guarda in alto e si chiede cosa protegga, a cosa aspiri il muro nella sua vertiginosa altezza. Lì presso, un seme di fagiolo, fattosi pianta, ha trovato nell’asperità del muro un solido appiglio per la sua scalata al cielo. E il micio guarda la serpentina salire, fino alla sommità del muro, a un passo dal cielo. Guarda e sogna di eguagliare il volo degli uccelli. L’idea lo tenta, perché non solo è curioso ma ancor più audace, agile e leggero. Arriva il giorno che, nel muro in penombra aggrappa gli artigli, fa leva sull’esile fusto rampicante, ne imita la capacità d’abbarbicarsi alla più minuta asperità, e si stacca dal suolo. E sale. Tiene il cielo fisso negli occhi, in quel punto in cui la sommità della pianta si perde sull’orizzonte verticale del muro. La sua salita è una danza, accompagnata dal tintinnio dei frutti nei baccelli già secchi. Arrampicatore di razza, dimentica il suolo e ambisce solo al cielo. La sua danza lo porta alla sommità, nel punto esatto in cui anche la pianta ha dovuto cedere accarezzando l’aria. Il micio curioso fissa deluso in alto il cielo inarrivabile. Ma sotto di lui, improvvisa, la vista d’una città con camminamenti, torri, palazzi, cortili e giardini. Un camino che fuma. Un buon odore di pane nell’aria. Mentre guarda, nutrendo la sua insaziabile curiosità, si sente improvvisamente sollevato in aria, afferrato per la collottola. L’uomo in divisa l’ha afferrato. Il micio si rovescia come un guanto e scarnifica la mano che lo ghermisce, affondando a quattro zampe le sue unghie affilate. L’urlo di dolore lo restituisce libero, saetta via, salta la spalletta del camminamento che percorre tutta la sommità del muro. Salta alto, si libra nel vuoto e… vola, vola, vola, roteando nell’aria, precipita. Finché, prima dell’ impatto col suolo, si gira ancora una volta, atterrando sulle quattro zampe, miracolo che solo ai gatti dalle sette vite è dato talvolta di produrre. Quasi rimbalza e schizza via, si rimpiatta e, non visto, osserva. All’interno della città del mondo protetto, osserva e conosce da lontano quello strano popolo di gatti dall’aspetto malandato. C’è qualcosa nelle cose e nell’aria che non lo convince e gl’incute paura. Cautamente lascia il nascondiglio e inizia il percorso, rasentando il muro, addossato alla parete e all’erba, alta che quasi lo nasconde. Gli arriva un dialogo di voci, semplici e concitate, talvolta urla. Ascolta il suono d’un percuotere ritmico e metallico. Sente passi di persone, hanno abiti dimessi e strumenti di lavoro (a lui sembrano attrezzi per colpire). Vorrebbe tanto tornare alla sua casa, ma non vede altri rampicanti che indichino la strada della risalita. L’ombra del muro s’allunga e riempie lo spazio dei cortili, un’ombra paurosa, ma che lo contiene meglio. L’ombra si rabbuia, ma tutt’intorno non c’è modo di trovare un passaggio, una porta, ma finestra, il benché minimo varco aperto. I piazzali son deserti, più nessuno a chiacchierare o transitare. Solo un pauroso silenzio. Il micio curioso trema in cuor suo perché capisce che nell’area protetta resterà rinchiuso per sempre. Il suo sguardo cade su un fitta linea scura, che serpeggia viva al suolo, una di quelle strade invisibili in cui si affollano le formiche, testarde, scontrandosi, scavalcandosi, gravate da pesi più grandi di loro. La fila sparisce nel terreno proprio in un punto di giunzione del muro, non si insinua nel terreno, nel formicaio, attraversa una piccola fessura nel muro sbrecciato. Anche uno scarabeo, carico del suo bottino, utilizza lo stesso varco. Al di là della parete buia brilla una piccola luce. Il piccolo micio curioso vi si butta a scavare, furioso e determinato. Salta in aria la terra mista a insetti, le formiche si sparpagliano. Soltanto dopo una buona mezz’ora vede qualche risultato, gli fanno male le zampe, ma il buco è grande qualche centimetro. Anche lui è minuto e la sua testa è piccola ed elastica. S’appiattisce, si assottiglia, infila il capo, spinge e tira, tira e spinge. A tratti resta incastrato, non va più né avanti né indietro … poi si stappa verso la luce e rotola giù per il fosso, felice nell’acqua nauseante. Riconosce il posto, è vicinissimo alla pianta del fagiolo rampicante, dove il viaggio ha avuto inizio, è vicino alla sua casa. Erdogan festeggia il trionfo, così la Turchia islamica ha sconfitto laici e curdi di Bernardo Valli La Repubblica, 2 novembre 2015 Il presidente riconquista la maggioranza assoluta dei seggi L’Hdp entra per un soffio in Parlamento A guidare i votanti la ricerca della stabilità e l’istinto nazionale in favore della "turchicità". L’anima islamica, radicata nell’Anatolia emancipata, ha sconfitto l’anima laica arroccata nei grandi centri urbani, Smirne, Istanbul. La nuova Turchia emersa dal mondo rurale grazie al miracolo economico, nel frattempo esaurito, ha sconfitto la Turchia repubblicana. Quella con una vecchia patina kemalista (ereditata da Ataturk), e con quel tocco politicamente aristocratico che distingue chi pensa di rappresentare la storia di fronte ai nuovi arrivati in società. Ai nuovi ricchi. Cosi Recep Tayyip Erdogan ha vinto ieri l’azzardata sfida elettorale lanciata dopo la perdita in giugno della maggioranza assoluta in parlamento. Ieri correva il rischio di naufragare dalla posizione di sultano onnipotente nel ruolo di presidente dimezzato. Invece l’ha spuntata. I suoi parlano di trionfo. Rivincita è un’espressione più appropriata. Il suo partito, Giustizia e libertà (Akp) ha sfiorato il 50 per cento dei suffragi, quoziente che assegna almeno 316 seggi, su 550, quasi il numero che consentirebbe di promuovere il referendum necessario per dare alla Costituzione un’impronta presidenzialista, come vorrebbe Erdogan. Ma che consente soprattutto di governare da solo. Senza bisogno di ingombranti alleati, e senza intaccare l’eccezionale potere attribuitosi da Erdogan, violando i limiti istituzionali. Come presidente dovrebbe restare al di sopra delle parti. Non dovrebbe pesare sull’esecutivo. Ma quando quest’ultimo è controllato unicamente dal suo partito i confini stabiliti dalla Costituzione non contano. Erdogan non voleva che riaffiorassero nel caso fosse stato necessario ricorrere a una coalizione. Era il suo incubo. L’affluenza alle urne ha quasi toccato il 90 per cento, un traguardo forse mai raggiunto in una vera democrazia, ma essa era dovuta più che a una spinta democratica alla durezza dello scontro. Alla voglia di scendere in campo. Per attaccare o difendersi. Poiché l’essenziale è avvenuto nelle urne non si può comunque negare il carattere democratico della sfida. La correttezza dello scrutinio susciterà polemiche, ma stando alla contabilità elettorale delle ultime ore il partito di Erdogan ha guadagnato tre milioni e mezzo di voti rispetto alle elezioni di giugno. Una rimonta sorprendente che lo ha riportato al risultato del 2011 (49,3 quasi uguale al 49, 9 di allora). Almeno due milioni di voti li ha perduti il partito nazionalista, di estrema destra (dei Lupi grigi). E un milione e mezzo sono arrivati a Erdogan dal partito di centro sinistra e filo curdo (Hdp). Cinque mesi fa aveva superato tra la sorpresa generale il dieci per cento necessario per entrare in Parlamento, mentre questa volta l’ha raggiunto per un soffio (10,6) cedendo almeno due punti al partito di governo, l’avversario principale. Le provocazioni del presidente, che alla vigilia delle elezioni ha sequestrato, anzi si è appropriato di fatto di due giornali dell’opposizione, e ha spento due canali televisivi che lo infastidivano (senza contare gli almeno mille giornalisti licenziati negli ultimi tre anni) non hanno turbato la maggioranza dei votanti. La corsa alle urne era contro o in sostegno di un leader che incarna la nuova Turchia, islamica ma moderna, scaturita dal miracolo economico, e senz’altro fiera di potersi affiancare alla vecchia società laica, senza troppi complessi. Lo scarso comportamento democratico di Erdogan è apparso un elemento trascurabile rispetto alla stabilità del paese. Il trauma dei recenti attentati, la massa dei profughi, più di due milioni, arrivata dalla limitrofa Siria, e il rischio di essere contagiati dalla guerra civile alle porte, hanno probabilmente dissuaso persino molti elettori, persino curdi, dal ridare il voto al Partito democratico dei popoli ( Hdp), guidato da un dinamico uomo poli-tico, Selahattin Demirtas. Non pochi giovani, molte ragazze, attirati dalle idee di Demirtas, sensibile ai problemi degli omosessuali e ad altri aspetti della vita individuale e collettiva non accettati dalla società tradizionale, avevano votato in giugno per quel movimento. Ieri hanno preferito ritornare al partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), giudicato un tempo corrotto o retrogrado. La collera e la paura hanno favorito la rivincita di Erdogan. Ieri sera il sultano, come viene chiamato con ironia o astio, ha sorpreso il paese. Nel sud est il suo successo ha provocato rabbia. A Dyarbakir, la capitale curda, e dintorni, sono scoppiati violenti incidenti. La fitta presenza della polizia, mentre gli elettori facevano la coda davanti ai seggi, aveva creato una forte tensione durante tutta la giornata. Questo non ha impedito a più del settanta per cento di votare in quella provincia in favore dell’Hdp, il partito di Demirtas. La Turchia tradizionale laica è rimasta fedele al suo Partito repubblicano del popolo (Chp) che ha conservato quasi intatto (25,4) il quarto dei voti ottenuto in giugno. Nel caso Erdogan non avesse ottenuto l’agognata maggioranza assoluta, i repubblicani kemalisti sarebbero stati dilaniati dal dilemma, partecipare o rifiutare la coalizione eventualmente proposta dal primo ministro Hahmet Davutoglu. La vittoria dei conservatori islamici li lascia nel loro angolo. Ma questa vicenda elettorale dall’esito sorprendente conferma l’istinto di questo paese in favore dell’identità turca, o "turchicità". Di essa fecero lo spese gli armeni un secolo fa, e da decenni ne fanno le spese i curdi, a loro volta divisi. Il voto di ieri offriva l’occasione, grazie al partito del giovane Demirtas di superare le barriere, i pregiudizi etnici. Il suo partito filo curdo raccoglieva i progressisti di altre comunità. Ma l’emergenza ha ricomposto una situazione in cui domina l’odio. E sempre lo stato di emergenza che prevale in Medio Oriente ha senz’altro indotto i governi occidentali ad accogliere con favore il risultato elettorale di ieri. Vale a dire la riconferma di Erdogan alla guida di un paese chiave nella regione in conflitto permanente. Agli occhi delle nostre capitali la stabilità della Turchia, se sarà raggiunta sul serio, vale bene gli sgarbi alla democrazia compiuti dal presidente islamo-conservatore, membro della Nato e candidato (ancora?) all’Unione Europea. Il voto di ieri offriva l’occasione, grazie al partito del giovane Demirtas, di superare le barriere e i pregiudizi etnici. La sua formazione raccoglieva i progressisti di altre comunità. Ma l’emergenza ha ricomposto una situazione in cui domina l’odio. Turchia: la rimonta di Erdogan e i rischi di un sistema di potere senza contrappesi di Franco Venturini Corriere della Sera, 2 novembre 2015 Utilizzando tutti gli strumenti del potere, anche i più spregiudicati, Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta: nel nuovo Parlamento turco eletto ieri il capo dello Stato avrà la maggioranza assoluta e potrà forse rastrellare i seggi supplementari che gli servono per modificare la Costituzione e varare un presidenzialismo privo di validi contrappesi. Il fondatore del partito islamico Akp ci aveva già provato nello scorso giugno, ma il responso delle urne lo aveva punito privandolo di un primato che resisteva da tredici anni. Cosa è dunque cambiato, cinque mesi dopo, in questa Turchia che smentisce la sua voglia di aria nuova? È cambiato che il regista Erdogan, il "Sultano" Erdogan come lo chiamano i suoi avversari, ha dato libero sfogo alla sua strategia della paura trasformando le elezioni in un referendum. Il voto per il partito del presidente era un voto per la stabilità. Il voto per le opposizioni era un voto per l’insicurezza, per il conflitto permanente. Non per nulla dopo la sconfitta di giugno Erdogan aveva silurato la nascita di un governo di coalizione, aveva ripreso la guerra con i curdi del Pkk, aveva violato la libertà d’informazione e altri diritti civili, aveva assistito dall’alto a una serie di sanguinosi attentati culminati nella strage di Ankara del 10 ottobre dove avevano perso la vita centodue oppositori pacifisti. E nel contempo Erdogan si era schierato contro l’Isis, da buon alleato Nato aveva concesso il libero uso della base aerea di Incirlik agli Usa, era diventato arbitro dei tentativi negoziali sulla Siria. Un leader che recuperava la sua statura internazionale mentre all’interno mostrava pochi scrupoli nello spaventare gli elettori, aveva molte probabilità di vincere. E così è stato. I tormenti della Turchia, beninteso, non finiscono qui. L’opposizione dei laicisti che invocano Kemal Ataturk non sparirà come non sparirà quella dei curdi pacifisti, la guerra con il Pkk continuerà, l’economia in crisi avrà difficoltà a riprendersi, il rispetto dei diritti civili correrà vecchi e nuovi pericoli. Ma per noi europei la posta in gioco non finisce qui. Non è più l’ora delle ipocrisie comunitarie. La verità è che i flussi migratori si stanno rivelando un grimaldello capace di portare l’Unione Europea alla disgregazione sull’altare dei nazionalismi emergenziali o, ancor peggio, etnico-religiosi. E i più destabilizzanti di questi flussi, quelli che seguono la "rotta balcanica" per puntare al cuore del Continente, transitano dalla Turchia. Vengono dalla Siria, dall’Afghanistan e da altre contrade in fiamme. E percorrono la Turchia per poi gettarsi nell’Egeo e tentare di raggiungere le isole greche, territorio della Ue. Chi sopravvive troverà altri ostacoli e tanti muri, ma la chiave che minaccia tutta l’Europa, anche noi italiani che abbiamo a che fare con i flussi dalla Libia, si trova in Turchia. Lì vivono sotto sorveglianza due milioni di profughi, che Ankara può trattenere o incoraggiare a partire. Lì le massime autorità possono rendere più o meno massiccio il passaggio dei nuovi venuti che sognano Berlino o Stoccolma. E di nuovi venuti ce ne sono in abbondanza, soprattutto dalla martoriata regione di Aleppo. Quando Angela Merkel si recò da Erdogan, il 18 ottobre, furono in molti a pensare che con lei era l’Europa intera che andava a Canossa. La realtà è invece che la Cancelliera tedesca, neofita del decisionismo impopolare, dette allora una nuova prova del suo coraggio politico. Mentre alcuni dei suoi compagni di partito aspettano seduti sulle rive della Sprea, lei ha posto con chiarezza a Erdogan le esigenze di una Europa frammentata culturalmente prima ancora che politicamente. E ha ascoltato le contropartite che il "Sultano" ha chiesto: miliardi di aiuti, visti facili, accelerazione del negoziato di adesione alla Ue. Impegni indispensabili per dare tempo all’Europa e al suo terribile 2017 (elezioni tedesche, francesi e referendum britannico). Pensando ai suoi valori, quelli che ancora sopravvivono, l’Europa avrebbe dovuto augurarsi una parziale sconfitta di Erdogan e un governo allargato. Pensando ai suoi malanni, l’Europa che Angela Merkel rappresentò ad Ankara il mese scorso ha segretamente tifato per Erdogan. Per la credibilità delle promesse fatte, per la stabilità del potere. Ora che le urne hanno parlato e che Erdogan ha vinto, non è però il caso di esultare. Perché se abbiamo gran bisogno di un autocrate la colpa è soltanto nostra. Turchia: la rabbia infiamma le strade di Diyarbakir "ma resistiamo in Parlamento" di Marco Ansaldo La Repubblica, 2 novembre 2015 Il leader Demirtas, avvocato dei diritti umani artefice del successo di giugno, fa mea culpa: "Analizzeremo gli errori, il 10% è comunque un successo". Nella città che si considera la capitale della minoranza, i manifestanti hanno bloccato le vie principali e lanciato sassi contro la polizia. È il trionfo del Sultano. La sconfitta di laici e curdi. L’Anatolia si veste a festa con il colore bianco del partito conservatore islamico. Ma il Kurdistan si infiamma invece, e scende in piazza pieno di rabbia, mettendo le barricate e incendiando le strade polverose di Diyarbakir già piene di profughi siriani. Nella grande città che si considera la capitale curda del Sud Est, dove il voto al partito di riferimento sfiora il 70 per cento dei consensi, la grande paura va in scena alle sette di sera. Avviene quando le tv che srotolano i dati del voto, mostrano il Partito democratico del popolo scendere sotto la barriera del 10 per cento. Vuol dire: non entrare in Parlamento. E gli 80 deputati eletti appena il 7 giugno scorso, nella tornata elettorale che aveva visto l’inattesa vittoria di una compagine che per la prima volta faceva il suo ingresso nell’Assemblea di Ankara, parevano di colpo polverizzati. La gente si è così ritrovata davanti alla sede locale del partito. Decine di manifestanti hanno lanciato sassi contro gli agenti, e bloccato una delle strade principali. Le forze di sicurezza turche hanno risposto con gas lacrimogeni, cercando di disperdere i manifestanti, che si allontanavano solo quando la Cnn Turk e la Ntv davano risultati più aggiornati, e la formazione curda tornava sopra il 10 per cento, sommando qualche decimale che faceva respirare tutto il Kurdistan. Non tanto da far sedare definitivamente tutta la piazza, ma abbastanza per portare una notte di riflessione. E magari ripensare anche sui possibili errori del partito. Alla tv locale comparivano i due co-presidenti: Selahattin Demirtas, l’avvocato difensore dei diritti umani, divenuto il nemico principale del Presidente Tayyip Erdogan che l’ha avversato per il successo di giugno, e la giovane e tostissima combattente per la pace Figen Yuksekdag. Hanno facce scure, la botta è forte. Fanno solo una dichiarazione, senza domande dalla stampa. Dice lui: "L’esito delle elezioni è il frutto della deliberata politica di polarizzazione voluta dal Capo dello Stato. Ora analizzeremo il calo dei voti rispetto alla consultazione dello scorso giugno. In ogni caso, il fatto di essere riusciti a superare la soglia del 10 per cento, portando nuovamente deputati in Parlamento costituisce per noi un successo". A Diyarbakir il voto andato al Partito democratico del popolo è vasto. Una percentuale altissima. Però i curdi perdono nel resto del Paese, e l’emorragia è forte: dal 13,1 per cento del 7 giugno, al 10,7% di oggi. Sono ben 1 milione mezzo di voti in meno. Tradotto in deputati, significa 59 parlamentari contro gli 80 di prima. Soprattutto, la gente si chiede: come è riuscito Tayyip Erdogan a trovarsi nelle urne, nel giro di soli 5 mesi, 3 milioni e mezzo di voti in più. Balzando, è il caso di dirlo, dal 40,8 al 49,4. Qualcuno accenna la parola brogli. Ma non ci sono prove. Piuttosto, si analizzano le responsabilità interne. Quanto hanno contato le frizioni e le divisioni tra il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, cioè i guerriglieri impegnati nel rinnovato conflitto sulle montagne curde contro l’esercito, e i funzionari del Partito democratico del popolo concentrati sulla politica ad Ankara? Quanto hanno influenzato le uccisioni di militari turchi, in risposta agli attacchi ricevuti, per gli elettori spaventati delle grandi città dell’Ovest turco, a Istanbul come a Smirne? E quanto hanno influito gli attentati nelle zone curde, fino all’esplosione della bomba kamikaze alla stazione di Ankara (più di cento morti) nel compattare la richiesta di stabilità invocata da Erdogan? Nella notte curda le domande non trovano risposta ancora. Selahattin Demirtas, da astro nascente della politica turca, e bastone nelle ruote del Sultano, viene ridimensionato dopo avere ricevuto attacchi continui in campagna elettorale. Ci sarà tempo per rimettere i curdi in pista, anche se in Parlamento ricominceranno a dire la loro. Ma intanto la batosta è cocente, e la sconfitta porterà consiglio. Città del Vaticano: scandalo Vatileaks, pronti due mandati di cattura di G. Galeazzi e A. Tornielli La Stampa, 2 novembre 2015 Il cerchio si stringe attorno ai corvi che hanno fatto uscire le carte della commissione incaricata di studiare la riforma delle strutture economiche della Santa Sede. Vaticano, pronti due mandati di cattura per il nuovo Vatileaks. Il cerchio si stringe attorno ai "corvi" che hanno fatto uscire le carte della commissione incaricata di studiare la riforma delle strutture economico-amministrative della Santa Sede. I due libri contenenti i documenti riservati sulle finanze della Santa Sede e registrazioni di colloqui del Papa con alcuni collaboratori devono ancora uscire, ma il cerchio attorno ai "corvi" che hanno fornito a entrambi giornalisti tutte le carte sembra essersi ormai stretto. Il loro arresto in Vaticano sarebbe soltanto questione di ore. Due le persone nel mirino della giustizia d’Oltretevere: un prelato e uno dei membri laici della commissione di studio e indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede (Cosea), istituita nel luglio 2013 per vagliare carte e conti di tutti i dicasteri, e per suggerire riforme per la razionalizzazione delle spese e una migliore gestione complessiva. Dopo l’annuncio dell’uscita dei volumi "Avarizia" di Emiliano Fittipaldi e "Via Crucis" di Gianluigi Nuzzi, e le prime anticipazioni pubblicate sui giornali, gli investigatori della Gendarmeria sarebbero risaliti velocemente alle possibili fonti. E la magistratura vaticana starebbe per prendere provvedimenti clamorosi, come accadde nel maggio 2012 con l’arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, processato, condannato per il furto di documenti dalla scrivania papale e poi graziato da Benedetto XVI. Se le indiscrezioni saranno confermate, quello che è stato presentato come un secondo Vatileaks avrà il suo colpo di scena prima ancora dell’effettiva divulgazione dei documenti nelle librerie. E l’indagine d’Oltretevere, seppure contribuirà a dare risonanza ai due volumi che si fondano sulle stesse carte, di fatto sposterà l’attenzione sui "corvi" e sulla loro rete. L’ipotesi che i documenti provengano dall’archivio della Cosea rende questo Vatileaks 2 meno inquietante del primo, dato che non si tratterebbe di carte sottratte dalla scrivania papale. Nei giorni scorsi era stata confermata la notizia di una violazione del computer del Revisore generale della Santa Sede, Libero Milone Il manager ha lavorato per 32 anni nella società di revisione e consulenza Deloitte, raggiungendo il grado di amministratore delegato per l’Italia. Dal 2007 è stato consulente di diverse società private e membro di alcuni cda di società quotate in Borsa. Secondo il nuovo statuto, l’Ufficio del Revisore è l’ente al quale è affidato il compito di revisione dei dicasteri della Curia Romana e delle istituzioni a essa collegate e alle amministrazioni che fanno capo al Governatorato della Città del Vaticano. Messico: l’enigma di El Chapo, una fuga senza fine di Guido Olimpio Corriere della Sera, 2 novembre 2015 Dopo la clamorosa evasione di luglio - che qui vi mostriamo in un grafico di cui siamo molto fieri - la storia di Joaquin Guzmán si è arricchita di nuovi capitoli. Perché le autorità messicane - racconta il nostro esperto, che non si perde uno sviluppo - non hanno smesso di dare la caccia al re del narcotraffico, anche combinando pasticci. E intanto la guerra tra i clan della droga continua, più feroce che mai. Una scimmietta. El Chapo stava per essere ripreso per colpa della "mascotte" vivente di una delle sue figlie. Il boss aveva ordinato al cognato, Edgar Coronel, di andare a recuperare l’animale in una casa di Sinaloa per portarla in un rifugio nello stato di Durango, dove nel frattempo il capo dei capi si era nascosto insieme alla moglie Emma e alle due gemelline. I militari avrebbero seguito Edgar a bordo della sua fiammante Mustang, non proprio una vettura anonima, e sempre tenendolo d’occhio sarebbero arrivati quasi a catturare il nemico pubblico numero uno. Solo che le forze speciali, piombate con gli elicotteri in un agglomerato di capanni in località La Priedosa, vicino a Tamaluza, sono state beffate. Il bandito è riuscito a scappare malgrado una rovinosa caduta lungo un pendio e la ferita ad una gamba. Due fughe e mille teorie. Un momento. È andata così? Dura da crederlo, però qualcuno la storia l’ha messa in giro. I critici parlano di una farsa e mettono in dubbio questa ricostruzione così come le altre. È inevitabile che accada visto il personaggio e quello che lo circonda da sempre. Joaquin Guzmán, detto El Chapo, 58 anni, è una figura costruita su crimini, fantasie popolari, voci e intrighi che rendono tutto ambiguo. Lui è il re del narcotraffico. Il potere lo cerca per rimetterlo in galera e magari per stringere patti. È capace d’ogni cosa, essendo scappato per ben due volte, nel 2001 e in estate. Sempre in circostanze, per chi ci crede, da romanzo. La prima volta si è infilato nel carrello della lavanderia della prigione. La seconda attraverso una galleria. Per entrambe esistono mille teorie alternative che convergono sempre su un punto: lo hanno fatto evadere. Tesi rafforzate dalle indiscrezioni che riportano l’esistenza di numerosi allarmi sui piani del boss non certo disposto a trascorrere la sua esistenza dietro le sbarre. L’ondata di arresti. Pochi giorni fa, le autorità, sempre in imbarazzo per la fuga in luglio dal carcere dell’Altiplano e la mancata vigilanza, hanno annunciato nuovi arresti. Nell’ordine. Il cognato, accusato di aver organizzato gli scavi del tunnel che dalla casupola all’esterno del penitenziario ha raggiunto il vano doccia della cella numero 20, quella del boss. Due piloti di piccoli aerei. Un emissario che ha spesso incontrato il padrino in prigione, uno dei tanti. Perché, come recitano i verbali, El Chapo, dal febbraio 2014 ha ricevuto nella sezione colloqui 386 visite, di cui solo 272 hanno riguardato gli avvocati. In manette anche due persone che hanno venduto e acquistato il terreno attraversato dalla galleria clandestina. La loro detenzione si è sommata a dozzine di altre decise subito dopo la grande fuga, dalle guardie ai funzionari. La scena dell’11 luglio. Insieme ai provvedimenti sono emersi nuovi dettagli, elementi che da soli sono la trama di un film. E allora serve recuperare la prima scena, quella dell’11 luglio, quando il capo se la svigna attraverso il tunnel scavato con grande perizia, sempre che non si tratti di un depistaggio - come sospettano alcuni - per celare un’uscita molto più agevole (nel link sull’icona blu, il grafico interattivo sulla fuga realizzato da Marco Maggioni e Carlo Lodolini). Il racconto ufficiale dice che El Chapo aspetta tranquillo nel cubicolo sorvegliato dalle telecamere. Un video diffuso di recente e registrato dalle tv a circuito chiuso dimostra chiaramente come si sentano rumori di scavo. È emerso anche che i sensori piazzati lungo il perimetro del penitenziario sarebbero stati disattivati in quanto c’erano dei lavori (provvidenziali) all’esterno e questi avrebbero fatto scattare l’allarme. Un insieme di fattori decisivi per agevolare le mosse della gang, ma anche spie di complicità evidenti. La sequenza documentata. Questa la sequenza documentata dal filmato. 20.37: Il boss, disteso sulla branda, guarda la tv, il volume è alto. 20.42: Guzman cambia il canale della piccola tv, il volume è sempre alto. 20.46: risuonano i colpi nella cella e durano per circa 4 minuti. Nessuna reazione nella stanza di controllo. 20.50: El Chapo si alza e va verso la piccola doccia, al di sotto della quale stanno scavando. 20.51: il criminale si china nel vano doccia, sembra armeggiare. 20.52: El Chapo torna alla branda, si siede e si mette le scarpe. Quindi raggiunge il vano doccia e scompare. Neppure adesso le guardie reagiscono. 21.17: finalmente un paio di agenti controllano il monitor e osservano la cella del bandito. 21.19: due guardie raggiungono la cella ma non entrano, si accorgono del buco nel pavimento e lo comunicano via radio ad un superiore. 21.29: solo in questo momento gli agenti entrano nella cella. Scoprono il tunnel. Il boss si avvia rapidamente nella galleria, sbuca nella casupola, si cambia e sale su un veicolo. Gli aerei e i nascondigli. I complici - a bordo di almeno altri due mezzi - lo conducono a Senegal de Las Palomas, stato di Queretaro. Qui c’è un piccola pista privata dove sono in attesa due aerei da turismo identici. Uno decolla verso Culiacan per creare un diversivo, il secondo - con El Chapo - raggiunge il Triangulo Dorado, zona tra Sinaloa e Durango. Seguono numerosi spostamenti, con Joaquin accompagnato da un team di sicari armati come dei talebani. Anzi, meglio. Fonti della sicurezza sostengono che si nasconda in villaggi dove quasi sempre c’è una striscia in terra, quanto basta per permettere un decollo. E riemerge anche là il particolare della foto su Twitter che mostra un uomo che potrebbe essere il most wanted all’interno di un Cessna: è lui o è l’ennesimo depistaggio? Il ruolo degli Stati Uniti. Sulla tracce del bandito ci sono i marines messicani, le forze speciali e la Dea americana. Gli Usa hanno messo a disposizione anche un drone e probabilmente aerei sigint, con apparati per intercettare le comunicazioni e sensori. Washington vuole prenderlo, ha offerto una taglia di 5 milioni di dollari e ha ottenuto il sì del giudice per un’eventuale estradizione. Provvedimento concesso - guarda caso - solo dopo l’evasione. E si interessano alla moglie Emma, l’ex regina di bellezza che ha partorito due bimbette in una clinica degli Stati Uniti, dunque sono americane. Da Città del Messico il governo precisa che non c’è un singolo agente americano sul terreno, ma solo supporto esterno. Anche se ci fosse non lo direbbero. Il blitz a La Piedrosa. Nel grande rastrello che "pettina" diverse regioni messicane resta qualcosa. L’attività porta i suoi frutti. Qualcosa in apparenza con maggiore sostanza rispetto alla favola della scimmietta che Guzmán vuole a tutti costi per le figliolette. I messicani affermano di avere recuperato dei dati da un aereo sequestrato, sono le coordinate che portano a La Piedrosa, località vicino al comune di Tamazula, stato di Durango. La ricognizione scorge cinque casupole seminascoste dagli alberi. A un chilometro spunta l’immancabile pista. Il primo passaggio è affidato a un bimotore, uno dei quei velivoli che ricordano quelli usati dall’intelligence. Poi arrivano gli elicotteri e iniziano i fuochi d’artificio. Raffiche, esplosioni, ordini secchi, radio che emettono ordini. Tocca ai commandos del Fes, il 27esimo battaglione speciale dei marines, chiudere il cerchio. Le proteste e i sospetti. Quando irrompono in quell’angolo remoto - continua il racconto ufficiale - non riescono a mettere le mani sulla preda che scivola via in modo rocambolesco aiutato dalle guardie del corpo. I soldati controllano l’area. C’è la casa principale, spartana, in cemento, con le pareti grezze. Ha tre stanze, servizi, acqua, luce grazie ai pannelli solari e batterie per auto, Internet. Attorno, alcuni capanni con le brande per i 30 uomini della scorta. Viveri in quantità. Poi nulla. Le ricerche riprendono con la convinzione che il boss non sia lontano. Non certo nella luccicante Punta del Este, in Uruguay o in Costa Rica mimetizzato tra i pensionati yankee o ancora a Rio de Janeiro. Tutti posti dove dicono di averlo visto. Nella regione la popolazione si lamenta delle incursioni dei soldati, denuncia attacchi con gli elicotteri, molti villaggi si svuotano. Proteste riportate anche dall’emittente americana Nbc: la tv intervista una donna appariscente che parla di "terrore" per colpa dei militari. Qualcuno però sostiene che quella testimone non è disinteressata perché - afferma - è Lucero Sanchez. Coincidenze. La giovane è una esponente politica accusata di aver visitato in carcere El Chapo usando documenti falsi. Uno degli ultimi contatti risale ad un mese prima dell’evasione. La faida dei narcos. Le tracce del padrino si perdono di nuovo, riemergono invece le teorie sulla messinscena. È probabile - afferma qualche esperto - che il padrino non sia mai stato sulla sierra. Le autorità reagiscono fornendo numeri di velivoli, auto, case sequestrate. Vogliono rispondere a chi accusa il governo di non voler catturare un uomo che sa troppo su un mondo dove potere e crimine si intrecciano. Un mondo impermeabile a quanto sta avvenendo. Il 22 ottobre gli americani intercettano, grazie a un infiltrato, un tunnel della droga a Otay Mesa, California, sul confine con il Messico. È lungo 800 metri, dotato di carrellino, luci, tubi d’aria. La copia perfetta di quello usato dal boss per scappare. Solo che in questo caso lo hanno realizzato per trasferire tonnellate di marijuana a partire da Tijuana. Forse per conto di Sinaloa che domina questo punto della frontiera o del crescente Cartello di Jalisco Nueva Generacion. La prova di come i minatori dei narcos abbiamo sempre da fare. Così come i killer. L’ultimo rapporto della Procura generale messicana rivela che nel 2015 gli omicidi sono stati 14 mila, con una media di 52 al giorno. Un 6 per cento in più rispetto all’anno precedente. Effetto della faida continua e di una tendenza consolidata. Le maggiori organizzazioni criminali contano relativamente, c’è una polverizzazione con nuove strutture e sottogruppi, ognuna decisa a prendersi una fetta di mercato. Guzmán è la stella nera, ma attorno a lui non mancano i concorrenti. Feroci.