Giustizia: Orlando "più controlli per difendere la libertà, ma non sarà Stato di Polizia" intervista a cura di Liana Milella La Repubblica, 28 novembre 2015 La privacy è a rischio? "Non certo per le nostre misure". Tutti gli italiani saranno sotto controllo? "Assolutamente no, cerchiamo però di mettere sotto controllo tutti i terroristi e i loro fiancheggiatori". Il Pd dimentica i diritti e diventa forcaiolo? "Il Pd vuole battere il terrorismo, perché il terrorismo cancella i diritti, ma vuol farlo, scusi il gioco di parole, con gli strumenti dello stato di diritto facendo crescere le periferie dove si sono sviluppati i bacilli dell’odio". Firmerà una nuova legge sulle intercettazioni? "No". A Repubblica risponde così il Guardasigilli Andrea Orlando. Ministro che succede? Dalla paura "politica" delle intercettazioni si passa alla voglia di intercettare tutto e tutti? "Non è affatto così. Non abbiamo deciso di intercettare tutto e tutti. I magistrati che hanno partecipato al vertice di giovedì sera, hanno segnalato il rischio che gli strumenti di captazione oggi disponibili non siano aggiornati alle innovazioni tecnologiche utilizzate dalle reti criminali. Non si tratta di introdurre norme nuove. Le intercettazioni telematiche sono già previste e devono essere disposte sulla base della decisione di un giudice, come quelle telefoniche. Ma costruire strumenti più pervasivi e più efficienti, in grado di catturare molte più comunicazioni, pone il problema del loro corretto utilizzo, dell’accesso ad esse e del rischio di usi impropri. Quindi bisogna rafforzare le garanzie". Scusi, ma quello che dice suona contraddittorio. Perché se si intercetta tutto, pure la playstation, si fruga per forza nella privacy di ciascuno. "È la stessa questione delle intercettazioni telefoniche. Che consentono obiettivamente di invadere la privacy degli individui. Il nostro ordinamento prevede già che vi siano dei rigidi presupposti per disporre qualsiasi tipo di intercettazione. È il problema che vogliamo affrontare con la delega contenuta nel ddl penale, evitare che le notizie non rilevanti penalmente vengano indebitamente diffuse. È evidente però che in una fase di più alto rischio per la sicurezza vi sia anche quello di maggiori limitazioni della libertà individuale. Può essere evitato soltanto rafforzando contestualmente le garanzie dell’individuo e giurisdizionalizzando quanto più possibile l’attività repressiva. Peccato, in proposito, che la procura europea resti al palo. A fronte di attività di polizia più pervasive sarebbe importante poter dire anche "c’è un giudice a Bruxelles". Non è che state approfittando della minaccia terroristica per accelerare il bavaglio sulle intercettazioni? "In decine di occasioni ho chiarito che non ci sarà nessun bavaglio, né ci saranno restrizioni all’utilizzo delle intercettazioni come strumento di indagine. Ma vogliamo raggiungere l’obiettivo che suggerisce Michael Walzer, mentre si realizza un potenziamento delle capacità repressive d’indagine, evitare qualunque uso improprio di questi poteri". Dopo la sua conferenza stampa il Garante Soro è saltato sulla sedia gridando alla Costituzione violata... "Soro ha detto giustamente quello che penso anche io. A fronte di sistemi di controllo più intensi serve più attenzione al rispetto della privacy. È esattamente quello che stiamo cercando di fare con la legge sulle intercettazioni. Dopo di che forse il messaggio è stato frainteso. I magistrati non hanno reclamato nuove norme, ma software nuovi per muoversi con tecnologie più adeguate. Nessuno ha chiesto poteri speciali. Le regole restano quelle esistenti sul potere di intercettare, il problema è avere mezzi migliori per farlo". Però è un fatto che volete controllare ogni forma di comunicazione possibile, da whatsapp alle playstation... "Detta così suona inquietante, è come se si dicesse che i magistrati vogliono controllare tutto il traffico telefonico nazionale. Non è così. Se c’è un sospetto terrorista, e solo quello, i pm chiederanno di controllare la sua utenza telefonica e tutti gli strumenti di comunicazione di cui può disporre". Non è forse il controllo totale? "Assolutamente no. L’Italia sarà equilibrata e lungimirante. I terroristi vogliono mettere in crisi il nostro sistema di diritti, le nostre libertà. Andare verso una chiusura poliziesca segnerebbe la prima vittoria dell’Isis. Si può tutelare la sicurezza e rafforzare lo stato di diritto". Lei è un Guardasigilli del Pd, per giunta della sinistra Dem, con un passato tutto "comunista". Non vede una sinistra che rischia di assomigliare alla Lega se pretende di entrare nella vita di tutti noi? "Non mi pare proprio. Si figuri che dall’incontro con i vertici dell’antiterrorismo l’unica proposta normativa riguarda l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Il Pci è stato la forza che s’è battuta con convinzione contro il terrorismo, consapevole che il vero obiettivo di tutti i terrorismi è la democrazia. La sua destabilizzazione apre sempre la porta a involuzioni autoritarie. Per questo il terrorismo va battuto affermando i valori della democrazia e dello stato di diritto e respingendo qualunque tipo di strumentalizzazione della paura. Chi associa il terrorismo all’Islam o ai fenomeni migratori fa solo un favore ai terroristi. Così come chi propone di rinchiudersi nella dimensione nazionale. Chi specula sulla paura fa ciò che vogliono i terroristi, avere città più buie, più silenziose, più tristi, più simili a quelle che loro controllano direttamente". Giustizia: ecco il piano sicurezza dell’Ue "web sotto controllo e passeggeri schedati" di Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 28 novembre 2015 Per fermare la propaganda del terrore sui social arriva un vero e proprio team per la "contro-narrazione". Censiti ingressi e uscite dall’Ue per bloccare i "foreign fighters". Monitorato internet. I contenuti web verranno controllati periodicamente e quelli ritenuti più pericolosi saranno censurati o rimossi. Le chat, anche quelle sulle "piattaforme non convenzionali" come le console per videogiochi, saranno accessibili agli investigatori. Tutti i passeggeri dei voli verranno schedati, e i loro dati saranno conservati e resteranno a disposizione delle forze dell’ordine. Insomma, la nostra vita di europei, dopo i fatti tragici del 13 novembre, è destinata a cambiare per sempre. In queste ore a Bruxelles si sta decidendo come e quanto. Un piano operativo articolato in cinque cruciali punti, è al centro di un dibattito serrato e urgente in corso all’interno del Coreper Giustizia e Affari Interni, ovvero l’organismo che riunisce settimanalmente i rappresentanti permanenti degli stati membri presso la Ue; e, soprattutto, all’interno del Psc, il Comitato politico e di sicurezza, il gruppo tecnico "di alto livello" specializzato in tema di politica estera e difesa. L’obiettivo è approvare i primi punti - gestione dati dei passeggeri e controllo del web - entro la fine dell’anno, e non andare oltre i primi mesi del 2016 per il resto. "Contro-propaganda europea" - Internet, come dimostrano gli attentati di Parigi e prima di Charlie Hebdo, è il principale strumento di reclutamento. Per questo gli esperti Ue stanno studiando un protocollo anti-radicalizzazione, l’European Union IT form, del quale il prossimo 3 dicembre si discuterà diffusamente in un incontro tra i ministri degli Interni Ue e i giganti del web (Twitter, Facebook, Microsoft, Apple, Archive.org) che dovrebbe portare alla costituzione della Piattaforma centrale europea. La principale novità si chiama Iru, l’Internet Referral Unit. "In rete - è scritto in un documento Ue preparatorio agli incontri - ci sono 46mila account twitter che vengono usati dai sostenitori dell’Isis dai quali quotidianamente vengono diffusi almeno 90mila tra tweet e interventi su altre piattaforme. È richiesto agli stati membri di condividere le risorse e di escogitare una strategia comune". Anche per questo è nato lo Sscat, Sirian strategic community advisor team, una squadra internazionale incaricata di organizzare la contro-narrazione online della jhiad. Verranno scelte le piattaforme, individuati gli account e create delle autentiche campagne di comunicazione dedicate. Con l’industria del web, il 3 dicembre si discuterà anche di come, all’occorrenza, permettere alle forze di polizia, di controllare le comunicazioni su quelle piattaforme fino ad oggi considerate criptate, o comunque difficili da intercettare. Il Pnr - Tutti i dati raccolti via web verranno poi "stoccati" nelle banche dati presso il Counter Terrorism Center, all’Aia. In quei server dovrebbero finire anche i dati ricavati dal Pnr (il Passenger name record), ovvero il codice numerico che viene associato ad ogni viaggiatore che acquisti un biglietto aereo e che contiene tutti i dettagli, anche personali, del viaggio. Oggetto da anni di una lunga polemica sulla tutela della privacy, ora dovrebbe sbloccarsi. Restano da limare alcuni termini della questione: 1) Quali voli dovrebbero essere tracciati: tutti gli europei o solo gli intercontinentali e comunque non i charter?; 2) per quanto tempo dovranno essere conservati i dati: trenta giorni come chiede il parlamento o 4 anni come chiede la commissione?; 3) quali reati ipotizzati possono permettere alle polizie di accedere alle banche dati: solo il terrorismo o anche altro? Un compromesso probabile dovrebbe essere un pnr esteso a tutti i voli europei, interni ed esterni, i cui dati associati verranno conservati per un anno in chiaro e per quattro anni criptati nei server dell’Europol che li potrà utilizzare per il terrorismo e per un elenco di reati ritenuti "gravissimi". I controlli incrociati - Il Counter Terrorism Center dell’Aia dovrebbe avere un ruolo di primo piano anche per quanto riguarda l’altro elemento che ha facilitato l’attacco di Parigi, quello della comunicazione di informazioni rilevanti tra le intelligence degli Stati membri. Dal 1 gennaio il Center monitorerà i "travellers", cioè tutti quelli che si muovono dall’interno all’esterno dell’Europa. È una misura specifica contro i foreign fighters. Saranno raccolti in tempo reale i dati di chi entra e chi esce, poi con un software verranno fatti i controlli incrociati tra le varie banche dati delle polizie nazionali: per cui di un soggetto che entra in Grecia, per esempio, si riuscirà a capire se ha precedenti in Belgio o se è parente di qualcuno che è stato in Siria o sospettato di essere un terrorista. Armi e misure patrimoniali - Ulteriori due misure riguardano il traffico di armi: la proposta è di una procedura unica a tutti i paesi per la disattivazione delle armi da fuoco. E la possibilità, come decise l’Onu dopo l’11 settembre, di congelare i beni dei terroristi applicando un protocollo simile alle misure di prevenzione mafiose. Giustizia: Parigi all’Europa "stop alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo" di Anais Ginori La Repubblica, 28 novembre 2015 Dopo le stragi dell’Is possibili arresti e perquisizioni senza il sì del pm e limiti alla libertà di manifestare. Con una lettera di poche righe, la Francia ha comunicato al Consiglio d’Europa che derogherà alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. È un passaggio formale, ma che segnala la volontà politica del governo di Parigi di sfruttare al massimo lo stato di emergenza, dichiarato la notte del 13 novembre e che consente in particolare di fare perquisizioni e decidere arresti domiciliari senza l’autorizzazione dei magistrati, limitando anche il diritto a manifestare. È l’ennesimo segnale che il paese si muove su un crinale sempre più stretto tra lotta al terrorismo e il rispetto delle libertà. Negli ultimi giorni, alcune associazioni hanno incominciato a denunciare presunti abusi da parte della polizia. Il quotidiano Le Monde e il sito Mediapart hanno aperto un proprio osservatorio in cui sono già state raccolte decine di testimonianze e segnalazioni tra le oltre 1600 perquisizioni condotte finora dalle autorità. È stato lo stesso Segretario del Consiglio europeo, Thorbjorn Jagland, a rendere nota la comunicazione della Francia. "I provvedimenti presi nel quadro dello stato di emergenza proclamato in seguito agli attentati terroristici su vasta scala - scrive il governo di Parigi - sono suscettibili di richiedere una deroga a certi diritti garantiti" dalla Convenzione firmata a Roma nel 1950. Il testo sul cui rispetto vigila il Consiglio europeo garantisce i principi fondamentali, come il diritto a un processo giusto, il rispetto della vita privata, la libertà di espressione e religione. Tutti diritti che sono pesantemente minacciati negli ultimi quattordici giorni. La Convenzione non prevede sospensione possibile per il divieto di tortura e la riduzione in schiavitù, ma tra le libertà su cui è possibile derogare c’è quella di movimento, il governo può dichiarare il coprifuoco, e quella di manifestare: molti attivisti che vengono per la Cop21 che inizia lunedì in una capitale blindata sono stati perquisiti preventivamente per il timore di disordini. Molti avvocati hanno fatto ricorso contro arresti domiciliari decisi contro cittadini incensurati che non sono mai andati in paesi legati al terrorismo. La Francia fa appello all’articolo 15 della Convenzione che prevede esplicitamente la sospensione di alcuni diritti in caso di guerra o minaccia per la Nazione. In questo modo, cittadini che si sentono vittima di abusi non potranno ricorrere all’organismo europeo per chiedere un processo contro la Francia. Altri paesi hanno fatto in passato deroghe di questo tipo: la Gran Bretagna dopo gli attacchi del 2001 e l’Irlanda durante la lotta al terrorismo dell’Ira. Ma nel caso della patria dei Diritti dell’Uomo è una prima assoluta, tanto che il New York Times qualche giorno fa ha titolato un editoriale "Hollande War’s on Liberties". Lo stato di emergenza è stato dichiarato dal governo per tre mesi, e il premier Valls non esclude di prolungarlo. Giustizia: Stefano Rodotà "il diktat della sicurezza può causare il suicidio dell’Europa" intervista a cura di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2015 Il costituzionalista interviene sulle misure pensate dalla politica dopo gli attacchi del 13 novembre. E il rischio per il Vecchio Continente è di trasformarsi "secondo la logica del primo ministro ungherese Orban, quella dei muri e del filo spinato, della limitazione della libertà di manifestazione del pensiero". Dopo gli attentati a Charlie Hebdo, Stefano Rodotà ci aveva detto: "Non si limiti la libertà in nome della sicurezza". Gli abbiamo chiesto se oggi la pensa ancora così. E se qualcosa - nei giorni di sangue del Bataclan e del Mali - è cambiato. "Quel che è accaduto è un fatto senza precedenti, non solo per l’aspetto militare. C’è una novità, indubbiamente. Ma sono molto ostile alla ripetizione di vecchi slogan, altrimenti diamo risposte sbagliate. Dobbiamo sforzarci di usare la ragione e soprattutto di superare l’emotività". Il presidente Hollande ha usato quella parola, "guerra". Lei cosa ne pensa? "Che andrebbe usata con estrema prudenza: capisco che abbia anche un valore simbolico e di senso comune ma, se viene usata in senso proprio, allora viene proprio a galla l’inadeguatezza delle categorie. "Guerra" nella modernità - e nella nostra Costituzione - riguarda Stati ostili tra loro, esige una dichiarazione, individua l’avversario. Se dall’altra parte c’è uno Stato, gli devo riconoscere di esserlo. Perché in Francia non fu mai dichiarato lo stato d’assedio al tempo della "guerra" d’Algeria? Proprio per non riconoscere il Fnl e i diritti dei combattenti. Ricordo la discussione ai tempi delle Br. I terrorismi nazionali di ieri non spiegano questo fenomeno, ma comunque anche allora si disse "non possiamo legittimarli dal punto di visto giuridico". In quell’intervista ci disse: "Il fermo di polizia contro le Br non servì a niente: servirono isolamento politico e riorganizzazione delle forze di polizia". "Ammesso che debbano essere prese determinate misure, questo vuol dire anche dare una sorta di delega in bianco a chi dovrà attuarle? Azzerare i controlli giudiziari, impedire il controllo parlamentare? Si dice che è necessaria un’adeguata attività dei servizi di sicurezza: che fine fa il controllo parlamentare? Se sono necessari nuovi provvedimenti, questi non possono alterare gli equilibri democratici. Non è il punto di vista di un maniaco dei diritti. Abbiamo sottoscritto la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo nel 1950, che esclude la legittimità di misure che possono mettere in dubbio il carattere democratico del sistema". Si sta mettendo in discussione cosa sarà l’Europa di domani? "La sopravvivenza della democrazia è affidata, in certe letture, all’azione militare, come molti conflitti sociali sono ridotti a questioni di ordine pubblico. Sono d’accordo con Lucio Caracciolo, quando dice: attenzione, perché l’Europa corre il rischio del suicidio morale e politico. È un compito oggi molto difficile, perché la tentazione delle parole eccessive, delle misure legislative eccessive è fortissima. Dopo lo choc dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno promulgato una legge terribile - il Patriot Act - ma non hanno cambiato la Costituzione: quando hanno voluto alleggerirla hanno potuto farlo con una legge ordinaria. Se in Francia verrà cambiata la Costituzione, questo non sarebbe possibile. Quel che mi ossessiona in questo momento è il bisogno di ragionare". Renzi ha tenuto un linguaggio misurato. "È stato un atteggiamento responsabile: si poteva dire "guerra" o leggi speciali: lui non l’ha fatto. Alfano però ha detto: dovranno esserci sacrifici dal punto di vista della privacy. E lo stesso Renzi ha parlato di tecniche di riconoscimento facciale per "taggare" le persone. Qui si dovrebbe chiedere: quali restrizioni alla tutela della privacy? Con quali garanzie? Con che criterio il riconoscimento facciale? Per individuare chi? Non si possono definire così genericamente le modalità di identificazione delle persone: ci sono telecamere nelle città e banche dati a cui voglio attingere e lo faccio con un provvedimento amministrativo. Non si può fare. Bisogna discuterne seriamente in Parlamento, e non certo con una relazioncina o con qualche mozione. Discutendo il decreto antiterrorismo, grazie anche a parlamentari come Stefano Quintarelli, il Parlamento ha fatto un buon lavoro, proprio mentre in Francia approvavano una legge liberticida sull’invasione della sfera privata delle persone, che peraltro non è servita per evitare gli ultimi attentati". Che rischi vede? "Quella che in Francia chiamano l’urbanizzazione dell’Europa. Cioè di un’Europa che si trasforma secondo la logica del primo ministro ungherese Orban, che non è solo quella dei muri e del filo spinato, ma è la logica della limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, dell’indipendenza della magistratura, del potere di controllo della Corte costituzionale. L’Europa ha grande responsabilità perché ha accettato questa logica e ora rischia di orbanizzarsi essa stessa: ciascuno pensa di difendersi da solo, chiudendo le frontiere, tornando al nazionalismo, senza rendersi conto che l’Europa si salva solo se osa darsi una strategia comune". Meno raid e più politica? "L’aspetto militare senza politica ci ha portato qui. Ci sono i russi in Afghanistan? Armiamo i talebani. Bush padre aveva fermato le truppe, il figlio è arrivato a Baghdad. C’è una manifestazione a Tripoli contro Gheddafi? Sarkozy subito dice "interveniamo". Senza una visione politica. La contrapposizione frontale all’Isis non deve dare l’impressione che tutta la tradizione occidentale dei diritti sia oggi sotto assedio e accerchiata, mentre in questi anni si è diffusa nei luoghi più diversi. Rinnovata nei suoi riferimenti a democrazia e diritti, liberata dall’esclusivismo economicista, rimane uno strumento essenziale in questa difficile lotta". Giustizia: antimafia, l’attacco di Grasso "basta protagonismo e corsa ai soldi" di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 28 novembre 2015 Il presidente del Senato critica molte associazioni ma evoca anche il caso Saguto. Ha colto l’occasione di un convegno antimafia promosso dalla fondazione che porta il nome di Antonino Caponnetto per sganciare una sberla ai mali di questo mondo che dovrebbe essere limpido, come lo volevano Falcone e Borsellino, mentre è "infangato dagli scandali emersi negli ultimi mesi". Ha un tono grave la requisitoria dell’ex procuratore antimafia che parla dall’alto della seconda carica dello Stato, Pietro Grasso. Bacchetta duro il presidente del Senato davanti a tanti giovani raccolti a due passi da Firenze, a Bagno a Ripoli, invocando "un’antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato". Pur con istituzionale distacco, senza fare nomi, in questa amara riflessione espressa pensando al magistrato che coordinò il pool di Falcone e Borsellino, Grasso costringe un po’ tutti a mettere in fila i recenti drammatici eventi di cronaca con troppi presunti paladini dell’antimafia finiti sotto inchiesta. Qualcuno arrestato addirittura con una mazzetta da 100 mila euro in tasca, come l’ex presidente della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg, tante volte sui palchi dell’antimafia ufficiale. Gli stessi a lungo battuti dalla giudice Silvana Saguto, defenestrata per l’allegra gestione dei beni confiscati alla mafia e allontanata da un settore come le misure di prevenzione dove, secondo l’accusa, operavano con disinvoltura suoi colleghi, avvocati e amministratori. Uno scenario a tinte fosche, pur fra i dubbi legati in qualche caso alla lungaggine dei tempi giudiziari, con indagini che sfiorano perfino esponenti di Confindustria, il presidente dei costruttori in Sicilia, imprenditori da trincea antimafia come il catanese Mimmo Costanzo, da due settimane agli arresti per le mazzette Anas, alla guida della società che costruisce la Palermo-Agrigento, da ieri sotto sequestro, con i sigilli al cantiere. Di qui la delusione di Grasso: "Negli ultimi mesi abbiamo visto emergere scandali che infangano questo mondo". Ecco perché "serve un’antimafia unita, determinata... che persegua il fine comune, che non è quello di essere l’associazione più visibile, o la più finanziata, o che meglio catalizza il consenso". È un modo per mettere sotto osservazione la burocratizzazione di qualche associazione antimafia lontana dall’obiettivo indicato da Grasso: "Fare terra bruciata intorno alle mafie per isolarle e poterle colpire meglio con gli strumenti dello stato di diritto...". Visto che Grasso non fa nomi, pur picchiando contro "sensazionalismo e protagonismo", potrebbe risultare arbitrario anche un pur vago riferimento ad alcuni magistrati impegnati in grandi processi. Mentre plaude a quelli che lavorano contro "la cappa criminale che ha attanagliato Roma": "È all’interno del degrado etico e morale del sistema politico e amministrativo che vicende come quelle di Mafia Capitale trovano terreno fertile". E per superarlo occorre "una classe dirigente credibile e trasparente". Da costruire. Giustizia: Urso (Uil-Pa Penitenziari); terrorismo, ecco come si radicalizzano i detenuti intervista a cura di Nadia Francalacci Panorama, 28 novembre 2015 Un esponente della Polizia penitenziaria spiega perché l’arrivo di soggetti considerati autorità religiose, cambia completamente le abitudini dei detenuti. E con quali rischi. Circa 170 soggetti, considerati al pari degli imam, per l’influenza che possono esercitare, stanno "condizionando" le carceri italiane. Il loro arrivo all’interno degli istituti penitenziari modifica le abitudini e l’alimentazione dei musulmani ma soprattutto crea nuovi organigrammi che facilitano la radicalizzazione. È per questo che oltre 3 mila musulmani, di 7 mila praticanti su una popolazione carceraria di 9 mila, sono costantemente sotto osservazione. In sostanza, un terzo dei musulmani presenti nella carceri italiane manifesterebbe una "simpatia" verso l’estremismo islamico. Tra questi 3 mila islamici presenti nelle nostre carceri, anche quelli del carcere calabrese di Rossano, che dopo aver saputo della notizia degli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre hanno festeggiato davanti al numero dei morti. Quattro dei 21 terroristi islamici detenuti, infatti, hanno inneggiato al grido di "Viva la Francia libera". Angelo Urso, Segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, che cosa accade all’interno di un carcere quando arriva un "imam"? "Si stravolgono completamente le abitudini della popolazione musulmana. In concreto, i soggetti che prima non pregavano mai, alla presenza di questi soggetti molto legati alla religione iniziano a pregare e in contemporanea modificano completamente la loro dieta, eliminando dai pasti la carne di maiale. Oltre alle cinque volte che sono quelle previste per la preghiera giornaliera, di fatto chiedono di essere portati nelle aree comuni che sono state adibite nelle carceri per ogni professione religiosa". Quindi si riuniscono per la preghiera in questo spazio comune. "Si, è in questa occasione che possono essere gettate le basi per una radicalizzazione del detenuto. È in questa area comune destinata alla preghiera, dove loro trascorrono nell’arco di un mese diverse ore, che si cominciano a delineare le "finalità esterne" dei loro incontri. Ovviamente la radicalizzazione non ha modo di essere vissuta all’interno delle carceri e troverà sfogo solo all’esterno". Il carcere, di fatto, potrebbe essere uno dei luoghi dove l’intelligence potrebbe acquisire informazioni utili... "Il carcere è un "pozzo di informazioni", ma questo non è ancora chiaro neppure all’intelligence. Diciamo che molte cose sono cambiate in questo ultimo periodo e una leggera attenzione in più è stata manifestata anche dagli agenti dei Servizi, ma non è ancora abbastanza rispetto a quello che potrebbe dare, in termini di informazioni preziose e fondamentali, l’istituto carcerario". Si spieghi meglio. "La Polizia penitenziaria potrebbe essere utilizzata in modo molto diverso dalla semplice "guardia" della cella. Ad esempio potrebbe essere davvero fondamentale e rivoluzionario sia per le indagini che per una corretta e meticolosa mappatura di questi soggetti, ovvero i terroristi, una fotografia visiva da inserire nello Sdi, il sistema utilizzato dalle forze dell’ordine". Cosa intende per fotografia visiva? "Adesso quando entrano i detenuti, essi siano terroristi o comuni ladri, noi compliamo il "modulo 9" nel quale mettiamo le generalità e poco altro del detenuto in entrata nel nostro penitenziario. L’operazione richiede all’incirca una ventina di minuti. Con la fotografia visiva, la scheda personale del soggetto verrebbe arricchita da una mappatura-descrizione-fotografia dei suoi tatuaggi, cicatrici e altri segni particolari. In sostanza il soggetto, assieme alle impronte digitali e palmari, sarebbe veramente schedato e riconoscibile. Si pensi all’importanza di un tatuaggio, ad esempio, per risolvere un caso di rapina dove il soggetto viene solo filmato o identificato per quel particolare". La polizia penitenziaria non è molto presente negli organismi interforze. "Infatti, anche questo è, a mio avviso, una mancanza grave in quanto moltissime delle indagini partono proprio dal carcere. Il carcere, ripeto, è veramente un punto nevralgico di acquisizioni di informazioni capaci di dare una spiegazione a quanto accade all’esterno". Giustizia: bonus telematico a chi assume i detenuti, provvedimento sul credito d’imposta di Valerio Stroppa Italia Oggi, 28 novembre 2015 Il bonus fiscale per le imprese che assumono detenuti viaggia solo in telematico. Il credito d’imposta potrà essere utilizzato in compensazione a partire dal 1° gennaio 2016. L’incentivo, che può arrivare fi no a 520 euro al mese per ogni nuova assunzione, passerà obbligatoriamente nei modelli F24 attraverso i servizi Entratel e Fisconline. È quanto stabilisce un provvedimento firmato ieri dall’Agenzia delle entrate, che dà attuazione al beneficio tributario introdotto dalla legge n. 193/2000 per favorire il reinserimento sociale dei soggetti privati della libertà personale per effetto di una condanna. Si ricorda che il plafond messo a disposizione dall’erario è pari a 12,6 milioni di euro per le assunzioni effettuate nel 2013 e a 6,1 milioni annui dal 2014 in avanti. L’agevolazione. Le modalità operative sono state definite con il decreto del ministero della giustizia n. 148 del 24 luglio 2014. Gli sgravi a disposizione delle aziende sono di natura fi - scale e contributiva. I requisiti a carico dei datori sono due: primo, il rapporto deve essere instaurato con contratto di lavoro subordinato per un periodo non inferiore a 30 giorni; secondo, al detenuto deve essere corrisposto un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro. Per poter accedere agli sgravi, le imprese devono preventivamente stipulare un’apposita convenzione con la direzione dell’istituto penitenziario nel quale sono ristretti i lavoratori assunti. Gli importi. Per ciascun detenuto assunto è riconosciuto un credito di imposta a copertura del "costo-azienda" del lavoratore, con un massimo di 700 euro mensili per i contratti stipulati nel 2013 e a 520 euro mensili dal 2014 in avanti. L’agevolazione riguarda anche i soggetti in semilibertà, ma in questo caso gli incentivi sono minori (350 €/mese per il 2013 e 300 €/mese dal 2014). Laddove le mensilità lavorate non siano piene, il credito d’imposta va determinato in proporzione alle giornate di lavoro, come pure in caso di assunzione part-time. Analoghi incentivi spettano alle imprese che svolgono attività di formazione finalizzata a un immediato inserimento professionale. L’utilizzo. Il provvedimento di ieri stabilisce che il tax credit dovrà essere utilizzato dagli aventi diritto in compensazione, presentando l’F24 esclusivamente tramite i servizi telematici dell’Agenzia (pena il rifiuto della delega). Con separata risoluzione sarà istituito il codice tributo, che dal prossimo 1° gennaio manderà in soffi tta quello attuale (6741). Entro il 31 dicembre di ogni anno il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dovrà trasmettere l’elenco delle imprese beneficiarie del credito per l’anno successivo, con l’importo concesso a ciascuna di esse, così come successive variazioni o revoche. Previsti controlli automatizzati da parte del fisco, tramite l’incrocio degli elenchi del Dap con gli F24 acquisiti: laddove il credito utilizzato sia superiore a quello spettante o utilizzato in maniera indebita, il modello sarà scartato e i pagamenti ivi contenuti si considerano non effettuati. Bonus residui. L’Agenzia precisa che i crediti d’imposta maturati fi no al 31 dicembre 2015, non ancora interamente utilizzati in compensazione, potranno essere recuperati per l’importo residuo dal prossimo 1° gennaio, secondo le nuove disposizioni, scomputando naturalmente la somma già fruita con il codice tributo 6741. Giustizia: il viceministro Costa "nelle indagini preliminari quasi metà delle prescrizioni" di Gabriele Ventura Italia Oggi, 28 novembre 2015 La riorganizzazione dei tribunali deve partire da una nuova selezione dei vertici. Perché i risultati a macchia di leopardo sulla velocità della giustizia civile e penale non dipendono tanto da eventuali carenze in organico. Ma soprattutto dal modo in cui gli uffici sono amministrati. Per questo, il ministero della giustizia vuole portare avanti la riforma del Consiglio superiore della magistratura, che riveda il sistema di elezione dei magistrati e il sistema sanzionatorio. Lo ha detto il viceministro della giustizia, Enrico Costa, intervenuto ieri alla IX Conferenza nazionale dell’avvocatura, che si chiude oggi a Torino. Soffermandosi sui numeri che riguardano le prescrizioni, in particolare, Costa ha ricordato che "nel 2014 su 128 mila casi, oltre 70 mila prescrizioni si sono verificate durante le indagini preliminari. L’altro imbuto è l’appello, dove si registrano 24 mila prescrizioni l’anno. Il problema si risolve individuando una norma con tempi certi per scegliere tra l’archiviazione o il rinvio a giudizio dopo le indagini preliminari". Il viceministro ha ricordato anche le diverse percentuali di prescrizioni tra i vari tribunali. "In alcuni casi il 30% dei fascicoli va in prescrizione, in altri l’1%. La differenza consiste nelle misure organizzative. Che devono ripartire dalle modalità di selezione dei capi degli uffici. Oggi è necessaria una selezione che abbia come criterio cardine la capacità manageriale e organizzativa. Per questo stiamo mettendo in piedi la riforma del Csm, modificando il sistema di elezione per fare in modo che i più bravi facciano carriera, e il sistema sanzionatorio". Nella giornata di ieri è intervenuto anche il sottosegretario alla giustizia, Cosimo Ferri, sottolineando il ruolo che stanno svolgendo i tribunali delle imprese. "Vogliamo affidare le competenze ai tribunali anche per la gestione della fase di crisi delle società", ha detto, "lavorando su misure e istituti che garantiscano una via di uscita all’impresa in crisi, portando questa materia all’interno della giurisdizione". Il presidente Oua, Mirella Casiello, ha poi premiato Abdelaziz Essid, avvocato tunisino del "quartetto del dialogo", premio Nobel per la pace 2015. Giustizia: la giudice di pace che fermò Shalabayeva "hanno comprato il mio silenzio" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 novembre 2015 Anche i poliziotti sapevano da giorni che lei era la moglie di un dissidente e che quindi aveva diritto all’asilo politico. La giudice di pace Stefania Lavore che convalidò il "trattenimento" di Alma Shalabayeva nel centro di espulsione di Ponte Galeria era consapevole che si stava organizzando una "traduzione forzata", cioè la deportazione di una persona che invece aveva diritto all’asilo politico. Sapeva che la sua firma costituiva un "passaggio essenziale" per la riconsegna della donna ai kazaki avvenuta il 31 maggio 2013. Il procuratore aggiunto di Perugia Antonella Duchini e il sostituto Massimo Casucci che ora la accusano, assieme a sette poliziotti, di sequestro di persona e falso ne sono convinti dopo aver ascoltato alcune intercettazioni telefoniche sommariamente trascritte negli avvisi di garanzia notificati agli indagati. Il provvedimento descrive nel dettaglio le presunte irregolarità, ma non chiarisce per ché e su ordine di chi, funzionari e agenti avrebbero organizzato questa trama. "Pagato il mio silenzio". "Mi avrebbero schiacciato, ho fatto pippa... non ho sputtanato nessuno... hanno pagato il mio silenzio... i panni sporchi si lavano in famiglia", afferma Lavore in una conversazione registrata, parlando non si sa con chi e in quale contesto, a proposito del suo operato. E anche sulla base di questo elemento gli inquirenti addebitano alla giudice alcune false attestazioni nel verbale dell’udienza in cui fu avallata la presenza della Shalabayeva (alias Alma Ayan), nel Centro di espulsione, omettendo la presenza degli avvocati e le loro dichiarazioni sul nome di copertura, sullo status di rifugiato politico già concesso dalla Gran Bretagna al marito Muktar Ablyazov e sulle intenzioni della donna di chiedere asilo politico. Anche i poliziotti coinvolti, a partire dal capo del Servizio centrale operativo Renato Cortese (all’epoca dirigente della Squadra mobile) e dal questore di Rimini Maurizio Improta (allora capo dell’Ufficio immigrazione della questura di Roma), sono chiamati a rispondere di numerosi episodi di falso. Sempre per coprire e giustificare la riconsegna della Shalabayeva alle autorità del Kazakistan, che si erano presentate in questura per chiedere l’irruzione nella villa di Casalpalocco dove avrebbe dovuto trovarsi il dissidente Ablyazov (oggi in carcere in Francia), ricercato internazionale perché i kazaki ne chiedevano l’estradizione. Le bugie dei poliziotti. Cortese, Improta e altri due agenti della Squadra mobile avrebbero saputo già il 29 maggio 2013, giorno della perquisizione, che la donna titolare del passaporto della repubblica centrafricana intestato ad Alma Ayan "si identificava in Alma Shalabayeva", anche perché la polizia "disponeva della sua fotografia". Del resto nella villetta avevano sequestrato "alcune mail dove era espressamente evidenziato che la donna utilizzava il nome di Alma Ayan per ragioni di sicurezza personale e che la stessa era moglie di un perseguitato del regime dittatoriale kazako". Ma non lo comunicarono "così inducendo in errore questore e prefetto di Roma" che firmarono contro Alma Ayan il decreto di espulsione e di trattenimento nel Cie. Analoghe omissioni Cortese le avrebbe commesse nelle relazioni inviate alla magistratura "così inducendo in errore la Procura di Roma che iscriveva il procedimento penale a carico di Alma Ayan" e convalidava il sequestro del passaporto. La foto "ritoccata". Cortese e Improta sono poi accusati di aver sostenuto che l’affidamento della bambina alla famiglia che viveva nella stessa villa di Casalpalocco era stato deciso "su disposizione del tribunale per i minorenni che in realtà mai è stato interessato della vicenda". La donna fu caricata insieme alla figlia su un aereo affittato dai kazaki che partì dallo scalo di Ciampino. Per accelerare le pratiche di imbarco Maurizio Improta avrebbe utilizzato le fotografie di madre e figlia consegnategli dalla Squadra mobile, che le aveva prese dal passaporto centrafricano. Dice l’accusa: "Improta le forniva a Khassen (funzionario dell’ambasciata di Astana, ndr ) che dopo aver ritoccato la fotografia di Alua in modo tale che non apparissero i segni del timbro, le utilizzava per formare i falsi "documenti di ritorno" che riconsegnava ad Improta". Il dirigente dell’Immigrazione avrebbe taciuto queste e altre circostanze nelle diverse relazioni al capo della polizia Alessandro Pansa. Il diritto di difendersi e il diritto di essere difesi di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Unione Camere Penali) Il Manifesto, 28 novembre 2015 Il diritto di difesa è diritto universale e come tale dovrebbe essere garantito in qualsiasi ordinamento giuridico ed in qualsiasi paese. La vicenda processuale Vatileaks consente tuttavia una riflessione su principi e tematiche che oggi assumono senz’altro un connotato di viva attualità anche nell’aspetto della spinta modernizzatrice intrapresa dal vaticano sotto la guida del nuovo Pontefice. La premessa ad ogni valutazione del caso è costituita dal riconoscimento della specificità delle norme sostanziali e processuali di uno Stato estero, quale è certamente lo Stato della Città del Vaticano, nel cui territorio è in vigore il Codice di Diritto Canonico, secondo il quale per patrocinare innanzi ai Tribunali dello Stato Città del Vaticano è necessaria l’iscrizione all’albo degli Avvocati Rotali. Questo è il motivo per cui, con argomentazioni in verità piuttosto formali, agli imputati del processo Vatileaks, fra i quali i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, non è stato consentito di avvalersi dell’opera professionale di avvocati di fiducia non rotali, ed in assenza di una scelta specifica, gli stessi sono stati affidati al ministero difensivo di avvocati rotali d’ufficio, nominati dal Tribunale. Non si può non rilevare come questo ostacolo avrebbe potuto essere superato agevolmente attraverso una più elastica interpretazione della normativa, in quanto già gli artt. 24 e 26 dell’Ordinamento Giudiziario dello Stato Città del Vaticano prevedono la possibilità, sia pure in forma di "facoltà eccezionale", di un simile affiancamento, concedendo una autorizzazione affinché gli imputati potessero avvalersi dell’assistenza tecnica anche di un proprio difensore di fiducia scelto tra gli iscritti negli ordini degli avvocati italiani. Forse per la prima volta, proprio a causa del clamore che l’intera vicenda ha suscitato, siamo chiamati a confrontarci con i rapporti fra queste due giurisdizioni, quella vaticana e quella italiana, a margine di una vicenda che investe diritti ed interessi (quali appunto il diritto di difesa ed il diritto di cronaca e di informazione) che appartengono alla intera collettività in un ambito certamente sovranazionale. Il diritto di difendersi, e soprattutto il diritto di essere ben difesi, è argomento complesso, che emerge costantemente anche nella quotidianità dei Tribunali italiani. È pertanto necessario auspicare che il processo canonico abbia il suo corso nel rispetto dei diritti degli imputati, i quali hanno dimostrato un profondo e sincero rispetto del Tribunale e del processo, pur manifestando - come è giusto che sia - nella loro posizione di imputati e di giornalisti una forte critica nei confronti dell’oggetto dell’accusa. Ma siano anche certi che Papa Francesco, che ha fatto della modernizzazione della Chiesa e del rispetto dei diritti e della dignità della persona uno dei tratti più significativi del suo pontificato, voglia tenere conto anche di questa non trascurabile declinazione dei diritti della persona. Ed è per questo che ci piace ricordare in proposito quanto affermato, nel 1983, da Papa Giovanni Paolo II nel suo discorso di presentazione del nuovo Codice di Diritto Canonico, laddove il Pontefice ritenne opportuno ricordare come solo se "animato dalla carità e ordinato alla giustizia, il diritto vive!". Veneto: Regione condannata "non ha fatto le Residenze per ex detenuti psichiatrici" Giornale di Vicenza, 28 novembre 2015 Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha condannato la Regione Veneto per non aver provveduto alla realizzazione delle Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza(Rems) previste dalla legge che abolisce gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Il Tribunale ha dunque intimato alla Regione di rilevare, entro 15 giorni, otto internati di sua responsabilità dall’Opg di Reggio Emilia. La legge che ha previsto la chiusura degli Opg aveva dato lo scorso aprile come scadenza per la realizzazione nelle Regioni delle Rems. Nei giorni scorsi l’on. Daniela Sbrollini (Pd) ha preannunciato anche il probabile commissariamento ad acta della Regione Veneto (e di altre 7) per attivare finalmente le nuove residenze Rems. Merano (Bz): cellula jihadista, tre detenuti in Inghilterra si oppongono all’estradizione trentotoday.it, 28 novembre 2015 Secondo i legali britannici l’estradizione in Italia violerebbe alcuni articoli della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. I media inglesi parlano di progetti di rapimento e contrabbando di armi per la cellula jihadista che aveva ramificazioni anche a Merano. Rimane invece in carcere un quarto arrestato, scarcerato dal gip di Trento. Si oppongono all’estradizione in Italia tre dei 17 membri della presunta cellula jihadista meranese. Si tratta di tre dei 10 arrestati per i quali è stata convalidata ieri la custodia cautelare in carcere. La notizia è stata pubblicata sui siti della Bbc e del quotidiano The Guardian, e ripresa dall’Ansa. Si tratta di tre curdi iracheni, membri di spicco dell’organizzazione facente capo al mullah Krekar, detenuto in Norvegia dal 2012, anche lui raggiunto ieri dalla notifica dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Trento. Anche i media britannici parlano di possibili azioni terroristiche pianificate dai membri del gruppo Rawti Shax, in particolare i membri dell’organizzazione, che aveva una ramificazione importante a Merano, avrebbero progettato il rapimento di diplomatici, da rilasciare in cambio della liberazione del loro leader Krekar. Si parla però anche di armi, nella fattispecie di missili, da contrabbandare in Norvegia. I legali inglesi che difendono i tre detenuti hanno dichiarato che l’estradizione dalla Gran Bretagna in Italia sarebbe un caso di respingimento illegale di rifugiati, una violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Più complicato il caso di un quarto detenuto, per il quale il gip di Trento ha invece disposto la scarcerazione (così come per altri sei presunti membri dell’organizzazione) che resta invece in carcere in Inghilterra per violazioni della legge sull’immigrazione. Alghero: accordo tra Comune e Tribunale, trenta detenuti ai lavori socialmente utili buongiornoalghero.it, 28 novembre 2015 Il Comune di Alghero e il Tribunale di Sassari sottoscrivono l’accordo per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità. L’accordo consente ai soggetti condannati alla pena sostitutiva di scontarla con lavori non retribuiti in settori operativi delle manutenzioni di stabili e monumenti, decoro urbano, protezione civile, archiviazione, collaborazione amministrativa. L’espletamento della forma alternativa della pena da parte di soggetti che ne facciano esplicita richiesta è stato oggetto di indirizzo del Consiglio Comunale che nell’Ottobre 2014, su proposta del consigliere Alessandro Nasone, ha approvato all’unanimità un appropriato Ordine del Giorno. Lo stesso Nasone, promotore dell’iniziativa, si è fatto carico inoltre di seguire l’intero iter della pratica fino allo schema di convenzione approvato recentemente dalla Giunta. Ieri c’è stata la chiusura dell’iter con la formale consegna della convenzione firmata dal Sindaco Mario Bruno da parte del vice sindaco Raimondo Cacciotto presso il Tribunale di Sassari. La collaborazione avviata tra Amministrazione e Tribunale di Sassari consente a 30 detenuti di affrontare un’esperienza di alto valore umano e di riabilitazione per chi sconta una pena sostitutiva. Apporta una tangibile e immediata utilità per la città, offre al condannato la possibilità di svolgere attività risocializzanti con maggior consapevolezza sul ruolo attivo che ognuno ha nella società. La convenzione stipulata avrà la durata di cinque anni. Reggio Emilia: la Garante regionale "detenuti e agenti al freddo e senza acqua calda" Adnkronos, 28 novembre 2015 Secondo la Direzione il disservizio dipende dalla ditta appaltatrice che pilota l’impianto a distanza e regola la temperatura dei caloriferi al minimo; manca anche l’acqua calda nelle camere di pernottamento. Nel carcere di Reggio Emilia la temperatura è assolutamente insufficiente, sia negli spazi detentivi che negli uffici e nella caserma dove alloggia il personale della polizia penitenziaria, e "la situazione ha già superato ogni livello di sostenibilità e pare del tutto evidente l’insussistenza dei requisiti minimi di vivibilità all’interno degli spazi detentivi". A lanciare l’allarme è la Garante delle persone private della libertà personale della Regione, Desi Bruno, che ieri ha visitato la struttura insieme al direttore, Paolo Madonna, e alla comandate del personale della Polizia penitenziaria Manon Giannelli, ed ha effettuato diversi colloqui con i detenuti. Come riferisce la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, "le persone gravemente malate sono costrette a coprirsi con più coperte", "in alcuni spazi detentivi il funzionamento dell’impianto di riscaldamento risulta del tutto inattivo" e infine "non c’è acqua calda all’interno delle camere di pernottamento, ma solo nelle docce comuni situate all’esterno". Secondo Bruno, quindi, "già si sono configurati i profili di una detenzione caratterizzata da trattamenti inumani e degradanti". E tutto ciò accade perché, riporta la direzione del carcere, "la ditta appaltatrice della fornitura di energia termica ed elettrica che pilota l’impianto a distanza, da Vicenza, regola la temperatura dei caloriferi al minimo". Già le detenute, attraverso una lettera collettiva, avevano segnalato l’inadeguatezza delle condizioni di vita nelle sezioni detentive proprio in ragione del fatto che "gli ambienti sono freddi oltre ogni ragionevole grado di sopportazione", riporta la Garante, il cui Ufficio provvederà ora a "produrre una segnalazione urgente per tutte le autorità competenti affinché possano essere intrapresi tutti gli interventi più opportuni per porre fine alla non più tollerabile situazione in essere". Anche perché, rimarca Bruno, la struttura della città del tricolore non denota altra particolari criticità: permane infatti il trend legato alla significativa riduzione del numero delle presenze, con 174 detenuti - di cui sei donne - e 110 i condannati in via definitiva, non si ravvisa alcun profilo di sovraffollamento ed è pienamente operativo il regime "aperto", per il quale i detenuti possono passare almeno 8 ore al di fuori delle camere di pernottamento. Appaiono migliorate, prosegue la Garante, le condizioni igienico-sanitarie e strutturali: sono stati effettuati da tempo i lavori di riparazione del tetto al fine di eliminare le infiltrazioni di acqua dal soffitto, anche se permangono zone ancora interessate da infiltrazioni, e sta procedendo la riqualificazione di alcune sezioni detentive anche attraverso lavori in economia effettuati da parte della popolazione detenuta. È poi l’imminente avvio di una lavorazione interna, grazie ad una cooperativa sociale e una ditta esterna, che impiegherà 8 detenuti. Infine, conclude Bruno, "grazie ad una puntuale definizione operativa di progetti fra direzione del carcere ed enti locali, un buon numero di detenuti risulta essere impiegato in lavori di pubblica utilità all’esterno del carcere, in attività che vanno dalla manutenzione degli alloggi dell’edilizia residenziale pubblica, alla manutenzione dei cimiteri e del verde pubblico". Trieste: la Uil-Pa denuncia "sovraffollamento dei detenuti, carenza di personale e mezzi" di Luca Saviano Il Piccolo, 28 novembre 2015 La Uil racconta a suon di scatti il sovraffollamento dei detenuti, la carenza di personale e mezzi. Mura invalicabili, sbarre di acciaio e porte blindate dividono due realtà che non possono e non vogliono comunicare. Spesso si tende a dimenticare chi si trova recluso dietro quelle sbarre, finendo per relegare il carcere ai margini della società. Il progetto "Lo scatto dentro" vuole dare il via a un’operazione trasparenza, utilizzando la fotografia laddove le parole hanno forse perso efficacia, per provare ad abbattere il muro di diffidenza che circonda le carceri italiane e per fare luce su quello che viene considerato un mondo a parte. L’iniziativa, voluta dalla segreteria nazionale della Uil Penitenziari, è stata pensata per svelare all’opinione pubblica le condizioni in cui si trovano a lavorare gli operatori di polizia penitenziaria. L’autorizzazione a effettuare le fotografie è arrivata solamente dopo che la Uil ha fatto ricorso al Garante della privacy. "Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - spiega Leonardo Angiulli, coordinatore regionale della Uil Penitenziari - aveva posto numerosi divieti a un progetto che ha lo scopo di vedere garantiti i princìpi della sicurezza e della dignità umana. Un’iniziativa con la quale vogliamo trasformare il carcere in una sorta di palazzo di vetro". Anche nella Casa circondariale di via Coroneo, come in molti altri penitenziari italiani, gli operatori della sicurezza hanno così potuto restituire alla società uno spaccato della realtà carceraria, attraverso una serie di scatti che hanno messo a nudo le criticità del sistema detentivo. Sovraffollamento della popolazione carceraria, carenza di personale e mancanza di mezzi adeguati: sono le principali falle riscontrate nella struttura di detenzione triestina. Attualmente sono 182 i reclusi all’interno del Coroneo, ai quali si vanno ad aggiungere, nell’apposita sezione femminile, 18 detenute. Si tratta dell’80% di presenze in più rispetto al limite di 110 carcerati previsto originariamente. Un sovraffollamento che a Trieste, al pari di altre città italiane, costringe anche otto persone in una sola cella. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, ha condannato l’Italia nel 2013 per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione che impedisce di applicare pene inumane e degradanti. Il cosiddetto "circuito aperto", che consente a ogni detenuto di passare l’intera giornata al di fuori della propria cella e di farvi rientro solo per dormire, è stata la risposta italiana a questo problema. La Uil ha poi puntato gli obiettivi delle macchine fotografiche su altri aspetti che complicano il lavoro della polizia penitenziaria. "Il nostro organico andrebbe aumentato del 10% - sottolinea per la segreteria provinciale Alessandro Penna - e anche le strutture andrebbero adeguate. Alcuni mezzi con i quali trasferiamo i detenuti hanno più di 350mila chilometri. Sono gli stessi furgoni che dobbiamo parcheggiare sulla pubblica via perché non abbiamo un altro luogo dove lasciarli in sicurezza". Il Coroneo può contare su 120 operatori che si alternano nei diversi turni di sorveglianza. "Un numero che non può considerarsi sufficiente". Prato: gli studenti incontrano i detenuti, ieri primo di cinque momenti di condivisione di Alessandra Agrati Il Tirreno, 28 novembre 2015 Un incontro tra gli studenti di terza media e i carcerati della Dogaia per festeggiare la festa della Toscana, ricorrenza dell’ abolizione della pena di morte da parte del duca Leopoldo. Cinque momenti di condivisione, il primo ieri mattina e alla Dogaia, che culmineranno il 30 novembre con un incontro al Pretorio e in Comune per presentare i lavori fatti dagli studenti. A gennaio i detenuti visiteranno palazzo Pretorio, dopo aver assistito ad alcune lezioni di preparazione all’ interno della Dogaia. Oggi la compagnia teatrale del carcere insieme agli operatori del teatro Metropopolare terranno un laboratorio per gli studenti della Puddu. I ragazzi delle terze medie delle Ser Lapo Mazzei, dell’ istituto Puddu, della scuola media Mazzoni e una quinta elementare di San Niccolò hanno preparato disegni, video, cartelloni ed elaborati dopo aver incontrato Iole Toccafondi, garante per i diritti dei detenuti, l’assessore Maria Grazia Ciambellotti e la presidente del Consiglio Ilaria Santi. "Abbiamo voluto creare una sorta di osmosi- ha spiegato Santi - fra i ragazzi e i detenuti che sono all’ interno della Dogaia, creando momenti di incontro e di confronto". Il primo ieri mattina. "È stato molto emozionante - ha raccontato Ciambellotti - sentire i racconti dei detenuti che hanno cercato di far capire ai ragazzi come la loro vita, ora, sia assolutamente priva di ogni libertà: anche per fare la doccia devono chiedere il permesso. Il momento però, più toccante è stato l’abbraccio fra un detenuto musulmano e una ragazza cristiana. L’uomo ha voluto ricordare che la sua religione non predica l’uccisione degli infedeli". La presenza dei ragazzi alla Dogaia ha anche un altro significato. "Il carcere - ha ricordato Toccafondi - è parte della nostra città ed è importante che gli studenti entrino per capire anche questa realtà. Al termine dell’ incontro i detenuti hanno omaggiato ogni classe con un lavoro fatto durante le ore di laboratorio". Oggi invece si terrà il primo laboratorio teatrale curato dai detenuti. "In realtà - ha spiegato Giulia Aiazzi del teatro Metropopolare - è una performance sulla pena di morte. Per ora è stata pensata per gli studenti, ma ci piacerebbe poterla riproporre in altre occasioni". Nel programma delle attività previste ci sono anche alcune lezioni di presentazione del palazzo Pretorio. "È stato lo stesso Leopoldo - ha ricordato Rita Iacopino responsabile del Pretorio - a creare il primo nucleo dei dipinti che hanno dato vita al nostro museo perché tutti potessero ammirare questi capolavori. Tra i tutti ci sono anche i detenuti". Lanciano (Ch): concorso "Lettere d’amore dal carcere", i detenuti diventano poeti di Giampietro Marfisi lancianonews.net, 28 novembre 2015 Tra i premiati l’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, dal 2011 recluso a Rebibbia. L’aula magna del Liceo Classico Vittorio Emanuele II ha ospitato questa mattina, venerdì 27 novembre, la premiazione del concorso nazionale "Lettere d’amore dal carcere", iniziativa giunta al terzo anno ed insignita con la medaglia del Presidente della Repubblica. Emozione intensa in aula per il reading delle lettere segnalate dalla giuria, declamate dagli alunni e accompagnate da musica dal vivo. Le missive scritte dai detenuti di tutta Italia sono state indirizzate ai loro soggetti d’amore: la persona amata, i figli, i genitori e i nonni, la misericordia, gli animali. Nelle intenzioni degli organizzatori la narrazione ha potere terapeutico e riabilitativo per la persona che si trova dietro le sbarre, e il concorso ha riscosso grande successo come testimoniano gli oltre 600 componimenti arrivati da tutta Italia all’amministrazione penitenziaria della Casa Circondariale di Lanciano che fa da capofila al progetto. Tonino Di Toro, uno degli organizzatori: "Il successo dei tre anni precedenti e i risultati ci invogliano ad andare avanti e a potenziare il Concorso, anche pensando a diverse modalità di organizzazione, di pubblicità, di restituzione sul territorio. Per questo fine e per far emozionare le persone abbiamo deciso di raccogliere oltre 100 lettere e farne un libro". Il primo posto del concorso è stato assegnato a pari merito a Mario Musardo da Tempio Pausania e all’ex governatore della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro, recluso a Rebibbia dal Gennaio 2011 e autore di una toccante Lettera alla misericordia. Bari: progetto del Coni, in carcere la rieducazione passa anche per lo sport ilpaesenuovo.it, 28 novembre 2015 Nel capoluogo calcio e ginnastica hanno coinvolto 76 detenuti. Un anno di attività presentata in Presidenza della Regione. Progetto analogo anche a Taranto. Piemontese: "Punteremo a estenderlo ad altre carceri pugliesi". Migliorare la condizione carceraria e il trattamento dei detenuti attraverso la pratica e la formazione sportiva: con questo obiettivo lo sport, nell’ultimo anno, è entrato in molte carceri in modo evidente, come mezzo di socializzazione e rieducazione. Ciò grazie al progetto Sport in Carcere promosso dal Coni in collaborazione con il Ministero della Giustizia, tenutosi in una quindicina di istituti carcerari: i risultati del lavoro svolto per undici mesi nella Casa Circondariale di Bari e per tre in quella di Taranto sono stati illustrati oggi, nella Presidenza della Regione. "Davvero un bel progetto - le parole dell’assessore regionale allo Sport Raffaele Piemontese - quello condotto da Coni e Casa Circondariale di Bari, su uno dei temi verso cui questa Amministrazione regionale pone grande attenzione. Importante su due fronti: recupero socioeducativo del detenuto tramite valori tipici dello sport come la lealtà e il rispetto delle regole, e prevenzione sanitaria legata a uno stile di vita giocoforza sedentario. Quindi un’iniziativa da riprendere e ampliare". Ed ecco il segnale auspicato, rafforzato dal dirigente della sezione Sicurezza del cittadino della Regione Puglia, Stefano Fumarulo: "Un progetto che per la sua portata dobbiamo provare a replicare anche in altre carceri pugliesi". Nei dettagli, corposa l’esperienza barese, presentata dal referente di progetto per il Coni Puglia Alfredo Grieco (assente il presidente Elio Sannicandro, colpito da un lutto improvviso), conclusasi il 20 novembre e durata - col fondamentale supporto del servizio Socio-Pedagocico dell’istituto - undici mesi, incentrati su un corso di calcio e ginnastica tenuto da laureati in Scienze motorie e tecnici Figc, arricchito da momenti informativi sui corretti stili di vita curati dalla Federazione Medico-Sportiva. Un po’ di numeri: 40 settimane di attività; 240 ore di lezioni di esperti Coni pratiche e teoriche (proiezioni di dvd a tema, fair-play, Carta dei diritti del ragazzo nello sport); 90 minuti di lezione per due giorni a settimana; due gruppi di detenuti per un totale di 76 destinatari coinvolti, con una presenza media ad incontro di otto persone (a causa di trasferimento o liberazione dei detenuti) e picchi di 12-14 presenze. Il Coni ha inoltre fornito attrezzature sportive per le attività e abbigliamento sportivo. "Un’esperienza che - ha sottolineato la direttrice della Casa Circondariale di Bari, Lidia De Leonardis - è emblema di come il concetto di rieducazione si rafforzi con sinergie che coinvolgano anche la società: una visione che ci induce ad aprire molto a iniziative esterne. Pur facendo i conti con i limiti della vetusta struttura in cui lavoriamo, che per esempio non ha palestre o spazi per lo sport". Un bisogno sottolineato anche dall’ex calciatore del Bari e della nazionale Antonio Di Gennaro, reduce - come la responsabile della delegazione di Bari di "Carcere Possibile" Virginia Ambruosi - dall’incontro avvenuto qualche ora prima nella Casa Circondariale di Bari per la consegna degli attestati di partecipazione ai detenuti coinvolti dal progetto. Ricordata, infine, l’iniziativa analoga tenutasi a inizio anno anche nella Casa Circondariale di Taranto e incentrata sul tennistavolo, con tre istruttori Fitet (gli ex campioni ionici Lino Catapano, Francesco Marangio e Antonio Marossi) che per tre mesi hanno impartito lezioni a 15 detenuti per preparali a un mini-torneo fra una rappresentativa di detenuti, magistrati e Polizia. Venezia: "La cella, porta di misericordia", incontro con Marco Pozza e Gabriella Straffi Gente Veneta, 28 novembre 2015 A pochi giorni dall’avvio del Giubileo straordinario, la Fondazione del Duomo di Mestre e l’Istituto di Cultura Laurentianum danno il via ad un ciclo di incontri sulla Misericordia cominciando a "trattarla" da un punto di vista singolare e davvero inconsueto, ovvero dal lato delle… carceri e da chi ci vive ed opera. "La cella, porta di misericordia" - a richiamare subito le parole di Papa Francesco su Giubileo e carceri - è il titolo dell’appuntamento in programma giovedì 3 dicembre, alle ore 18.15, presso l’aula magna del Laurentianum in Piazza Ferretto a Mestre (alla destra del Duomo). Due gli ospiti di eccezione che interverranno e che, certamente, sono ben addentro al tema per la grande esperienza maturata in quest’ambito nel quale svolgono da tempo il loro lavoro e servizio: don Marco Pozza, sacerdote e scrittore, cappellano del carcere Due Palazzi di Padova e autore del recentissimo libro "L’agguato di Dio" (che verrà anche presentato nell’occasione); Gabriella Straffi, direttrice del carcere femminile della Giudecca (Venezia). "Più che una stramaledetta cosa dopo l’altra - ha scritto don Marco Pozza in una sua precedente pubblicazione - la storia dell’uomo è una storia incastonata nella Bellezza e che parla della Bellezza. Nessuna storia è inutile o senza senso, per quanto piccola e povera possa apparire. Ogni storia è un capitolo - o forse anche solo un rigo o un segno di punteggiatura - di una storia più grande che è la storia della salvezza. Riprovare gli errori sì (lo impone la carità e la verità), ma per l’uomo solo richiamo, rispetto e amore". Torino: cultura in carcere, mozione Pd per impegnare Comune in progetti riqualificazione Ansa, 28 novembre 2015 Portare più cultura all’interno del cinema, magari anche grazie a grandi realtà cittadine come il Salone del Libro e Luci d’Artista, per mirare ad una maggior riqualificazione della vita interna al carcere ed ad una maggiore fruibilità culturale da parte dei detenuti. È quanto prevede la proposta di menzione, prime firmatarie le consigliere del Pd, Lucia Centillo e Laura Onofri, presentata oggi. "Gli spazi della detenzione carceraria rappresentano una cesura nel tessuto urbano e sociale - dicono le consigliere - il carcere può essere definito come un luogo di non-identificazione collettiva: non ci si identifica la città, non ci si identifica chi lo abita e non vi sono spazi a misura umana, non a misura di chi vi è recluso e non a misura di coloro che vi operano". La mozione vuole impegnare il sindaco e la Giunta a sviluppare, "in accordo con la direzione del carcere, esperienze di riqualificazione degli spazi estendendo all’interno del carcere l’organizzazione e la fruibilità di eventi culturali e di arte urbana come avviene in diversi territori cittadini con l’allestimento e la diffusione di iniziative decentrate". Il deserto di senso che alimenta il terrorismo di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 28 novembre 2015 Lo shock del 13 novembre. Quello che un tempo era Oriente, e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell’Occidente. Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell’Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l’infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l’aggressione subita, e conosciamo anche l’insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi. Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose. Manca dall’elenco la retorica da primato, la capacità di autoassolversi, l’incapacità congenita di comprendere le ragioni dell’altro. E latitano di fatto anche conquiste positive che effettivamente possediamo: lo spirito critico, la capacità di analisi storica. Queste ultime dovrebbero rammentarci che dentro l’Occidente è fiorita e prospera da secoli la malapianta del razzismo, che anzi l’Occidente stesso nasce come colonialismo, distinzione e sopraffazione dell’altro. Noi datiamo l’inizio dell’Età moderna e dunque la fondazione dell’ Occidente con la scoperta delle Americhe, col completamento, a Ovest, della conoscenza del globo. Ma dimentichiamo che quell’avvio dell’occidentalizzazione del mondo coincide con lo sterminio delle popolazioni native: "Il più grande genocidio dell’umanità", come lo ha definito Tzevtan Todorov. Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual è il senso dell’espressione "scontro di civiltà", aggiornato a "guerra di civiltà"? Guerra di civiltà? Ma l’Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si è autodefinito come tale. L’espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. È come se due entità alla pari, per l’appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto. Ma non è così. In realtà quello che un tempo era Oriente - ricordate Edward Said ? - e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell’Occidente. L’immaginario che noi abbiamo costruito si è ormai imposto come l’unico orizzonte di possibilità a tutti i popoli della terra. Le grandi masse di religione islamica non hanno altra prospettiva che essere assorbiti dai valori e dagli idoli scintillanti della nostra società. Sono lì, condannati a diventare come noi. Ma non è solo da tale immenso accampamento di sconfitti che partono le imprese disperate dei terroristi. Al suo interno le élites musulmane non disdegnano, com’è noto, di assaporare le ebbrezze delle nostre Ferrari. Perché anche l’Islam è diviso in classi, lacerato dalle disuguaglianze. Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l’intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità. Qualcuno si ricorda più dell’american dream, del sogno americano? Oggi negli Usa, come in Europa, le nuove generazioni hanno la certezza che non potranno contare sulle stesse opportunità e i vantaggi dei loro padri. Di quale protezione sociale godranno una volta anziani? Quale certezza di occupazione e di reddito, di stabilità nel lavoro, nelle relazioni umane? Quale messaggio di solidarietà, di superiore assetto del vivere in comune, di felicità collettiva lanciano ad esse le élites dell’odierno capitalismo? Tutto ciò che la sua parte più avanzata può offrire di seducente alle nuove generazioni è un nuovo prodotto tecnologico da godere in consumistica solitudine. Perfino il nostro avvenire sul pianeta, a causa dell’esaurimento delle risorse e del riscaldamento globale, appare minacciato. Per il resto, l’intero tessuto della società così come l’abbiamo conosciuta viene frantumato, risucchiato negli scambi di mercato. Ci ricordiamo ancora della nota esclamazione di Margaret Thatcher, "non c’è alternativa"? Non era solo un invito a desistere dalla lotta rivolto al movimento operaio e alle sinistre. Era, ed è ancora, uno sbarramento degli orizzonti dello stesso capitalismo, che non ha più nulla da offrire, se non il mondo così com’è. Eppure l’ Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza. Razzisti nel nome di Allah: l’Isis e la carne da macello dei "non arabi" di Emanuele Giordana Il Manifesto, 28 novembre 2015 Uno degli elementi di forza dell’espansione islamica in Asia è sempre stata la percezione, per i nuovi adepti alla parola del profeta, di poter godere di pari diritti davanti a Dio e ai tribunali. Uno status che non era garantito in territori come l’India o l’Indonesia, dominati dalla regola delle caste. L’uguaglianza era invece una garanzia del Corano al convertito al di là della comunità di provenienza, della lingua, del colore della pelle. È dunque abbastanza bizzarro che i puristi di Daesh applichino al contrario questa regola su cui si fonda uno dei capisaldi della diffusione dell’Islam. Stando a un rapporto d’intelligence cui avrebbero contribuito ricercatori di diversi Paesi e citato in questi giorni dalla stampa indiana, Daesh agirebbe proprio in direzione opposta: considerando la non provenienza da un Paese arabo - o di antica assimilazione araba - lo spartiacque per dividere i combattenti del califfato in musulmani di serie A e B. Rientrerebbero nella categoria B soprattutto indiani e pachistani ma anche cinesi, indonesiani e africani. Chissà, ma il rapporto non sembra dirlo, se ciò vale anche per il Caucaso e i combattenti che provengono dall’Asia centrale e che di solito sono ritenuti ottimi guerriglieri. I "soldati" dell’Asia meridionale e orientale sarebbero comunque i meno affidabili: a loro non solo non sarebbero riservato il rango di "ufficiali"o la possibilità di entrare nella "military police" di Daesh (riservata a tunisini, palestinesi, sauditi, iracheni e siriani), ma vivrebbero in baracche meno accoglienti, non sarebbero ben armati, godrebbero di un salario inferiore e verrebbero addirittura utilizzati come carne da macello: spediti sulla linea del fronte, davanti ai guerriglieri etnicamente puri, a far da kamikaze senza saperlo, su jeep imbottite di esplosivo che saltano dopo che l’inconsapevole autista ha ottemperato al comando di comporre un certo numero al cellulare. Sebbene sia sempre meglio essere diffidenti anche su questi rapporti di intelligence più o meno segreti, la cosa sarebbe suffragata da almeno tre elementi. Uno quantitativo, uno culturale e uno ideologico religioso. Per quel che riguarda gli indiani il loro numero tra i foreign fighter sarebbe abbastanza ridotto: solo 23. Ma di questi ne sarebbero già morti sei, ossia uno ogni quattro, che è molto. L’altro elemento riguarda il trattamento che in Arabia saudita o nel Golfo viene riservato a indiani, pachistani, bangladesi o indonesiani: camerieri e muratori senza diritti, relegati nelle periferie delle città e pagati una miseria. Decapitati o frustati se incorrono in qualche supposta malefatta. Questi musulmani di serie B, evidentemente ritenuti oltre che meno abili guerrieri anche meno affidabili sul piano della fedeltà, sarebbero sotto stretta sorveglianza da parte della polizia di Daesh. Infine c’è un problema dottrinario: Daesh abbraccia la scuola giuridica (madhaab) hanbalita, una delle quattro seguite dai musulmani in tema di giurisprudenza coranica (fiqh). Centroasiatici, afgani, pachistani, indiani e bangladesi seguono soprattutto quella hanafita (la più antica e diffusa) vista con diffidenza da wahabiti e salafiti, per non parlare di quella shafita (diffusa in Indonesia, India, Africa orientale). Si ritorna dunque alla penisola arabica dove la scuola hanbalita - fu fondata a Bagdad da Ahmad ibn Hanbal - si è poi confinata. Ribadisce la supremazia dei testi sacri sul ragionamento personale, rifiuta l’analogia come fonte del diritto ed è la base giuridica dei movimenti wahabiti e salafiti. Stati Uniti: Otis Johnson, il detenuto che dopo 44 anni in prigione ha scoperto il futuro di Marco Perisse gqitalia.it, 28 novembre 2015 Smarrito in una realtà con cui stenta a mettersi in sintonia, Johnson accetta di andare avanti: "Non affronto il passato, ogni cosa accade per una ragione". Una telecamera di Al Jazeera ha seguito Otis Johnson mentre passeggia per Times Square, a New York, nella riscoperta del mondo dopo aver passato 44 anni in prigione per aggressione e tentato omicidio di un agente di polizia all’età di 25 anni. Oggi 69enne, Johnson racconta il senso di straniamento di fronte alla realtà che si trova davanti, e in particolare il disorientamento di fronte alle nuove tecnologie che nel 1975 potevano esser immaginate sono come fantascienza. Il viaggio in avanti nella macchina del tempo gli ha posto sotto gli occhi attoniti una realtà indecifrabile. "Mi chiamo Otis Johnson. Sono entrato in prigione all’età di 25 anni e quando sono uscito ne avevo 69?. Dopo aver trascorso 44 anni dietro le sbarre - un precedente penale aveva allungato i termini della condanna - Otis cammina per la folla perplesso e quasi incredulo. Niente è come lui lo aveva lasciato negli anni 70, perfino la merce rutilante nelle vetrine e le confezioni sugli scaffali del supermercato. Divertito, anche, dal numero di persone chiuse nel solipsismo dell’ascolto dai cellulari con "i fili nelle orecchie", gli auricolari, come fossero "diventati tutti della Cia". "Il mio ritorno è stato difficile - racconta Johnson - perché molte cose sono cambiate. Ho perso i contatti con la mia famiglia da quando sono stato incarcerato. Non ho una fidanzata, non ho fratelli, non ho sorelle. Nessuno con cui comunicare. Mi manca molto la mia famiglia". Ma assaporare la libertà è corroborante e alla fine non resta che accettare la realtà pur così diversa al di là di rimorsi e rimpianti: "Credo che ogni cosa accada per una ragione. Affronto il futuro, invece di affrontare il passato". Ad aiutarlo, la no-profit Fortune Society che si occupa del supporto al reinserimento di ex-detenuti.