Giustizia: Cassazione "detenuti in condizioni disumane, lo sconto di pena è retroattivo" di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2015 Alban Koleci ha ottenuto un giorno di riduzione ogni 10 trascorsi nei 5 anni in celle sovraffollate. Camere penali: "Verdetto coerente". Associazione nazionale magistrati: "Applicare retroattività o l’Italia è fuorilegge e paga penali". Sarà retroattivo lo sconto di pena per i detenuti che vivono o hanno vissuto in condizioni disumane: 24 ore di cella in meno ogni dieci giorni trascorsi dietro le sbarre o, in alternativa per chi è già libero, 8 euro al giorno a titolo di "rimedio risarcitorio". È destinata a fare giurisprudenza la sentenza con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso di Alban Koleci, albanese rinchiuso a Foggia, che aveva chiesto la riduzione della pena pochi giorni dopo essere stato spostato in una cella a norma. "Un verdetto coerente, è giusto risarcire un detenuto che ha vissuto in condizioni incivili, rispetto alle quali 8 euro sono anche una miseria" commenta a ilfattoquotidiano.it Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane. E i costi per lo Stato con migliaia di ricorsi pendenti davanti a magistrati di sorveglianza e giudici civili? "Sono 4mila i ricorsi presentati - spiega Marcello Bortolato, componente della giunta dell’Associazione nazionale magistrati - ma credo che all’Italia convenga attenersi a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo, per non dover poi pagare milioni e milioni di euro per le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo". Il caso di Foggia - Alban Koleci aveva chiesto al magistrato di sorveglianza la riduzione della pena da espiare, tenendo conto della permanenza per cinque anni (dal 14 agosto 2009 al 29 ottobre 2014) in una cella piccola "senza lo spazio di movimento necessario e in condizioni inumane". Nel novembre 2014 il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la richiesta. La ragione? L’istanza non era "attuale" al momento della richiesta, perché pochi giorni prima di presentare ricorso Koleci era stato spostato in una cella a norma. Il detenuto è ricorso in Cassazione che, con la sentenza 46966, ha esteso gli effetti della sentenza Torreggiani. La Cassazione estende gli effetti della sentenza Cedu - Si tratta della storica sentenza con la quale l’8 gennaio 2013 la Cedu ha condannato l’Italia a risarcire sette ricorrenti per il trattamento disumano e degradante subito in istituti penitenziari italiani. Si parla di somme comprese tra i 10.600 e i 23.500 euro (quest’ultima cifra per un periodo di detenzione di tre anni e tre mesi). I rimedi dello sconto di pena e del risarcimento di 8 euro sono stati introdotti con norme del 2013 e 2014 proprio dopo la sentenza della Cedu. Secondo la Suprema Corte, nulla autorizza a ritenere che le caratteristiche di "gravità e attualità" del pregiudizio "costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo". Così è stato accolto il ricorso di Koleci ed è stato annullato senza rinvio il decreto che gli negava lo sconto. Ora tutti gli atti tornano al magistrato di sorveglianza di Foggia perché faccia i calcoli dei giorni di carcere da sottrarre alla condanna. La posizione dell’Anm - Ma quante sono le persone in carcere o gli ex detenuti che ora vedranno accolti i propri ricorsi? "In Italia oggi ci sono 52mila e 400 persone detenuti, le condizioni di sovraffollamento stanno migliorando, ma i casi pendenti sono circa 4mila" spiega Bortolato. Subito dopo le sentenze della Cedu in Italia la magistratura di sorveglianza si era spaccata proprio sull’interpretazione del termine "attualità". "Molti colleghi - continua - respingevano i ricorsi. La posizione dell’Anm è chiara: il rimedio risarcitorio deve essere applicato anche retroattivamente, anche perché altrimenti si rischia di incorrere nelle condanne della Corte Europea". Un cambio di rotta dovuto evidentemente anche alle diverse condizioni delle carceri sotto il profilo del sovraffollamento: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, il risarcimento è rappresentato dallo sconto di pena e non dagli 8 euro destinati a chi è già libero. "Che però - ribadisce Bortolato - sono sempre meno dei risarcimenti imposti dall’Europa". I numeri - Eppure solo poche settimane fa la Corte dei Conti ha diffuso la relazione che certifica un vero flop della politica carceraria degli ultimi governi. Basti pensare che i commissari straordinari che dal 2010 al 2014 hanno gestito il piano carceri hanno speso poco più di 52 milioni a fronte di una dotazione di 462 milioni e 769mila euro. E che gli interventi immobiliari finanziati dallo Stato, hanno realizzato solo 4.415 posti detentivi invece degli 11.934 previsti. Oltre 52mila persone oggi sono rinchiuse in 202 istituti di pena. Anche se i problemi non sono del tutto risolti il periodo buio dell’Italia per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri è stato quello del triennio 2010-2013. "Solo in quegli anni 3mila detenuti si sono rivolti alla Corte europea - spiega Simona Filippi, difensore civico dell’associazione Antigone - che, a sua volta, dopo l’introduzione delle norme italiane, rimandava i casi ai nostri magistrati. E molti di loro hanno rigettato le istanze". Dunque migliaia di casi partono da lontano. "Dal settembre 2009 e fino al gennaio 2013 (quando fu emessa la sentenza Torreggiani, nda) come associazione Antigone - dice Simona Filippi - abbiamo raccolto circa 2mila e 400 richieste di detenuti". Chi è già libero, per avere il risarcimento, dovrà rivolgersi al tribunale civile. Solo a Roma, nella seconda sezione, attualmente ci sono circa 300 richieste. Le reazioni - Secondo Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere Penali italiane, questa sentenza ha applicato un principio corretto "sottolineando ancora una volta la necessità di seguire in primis l’articolo 27 della Costituzione, che parla della funzione educativa del carcere". La corsa alle richieste risarcitorie potrebbe costare molto allo Stato. "Un calcolo impossibile da fare - spiega Migliucci - perché bisogna tenere conto dei giorni di pena per ciascun detenuto, ma anche del fatto che in molti non conoscono i propri diritti e non arrivano al ricorso". È prudente Felice Casson, ex magistrato e vicepresidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. "Condivido in casi come questo la riduzione della pena, perché garantisce un diritto fondamentale della persona - dice a ilfattoquotidiano.it - mentre valuterei caso per caso la questione del risarcimento economico per chi non è più in condizioni di disagio". Bernardini: cassazione fa giustizia, Orlando intervenga (Dire) "Un tempo, quando la Corte di Cassazione bocciava con cavilli indigeribili i referendum radicali, la chiamavamo "Cassazione di Giustizia". Da un po’ di anni la musica è certamente cambiata e occorre dare atto che al "Palazzaccio" spesso si ripristina il diritto violato, in particolare, quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona. La sentenza n. 46966 depositata dalla prima sezione penale ha dato infatti ragione ad un cittadino albanese che aveva subito cinque lunghi anni di detenzione in condizioni "inumane e degradanti" nel carcere di Foggia senza avere accesso ai risarcimenti (sconti di pena o indennizzi, peraltro ridicoli, in denaro) perché il Magistrato di Sorveglianza - a torto - aveva respinto la richiesta del detenuto in quanto, dopo 5 anni, era stato spostato in una cella più grande e più vivibile. Insomma, molti magistrati si sono letteralmente inventati la cosiddetta "attualità del pregiudizio" secondo la quale nel caso in cui siano rimosse le cause dei trattamenti disumani e degradanti, l’accesso ai risarcimenti per il passato avrebbe dovuto essere negato". Lo dice Rita Bernardini, Membro dell’Assemblea dei legislatori del Partito Radicale. "Noi radicali - aggiunge - avevamo messo in guardia il Ministro della Giustizia Andrea Orlando su queste interpretazioni tanto fantasiose quanto ignobili dell’art. 35 ter dell’Ordinamento Penitenziario richiamando quanto stabilito dalla sentenza pilota "Torreggiani" della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale i rimedi risarcitori dovevano essere effettivi, rapidi ed efficaci. Lo abbiamo fatto con un’interrogazione parlamentare depositata dall’on. Roberto Giachetti e con una "memoria" presentata il 5 maggio scorso al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che è chiamato a vigilare sull’esecuzione delle sentenze di condanna". Bernardini conclude: "Ora mi appello direttamente al Ministro della Giustizia Adrea Orlando affinché - con un intervento chiaro di interpretazione della norma - ponga fine a queste manfrine che discreditano in nostro paese in una materia delicatissima per una democrazia come quella del rispetto dei diritti umani fondamentali". Giustizia: la guerra culturale al terrore di Paolo Mieli Corriere della Sera, 29 novembre 2015 Cosa vuol dire impegnarsi in una guerra culturale contro gli jihadisti? Per cominciare, significa aiutare coloro che, nel mondo islamico, sono impegnati a costruire un campo aperto all’interlocuzione con chi non segue la legge del Corano. Stiamo parlando di quello che convenzionalmente viene definito "Islam moderato", pur nella consapevolezza che di moderato c’è assai poco nelle realtà statuali o politiche a cui ci stiamo riferendo. Del resto abbiamo usato talmente tante volte quello stesso aggettivo per qualificare impropriamente formazioni d’ogni tipo presenti nel nostro Paese, che una in più non può farci male. In particolare se ci intendiamo, quantomeno approssimativamente, sul significato che diamo a quel termine. E allora, riprendendo il discorso iniziale, dobbiamo dirci apertamente che abbiamo fatto male a lasciar cadere le manifestazioni "not in my name" che il 21 novembre hanno portato in piazza a Roma e a Milano qualche centinaio di "islamici moderati". È vero, i partecipanti sono stati pochi, molto pochi. E qualche goccia di pioggia non basta a spiegare l’esito piuttosto deludente di un’iniziativa peraltro assai ambiziosa. Ma è stata la prima volta dopo qualche decennio di invocazioni a idee di quel genere che qualcosa ha poi preso corpo. E merita siano ricordati i nomi delle persone a cui l’accaduto è riconducibile: Khalid Chaouki, Izzedin Elzir, Abdellah Radouane, Mohamed Guerfi, Abdallah Massimo Cozzolino. Eancora: il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, il segretario dei radicali Riccardo Magi. Più altri islamici e un gruppo abbastanza nutrito di politici e sindacalisti italiani (Casini, Camusso, Cicchitto, Manconi, Della Vedova, Fassina, Landini) che, proprio a ragione della sua eterogeneità, costituisce un positivo segnale dell’assenza, per una volta, di quelle partigianerie che tutto vorrebbero ricondurre al tran tran italiano. Fossimo davvero impegnati non dico in una guerra ma almeno in una battaglia culturale contro lo jihadismo, non avremmo reagito a quella scesa in campo con un’alzata di spalle e qualche ironia. Semmai avremmo fatto osservare agli organizzatori che decidere di dare la parola in pubblico soltanto a uomini è stato un gravissimo errore. Un errore in sé e anche per l’evidente motivo che il ruolo subalterno in cui sono tenute le donne nel mondo islamico (compreso, anzi forse soprattutto, quello non radicale) è di ostacolo all’allargamento e all’espansione del campo "moderato". Ma c’è dell’altro. Molti degli intervenuti hanno lamentato una disparità di trattamento tra musulmani e non. Ai primi sarebbe stata chiesta una dissociazione dal loro mondo, mentre per i cristiani questo non sarebbe accaduto neanche in "circostanze simili". Una ragazza di Roma convertita all’Islam più di vent’anni fa, Amina Salina, ha denunciato (su La Stampa) che "quando c’è stato Breivik che ha fatto tutti quei morti" nessuno ha chiesto ai cristiani di discolparsi. Amina si riferiva al trentaduenne Anders Breivik che nel luglio del 2011 uccise settantasette persone a Oslo e sull’isola di Utoya e l’anno successivo è stato condannato per quell’ecatombe a ventuno anni di prigione (massimo della pena previsto in Norvegia). Riferimento che curiosamente è tornato spesso in questi giorni: lo spirito di Breivik è entrato in più di un’occasione nel dibattito sul dopo Bataclan. Olivier Roy (su questo giornale) ha detto che gli assassini del 13 novembre gli ricordano l’assassino di Utoya in "modo impressionante": "Uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio". Il "nichilismo, la rivolta radicale e totale, è - secondo Roy - comune a tutti questi episodi e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti". Jürgen Habermas (su Repubblica) è riandato anche lui con la memoria a Utoya e ha suggerito di comportarci come fecero i norvegesi in quell’estate del 2011: resistettero "al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al nemico interno". Curiosa comparazione che, pure, può offrire elementi per riflessioni non improprie. Ma alquanto strana dal momento che - tornando a quel che ha detto Amina - Breivik non aveva in alcun modo un rapporto con il mondo cristiano paragonabile a quello che gli attentatori del Bataclan avevano o, quantomeno, dicevano di avere con quello musulmano. È vero che nel suo memoriale di 1.518 pagine Breivik si era definito "salvatore del cristianesimo"; ma è vero altresì che i magistrati norvegesi lo giudicarono "affetto da disturbo narcisistico della personalità" mettendo in evidenza come la sua opera di "salvazione del mondo cristiano" fosse tutta incentrata su un’aperta polemica contro papa Benedetto XVI. Allora in che senso e perché un cattolico avrebbe dovuto prendere le distanze da lui? E siamo al punto dell’inizio: una battaglia culturale consiste nel far sì che dopo quelle del 21 novembre ci siano altre iniziative simili a quella qui ricordata. Anche e soprattutto quando (come purtroppo sta già accadendo) l’eco dei fatti che hanno insanguinato la Francia tenderà ad affievolirsi e si tornerà a parlare in modi più astratti di Isis, Assad, Erdogan, Putin e Obama. Consiste nell’impegnarsi a far crescere quelle manifestazioni nel numero dei partecipanti. Ogni volta di più. E soprattutto consiste nel far capire ad Amina che ai nostri occhi lei e quelli come lei non devono discolparsi di nulla. Non deve essere questo il senso del loro uscire allo scoperto. In più dobbiamo convincerla che, anche se fosse, non è vero che a lei sia stato chiesto di dissociarsi da una parte del suo mondo con modalità che i cristiani, quando tocca a loro, non sono tenuti ad adottare. È questa la battaglia culturale: un genere di contributo fatto di fatica, pazienza, sforzo di persuasione, studio, riferimento a dati inoppugnabili. Certo, in momenti come l’attuale, è più facile metter mano alla fondina, lanciare proclami di guerra e minacciare sfracelli. Ma la storia degli ultimi quattordici anni insegna che le stentoree declamazioni della prima ora non portano a nulla. Talvolta portano al peggio. Giustizia: l’Europa è in guerra ma l’Italia è neutrale… chi ha torto? di Eugenio Scalfari La Repubblica, 29 novembre 2015 Nell’ambito d’una società globale dal punto di vista economico e tecnologico permangono tuttavia notevoli differenze per quanto riguarda la politica, la cultura e la distribuzione delle risorse tra i vari livelli delle categorie sociali, quelle che un tempo si chiamavano classi. Nasce da queste profonde diversità del benessere la mobilità dei popoli ed anche l’andamento del tasso demografico delle varie popolazioni. Politica, cultura, mobilità dei popoli, religioni: sono questi i fattori dinamici che animano il pianeta, ai quali è doveroso aggiungere la necessità di tutelare il clima, visto che dobbiamo fronteggiare un sempre più elevato inquinamento dell’aria che respiriamo, dei venti, delle tempeste e dello scioglimento dei ghiacciai. In questo quadro deflagrano anche le guerre, una delle quali sta insanguinando l’Occidente e il Medio Oriente con punte anche nel Maghreb, in Arabia, nell’Africa centrale, nelle Filippine, in Bangladesh. Noi europei siamo al centro di questa guerra che, nonostante le apparenze, non è tra civiltà e neppure tra religioni. È una guerra tra fondamentalisti e liberali, tra classi evolute e periferie, tra benestanti e poveri, tra corrotti e onesti e perfino tra giovani scapestrati e giovani consapevoli. Insomma è la crisi di un’epoca ed è anch’essa una crisi globale perché i suoi fuochi sono sparsi in tutti i continenti e si intrecciano e si alimentano tra loro. L’Europa è ampiamente sconvolta da questa crisi e dalla guerra che ne deriva, il fondamentalismo e il terrorismo; per combatterlo in nome della libertà anche la libertà è costretta a limiti più restrittivi. Avveniva anche nell’antica Roma: quando la guerra era più intensa e l’esito incerto, i consoli venivano sostituiti da un dittatore con pieni poteri per combatterla. Non siamo a questo, ma i poteri politici tendono a concentrarsi in poche mani e le alleanze ad essere guidate da chi agisce sul terreno e dove la guerra è più intensa. In Europa, almeno finora, il teatro tragico si svolge in Francia, nel Medio Oriente in Siria e in Iraq, in Turchia e nel Kurdistan. La coalizione contro il Califfato comprende non soltanto l’Occidente, ma anche la Russia ed è questa la grande novità: Putin ha come principale interlocutore Hollande, almeno in apparenza, ma in realtà è Obama il vero interlocutore e il ruolo del presidente francese è quello di mediare tra i due, in Europa comunque il leader di questa fase è Hollande e l’inno di guerra la Marsigliese. Questa è la situazione e i fatti le danno forma. L’Italia è il solo Paese che, pur sostenendo la necessità d’una grande coalizione che comprenda anche la Russia rifiuta di scendere sul terreno militare al di là degli impegni già da tempo assunti, che consistono in tre Tornado in missione quasi quotidiana di avvistamento e indicazione di obiettivi da colpire. Tre giorni fa Hollande ha incontrato all’Eliseo Renzi e si sono parlati per venti minuti. La richiesta francese consiste nella sostituzione di cento militari con altrettanti soldati italiani nel contingente di "caschi blu" dell’Onu in Libano. Renzi ha accettato previa l’eventuale approvazione del Parlamento e questo è tutto. Il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in una conferenza stampa di venerdì scorso ha ricordato la tradizionale politica italiana degli ultimi quarant’anni: abbiamo sempre sostenuto una politica di amicizia nei confronti del mondo arabo e iraniano a partire dai tempi di Fanfani e di Andreotti e non è nostra intenzione allontanarci da questa tradizione. Gentiloni ha dimenticato o forse ha preferito non ricordarlo un altro personaggio che in realtà decideva la nostra politica verso quei Paesi: Enrico Mattei, presidente dell’Eni. Era lui che decideva la nostra politica in quei Paesi per assicurarsi l’utilizzazione del petrolio che veniva estratto dai pozzi e faceva a quei Paesi condizioni di facilitazione economica e politica tali da estromettere la potenza fino allora esercitata da quelle che venivano chiamate le "Sette sorelle", multinazionali americane, inglesi, olandesi. Mattei aveva poteri assoluti per quanto riguarda l’Eni. In Italia finanziava la Democrazia cristiana ma non trascurava i socialisti e neppure i comunisti e i fascisti del Msi. Decideva lui chi doveva essere nominato ministro delle Partecipazioni statali e era lui che diceva al ministro che cosa dovesse fare anziché l’inverso. Finanziò perfino il movimento algerino di liberazione nazionale puntando sul fatto che nel momento in cui i francesi se ne fossero andati dall’Algeria, quel nuovo Stato avrebbe concesso all’Eni l’uso del petrolio e del gas e fabbricato i necessari oleodotti per portare la materia prima alle raffinerie italiane dell’Eni. Poi Mattei per un incidente aereo dovuto al maltempo o forse ad altre cause, morì. Nemici ne aveva soltanto due, le "Sette sorelle" e la mafia. Queste cose Gentiloni non le sa o più probabilmente le sa ma non le dice, ma la nostra politica in Medio Oriente si spiega soltanto così. Comunque dal punto di vista attuale siamo sostanzialmente irrilevanti in Medio Oriente e non abbiamo un gran peso in Europa. Renzi rivendica un ruolo di mediatore in Libia per mettere d’accordo le varie fazioni che si combattono. Non c’è riuscito Leon dopo molti mesi di lavoro sotto l’egida dell’Onu. Sembra difficile che possa riuscirci Renzi. Mi permetto ora di aggiungere un mio suggerimento contenuto nell’articolo di domenica scorsa nei confronti del nostro presidente del Consiglio. Credo che dovrebbe aprire, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, campi di accoglienza sulla costiera libica, dove i migranti dovrebbero essere trattati con decenza e dignità, mobilitando medici e anche psicologi e avviando rapidi riconoscimenti di identità e di accertamento dello status di ciascuna delle persone ospitate dai campi di accoglienza: quelli che invocano il diritto d’asilo ed hanno solide motivazioni per richiederlo potrebbero essere trasferiti sulle coste meridionali europee su navi italiane o straniere; gli altri dovrebbero essere rimpatriati nei Paesi d’origine dove la nostra diplomazia ne tratterebbe il rientro con tutte le garanzie del caso. Naturalmente i campi d’accoglienza dovrebbero essere militarmente difesi contro eventuali incursioni di ladri o facinorosi da un contingente militare di due o tremila uomini, ampiamente sufficienti a tutelare la sicurezza. Ho anche suggerito in quel mio articolo a Renzi di farsi promotore della cessione di sovranità alle autorità europee dei poteri relativi alla difesa comune e alla politica estera, analoghe alle cessioni di sovranità già effettuate in materia economica delle quali opportunamente si avvale la Banca centrale e Mario Draghi che la presiede. È del tutto improbabile che i membri dell’Unione accettino in questo momento cessioni di sovranità dei singoli Stati ad un’Europa che diventerebbe in tal modo sempre più federata di quanto non sia ora ma è soprattutto improbabile che Renzi condivida questa ipotesi perché - pensa lui - questo declasserebbe gli Stati nazionali, privandoli di una parte molto importante dei loro attuali poteri. Se la pensa così, ed io credo che lo pensi, non vede molto lontano; che l’Europa diventi federale in una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali, significherebbe che preferisce staterelli privi di peso internazionale dove però ciascuno è padrone in casa propria. Un’Europa così fatta non resisterebbe molto e l’Italia meno ancora degli altri ma chi è "padroncino" in casa propria obbedisce al detto "chi si contenta gode" (ma il Paese no). Concludo con tutt’altro argomento. Ho visto pochi giorni fa in visione privata un film molto bello ed anche commovente, intitolato "Chiamatemi Francesco" diretto da Daniele Luchetti, prodotto da Valsecchi e come primi attori Rodrigo de la Serna e Sergio Hernandez. Il film, che sarà nelle sale il 3 dicembre, racconta la vita di Jorge Mario Bergoglio nella sua giovinezza e poi nella maturità, da quando era un semplice prete poi promosso capo provinciale della Compagnia di Gesù, successivamente coadiutore del vescovo di Buenos Aires e infine arcivescovo e cardinale di Argentina. Come si scontrò con il regime dittatoriale di Videla, autore di orribili e continui delitti; il suo amore verso i poveri, il suo riserbo verso preti e teologi della teologia della liberazione, ritenuti para-comunisti e poi scomunicati da papa Giovanni Paolo II. Bergoglio nel film è fondamentalmente schierato con i poveri e sulle vicende drammatiche di questa sua posizione il demonio è Videla dal quale in tutti i modi, anche i più drammatici, Bergoglio cerca di mettere in salvo quelli che Videla minaccia. Non so fino a che punto corrisponda a verità il suo distacco dai preti di sinistra; sta di fatto che poche settimane dopo che Bergoglio divenne Papa beatificò il vescovo Romero che era stato ucciso mentre celebrava la messa nella chiesa cattedrale di San Salvador. Papa Wojtyla aveva espresso questa intenzione ma non l’aveva mai attuata; papa Francesco la fece subito e Romero era certamente un vescovo politicamente di sinistra. Papa Francesco tornerà domani dal suo viaggio africano, dal Kenya all’Uganda dove è stato accolto da milioni di fedeli. Ha riaffermato ancora una volta la diffusione addirittura capillare della corruzione e la necessità di combatterla anche in Vaticano. Questo Papa è quello che sostiene e l’ha fatto anche nel corso di questo viaggio l’esistenza di un unico Dio e questo lo porta ad affratellarsi non solo con tutte le varie comunità cristiane ma anche con gli ebrei e soprattutto con i musulmani e a combattere contro i fondamentalismi dovunque affiorino, Chiesa cattolica compresa. Credo sia inutile sottolineare l’importanza di questo Pontificato e la fratellanza delle religioni per combattere il fondamentalismo e il terrorismo che ne deriva. La Chiesa di Francesco è quella della pace, dell’amore per i poveri, per gli esclusi e per tutte le persone consapevoli e orientate vero il bene del prossimo. È mondiale nel senso profondo del termine e mai come in questi tristissimi tempi d’un uomo di questa tempra e di questa autorevolezza il mondo ha avuto bisogno. Giustizia: la tentazione degli intellettuali "l’Occidente sempre colpevole" di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 29 novembre 2015 Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi. Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni. Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle "Reducciones", denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente "la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma". Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so. Giustizia: il premier Renzi "nessuna lezione sulla lotta al terrorismo" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 29 novembre 2015 C’è anche il riconoscimento di Joe Biden tra gli argomenti che Matteo Renzi usa per rispondere a chi sostiene che l’Italia dovrebbe fare di più sul fronte anti-Is. La forza dei numeri, secondo Palazzo Chigi, avrebbe convinto il vicepresidente americano che siamo l’unico Paese a fare per intero il suo dovere nella lotta al terrorismo. Per la precisione, 5.700 militari impegnati sugli scenari più caldi contro 2650 della Merkel. Un paragone non casuale, visto che è la notizia di 4 Tornado tedeschi inviati in Siria ad alimentare qualche perplessità sull’atteggiamento italiano. Troppa prudenza? Troppa attenzione ai sondaggi interni che dimostrano il favore dell’opinione pubblica per l’intervento soft? Renzi risponde che "nessun altro Paese europeo ha tanti soldati sul terreno come il nostro". E se il governo tedesco manda oggi i suoi aerei, "noi abbiamo 4 Tornado da ricognizione e 2 droni in Iraq da oltre un anno". Mezzi che fonti della Difesa indicano come fondamentali per i bombardamenti di Francia e Regno unito contro le basi di Daesh. "Serve la presenza, la logistica e l’assistenza" per individuare i bersagli bombardati in questi giorni e sono forniti dal nostro contingente di 600 militari che diventeranno 750 entro l’anno divisi tra Erbil, Baghdad e la base aerea in Kuwait. Quindi, non si usa la parola "guerra", non si parla di bombardamenti e tantomeno in Siria, ma non per questo l’Italia è defilata. Questa è la risposta del governo italiano. L’intervento antiterrorismo resta comunque un lavoro in progress. Se è vero che Hollande non ha fatto richieste specifiche al premier italiano nella colazione all’Eliseo di giovedì, è anche vero che i comandi generali dei Paesi europei sono sempre in contatto. Significa non escludere un potenziamento della presenza italiana, significa mai dire mai a un futuro impegno diretto nel colpire basi del sedicente Stato islamico. Ma Renzi continua a fare l’esempio della Libia per sottolineare che una visione politica occorre in Siria, in Iraq, ma anche in Afghanistan, in Libano e Tripoli. Soprattutto a Tripoli che è vicinissima all’Italia. È la strategia diplomatica, come è stata disegnata a Vienna, che può consentire la transizione in Siria attraverso una nuova Costituzione e nuove elezioni senza Bashar el Assad. È ancora la politica che deve occuparsi di una stabilizzazione del governo iracheno grazie alla presenza militare della coalizione. Se non si vede l’insieme, la coperta, secondo Palazzo Chigi, sarà sempre troppo corta. Così Renzi pensa di rispondere anche ai dubbi sulla "visione" italiana del conflitto. Armi e politica, compresa la sfida culturale lanciata dal Campidoglio con il miliardo di euro promesso. Ma "non accettiamo lezioni sulla lotta al terrorismo da nessuno", dicono a Palazzo Chigi. "Stiamo facendo il nostro dovere". La Francia continua a "reclutare" alleati e non si può escludere che tornerà alla carica anche con l’Italia per una nuova collaborazione. È uno step che verrà valutato più avanti perché oggi l’intervento italiano va bene così. La risposta per ora è quella di un impegno "massimo" e di un’attenzione che Roma deve dedicare a quello che succede dentro i suoi confini. Tra poco più di una settimana comincia il Giubileo straordinario e non esiste messaggio dell’Is, video audio o scritto, in cui non venga segnalato come obiettivo Papa Francesco. La scelta è quella di dedicare altre risorse economiche alla sicurezza interna. Renzi si è presentato ieri al Teatro della Pergola di Firenze per aprire la Festa della Toscana. Manifestazione che dal 2000 ricorda il Granduca Pietro Leopoldo e l’abolizione della pena di morte del 1786. È l’occasione per tornare sull’Is. "Noi ai terroristi dobbiamo rispondere con i valori coltivati da Pietro Leopoldo. Non possiamo vivere nella paura. Se accettiamo di perdere la libertà, diventiamo come loro". Loro, i terroristi, continua il premier, "vogliono disintegrare il nostro modo di vivere. Noi dobbiamo rispondere con più teatri, più cultura, più ideali". Un richiamo al quale replica Berlusconi: "I 500 euro ai diciottenni sono una disgustosa mancia elettorale". Non basta comunque la cultura. "Il nemico è molto pericoloso - prosegue Renzi. Nessuno può sottovalutarlo, tutti insieme stiamo cercando di avere regole ancora più efficaci. Ecco perché puntiamo anche sulla cyber security". Nelle stesse ore si diffonde la notizia che mercoledì scorso è stato fermato nell’aeroporto di Orio al Serio un siriano, con passaporto falso, che voleva raggiungere Malta dove oggi sono riuniti i capi di Stato del Commonwealth. Al siriano è stata trovata una foto con la divisa dell’Is e questo lo fa ritenere "organico" al gruppo terrorista. Giustizia: stasera a Report (RaiTre) "video processo" alle inefficienze della magistratura di Dino Martirano Corriere della Sera, 29 novembre 2015 Dopo tante trasmissioni sulla corruzione e sullo Stato divorato da un ceto politico-burocratico talvolta famelico che teme solo la polizia giudiziaria, stavolta Report di Milena Gabanelli (stasera in prima serata su Raitre) punta le telecamere su chi conduce inchieste e processi. La puntata curata da Claudia Di Pasquale, "La giusta causa", mette, per così dire, sul banco degli imputati giudici e pubblici ministeri, consiglieri di Cassazione e presidenti di sezione della Suprema Corte, laici e togati del Consiglio superiore della magistratura. Per la prima volta, la trasmissione d’inchiesta ammiraglia della Rai si avventura su un terreno minato cosparso di sentenze paradossali e contraddittorie, di dati sconfortanti sull’efficienza degli uffici giudiziari, di consuetudini correntizie che a Palazzo dei Marescialli scandiscono le progressioni di carriera ai vertici di procure e tribunali. Come banco di prova per misurare equità e tempestività del sistema giustizia, Report sceglie un terreno facile, comprensibile a tutti: cioè le "sentenze paradossali" che in tema di licenziamenti hanno fin qui stabilito tutto e il contrario di tutto. La carrellata offre il dipendente siciliano di Auchan reintegrato dalla Cassazione nonostante lavorasse in nero durante un periodo di malattia; la cardiologa milanese reintegrata dai giudici supremi anche se in malattia (per coliche addominali recidivanti) partecipare come soprano alla puntata dei "Fatti vostri"; il conduttore Rai reintegrato al suo posto nonostante avesse tentato di assumere sua moglie in trasmissione; il dirigente scolastico del Trevigiano reintegrato dopo essersi messo in tasca 197 mila euro di fondi pubblici. Sull’altro piatto della bilancia, i licenziamenti confermati dal giudice del lavoro, Report propone il dipendente di un centro commerciale che ci ha rimesso il posto perché in malattia aveva sostituito un amico per pochi minuti; l’operaio di Fincantieri mandato a casa per essersi appropriato di un dischetto metallico da 16 euro mentre 5 ladri di merendine sono stati reintegrati in un supermarket ligure. Sui licenziamenti - al netto del Jobs Act che limita le tutele ex articolo 18 solo a 9 milioni di vecchi assunti - la Cassazione può sentenziare tutto e il contrario di tutto. "E un fatto fisiologico - spiega a Report Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione - perché tanto più aumentano i ricorsi tanto più aumentano le possibilità di contrasto". E se l’Italia è campione di ricorsi in Cassazione (100 mila l’anno, contro i 100 della Gran Bretagna), bisognerebbe capire bene come vengono organizzati gli uffici giudiziari. Su questa domanda Report entra nel cuore del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, che tutto dispone su carriere, trasferimenti e disciplinare. Così i consiglieri in carica interpellati (Zanettin, Balduzzi, Morgini, Fracassi, Balducci, Pontecorvo, San Giorgio) sono costretti a giocare in difesa. Mentre il vice presidente Giovanni Legnini, che ha lasciato il segno proprio con un intervento sul Corriere della Sera sulle ricadute economiche delle decisioni del giudice, la mette così: "Il giudice ha bisogno di una formazione continua interdisciplinare... ha bisogno di specializzazione, di coltivare cultura dell’organizzazione...". Ma qui si entra in un ambito che forse merita altre puntate. Non solo di Report. Giustizia: i poliziotti lo dicono: il caso Shalabayeva era "deciso in alto" di Andrea Colombo Il Manifesto, 29 novembre 2015 Angelino Alfano Trema. Dalle carte dell’inchiesta risulta che la moglie del dissidente kazako aveva chiesto l’asilo sette volte. Per il sequestro sono indagati 7 agenti e una giudice di pace. Interrogazione M5S e Si, ma il governo resta muto. Angelino Alfano? Chi l’ha visto. Matteo Renzi? Muto come un pesce. In barile. Alma Shalabayeva? E chi è? Con l’eccezione di Si e dell’M5S l’establishment politico e istituzionale si trincera dietro lo schema classico delle tre scimmie: nessuno ha visto, nessuno ha sentito, soprattutto nessuno avverte l’urgenza di parlare. In un qualsiasi Paese democratico le cose andrebbero all’opposto, anche se r vero che in un Paese di quel tipo il problema non sussisterebbe perché il ministro degli Interni non sarebbe più tale da un pezzo, dopo il rapimento di Stato Shalabayeva. La Procura di Perugia e i Ros, che hanno iscritto nel registro degli indagati sette poliziotti, tre funzionari dell’ambasciata kazaka e la giudice di pace Stefania Lavore, hanno accertato che per sette volte, da quando venne "prelevata" con la figlia dalla sua abitazione di Casal Palocco il 29 maggio 2013 a quando, il 31 maggio, venne caricata a forza sull’aereo diretto in Kazakhistan, la moglie del dissidente Mukthar Ablyazov chiarì la propria posizione. Illustrò, implorò, parlò delle torture subite dal marito in patria, ripetè che sarebbe stata considerata dal regime del "presidente" (da 25 anni) Nazarbaev un ostaggio, invocò invano il rispetto della la legge. La legge in quei tre giorni era però sospesa: almeno su questo c’è certezza. Per ordine di chi, e con quali complicità, invece resta oscuro, e pochi, nel Palazzo, sembrano interessati ad accertarlo. I sette poliziotti, tra cui l’allora capo della Mobile Renato Cortese e il capo dell’ufficio Immigrazione Maurizio Improta sono indagati, oltre che per sequestro di persona, per omissione d’atti d’ufficio e falso, il che in realtà offre un comodissimo scudo ad Alfano. Lui non ne sapeva niente: lo avevano tenuto all’oscuro come se si trattasse di un qualsiasi pizzardone anziché del ministro. Potrebbe essere vero, considerato il carisma dell’uomo. Ma è impossibile pensare che Cortese e Improta abbiano deciso il sequestro solo per ammazzare la noia, senza che nessuno desse l’adeguato ordine. O che la giudice Lavore, in forza all’epoca presso il Cie di Ponte Galeria dove fu ‘tradottà la rapita e senza il cui assenso la brillante operazione non sarebbe andata in porto, abbia solo ceduto a un attimo di distrazione. Di certo non è quello che lei stessa raccontava, in una telefonata intercettata dopo il fattaccio: "Mi avrebbero schiacciato…Ho fatto pippa…Non ho sputtanato nessuno… Hanno pagato il mio silenzio…I panni sporchi si lavano in famiglia". Non dovrebbero essere solo i giudici a chiedere alla brillante giudice di pace da chi temeva di essere schiacciata. In un caso del genere sarebbe dovere del Parlamento reclamare la verità, e senza accontentarsi delle arrampicate sugli specchi in cui si produsse a suo tempo Alfano. Neppure gli agenti in servizio nell’ultima fase del rapimento, con Shalabayeva che già sulla scaletta dell’aereo tentava ancora una volta di difendere il proprio diritto a restare in Italia, credevano che il tutto fosse stato partorito da un gruppetto di poliziotti troppo solerti: "Tutto è già stato deciso ad alto livello". Senza contare che l’indagine di Perugia ha accertato che aereo e pilota erano stati messi a disposizione, sia pur per via indiretta, dall’Eni. Basta e avanza per essere certi che in quella rendition erano davvero coinvolti interessi di altissimo livello, e che il petrolio kazako la faceva da protagonista. Però per smuovere la polizia trasformando gli agenti in complici attivi di un sequestro di persona a livello internazionale non basta nemmeno l’interessamento dell’Eni. L’ordine deve aver seguito le vie gerarchiche. Deve essere stato dato da qualcuno a cui gli agenti non potevano non obbedire. La stessa Shalabayeva, tornata in Italia ma ancora tanto terrorizzata dal regime di Nazarbaev da voler mantenere il segreto su generalità e domicilio, dice di avere massima fiducia nei magistrati italiani e aggiunge che la maggiore responsabilità è dei diplomatici kazaki: come se sul fatto potesse esserci qualche dubbio. Paole ovvie, adoperate nei giorni scorsi come una specie di attestato di fiducia nei confronti del ministro Alfano. In realtà Alma Shalabayeva aggiunge che di sicuro "il regime kazako non si è mosso da solo". Chissà se nei prossimi giorni a qualcuno oltre a Si e all’M5S, in Parlamento, verrà in mente di reclamare chiarezza. O se le scimmiette cieche sorde e mute continueranno a essere non tre ma diverse centinaia. Venezia: detenuto muore a Santa Maria Maggiore, il magistrato dispone l’autopsia veneziatoday.it, 29 novembre 2015 Manuel Valesin stava scontando in carcere i suoi 6 mesi di pena, Roberto Terzo, pubblico ministero, ha disposto l’autopsia. Nella giornata di sabato 28 novembre, un giovane detenuto - Manuel Valesin - è venuto a mancare nella prigione veneziana di Santa Maria Maggiore, dove si trovava per scontare una condanna per resistenza a pubblico ufficiale. Come riporta la Nuova Venezia, ad ucciderlo è stato probabilmente un arresto cardiaco improvviso, ma trattandosi di un giovane di 38 anni - la cui salute e sicurezza è affidata allo Stato - e in trattamento con diversi farmaci, anche anti-trombosi, il pubblico ministero Roberto Terzo ha deciso di disporre l’autopsia, per fugare qualsiasi dubbio sulle cause del decesso. Così nei prossimi giorni sarà eseguito l’esame autoptico del corpo: la stessa famiglia ha manifestato l’intenzione di affidarsi ad un legale per seguire l’indagine, temendo che l’uomo possa essere morto in seguito a una cattiva somministrazione delle medicine. L’uomo si è sentito male nella mattinata di sabato: a dare l’allarme per primi sono stati i compagni di cella, poi il personale medico della casa circondariale. infine, l’inutile arrivo del Suem che non ha potuto che constatare il decesso dell’uomo. Valesin stava finendo di scontare una condanna a 6 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, nel corso di una rissa scoppiata a San Pantalon, all’interno di un locale pizzeria-kebab. Pisa: Casa d’accoglienza per carcerati nella canonica della chiesa di Sant’Andrea a Lama gonews.it, 29 novembre 2015 Si chiamerà "Misericordia tua", esattamente come il motto episcopale dell’ex vescovo di Pisa, recentemente scomparso, Alessandro Plotti, la casa d’accoglienza per carcerati in permesso ed ex detenuti impegnati nel percorso di reinserimento sociale che sarà realizzata a Calci (Pisa) nella canonica della chiesa di Sant’Andrea a Lama. Secondo quanto annunciato dal vescovo Giovanni Paolo Benotto, sarà anche "l’opera segno della Chiesa pisana per il Giubileo della Misericordia". "È un progetto che coltiviamo da tempo e che finalmente decolla", ha spiegato monsignor Roberto Filippini, intervenuto alla presentazione come cappellano della casa circondariale don Bosco di Pisa e fresco di nomina a vescovo di Pescia (Pistoia). "Nasce - ha aggiunto - da una domanda precisa di tanti detenuti che, spesso, vivono quasi con paura il momento del loro ‘ritornò in società, temendo di finire risucchiati negli stessi giri che li hanno portati in carcere". La casa è dedicata a Plotti, che per 22 anni ha guidato la diocesi pisana, ha sottolineato don Emanuele Morelli, direttore della Caritas, "per ricordare il suo magistero pastorale rivolto ai poveri e agli ultimi e in particolare al mondo carcerario". Il progetto a giugno entrerà nella fase esecutiva. "La struttura - ha concluso Vittorio Cerri, ex direttore del Don Bosco e consulente del progetto diocesano - offrirà spazi indipendenti e protetti a condannati che accedono a misure alternative alla detenzione o in permesso premio e a ex detenuti in attesa di un reinserimento lavorativo e sociale, ma anche, se necessario, a familiari di persone detenute nel carcere di Pisa: potrà accogliere un massimo di 16 ospiti". La gestione operativa è da definire, ma prevedrà una presenza costante di operatori adeguatamente formati. Alghero: trenta detenuti al lavoro per manutenzioni in città di Gianni Olandi La Nuova Sardegna, 29 novembre 2015 Accordo tra Comune e tribunale di Sassari per un progetto di reinserimento Sarà possibile scontare condanne con un impiego pubblico non retribuito. L’amministrazione comunale ha avviato un nuovo percorso di particolare rilievo sociale sottoscrivendo con il tribunale di Sassari un accordo per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Il contenuto di un ragionamento che andrebbe esteso in modo significativo anche per le opportunità di reinserimento nella vita sociale, consente a detenuti condannati alla pena sostitutiva di scontarla con lavori non retribuiti in settori operativi delle manutenzioni di stabili e monumenti, decoro urbano, protezione civile, archiviazione, collaborazione. Va ricordato che l’espletamento della forma alternativa della pena da parte di soggetti che ne facciano esplicita richiesta, è stato oggetto di uno specifico indirizzo giunto dal consiglio comunale che già nell’ottobre 2014, su proposta del consigliere Alessandro Nasone, ha approvato all’unanimità un ordine del giorno che aveva per oggetto proprio la possibilità di avviare, con il tribunale di Sassari, un accordo di tipo operativo come sta avvenendo ora. Lo stesso Nasone, promotore dell’iniziativa, si è fatto carico inoltre di seguire l’intero iter della pratica fino allo schema di convenzione approvato recentemente dalla Giunta. Nei giorni scorsi c’è stata la chiusura dell’iter con la formale consegna della convenzione firmata dal Sindaco Mario Bruno da parte del vice sindaco Raimondo Cacciotto presso il Tribunale di Sassari. La collaborazione avviata tra Amministrazione e Tribunale di Sassari consente a 30 detenuti di affrontare un’esperienza di alto valore umano e di riabilitazione per chi sconta una pena sostitutiva. A fronte di un aspetto di ordine sociale indubbiamente prioritario, non va sottovalutato che l’accordo costituisce anche una tangibile utilità per la città che vedrà portare a compimento opere o interventi senza alcun costo aggiuntivo. Sul fronte del detenuto che sconta la pena, questa alternativa offre la possibilità di svolgere attività risocializzanti con maggior consapevolezza sul ruolo attivo che ognuno ha nella società, aprendo perfino possibilità di tipo professionale una volta pagato il debito con la società. La convenzione stipulata avrà la durata di cinque anni e quindi visto lo spazio temporale a disposizione consentirà anche di praticare un minimo di programmazione per quanto riguarda gli interventi da eseguire. Va ricordato che una analoga iniziativa che si è rivelata di assoluto interesse, è stata perfezionata dal Parco di Porto Conte con la collaborazione di diversi detenuti che hanno svolto un enorme lavoro di recupero e catalogazione degli atti della vecchia colonia penale di Tramariglio. Un lavoro anche di valenza storica che sta producendo interessanti ricadute di tipo culturale. Gela (Cl): terreni del Comune abbandonati, gli ex detenuti chiedono di gestirli quotidianodigela.it, 29 novembre 2015 Una lettera molto dettagliata, indirizzata, tra gli altri, al sindaco Domenico Messinese, al presidente dell’antiracket Renzo Caponetti e al vescovo Rosario Gisana. "Non vogliamo sbagliare per la seconda volta". Gli ex detenuti non vogliono sbagliare una seconda volta. Così, davanti a ristrettezze economiche sempre più difficili da sostenere, chiedono di poter avere una possibilità. Il punto per ripartire, dopo i tanti lavori svolti negli anni precedenti per conto del Comune, sembra potersi chiamare agricoltura. L’associazione locale degli ex detenuti, per bocca del presidente Rocco Bassora, vuol puntare sul rilancio di diversi terreni, di proprietà comunale, da anni abbandonati e dominati dall’incuria. I terreni a Feudo Nobile. Le aree che gli ex detenuti vorrebbero gestire si trovano in contrada Feudo Nobile. "Parliamo di terreni lasciati all’abbandono da anni - spiega lo stesso Bassora - sappiamo che sono di proprietà del Comune. Per questa ragione, ne chiederemo l’affidamento. Sarebbe un indubbio vantaggio per l’amministrazione comunale, dato che con il nostro lavoro risolleveremo le sorti di aree lasciate ai margini e, inoltre, potremmo ottenere un piccolo reddito. Noi vogliamo reinserirci. Sappiamo di aver sbagliato in passato e, proprio per questo motivo, abbiamo scelto di cambiare vita. Chiediamo una possibilità che non ci porti nuovamente a delinquere". L’attività da svolgere nei campi, in base alla proposta avanzata dagli ex detenuti, dovrebbe servire da traino soprattutto per supportare un circuito virtuoso, fatto d’inserimento lavorativo dei diversamente abili e di chi si trova in difficoltà. Adesso, la proposta verrà depositata sul tavolo del sindaco Domenico Messinese e dei suoi assessori, in attesa di risposte. Trento: Fraccaro (M5S) "carcere vicino al collasso, ma per Rossi va tutto bene" Secolo Trentino, 29 novembre 2015 L’interrogazione parlamentare del deputato pentastellato Riccardo Fraccaro. "Non più tardi di un mese fa il presidente Rossi, visitando il carcere di Spini di Gardolo, ne aveva dipinto un quadro idilliaco: contrariamente alla sua visione edulcorata, la situazione è invece profondamente critica, in quanto la struttura andrà presto incontro a un grave problema di sovraffollamento, dovendo accogliere una cinquantina di nuovi detenuti provenienti dal Veneto. Situazione che si accompagna alla già nota carenza di personale carcerario e che potrebbe portare a seri problemi di gestione, di cui Rossi deve dare immediata spiegazione". Il deputato M5S Riccardo Fraccaro denuncia il pericolo di collasso della struttura carceraria di Spini di Gardolo e lo fa con un’interrogazione parlamentare sottoscritta anche dai deputati Francesca Businarolo e Vittorio Ferraresi, della Commissione Giustizia Camera(di cui Ferraresi è anche capogruppo M5S). Inaugurata nel 2011 come luogo detentivo all’avanguardia, in sostituzione del carcere di via Pilati a Trento e della casa circondariale di Rovereto, la struttura di Spini di Gardolo è frutto dell’Accordo di Programma Quadro del 2002 tra la Provincia autonoma, allora governata da Dellai, il Comune di Trento e il Governo italiano. "L’accordo - spiega Fraccaro - prevede determinate caratteristiche per la struttura, che può ospitare al massimo 240 detenuti. Caratteristiche riconfermate anche negli accordi successivi: l’atto aggiuntivo del 2008, anche questo sottoscritto da Dellai, la riunione del 28 giugno 2011 della Segreteria tecnica paritetica. In entrambe le occasioni era stato assicurato che non vi era alcuna previsione di superare i limiti di capienza. Sta di fatto che adesso i detenuti presenti sono circa 300. Stiamo già sforando i limiti previsti e a breve arriveranno altri 50 detenuti. Se a ciò aggiungiamo gli annosi problemi di carenza di personale, di cui ho chiesto spiegazione al Governo con due interrogazioni (4-06976e 4-07333) ancora senza risposta, capiamo che la situazione è davvero al limite". Fraccaro è tornato a sottolineare la carenza di organico con una terza interrogazione (4-09687) nel luglio di quest’anno e una serie di dati che la dicono lunga. "Il personale di polizia penitenziaria effettivamente a disposizione risulta di appena 130 unità, contro le 186 unità a disposizione al momento dell’inaugurazione nel luglio 2011, contro le 162 dichiarate sulla carta, ma soprattutto contro le 214 unità previste dalla pianta organica. A una situazione già critica, si aggiunge ora la notizia dell’imminente trasferimento di una cinquantina di detenuti dal Veneto. La popolazione carceraria incrementerebbe fino a 350 unità rendendo la struttura non più adeguata al numero di detenuti. Il presidente Rossi era a conoscenza di questi problemi, avendo visitato il carcere di recente, eppure ha fatto finta di nulla. Ma certo anche la posizione di Dellai, che all’epoca sottoscrisse gli accordi e adesso da parlamentare non si oppone a questa imposizione del governo, è del tutto incoerente. Ne diano immediata spiegazione, perché un quadro del genere non è accettabile, non consente al personale di lavorare in sicurezza e ai detenuti scontare la pena in uno spazio vitale umano e dignitoso, come indicato dalla sentenza Torreggiani". Biella: detenuto marocchino sfregia un carcerato italiano di Elena Giacchero newsbiella.it, 29 novembre 2015 Soltanto un paio di settimane fa, un nord africano era stato colpito al volto con una caffettiera, riportando la frattura dello zigomo. La Penitenziaria sta operando per evitare ulteriori ritorsioni. Ancora un’aggressione tra le mura del carcere di Biella, dove un detenuto marocchino, F.M., ha sfregiato un italiano. L’episodio è avvenuto mercoledì 25 novembre, ma è trapelato soltanto dopo tre giorni. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il nord africano si trovava nella stanza dove solitamente i reclusi si recano per il taglio di barba e capelli. Chiesta in prestito una macchinetta elettrica a un altro detenuto, italiano, per portesi radere il cranio, ha ricevuto un perentorio diniego. Ne è scaturito così un violento litigio, che ha portato il marocchino a prendere in mano la lama affilata dell’apparecchio e colpire al volto, sfregiandolo, l’italiano. Adesso l’aggressore è stato denunciato per lesioni aggravate, mentre gli agenti della Polizia penitenziaria stanno cercando di prevenire vendette trasversali. Soltanto un paio di settimane fa, erano stati due detenuti italiani, uno dei quali sarebbe uscito il giorno dopo dalla Casa circondariale, a colpire al volto un magrebino con la macchina del caffè, causandogli la frattura dello zigomo. Il Papa: "Rifugiati test d’umanità". Oggi a Bangui si "apre" il Giubileo di Rita Plantera Il Manifesto, 29 novembre 2015 Ad attendere il papa oggi a Bangui ci sono veicoli corazzati e carri armati francesi e dell’Onu ‚oltre alle migliaia di cattolici del posto e dalla Repubblica Democratica del Congo che hanno attraversato il fiume Ubangi a bordo di piccole imbarcazioni. In sfida aperta e coraggiosa alla minaccia delle milizie locali dei Seleka, degli Anti-Blaka e non c’è da escludere a quella del Lord’s Resistance Army (Lra) che dall’Uganda ha esteso i suoi attacchi in Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana. Da Bangui - prima che da Roma - Francesco aprirà oggi la porta santa per il Giubileo della misericordia, a cui seguirà la visita alla moschea del distretto Pk5, enclave musulmana dove, dopo mesi di relativa calma, sono ricominciati gli scontri tra le milizie a a maggioranza cristiana (Anti-Balaka) e quelle a maggioranza musulmana (Seleka) che secondo Human Rights Watch hanno fatto almeno 100 morti dalla fine di settembre ad oggi. Sono tra i 3.000 e i 4.000 i soldati della missione Onu nella Repubblica Centrafricana (Minusca) schierate per le strade, a cui si aggiungono i 500 poliziotti e gendarmi del governo centrafricano e i 900 soldati allertati della Francia. Mentre al passaggio del pontefice nuovi droni di sorveglianza e palloncini di osservazione voleranno nei cieli sopra Bangui. In un clima fortemente teso, resta forte l’attesa per la visita di un papa che non esita a porsi fuori da ogni protocollo nel portare un messaggio aperto ai bisogni più urgenti delle popolazioni civili soprattutto di quelle ai margini della società. Un’aspettativa in parte disattesa in Uganda, dove se da un lato Francesco non ha mancato di pronunciarsi sui rifugiati dall’altro - ancora mentre scriviamo - non una parola è giunta ai gruppi Lgbt in risposta al loro appello ad essere ricevuti e a quanti tra omosessuali e transgender (costretti alla clandestinità in un Paese conservatore come l’Uganda) gli chiedevano parole di denuncia contro le leggi omofobiche (che prevedono dure pene detentive tra cui il carcere a vita) e le persecuzioni subite in società. Appena atterrato a Entebbe venerdì sera, il papa ha lodato l’Uganda per i suoi sforzi eccezionali verso i migranti: "Qui in Africa orientale, l’Uganda ha dimostrato eccezionale preoccupazione per l’accoglienza dei rifugiati, consentendo loro di ricostruire le loro vite in sicurezza e di percepire la dignità che viene dal guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro onesto". E ancora: "Il nostro mondo, coinvolto in guerre, violenza e varie forme di ingiustizia, è testimone di un movimento senza precedenti dei popoli". Far fronte a questo rappresenta "un test della nostra umanità, del nostro rispetto della dignità umana, e, soprattutto, della nostra solidarietà con i nostri fratelli e sorelle nel bisogno". Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) l’Uganda ospita circa mezzo milione di rifugiati, la maggior parte delle quali fuggite ai conflitti e alle violenze nella vicina Repubblica Democratica del Congo, del Burundi e del Sud Sudan. Parole amplificate in un momento in cui l’Europa stenta a far fronte al più grande afflusso di migranti in fuga dalla Siria e da altre parti del Medio Oriente e dell’Africa. D’altro canto a "politicizzare" ulteriormente il viaggio apostolico del papa in Uganda è stato l’incontro in privato di 15 minuti con il presidente del Sud Sudan - il più giovane stato del mondo resosi indipendente dal Sudan nel 2011 - Salva Kiir giunto a sorpresa nel Paese per incontrare Francesco. Kiir è sotto la pressione della comunità internazionale per porre fine a una guerra civile che ha ucciso più di 10.000 persone, costretto più di 2 milioni di persone a lasciare il paese e ha portato gran parte della popolazione alla fame. Il Sud Sudan è dal dicembre 2013 afflitto dalla guerra civile innescata da una controversia politica tra Salva Kiir e il suo vice Riek Machar. L’invio di truppe ugandesi in sostegno del governo di Giuba, ha rischiato di trasformare la guerra civile in un conflitto regionale. Jihadismo, regimi e zone grigie di Marina Calculli e Francesco Strazzari Il Manifesto, 29 novembre 2015 L’elementare distinzione tra "credo islamico" e "terrorismo islamista" viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica - espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi. Sgonfiatasi la retorica che ha permeato gli attentati di Parigi e i loro decorsi sicuritari, occorre ripensare ad alcuni problemi di messa a fuoco che la narrazione degli eventi ha generato. Non si tratta tanto di far luce sulla diffusione di sentimenti islamofobi. Quello che ci preme analizzare è piuttosto il rapporto tra potere e narrazione mediatica, nel gioco di specchi amplificato dalla forza comunicativa che la violenza terrorista esercita nella società dell’informazione e per cui lo scomparso René Girard avrebbe parlato di crisi mimetica e capro espiatorio. Più precisamente, colpisce il modo in cui la vulgata mediatica esoneri da un rendiconto delle responsabilità politiche gli effettivi detentori di queste ultime - i governanti e le loro alleanze - dirottando i meccanismi di attribuzione della colpa su un credo religioso, un insieme presunto di "valori", una civiltà aliena. Nello spazio comunicativo ci si mette ad incalzare i turbamenti di coscienza dei musulmani, accusati di mimetizzarsi in una zona grigia: uomini e donne rei di non di non dissociarsi da una violenza cui mai si sono associati o persino di non schierarsi con i "coraggiosi leader arabi" impegnati nella guerra al terrore. Curiosamente, questa eloquenza che si accanisce verso il basso, fin sui più vulnerabili (i rifugiati in fuga dai tagliagole), fa da contraltare all’afasia nell’incalzare l’altra zona grigia, quella costituita delle linee di alleanza e intervento dei governi occidentali nella regione di guerra. Così l’elementare distinzione tra "credo islamico" e "terrorismo islamista" viene quasi criminalizzata. Eppure l’islamismo radicale e il suo sviluppo in reti transnazionali del terrore ha una precisa origine socio-politica - espressione di dissidenza violenta all’interno di società arabe e musulmane in opposizione a governi repressivi. A ben guardare, repressione di stato e islamismo radicale rappresentano due facce della stessa medaglia, lungo una traiettoria che dagli anni 50-60 fino ad oggi ha permesso a quei regimi di disintegrare il carattere pluralistico delle società (ben più articolato negli anni 40 e 50) attraverso il monopolio di partiti nazionalisti e la soppressione di tutte le forme di dissenso: la sinistra, i liberali, l’Islam politico. È in questo solco che l’islamismo radicale si afferma e poi prolifera in organizzazioni violente fino alla creazione di al-Qaeda negli anni 90: l’obiettivo rimane la creazione di un contropotere che vendichi le società mediorientali colpendone i brutali governanti. Eppure, contrariamente al comune sentire, i network jihadisti faticano a mobilitare una forte base sociale, marchio - anzi - della loro debolezza. Persino l’ossessione anti-occidentale che oggi pervade il verbo jihadista nasce e si sviluppa come conseguenza dell’appoggio dell’Occidente ai regimi repressivi. È infatti solo con l’11 settembre 2001 che si rompe una tradizione di terrorismo introspettivo, essenzialmente volto a modificare le società musulmane piuttosto che attaccare direttamente l’Occidente. Ma, divenuta globale, la cosiddetta minaccia islamista fornisce un ulteriore pretesto ai tradizionali regimi autoritari per attrarre aiuti finanziari e militari da parte degli alleati-patroni occidentali, già compratori di risorse naturali ed esportatori di armamenti, in nome di una più efficace collaborazione nella guerra al terrore: di fatto una più disinvolta repressione del dissenso politico, di cui l’islamismo radicale rappresenta solo una parte. Ne deriva un paradosso che alimenta tanto il potere quanto il contropotere: più efficiente e brutale si fa la macchina della repressione, più nelle carceri avvampa il fuoco della ‘vendetta sacrà, più cresce il numero dei convertiti. Questo circolo vizioso non si spezza neanche con le rivolte arabe del 2011: dopo una breve finestra di esitazione nel sostegno incondizionato ai regimi autoritari, la logica di potenza si ricolloca nel solco della non-interferenza. Dai reami del Golfo fino all’Egitto di al-Sisi, è tutto un fiorire di relazioni commerciali e partite strategiche, mentre gli attivisti spariscono, i "nemici dello stato" mandati a morte, i dissidenti esibiti impiccati agli elicotteri. C’è poi una più recente congiuntura che marca l’ultima evoluzione del jihadismo, accompagnandola fino alla nascita del sedicente Stato Islamico (SI): la guerra in Iraq, la repressione nei campi di detenzione statunitense, la distruzione del tessuto sociale iracheno su cui gli attuali vertici dello SI, sopravvissuti alla surge statunitense, riescono nel loro progetto di potere: riconquistare il favore dei notabili sunniti che avevano loro voltato le spalle, ma che, opportunamente pasciuti, vengono messi a fronteggiare un potere centrale percepito come sempre più ostile. Avviene così la transizione da un network impalpabile ad un esercizio di sovranità su un territorio. Oggi sono trentamila i combattenti accorsi a prestare lealtà ad al-Baghdadi: un numero impressionante in termini assoluti, ma esiguo in termini relativi, se si vuole misurare l’effettivo potere militare del Califfato come minaccia globale. Se poi si indaga sul suo potere di attrazione politica, occorre ricordare la lunga pletora di episodi di micro-resistenza al potere islamista nella zona nord e centro-orientale della Siria (non quella delle milizie armate dai governi occidentali, né delle milizie sciite finanziate dall’Iran), passata del tutto inosservata alla stampa occidentale. Senza dimenticare che il regime siriano, nelle due amnistie proclamate da Bashar al-Asad, ha aperto le celle di centinaia di jihadisti, immediatamente accorsi a rimpolpare i ranghi dello SI. Mentre nelle prigioni di Asad continuano ad essere torturati gli intellettuali e i dissidenti laici, l’obiettivo malcelato del regime siriano in lotta per la sua stessa sopravvivenza, è quello di (ri)produrre una vecchia dicotomia concettuale indirizzata all’Occidente che guarda al mondo arabo dopo la sua effimera primavera: la convinzione spuria per cui il Medio Oriente sia in grado di produrre regimi autoritari garanti dell’ordine o poteri islamisti e retrogradi. Nella speranza, ovviamente, che le cancellerie occidentali ritornino a guardare a Damasco come guardano oggi al Cairo del generale al-Sisi: un luogo di potere utile a garantire la loro sicurezza. Le società europee ferite dalla strage di Parigi e impossibilitate, nello stato d’emergenza, ad articolare risposte politiche collettive, si chiudono in casa a guardare grottesche trasmissioni in cui ci si domanda ossessivamente se esista un Islam moderato e cosa si celi nelle menti dei musulmani europei. Resta, cioè, rimossa la reale questione: quel nesso intimo tra regimi repressivi e proliferazione del terrorismo stesso. Fuori dai riflettori giacciono le molte analisi che tracciano il filo tra la deriva carceraria e l’esplosione del fenomeno SI. Fuori da ogni cono di luce mediatico muoiono le attese tradite di un’intera generazione di attivisti laici. Eppure nel Cairo del generalissimo al-Sisi saltare in aria per un attacco kamikaze preoccupa forse meno che essere prelevati a forza di notte da incappucciati per essere fagocitati da una cella. Se il legame fra autoritarismo e terrorismo islamista fosse davvero esplorato, dovremmo forse ammettere quanto inutile sia affrontare l’uno senza l’altro: una mossa evidentemente troppo costosa in termini economici e strategici. Di certo più costosa che andare a bombardare il Califfato e le popolazioni da esso assoggettate - le stesse che hanno cercato di resistere a Bashar al-Asad, allo Stato Islamico, alle nostre bombe e ai nostri fili spinati. Turchia: avvocato assassinato a sangue freddo di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 29 novembre 2015 Ucciso per strada Tahir Elci, l’avvocato che voleva la pace tra kurdi e turchi. Aveva negato che il Pkk fosse un gruppo terroristico. Scontri a Diyarbakir e Istanbul. "Non vogliamo armi né guerra", queste sono state le ultime parole di Tahir Elci, 49 anni, capo dell’Ordine degli avvocati di Diyarbakir, ucciso da uomini armati ai margini di un flash mob nel centro storico della città di Sur. Nello scontro a fuoco, anche un poliziotto ha perso la vita, un altro è rimasto ferito, insieme a un giornalista. Un video mostra uomini che sparano contro un poliziotto dall’interno della loro vettura. In seguito, si vedono varie persone fuggire dalla macchina nelle strade limitrofe. Nonostante sia stato imposto immediatamente il coprifuoco a Diyarbakir, sono in corso manifestazioni e scontri con la polizia. Si è trattato di un assassinio a sangue freddo, in un luogo pubblico, dopo una manifestazione in difesa dei diritti dei kurdi e per denunciare lo stato di assedio della città di Sur, guidata da un uomo che ha sostenuto l’ingiustizia che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sia nella lista dei gruppi terroristici. Per Elci, il Pkk è semplicemente un’"organizzazione politica armata" molto popolare. Ha ripetuto le sue opinioni lo scorso ottobre dagli schermi della televisione Cnn Turk. Dopo quell’intervista, i giudici della Corte di Bakirkoy avevano citato in giudizio Elci per le sue dichiarazioni. L’avvocato avrebbe potuto ricevere una condanna fino a sette anni e sei mesi di prigione con le accuse di "propaganda a favore di un’organizzazione terroristica". Per questo, Elci era stato fermato e poi rilasciato lo scorso 19 ottobre. Al momento del rilascio, aveva ripetuto la legittimità delle sue parole, aggiungendo che "in nessun modo la verità può costituire reato". In Turchia si vive un clima di strategia della tensione tra attacchi terroristici dello Stato islamico (Is) e dei gruppi di estrema sinistra, esacerbati dalle accuse mosse al governo di non aver in nessun modo aiutato i kurdi siriani, colpiti dall’assedio di Is. Al contrario, le autorità turche hanno lasciato fare i jihadisti in funzione anti-Assad. Quando poi il partito della sinistra filo-kurda (Hdp) ha ottenuto l’importante successo elettorale del 4 giugno scorso, entrando in parlamento, Ankara ha avviato una campagna apparentemente anti-Is che aveva come vero obiettivo il Pkk. Tutto questo per motivare i nazionalisti kurdi e turchi a dare nuovo credito al neo-kemalismo del partito islamista moderato. Dopo la vittoria del primo novembre, Erdogan ha carta bianca per continuare la repressione dei movimenti kurdi. Vige da oltre dieci giorni il coprifuoco nelle principali province kurde e sono 30 i morti in sparatorie tra cittadini comuni e forze di polizia. "Su questo incidente verrà fatta luce", ha assicurato il premier turco. Ahmet Davutoglu ha ammesso che Elci fosse l’obiettivo degli assalitori. A Istanbul è stata organizzata una manifestazione per condannare l’omicidio. Anche il presidente Erdogan ha condannato l’attacco e assicurato che si andrà avanti con la lotta al terrorismo, che per lui significa repressione dei movimenti kurdi. In città si teneva parallelamente una manifestazione lungo viale Istiklal a sostegno della libertà di stampa in seguito agli arresti con le accuse di "spionaggio" del direttore, Can Dundar, e il capo-redattore di Ankara, Erdem Gul, del quotidiano di opposizione Cumhuriyet. Il giornale aveva pubblicato le prove dei legami tra Servizi segreti turchi (Mit) e jihadisti di Is. I giornalisti dal carcere hanno chiesto all’Unione europea di non accettare compromessi con Ankara in occasione del rilancio dei negoziati sull’ingresso della Turchia in corso oggi a Bruxelles. Un terzo giornalista è stato arrestato ieri, si tratta di Ertugul Ozkok di Hurriyet. Nel suo caso l’accusa è di insulti al presidente Erdogan. La polizia ha disperso i manifestanti. Il clima tra Turchia e Russia resta teso poi a causa dell’abbattimento dello scorso martedì del Sukhoi russo Su-24 al confine tra Turchia e Siria. Mosca ha deciso una serie di sanzioni commerciali contro Ankara come avvertimento per prevenire futuri abbattimenti di jet russi impegnati nei raid in Siria. Per discutere della crisi politica e diplomatica, Erdogan e Putin potrebbero incontrarsi a margine della Conferenza sul clima in corso a Parigi. Il presidente russo aveva più volte evitato colloqui con il presidente turco in attesa di scuse ufficiali. Ieri sono in parte arrivate perché Erdogan, in riferimento all’attacco, ha detto: "Vorremmo che non fosse successo. Spero che una cosa del genere non accada più". Eppure il presidente turco ha aggiunto che "non è possibile considerare violazioni alla stregua di visite di ospiti". Le autorità russe hanno ritenuto plausibile che l’attacco avesse lo scopo di spingere la Nato, di cui la Turchia è stato membro, ad imporre una no-fly zone nel Kurdistan siriano per rafforzare il controllo turco nella regione, gestita dai kurdi del Partito democratico unito (Pyd). L’Ue non chiuda gli occhi sulle violazioni della libertà di stampa in Turchia di Alberto Custodero La Repubblica, 29 novembre 2015 I due giornalisti arrestati: "Il dramma dei migranti non pregiudichi il nostro impegno per i diritti umani". La "preoccupazione" di Federica Mogherini e le dure critiche del Consiglio d’Europa. E Borghezio, della Lega, attacca Erdogan. Una lettera aperta ai leader Ue per chiedere di non chiudere gli occhi sulle "pratiche che violano i diritti umani e la libertà di stampa" della Turchia in cambio di un accordo sulla crisi migratoria. A inviarla dal carcere di Silivri, a Istanbul, dove vengono detenuti da giovedì sera, sono il direttore Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, quotidiano di opposizione. Il testo della lettera. "La volontà di risolvere la crisi dei migranti non pregiudichi il vostro impegno per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione, che sono valori fondamentali del mondo occidentale". "In quanto giornalisti noi crediamo che la Turchia faccia parte della famiglia europea e che dovrebbe essere un membro dell’Unione. La libertà di pensiero e di espressione sono valori imprescindibili della nostra civiltà. Noi siamo stati arrestati e detenuti in attesa di giudizio per aver esercitato queste libertà e per aver difeso il diritto dei cittadini a essere informati". "Il premier turco, che voi incontrerete questo fine settimana, e il regime che rappresenta sono noti per le loro politiche e pratiche che ignorano completamente la libertà di stampa e i diritti umani. I vostri governi stanno negoziando con Ankara sulla crisi dei migranti, una crisi che preoccupa e spezza il cuore a tutti. Ci auguriamo veramente che questo vertice porti a una soluzione duratura per questo problema. Ma auspichiamo anche che la vostra volontà di mettere fine alla crisi non pregiudichi il vostro impegno per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione, che sono valori fondamentali del mondo occidentale". "Ricordiamo che i nostri valori condivisi possono essere protetti solo facendo fronte comune e con la solidarietà, e questa solidarietà è oggi più importante e urgente che mai", hanno concluso. L’arresto. La cattura dei due giornalisti è avvenuta giovedì, con la minaccia di pene pesantissime per divulgazione di segreto di stato. I due giornalisti avevano indagato sul presunto coinvolgimento dell’intelligence di Ankara in un traffico di armi con i ribelli turcomanni anti Assad in Siria. La preoccupazione di Lady Pesc. "È, questo, un ulteriore elemento di preoccupazione per gli europei", ha detto la portavoce dell’alto rappresentante per la politica estera comune, Federica Mogherini, che ha ricordato "l’importanza fondamentale della libertà d’espressione" per l’Ue. L’episodio è stato anche aspramente criticato dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. La lega attacca Erdogan. Il primo commento politico in Italia arriva dalla Lega, attraverso l’europarlamentare Mario Borghezio: "Personalmente - ha dichiarato Borghezio - ho denunciato più volte con interrogazioni la violazione della libertà di stampa in Turchia. Prendo atto, però, che fino a ora l’Ue ha fatto orecchie da mercante. La necessità di tenersi buona la Turchia affinché non faccia entrare nel territorio europeo un eccessivo numero di rifugiati non deve impedirci di prendere una posizione chiara. "Se ci mettiamo in queste mani - sottolinea l’europarlamentare leghista - siamo fregati: non possiamo affrontare l’immigrazione consentendo a un satrapo islamista come Erdogan di ricattarci. Sarebbe una posizione suicida". Il precedente. Dopo aver oscurato i suoi due canali, Bugun tv e Kanalturk, ostili a Erdogan, il 29 ottobre scorso gli amministratori nominati dal tribunale che hanno assunto la gestione del gruppo editoriale turco Ipek hanno bloccato anche la pubblicazione dei due quotidiani controllati, Bugun e Millet. Vietato manifestare a Parigi, ecologisti nel mirino di Francesco Ditaranto Il Manifesto, 29 novembre 2015 Parigi. Particolarmente colpiti dai provvedimenti restrittivi, sono i cosiddetti zadisti (il nome deriva dall’acronimo Zad, in italiano zona da difendere) di Notre Dame de Lande, che occupano da anni l’area dove dovrebbe sorgere il nuovo aeroporto internazionale di Nantes. A poche ore dall’inizio della Cop21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la stretta del governo francese sulla libertà di movimento e manifestazione si fa pesante. A farne le spese, alcune decine di militanti ecologisti o d’estrema sinistra che si sono visti notificare l’obbligo di dimora nei loro comuni di residenza. L’obiettivo dell’esecutivo è chiaro: impedire contestazioni pubbliche alla Conferenza, rendendo impossibile agli attivisti avvicinarsi alla capitale, anche in virtù dello stato d’emergenza che vieta ogni tipo di manifestazione. Particolarmente colpiti dai provvedimenti restrittivi, sono i cosiddetti zadisti (il nome deriva dall’acronimo Zad, in italiano zona da difendere) di Notre Dame de Lande, che occupano da anni l’area dove dovrebbe sorgere il nuovo aeroporto internazionale di Nantes. Quella zadista è una galassia composita, che va dai militanti ecologisti agli anarchici, fino a semplici agricoltori della zona contrari al progetto del mega-aeroporto. Ed è proprio a causa del sostegno agli oppositori del progetto dell’aeroporto e, più in generale, del suo impegno ecologista, che l’avvocato Joël Domenjoud, membro del team legale della Coalizione Climat, un rassemblement di 130 ong ambientaliste critiche rispetto alla Cop 21, si è visto notificare l’obbligo di dimora fino al 12 dicembre, quando la conferenza internazionale sarà conclusa. Il legale, convocato al commissariato di polizia giovedì mattina per la comunicazione del provvedimento, non potrà lasciare il suo domicilio dalle 20 alle 6 e dovrà recarsi al posto di polizia tre volte al giorno per la firma di rito. Dello stesso tenore i provvedimenti emessi contro sei militanti ecologisti e d’estrema sinistra di Rennes, nel nord del paese e a un centinaio di chilometri da Nantes. Fonti vicine agli attivisti riferiscono in particolare che a uno dei sei sarebbe stata contestata la partecipazione a scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione a Nantes, per la quale, però, non è mai stato indagato. Il collegamento, anche in questo caso, sarebbe il sostegno alla lotta contro l’aeroporto. Secondo il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve, la ragione di queste restrizioni della libertà personale sono da rintracciare nella minaccia potenziale per l’ordine pubblico rappresentata da persone sospettate di appartenere a movimenti radicali. Il ministro ha rivendicato la giustezza di queste misure. Lo stato d’emergenza, nel quale la Francia vivrà almeno per tre mesi, autorizza provvedimenti del genere, senza l’avallo di un giudice. Non mancano però le proteste ufficiali davanti a quella che sembra una proiezione reale delle ipotesi di deroga alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, paventate proprio dal governo francese in una lettera al Consiglio d’Europa. Per Emmanuelle Cosse, segretaria di Europa Ecologia- I Verdi, "non è ammissibile che gli ambientalisti diventino degli obiettivi". La stessa presa di posizione è arrivata da Greenpeace Francia, mentre secondo Stephan Oberreit, direttore della sezione francese di Amnesty International, "il sistematico divieto di tutte le manifestazioni che abbiano un legame con la Cop 21, toglie un mezzo d’espressione fondamentale a tutte le voci critiche". Ancora più dura è la presidente della Lega dei Diritti dell’Uomo, Françoise Dumont, che ha espresso profonda contrarietà alla costituzione di uno stato d’emergenza perenne. Nel frattempo, nel pomeriggio di ieri circa 400 zadisti sono arrivati alle porte di Parigi, nei pressi della reggia di Versailles, per dimostrare contro la conferenza delle Nazioni Unite, definita una messa in scena. Si moltiplicano, infine, come rilevato ormai anche dai maggiori quotidiani nazionali, le segnalazioni di perquisizioni mal calibrate, improvvisate o eccessivamente dure, da parte delle forze dell’ordine. L’allarme di Touraine "Difendersi è giusto ma salviamo le libertà" di Fabio Gambaro La Repubblica, 29 novembre 2015 Intervista al sociologo francese Alain Touraine, 90 anni, uno dei più autorevoli intellettuali europei. "La Francia non deve diventare Guantanamo". Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. "Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia", ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro, Nous, sujets humains (Fayard). "Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guantanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili". Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani… "È certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici". Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi? "La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi". Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. È importante anche per lei? "In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi". Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza? "L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico". A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. È la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra? "Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica". Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. È preoccupato? "Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto". Guatemala: la Corte costituzionale conferma la condanna a 8 anni per Samuele Corbetta di Gloria Crippa casateonline.it, 29 novembre 2015 Le speranze per Samuele Corbetta, il volontario sirtorese detenuto in Guatemala dall’estate 2013 - quando è stato condannato alla pena di otto anni per il reato di tentata violenza sessuale nei confronti di una bambina - si sono spente nelle ore scorse. Proprio ieri ai familiari è infatti giunta la notizia della sentenza emessa dalla Corte Costituzionale, che ha confermato la condanna inflitta al giovane sin dal primo grado di giudizio. Una decisione attesa con trepidazione da un anno e mezzo, arrivata in queste ore con mesi di ritardo rispetto a quanto ipotizzato inizialmente, a causa di problematiche politico-giudiziarie interne al paese sudamericano, che hanno allungato non poco i tempi previsti. Se il verdetto è finalmente arrivato, c’è da dire che non è stato per nulla favorevole al volontario sirtorese, che in questi anni ha sempre ribadito la propria estraneità ai fatti contestatigli, proclamandosi innocente. La Suprema corte ha infatti bocciato la sentenza della Cassazione che lo scorso anno aveva annullato la condanna a otto anni di carcere irrogata nei confronti del sirtorese, accogliendo di fatto il ricorso da parte dell’accusa. Alla sua scarcerazione, disposta nell’autunno 2014 dall’organismo giudicante - che aveva previsto per il giovane la libertà vigilata in attesa della ridefinizione della sua posizione - si era però opposta la controparte, sostenuta dall’associazione Sobravivientes. "Gli otto anni purtroppo sono stati confermati: ormai è tutto deciso, bisogna soltanto attendere che la pena diventi definitiva, passaggio previsto tra un mese" ci ha spiegato Emiliana Colombo, la mamma del giovane volontario. "L’iter giudiziario è concluso. A questo punto prima di poter agire in qualche modo è necessario attendere che Samuele trascorra almeno quattro anni in carcere prima di presentare eventualmente una richiesta di riduzione della pena attraverso i nostri legali. L’unica speranza è che l’Italia e il Guatemala stipulino un trattato bilaterale affinché nostro figlio possa almeno scontare la pena nel nostro paese. Al momento però, su questo aspetto non ci sono novità". L’ufficialità alla notizia della condanna è arrivata alla famiglia Corbetta ieri pomeriggio, attraverso una comunicazione della Farnesina. Già nei giorni scorsi però, i sirtoresi erano stati contattati via email dall’ambasciatore e dai legali del figlio, che avevano anticipato l’importante comunicazione. "I messaggi erano scritti in spagnolo e non riuscivamo ad interpretarli perfettamente, così ci siamo messi in contatto con l’onorevole Veronica Tentori che in questi mesi ha seguito il nostro caso. Ieri la Farnesina ci ha chiamati, confermando i nostro timori" ha aggiunto la mamma di Samuele. Ora non resta che attendere le motivazioni della sentenza, anche se l’esito della vicenda risulta ormai incontrovertibile. "Ci avevano dato delle speranze, ma sapevamo che difficilmente la Suprema Corte avrebbe ribaltato le prime sentenze" ha concluso Emiliana Colombo che il prossimo 13 dicembre insieme al marito Roberto partirà alla volta del Guatemala in vista anche delle festività natalizie. Sarà l’occasione per dare sostegno e vicinanza a Samuele in questo momento difficile. Maldive: polizia reprime protesta opposizione per scarcerazione ex presidente Nasheed Ansa, 29 novembre 2015 Per il secondo giorno la polizia è intervenuta in forze oggi a Malé per reprimere una manifestazione del Partito democratico delle Maldive (Mdp, opposizione) organizzata per chiedere la scarcerazione dell’ex presidente Mohamed Nasheed e di tutti i "prigionieri politici". Come avvenuto già ieri, i militanti del Mdp si sono concentrati sulla spiaggia artificiale della capitale, ma quando è apparso chiaro che gli organizzatori stavano per organizzare una marcia di protesta, reparti speciali sono intervenuti utilizzando gas lacrimogeni e sfollagente. Al termine degli scontri che hanno causato vari feriti e 13 arresti, riferisce nella sua pagina online il quotidiano Maldives Independent, il Mdp ha diffuso un comunicato di condanna dell’operato della polizia. "Il Mdp - si dice - condanna categoricamente l’interruzione illegale di pacifiche manifestazioni, la persecuzione dei partecipanti ad esse e l’uso eccessivo della forza" con "un comportamento non professionale e violento che dimostra come la loro indipendenza operativa sia direttamente compromessa dagli obiettivi politici del governo". Il portavoce del Mdp, Imthiyaz Fahmy, ha assicurato che la protesta continuerà anche domani d’accordo con l’ultimatum di 73 ore e 13 minuti entro cui il presidente Yameen Abdul Gayoom dovrà rispondere alle richieste formulate. Esse riguardano la scarcerazione dell’ex capo dello Stato, conosciuto anche come il Mandela delle Maldive, che è stato condannato in marzo a 13 anni di carcere per l’arresto di un giudice nel 2012 in base ad una legge antiterrorismo. Venezuela: Suor Neyda, missionaria in una delle prigioni più violente del mondo easynewsweb.com, 29 novembre 2015 Il carcere venezuelano di Guarico, a due ore di macchina dalla capitale Caracas, è solitamente descritto come "l’inferno in terra". È una terra di nessuno dove domina la violenza, popolato da oltre 3.000 detenuti, anche se la capienza massima è di 750 prigionieri. Le guardie lasciano campo libero ai prigionieri, che dispongono di armi e fanno rispettare a modo loro le regole. Questo "inferno" però è anche terra di missione, almeno per suor Neyda Rojas. La religiosa cattolica dell’ordine di Santa Maria della Mercede ha 52 anni e visita il carcere da più di 17. Ai detenuti insegna a leggere e scrivere, "così possono sapere che cosa c’è scritto sui documenti ufficiali dei loro processi", e parla dell’amore che Dio ha anche per loro. La Bbc l’ha seguita un giorno nel carcere e racconta di come suor Neyda cammini tranquilla tra le celle senza aver paura. "Sono sicura che non mi sparerebbero mai", spiega. "Dio è con me. Non mi farebbero mai del male. Anzi, mi proteggono. Questa gente ha perso la libertà, ma non la dignità. Sono sempre figli di Dio e il mio compito è quello di servirli in prigione". Nel carcere è soprannominata "la goccia bianca", per via della veste candida, e le guardie armate vedendola entrare la chiamano così rispondendo alla sua benedizione: "Amen, sorella". Tra le celle, la suora viene apostrofata senza troppe gentilezze: "Tirati su la sottana!". Lei non si scompone e risponde: "Vieni a spendere un bel pomeriggio con me. Ti aspetto in classe". La giornalista si spaventa quando in carcere cominciano a sentirsi spari indiscriminati, ma suor Neyda la rassicura: "Non ti preoccupare, stanno solo testando le loro armi. Va tutto bene". La religiosa procura medicine ai malati, cerca di intercedere con le autorità per quelli che sono in condizioni più gravi e ha anche svolto il lavoro dell’ostetrica aiutando una detenuta dell’ala femminile a partorire. Un carcerato vedendola passare la ringrazia: "Suor Neyda mi ha allargato il cuore, ci dà lezioni di spiritualità e umanità". In un luogo dove regnano solo crimine e violenza, lei tratta i detenuti in modo diverso: "Molti di loro sono stati abbandonati. Ma hanno noi missionarie. Io ho sempre visto il volto di Dio nelle loro facce".