Giustizia: il mito pericoloso del Grande Fratello di Federico Rampini La Repubblica, 27 novembre 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando punta a estendere le intercettazioni ben oltre la telefonia mobile, fino a includere chat, videogiochi e piattaforme per scaricare musica. L’indottrinamento dei terroristi e l’organizzazione di attentati viaggiano sulla PlayStation? Non è dimostrato ma non è neppure impossibile. Lo ammette la Sony, che produce le popolari console per videogiochi. Chiamata in causa qualche giorno fa dal governo belga, la multinazionale giapponese non ha escluso che i jihadisti possano usare anche i videogame per delle "conversazioni" a latere tra giocatori, che abbiano tutt’altre finalità. DI qui l’annuncio del ministro della Giustizia italiano, che punta a estendere le intercettazioni ben oltre la telefonia mobile, fino a includere chat, videogiochi e piattaforme per scaricare musica. Ogni infrastruttura digitale suscettibile di ospitare conversazioni diventa uno spazio da acquisire allo spionaggio anti-terrorismo. Inquirenti, forze dell’ordine, servizi segreti, devono rincorrere fenomeni generazionali sui quali sono spesso in ritardo. I terroristi, o le loro potenziali reclute, sono per lo più ventenni. Il proselitismo avviene talvolta per auto-candidatura spontanea: si fa "shopping online" per educarsi all’odio, assimilare una cultura che legittima la violenza e l’annientamento di vittime innocenti. Per immergersi in questo nichilismo generazionale, i ventenni usano le tecnologie di cui sono padroni. Chi li insegue spesso ha l’età dei loro genitori; e come i loro genitori, è spiazzato, in affanno. Anche nell’antiterrorismo si riproduce il divario tra "nativi digitali", che si muovono nelle nuove tecnologie come pesci nell’acqua, e "immigrati digitali" che devono apprendere un linguaggio straniero. Da un lato quindi è normale che lo Stato debba adeguare i suoi metodi e i suoi poteri. Dall’altro ovviamente c’è uno scambio da fare tra sicurezza e privacy. Anche in un videogame si potrà essere spiati dal Grande Fratello. Dove sono i limiti, quali pericoli che corriamo, di fronte a queste intrusioni? Fin dove lo Stato si può spingere, nella logica delle leggi speciali? Dopo l’orrore di Parigi è comprensibile che una maggioranza dell’opinione pubblica metta al primo posto le ragioni della sicurezza. Avvenne anche in America dopo l’11 settembre 2001. Nacque il Patriot Act, la legge speciale voluta da George W. Bush, e gli abusi che ne seguirono. Le intercettazioni della National Security Agency si allargarono a dismisura. Solo dopo le rivelazioni di Edward Snowden c’è stata un’indagine del Congresso, a cui l’Amministrazione Obama ha risposto ristabilendo qualche controllo, qualche limitazione, qualche garanzia in più. Ma al G20 di Antalya in Turchia, il 15 novembre lo stesso Obama ha invitato gli europei ad essere meno diffidenti sulle intercettazioni. È vero che nella nostra vita digitale usiamo spesso due pesi e due misure: ci scandalizziamo se viene spiato dalla Nsa il telefonino di Angela Merkel, mentre ogni giorno Google e Facebook saccheggiano la nostra corrispondenza privata per vendere la nostra anima di consumatori al migliore offerente. Il precedente americano, in particolare l’uso del Patriot Act, indica che i pericoli sono di due categorie molto diverse. Da una parte c’è il rischio di abusi, da parte di un apparato della sicurezza che di fronte ai terroristi diventa sempre più vasto, tendenzialmente auto-referenziale, un "corpo separato" allergico ai controlli parlamentari o ai diritti del cittadino. D’altro lato, almeno altrettanto serio è il pericolo di una deriva hi-tech che diventa delirio di onnipotenza: con l’intelligence che s’illude di sconfiggere il nemico attraverso Big Data. Mentre un certo tipo di terrorista si muove molto al di sotto degli schermi radar, con cellule piccole, senza un’organizzazione centrale. Dai fratelli ceceni della maratona di Boston, ai marocchini-belgi di seconda generazione di Molenbeek, i grandi apparati dello spionaggio tecnologico non possono sostituire il lavoro di un’intelligence diffusa, con antenne sensibili sul territorio, con la cooperazione indispensabile delle comunità islamiche, delle famiglie, dei coetanei che segnalino le "conversioni" improvvise alla jihad. In quanto allo Stato di diritto, in Occidente ha dimostrato di saper sopravvivere alle leggi speciali, dagli anni di piombo italiani al terrorismo irlandese o basco, ivi compresa l’America di Obama. Una delle ragioni per cui anche sotto l’aggressione dei terroristi non siamo diventati Stati di polizia, sta proprio nella vigilanza dell’opinione pubblica e dei suoi mezzi d’informazione. Giustizia: Orlando "intercettare playstation e chat, 150 milioni per i sistemi informatici" di Valeria Costantini Corriere della Sera, 27 novembre 2015 Più strumenti per "intercettare alla luce delle nuove tecnologie", "rafforzare la capacità di capire, con più traduttori" e "maggiore cooperazione tra le Procure con il supporto dell’informatica". Queste le tre necessità emerse dal vertice sul terrorismo convocato dal ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando al dicastero di via Arenula, a pochi giorni dall’avvio del Giubileo. "Abbiamo deciso di investire già molto sull’informatizzazione che è una risposta fondamentale su questo terreno, abbiamo deciso di raddoppiare lo stanziamento rispetto allo scorso anno. Quest’anno spenderemo 150 milioni di euro per il sostentamento dei sistemi informatici", ha spiegato il ministro sottolineando l’importanza di un "salto di qualità anche rispetto ad alcune figure professionali". Centrali, in questo senso, gli operatori e i tecnici e i mediatori culturali all’interno del carcere per impedire fenomeni di radicalizzazione. Immigrazione clandestina, reato inutile. Nel corso del vertice su sicurezza e anti-terrorismo, convocato dopo i tragici fatti di Parigi dello scorso 13 novembre, è stata inoltre ribadita l’esigenza di "superare il reato di immigrazione clandestina", ha sottolineato il ministro della Giustizia che avanzerà una proposta in questo senso. "Superarlo è utile per le indagini sui trafficanti di esseri umani, che sono una delle fonti che alimenta l’attività terroristica. Sarebbe più facile interrogare gli immigrati come persone informate sui fatti piuttosto che come imputati", ha spiegato il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti dopo la riunione. Per il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, l’Italia ha "le professionalità per affrontare questa sfida e oggi abbiamo scambiato valutazioni, opinioni, esperienze a fronte di un fenomeno nuovo e cosi rischioso". Sul reato di immigrazione clandestina, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi ha commentato come non abbia "nessuna forza deterrente perché prevede un’ammenda per persone che hanno sfidato la morte. Pensare che la minaccia di una sanzione pecuniaria possa fermare questi flussi epocali è sbagliato" ha aggiunto. "Serve procura europea". Vitale però per Orlando è "dare vita ad una procura europea, le nostre informazioni le vogliamo mettere a disposizione delle altre autorità". In questa battaglia però, ha detto il guardasigilli, l’Italia combatte da sola, è in posizione di minoranza, ma è una "battaglia che porteremo avanti". Puntare sulle informazioni sarà fondamentale: intanto si potenzia l’amministrativo e il ministro ha annunciato l’arrivo di "4mila unità dalle province alle cancellerie e agli uffici amministrativi e giudiziari". Per quanto riguarda la questione dei mediatori culturali servirà un emendamento alla legge di stabilità perché "le risorse attualmente disponibili non sono sufficienti", ha aggiunto Orlando. Intercettazioni su playstation e chat. "Il quadro preoccupante dello scenario internazionale consiglia un monitoraggio costante, incontri come questi saranno destinati a ripetersi" ha concluso il ministro della Giustizia al termine del vertice a cui hanno partecipato, oltre a Legnini e Roberti, il procuratore generale della Corte di Cassazione Pasquale Ciccolo, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, il membro nazionale designato di Eurojust Filippo Spiezia. Sono le nuove tecnologie, sfuggenti per le norme internazionali, a preoccupare chi si occupa di sicurezza. Troppi strumenti da monitorare. "Per questo dobbiamo potenziare i nostri sistemi di intercettazione e questo oggi abbiamo deciso. Sulle playstation? Si, ma anche su tutte quelle chat legate ad altri programmi come, ad esempio, quelli per scaricare musica" ha sintetizzato il ministro. Giustizia: le timidezze dei magistrati nella lotta al terrorismo internazionale di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 27 novembre 2015 Se non si abbandona la linea morbida il rischio è rendere troppo poco efficace il contrasto ai militanti della jihad. Risorsa o anello debole? La magistratura aiuterà il Paese applicando con energia i propri strumenti repressivi nella guerra di difesa dal terrorismo islamico in cui siamo stati trascinati al pari degli altri occidentali? O si rivelerà la parte più debole della diga che si cerca di erigere contro i violenti? Alcuni dei presunti jihadisti arrestati a Merano dai carabinieri in un blitz contro l’estremismo islamico pochi giorni prima della strage di Parigi, sono già in libertà. Il gip non ha rilevato sufficienti indizi per convalidare l’arresto. Il giudice conosce le carte e noi no. Forse ha ragione. I precedenti però non sono incoraggianti. Giovanni Bianconi, in diversi articoli apparsi sul Corriere, ha documentato quanto fossero pericolosi i quattro estremisti islamici residenti a Bologna e espulsi dal ministero dell’Interno dopo che il gip non aveva convalidato gli arresti disposti dalla Procura. Nel computer di uno di loro ( Corriere di mercoledì) c’era, insieme a predicazioni jihadiste, un manuale con istruzioni per la guerriglia urbana. Il Foglio della settimana scorsa ha evocato un’inquietante connessione fra la strage di Parigi e l’Italia. L’indottrinatore dei terroristi di Parigi, Bassam Ayachi, arrestato nel 2008 a Bari per organizzazione di immigrazione clandestina, poi accusato di terrorismo per via di una telefonata in carcere in cui si progettava un attentato, e condannato a otto anni, venne dapprima inspiegabilmente rilasciato e poi assolto in Appello. I giudici lasciarono libero di andarsene in giro un black mamba, un serpente velenosissimo e mortale. Nel settembre del 2014 il settimanale L’Espresso fece un’inchiesta sugli ormai troppi casi di jihadisti, accusati di terrorismo internazionale, passati per le mani della giustizia italiana e assolti o comunque lasciati liberi di continuare altrove la loro mortale attività. Per esempio, accadeva che certi giudici fossero disposti a riconoscere come "opinioni", libere manifestazione del pensiero, non perseguibili, i proclami jihadisti (sgozziamo tutti gli infedeli, e simili). Ma il punto è che quei proclami non erano "opinioni", erano atti di guerra, anelli di una catena di azioni che portavano (e portano) all’assassinio di persone inermi. L’avvocato ha il diritto di dire che un proclama jihadista è una libera opinione. Ma c’è un problema se il giudice ci crede. Il proclama jihadista non è un’opinione e il jihadista non è un qualunque cittadino: è il soldato di una guerra santa globale, parte di una comunità di combattenti che pensa di agire in nome di Dio. Chi crede che sia "illiberale" perseguire un jihadista che promette morte e distruzione non sa nulla di liberalismo. Non è per niente liberale dire che non abbiamo il diritto di difenderci da chi dichiara di volerci colpire, essendo la libertà dall’assassinio la prima libertà, senza la quale nessun’altra libertà è possibile. Magari, le inchieste di stampa hanno registrato solo una serie (piuttosto lunga) di "infortuni". Magari, un’analisi più sistematica potrebbe mostrare un quadro diverso. L’impressione però è che non sia (ancora?) così. Ci sono due possibili obiezioni a quanto qui sostenuto. La prima è debole, la seconda è vera solo a metà. L’obiezione debole è quella secondo cui, così come la magistratura fece la sua parte all’epoca delle Brigate Rosse (anni Settanta), non c’è motivo di credere che - sbandamenti iniziali a parte - non la farà contro il terrorismo islamico. Le situazioni sono diverse. Non c’è solo la differenza fra terrorismo nazionale e terrorismo transazionale, molto più sfuggente. C’è, soprattutto, il diverso ruolo della magistratura. All’epoca del terrorismo italico, essa accettava il primato della politica o, se si preferisce, era al guinzaglio dei partiti. La parte meno raccontata della vicenda del terrorismo brigatista riguardò la sotterranea competizione fra il Pci e la Dc. Il Pci che aveva assunto posizioni dure (per via dell’"album di famiglia") contro i brigatisti, sostenne con forza l’azione antiterrorismo della magistratura riuscendo così a scalzare la Dc come suo principale "partito di riferimento". In ogni caso, c’erano partiti forti e i magistrati ne seguivano le indicazioni. I partiti di allora non ci sono più e la magistratura non riconosce più il primato alla politica. Si considera al servizio della sola Costituzione. Tradotto, significa che le indicazioni che vengono dalla politica saranno accettate solo se i magistrati le condividono. Il governo può benissimo varare misure dure contro il terrorismo, rafforzare polizia e intelligence, eccetera, ma se poi certi magistrati non le approvano possono vanificarne il lavoro. Il rischio è che si continui come oggi, con i magistrati in ordine sparso: alcuni scelgono il rigore, altri l’opposto. Con l’effetto finale di rendere inefficace l’azione di contrasto. Come sempre, il confine è sottile: dove comincia l’ingerenza che attenta alla libertà del magistrato e dove finisce la legittima aspettativa che la magistratura remi nella stessa direzione di chi cerca di bloccare una minaccia mortale? La seconda obiezione è solo una mezza verità. C’è chi dice: tutto dipende dalle leggi, se sono sbagliate l’azione dei magistrati ne risente. È vero ma solo fino a un certo punto. Possono esserci certamente leggi inadeguate. Ma le leggi non sono tutto. Contano anche le prassi giudiziarie, le quali possono piegare le leggi in una direzione o nell’altra a seconda degli orientamenti della magistratura. Gli atteggiamenti "morbidi" documentati dalla stampa sono cosa del passato? Il salto di qualità fatto dal terrorismo obbligherà anche certi magistrati a rimodulare orientamenti e pratiche? I "machiavellici" (che non hanno mai letto Machiavelli) pensano che sia un bene se quella rimodulazione non ci sarà, se gli atteggiamenti "morbidi" non verranno abbandonati. Magari è questa la ragione per cui, pensano i machiavellici, nessun attentato serio ha ancora colpito il nostro Paese. A parte il rischio che altri governi europei giungano alle stesse conclusioni accusandoci così di doppio gioco, per quanto tempo una simile immunità potrebbe durare? Risorsa o anello debole. Al momento, è difficile stabilire che cosa sarà la magistratura, nel suo complesso, nelle prossime fasi di questa guerra difensiva. Giustizia: intercettazioni; la Procura di Roma "via dalle carte quelle irrilevanti" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 novembre 2015 Le nuove regole di autoriforma fissate da Giuseppe Pignatone anticipano il piano del governo. "Tutelare persone e strumenti d’indagine, attenzione a dati sensibili che riguardano sfera sessuale, opinioni politiche o religiose e condizioni di salute. La Procura di Roma gioca d’anticipo, e prima che il governo metta mano alla riforma delle intercettazioni delimita il campo delle registrazioni da inserire nelle carte giudiziarie, destinate a diventare di pubblico dominio. Con l’obiettivo di evitare sconfinamenti o usi impropri delle conversazioni, in particolare quelle che riguardano persone non indagate o comunque estranee ai procedimenti penali; ma anche di salvaguardare "un insostituibile strumento di indagine e di ricerca della prova", che rischierebbe di essere intaccato da interventi legislativi improvvisati o poco meditati. Messaggio alla politica. In questa chiave la circolare con cui il capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone detta nuove regole a polizia giudiziaria e sostituti procuratori può essere letta anche come un messaggio indiretto alla politica: la legge attuale è già sufficiente a impedire abusi, e se proprio bisogna intervenire con nuove norme si può tenere conto di questa sorta di "autoriforma" introdotta nella Capitale. Il "criterio inevitabilmente elastico" per valutare il materiale raccolto con le micropsie, scrive Pignatone nel documento inviato ieri ai suoi sostituti e ai vertici degli uffici investigativi, "dovrà essere ragionevolmente declinato" attraverso un "principio guida" così riassunto: "La polizia giudiziaria e il pubblico ministero eviteranno di inserire nelle note informative, nelle richieste e nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine". Con una "speciale cautela" verso tre aspetti: i "dati sensibili" che riguardano le opinioni politiche o religiose, la sfera sessuale e le condizioni di salute; i "dati personali" di persone non inquisite e intercettate indirettamente sui telefoni o negli ambienti frequentati dagli indagati; le conversazioni casualmente registrate con "soggetti estranei ai fatti d’indagine". I fatti "pertinenti". In questi casi, quando "non vi sia un’evidente rilevanza ai fini della prova", l’investigatore che ascolta e compila i cosiddetti "brogliacci" con la sintesi delle conversazioni intercettate "dovrà astenersi da verbalizzare il contenuto della conversazione, rivolgendosi al pm nelle ipotesi dubbie". Questo perché la "rilevanza" delle intercettazioni, e la conseguente "pertinenza" con l’indagine, non può limitarsi alla sola imputazione, ma si espande - come stabilito dalla corte di Cassazione - ai fatti "pertinenti e utili" a ricostruire un’ipotesi di accusa necessariamente "fluida" (soprattutto all’inizio dell’inchiesta) nonché "i contesti nei quali sono stati commessi i fatti oggetto d’indagine". Consapevole di avere a che fare con uno strumento "particolarmente delicato poiché incide sul bene costituzionale della riservatezza delle comunicazioni", come riconosciuto dalla Consulta, il procuratore cerca così di trovare "il giusto equilibrio" tra l’esigenza di tutelare quel diritto e la necessità di procedere "all’accertamento delle responsabilità". Provando a risolvere alla fonte, in questo modo, il problema della pubblicazione degli atti processuali, non più segreti e infarciti di intercettazioni. Diritto di difesa. Proprio per evitare la divulgazione di materiale non trascritto perché irrilevante ai fini processuali, destinato alla distruzione, Pignatone ha impartito nuove regole per il rilascio agli avvocati dei file audio (una volta erano le bobine) con le registrazioni integrali, cioè di tutte le conversazioni. Tentando di conciliare, ancora una volta, privacy e diritto di difesa. Dopo gli arresti gli avvocati potranno avere copia di quelle utilizzate dal giudice nel suo provvedimento. A fine indagine, invece, potranno ascoltare tutto (anche le parti giudicate non utili dagli inquirenti) ma per duplicarle e ottenere le copie dovranno attendere la decisione del giudice nell’udienza-filtro o in dibattimento, dopo averne fatto motivata richiesta. A sostegno di queste "linee guida", il procuratore di Roma cita due sentenze della Cassazione e la recente ordinanza (contestata dagli avvocati) del tribunale di Roma nel processo a "Mafia Capitale". Giustizia: magistrati, la questione morale esiste di Luigi Ferrarella Corriere della Sera - Sette, 27 novembre 2015 Pm, gip e giudici finiti in manette o indagati, casi eclatanti di corruzione: la categoria deve avviare un serio "repulisti" al suo interno. È come in certi giochi di enigmistica: che figura togata vedi se, con un trattino, unisci i puntini della casistica di cronaca anche solo degli ultimi mesi? Poteva persino non stupire che, in una materia tradizionalmente "tentatrice", capitassero giudici fallimentari arrestati (già tre) o indagati (molti di più insieme ad avvocati e consulenti) in Lazio e Piemonte e Lombardia per pasticci nelle aste giudiziarie. Solo che è toccato vedere pure un pm arrestato a Napoli e un altro sostituto procuratore finire in carcere a Roma perché, dalle donne di loro indagati o da transessuali, pretendevano sesso in cambio di permessi di colloqui, documenti di soggiorno o altri favori; e un ex giudice lombardo (da poco in pensione) è stato sorpreso in flagrante in un albergo milanese con minorenni adescati nelle stazioni ferroviarie. La gestione disinvolta e familistica degli incarichi professionali sui beni confiscati a Palermo ha prodotto l’allontanamento della presidente di sezione più vezzeggiata dall’antimafia ufficiale e il trasferimento "spontaneo" di altri tre suoi colleghi. Ma in questa sorta di mappamondo dei guai togati la Calabria è quasi un mondo a parte, con un prestigioso presidente delle cruciali Misure di prevenzione del Tribunale e con un gip addirittura condannati definitivamente in Cassazione per aver favorito clan di ‘ndrangheta; con una decina di altri magistrati sotto inchieste che, a prescindere dal futuro esito, mostrano uno spaccato impressionante di commistioni; o con un ex vicedirigente della Procura nazionale antimafia che, per ribattere alle accuse di rapporti con un ‘ndranghetista, invoca criptico il segreto di Stato. A Taranto un pm viene arrestato con l’accusa di concussione, a Busto Arsizio un gip è indagato per corruzione per la sponsorizzazione di sue passioni sportive, a Milano un procuratore aggiunto è rimosso in via cautelare per i rapporti con un avvocato, mentre il suo capo spiega di essersi dimenticato tre mesi in cassaforte un delicato fascicolo. E sempre nel capoluogo lombardo, dove gli ex vertici di Corte d’Appello e Procura Generale dopo la pensione sono incorsi nelle indagini sulla grande azienda pubblica nei cui organismi di sorveglianza erano entrati, e dove un presidente di sezione di Tar va a giudizio per aver cambiato la motivazione di una decisione rispetto alla camera di consiglio, un pm è trasferito in via d’urgenza per essersi fatto prestare soldi e pagare l’affitto di casa da persone altrimenti larvatamente minacciate di conseguenze giudiziarie. E se in Liguria quattro magistrati sono indagati per rapporti troppo familiari con gli ex vertici di una banca popolare dai tollerati bilanci dissestati, in Campania - dove la giudice del presidente della Regione discute della causa con il marito che in parallelo si muove per ottenere una nomina proprio dalla Regione - l’arresto di tre giudici onorari tributari (più 13 indagati) disvela che le cause contro il Fisco venivano delegate e a volte addirittura scritte direttamente dal consulente della parte privata. Non solo una "mela marcia". Man mano che si uniscono questi puntini, bisogna arrendersi all’evidenza: l’esistenza ormai di una questione morale anche dentro la magistratura. E non tanto per il numero in sé di indagini, che al contrario va meritoriamente ascritto agli anticorpi sviluppati da una categoria certo meno autoindulgente di altre; quanto invece per gli interrogativi che la stragrande maggioranza di magistrati, davvero servitori dello Stato e vanto delle classi dirigenti di questo Paese, dovrebbe iniziare a porsi sulla disarmante concezione del ruolo espressa da questi loro colleghi nello svenderlo, svilirlo, barattarlo. Interrogativi non liquidabili dall’argomento (consolante ma oggi forse non più tanto vero) dell’isolata "mela marcia" di turno. Giustizia: Consulta, da martedì si voterà a oltranza di Francesca Schianchi La Stampa, 27 novembre 2015 Il Presidente del Senato Grasso: "pretendiamo che il parlamento dia una risposta" La sospirata elezione arrivi, o si andrà avanti con scrutini a oltranza. Dopo che mercoledì il Parlamento in seduta comune ha fallito anche il 28esimo tentativo di eleggere i giudici della Corte Costituzionale, ora "pretendiamo che il nostro Parlamento e la politica possano finalmente dare una risposta", dice il presidente del Senato, Pietro Grasso: "Abbiamo dato fino a martedì perché maggioranza e opposizione possano trovare delle soluzioni", cioè fino al 1° dicembre, data in cui è fissata una nuova votazione; altrimenti, fa sapere il presidente, "si può ritenere che sia venuto il momento di scrutini a oltranza". I giudici che mancano sono tre: mercoledì scorso, l’accordo tra Pd e Fi prevedeva di eleggere Augusto Barbera, Francesco Paolo Sisto e Giovanni Pitruzzella. Nessuno ha raggiunto il quorum di 570 voti, nonostante sulla carta ci fosse un margine di un centinaio di voti in più. Colpa di mal di pancia sparsi, leggono il risultato in Transatlantico, forse nei partiti della maggioranza sono segnali lanciati in vista di future nomine di governo, o forse hanno pesato le tensioni nel Pd provocate dalle discussioni sulle primarie per le amministrative (ieri i dem di Napoli hanno smentito l’ipotesi di un candidato Ncd alle primarie, dopo che l’ipotesi aveva causato polemiche). Fatto sta che gli unici a gioire sono i grillini: "Il vincitore morale è il M5S", esultano i parlamentari sul blog di Grillo. "Stiamo lavorando per riuscire a eleggerli martedì, siamo ottimisti", taglia corto il capogruppo dem Ettore Rosato. La terna di candidati, garantiscono, rimarrà quella messa alla prova mercoledì. Per riuscire a eleggerla, da qui al 1° dicembre si cercherà di recuperare almeno una parte dei malumori. E anche di aggiungere all’accordo un’altra forza politica: spetta a Forza Italia tentare di coinvolgere la Lega, che l’altro ieri ha votato scheda bianca perché "abbiamo appreso i nomi dai giornali", come si sfoga un eletto del Carroccio, ma non pone veti su nessuno dei tre nomi. Se arrivasse il loro ok, si tratterebbe di 28 voti. Ma se Barbera che ha ricevuto già 536 preferenze sembra a un passo dal traguardo, più difficile appare la partita per gli altri due candidati. "L’eterno inciucio" denuncia il M5S, ora "se i partiti non vogliono continuare a fare pessime figure devono passare dal Movimento 5 Stelle, o meglio dal suo metodo", scrivono sul blog di Grillo. Il deputato Toninelli insiste sul fatto che "se il Pd vuole votare i nomi migliori deve venire a bussare al M5S", ma prevede invece un "mercimonio di voti, un turbinio di incontri e telefonate con chissà quali promesse, pur di raccattare un voto in più". L’intenzione del Pd è proseguire sulla strada dell’accordo con Fi, ma se i tre dovessero venire bocciati nell’urna di nuovo, chissà. Per il momento non sarà coinvolta nemmeno Sinistra italiana: dopo aver votato l’altro ieri scheda bianca, martedì proporrà una sua rosa di nomi. Tra loro ci sarà la costituzionalista Lorenza Carlassare, ma anche probabilmente Franco Modugno, il candidato proposto dal M5S. Giustizia: Consulta, il Pd persevera di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 novembre 2015 Martedì prossimo i democratici intendono riproporre la stessa terna (Barbera, Sisto, Pitruzzella) di candidati giudici costituzionali, malgrado l’accordo con Forza Italia non abbia retto alla prova del voto segreto. Grasso minaccia: scrutini a oltranza. "Scrutini a oltranza". Nel primo dei quattro giorni concessi ai partiti - ma essenzialmente al Pd e ai suoi alleati - per provare a sciogliere il rebus delle nomine alla Consulta, il presidente del senato Grasso agita lo spauracchio del conclave. Se anche martedì prossimo la seduta comune del parlamento non dovesse riuscire a ricostituire il plenum della Corte costituzionale - che manca da 17 mesi e 27 scrutini - "si può ritenere che sia venuto il momento di scrutini a oltranza, finché non si arrivi a una soluzione". "Abbiamo dato fino a martedì perché maggioranza e opposizione possano trovare delle soluzioni", aggiunge Grasso. Ma al momento è ancora muro contro muro. Del Pd contro il Movimento 5 Stelle e viceversa. Malgrado l’unico precedente positivo - quello di oltre un anno fa che ha portato all’elezione della giudice Silvana Sciarra - sia passato per un accordo tra i democratici e i grillini (che ottennero i voti per mandare il loro prescelto al Csm), al Nazareno si preferisce insistere nel guardare dall’altra parte. L’asse con Forza Italia ha portato al disastro mercoledì scorso, quando tra assenti e franchi tiratori sono spariti nel segreto dell’urna oltre 150 voti. Non ce l’hanno fatta né il favorito del Pd Augusto Barbera, fermato 36 voti sotto la soglia minima del quorum richiesto per l’elezione a giudice costituzionale, né il senatore di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, né tantomeno il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella sul quale puntavano i centristi che immaginavano di approfittare della rottura tra grillini e renziani. Rottura che persiste. Perché i 5 Stelle dopo aver dato segnali di poter accogliere la candidatura Barbera hanno velocemente sterzato, rifiutandosi di sottoporla al giudizio della rete - come del resto è stato per la stessa candidatura grillina, venuta fuori da una riunione semideserta di parlamentari che ha designato il costituzionalista Franco Modugno, immediatamente gradito dal Pd. E il Pd ancora ieri sera insisteva: "Noi abbiamo accettato senza batter ciglio la proposta di Modugno, ci saremmo aspettati lo stesso per Barbera", ricordava il deputato Mauri. E invece no, anche se le motivazioni dei 5 Stelle hanno avuto bisogno di qualche giorno per affinarsi. All’inizio hanno detto che il nome era stato fatto troppo tardi perché potesse essere sottoposto al giudizio degli iscritti online. Poi hanno rimarcato l’incidente giudiziario del professor Barbera, intercettato dalla Guardia di Finanza di Bari mentre al telefono si interessava di un concorso a cattedra, una vicenda per la quale non risulta indagato; l’argomento è adesso assai sfumato sul blog di Grillo. Dove si insiste invece sui trascorsi politici di Barbera, che in effetti è un ex parlamentare ma soprattutto è un accanito sostenitore delle riforme di Renzi in mille occasioni pubbliche. Sul blog si stroncano facilmente anche le candidature di Sisto e Pitruzzella. Con argomenti che sono gli stessi di Sinistra italiana, che ieri in una conferenza stampa ha parlato di "figure fortemente segnate dallo scontro politico che si è consumato in questi mesi e trasmettono l’idea dei partiti che mettono le mani sulla Consulta". Stando così le cose, martedì dovrebbe cambiare poco, a meno che una più occhiuta vigilanza di Pd e alleati non riporti a votare quella trentina di assenti della maggioranza che si sono contati due giorni fa, non perdendone neanche uno nel voto segreto potrebbe farcela il solo Barbera, ma è davvero assai difficile. Il Pd ha già dato prova di sapersi incaponire, portando al massacro il nome di Violante in nove votazioni consecutive, ma passato un anno il parlamento non può concedersi il lusso di sprecare un altro mese. Da qui la minaccia di votazioni ad oltranza. Che possono servire a forzare la mano ai due litiganti. Se Pd e M5S si ritrovassero, a rimetterci potrebbe essere il candidato di Forza Italia Sisto, in favore del centrista Pitruzzella. Molto presto, però, vista l’annunciata rinuncia di ancora un altro giudice eletto dal parlamento, i berlusconiani potrebbero avere la loro piccola fetta di Corte costituzionale. Giustizia: processo Mafia Capitale; sindaci, ministri e prefetti tra i testi accolti dai giudici di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 27 novembre 2015 Saranno citati, su richiesta per le difese, Alemanno, Marino e i prefetti di Roma Morcone, Gabrielli e Pecoraro. Sesta udienza per il maxi-processo di Mafia Capitale. Stavolta la decisione del tribunale, nell’aula bunker di Rebibbia (dove è in corso la nuova udienza mentre l’impianto di riscaldamento ha dato forfait) é stata rapida: la maggior parte dei testimoni richiesti dalla difesa sono stati accolti, i giudici si sono limitati a sfrondare qui e là le liste chiedendo, ad esempio, di operare una scelta fra varie testimonianze prodotte per riferire in merito a un singolo episodio e dunque anziché tre testi si chiede ai difensori di sceglierne solo uno. Citati Alemanno, Marino e i prefetti della Capitale. Saranno citati fra gli altri Alemanno (indagato a sua volta), Ignazio Marino e i prefetti della Capitale, ex e attuali, Mario Morcone, Franco Gabrielli e Giuseppe Pecoraro, Angela Pria capo dipartimento del Ministero dell’ interno per le libertà civili e l’immigrazione. Il difensore di Gramazio rivolge un appello della moglie dell’ex consigliere regionale al tribunale. "La moglie del mio cliente ha appena partorito e sta allattando, non può assistere al processo e chiede almeno di incrementare il numero di telefonate settimanali (una sola, ndr)". Il tribunale ha effettuato quindi un drastico taglio al migliaio di nomi che gli erano stati sottoposti dalle parti ma il presidente Rosanna Ianiello ha dato l’ok per i tre ultimi prefetti della Capitale. I test di "lusso": ministri, deputati, generali. Lunga però - e molto ricca di nomi noti - la lista dei testimoni che nelle decine di prossime udienze previste in calendario fino alla prossima estate, sfilerà in tribunale. Compariranno come testimoni alcune centinaia di persone tra cui anche gli ex sindaci Gianni Alemanno e Ignazio Marino, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il presidente di Anac, Raffaele Cantone, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, l’ex assessore Comunale, Alfonso Sabella, il presidente del Consiglio regionale, Daniele Leodori e i consiglieri regionali Francesco Storace ed Eugenio Patanè, l’ex capo di Gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, il deputato del Pd, Umberto Marroni e il padre Angiolo Marroni, ex garante dei detenuti del Lazio, l’ex assessore politiche sociali Rita Cutini, l’ex vicesindaco Luigi Nieri, l’ex assessore comunale all’Ambiente e Rifiuti, Estella Marino e la deputata del Pd, Michela Campana, l’ex assessore ai lavori Pubblici, Maurizio Pucci, l’eurodeputato Pd, Goffredo Bettini, l’ex generale dei Carabinieri e delegato della giunta Alemanno alla Sicurezza, Mario Mori. Giustizia: caso Shalabayeva; 8 indagati per sequestro di persona, tra cui il capo dello Sco di Alberto Custodero La Repubblica, 27 novembre 2015 Il provvedimento di espulsione fu annullato dal governo in seguito all’intervento dell’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino. Sotto accusa anche il giudice di Pace. Sequestro di persona: è l’accusa che i pm di Perugia contestano al capo dello Sco Renato Cortese, al questore di Rimini Maurizio Improta, ad altri 5 poliziotti e al giudice di Pace Stefania Lavore per il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov espulsa dall’Italia nel 2013. La donna fu prelevata dagli agenti di polizia che cercavano il marito. Cortese era allora capo della Mobile di Roma, Improta - che si occupò dell’espulsione - il capo dell’ufficio Stranieri della Capitale. Con la stessa accusa, nel registro degli indagati della procura perugina - competente ad indagare in quanto è coinvolto un giudice del distretto di Roma - compaiono poi Luca Armeni e Francesco Stampacchia, all’epoca rispettivamente dirigente della sezione Criminalità organizzata e commissario capo della Mobile, Vincenzo Tramma, Laura Scipioni e Stefano Leoni, tre poliziotti in servizio presso l’ufficio Immigrazione. Gli uomini della Mobile e dell’Ufficio Stranieri si presentarono nella notte del 29 maggio del 2013, insieme ad altri agenti, nella villa di Alma Shalabayeva a Casal Palocco, con un mandato di cattura dello Stato kazako rilanciato dall’Interpol. La donna, con un rapido procedimento che ha visto anche il timbro del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, fu espulsa dall’Italia a bordo di un aereo pagato dall’ambasciata kazaka insieme alla figlia di sei anni, dopo un passaggio nel Centro di identificazione ed espulsione. Una sentenza della Cassazione del luglio del 2014 ha poi stabilito che madre e figlia non dovevano essere espulse dall’Italia. Il governo annullò l’espulsione. Quando scoppiò il caso, il governo annullò il decreto di espulsione e iniziò la trattativa diplomatica, condotta dall’allora ministro degli Esteri Emma Bonino, per il ritorno di Alma e della figlia in Italia. Le dimissioni del capo di Gabinetto del Viminale. Ma si tratta di una storia ancora oscura, in cui non venne mai fuori il reale ruolo del Viminale e le eventuali pressioni del governo kazako, con cui il nostro Paese mantiene rapporti economici molto stretti. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, negò di essere stato avvisato dell’operazione, e soprattutto negò di aver ricevuto delle pressioni dai diplomatici kazaki. La responsabilità politica, se così si può dire, ricadde sul capo di Gabinetto del ministro, Giuseppe Procaccini, che si dimise. La cronaca del presunto sequestro. L’operazione inizia nella notte del 29 maggio 2013, quando i poliziotti della Mobile e dell’ufficio Immigrazione di Roma, guidati rispettivamente da Cortese e Improta, si presentano nella casa dove viveva la moglie del dissidente kazako. Prendono Alma e il cognato Bolat, e li portano in un Cie. La sera dopo liberano Bolat perché ha un documento di uno stato Ue considerato valido. Mentre considerano falso il passaporto centrafricano di Alma che resta nel Cie. La consulenza sul passaporto. L’ufficio Immigrazione fece una consulenza sul passaporto dichiarandolo falso. La consulenza fu determinante per l’espulsione. La Farnesina, per voce del ministro degli Esteri Emma Bonino, negherà di essere stata coinvolta nella valutazione del passaporto. La consulenza fu smentita dallo stato centrafricano che dichiarò la validità del documento. L’udienza di convalida del "trattenimento" dal giudice di Pace. Il 31 mattina si svolge l’udienza di convalida del trattenimento (non dell’espulsione), nel Cie. Gli avvocati della donna dello studio Vassalli-Olivo vanno in udienza davanti al giudice di Pace Stefania Lavore, ma non riescono a parlare con la loro cliente: gli viene detto che possono fare il colloquio con la donna solo alle 15. Ma quel colloquio non avvenne mai. In quel momento tutti erano concentrati al "trattenimento" nel Cie, non all’espulsione. In casi normali, per l’espulsione ci vogliono mesi, e certo non c’è un aereo privato che preleva gli espulsi. Il nulla osta della Procura. Gli avvocati, avvisati per tempo dal capo della Mobile che era stato comunque deciso da qualcuno di espellere Alma, si recarono in Procura nel tentativo che fosse evitato il loro rilascio del nulla osta. Che, invece, fu concesso a tempo record. La perquisizione. Mentre si svolge in mattinata l’udienza dal giudice di Pace, una squadra di poliziotti torna nella casa di Alma, dove ci sono Bolat, sua moglie (sorella di Alma), e loro figlia. Ci sono anche la figlia di Alma, e la coppia di inservienti. Arrivano altri legali sempre dello stesso studio che assistono alla perquisizione e ad alcuni sequestri di documenti e materiale. La rissa per il verbale. I legali chiedono che i verbali della perquisizione e dei sequestri vengano fatti nella casa. I poliziotti dicono di non avere i computer, mettono tutto in un sacco, e, dopo una accesa discussione con gli avvocati, si recano negli uffici della Questura di San Vitale portando Bolat. Gli avvocati sono indotti così a seguirli, lasciando la casa (e la figlia di Alma) senza la presenza di un legale. Il blitz: altri agenti prelevano la figlia. Mentre il gruppo di poliziotti e legali se ne va in Questura, arriva in quella casa un’altra squadra di agenti, preleva la coppia di inservienti, la sorella di Alma e la bambina, e li accompagnano all’aeroporto dove nel frattempo viene portata dal Cie anche Alma. Chiedono alla Shalabayeva se vuole lasciare la figlia in Italia, affidandola agli inservienti, o se vuole portarla con sé: la donna sceglie di non separarsi dalla figlia. Madre e figlia vengono fatte salire su un aereo affittato dall’ambasciata kazaka e rimpatriate ad Astana. Il plauso dell’avvocato. "La magistratura di Perugia ha dimostrato grande indipendenza e autonomia. Alma ha presentato la denuncia alla procura con grande fiducia. La denuncia era per sequestro di persona, quindi quello che è stato scritto avrà trovato conferma nelle indagini. Guardiamo con attenzione, poi valuteremo se costituirci parte civile". Lo ha dichiarato all’Adnkronos il legale di Alma Shalabayeva, avvocato Astolfo Di Amato. Alma a Roma, Muktar detenuto in Francia. Vive a Roma, ma non nella villa di Casal Palocco, Alma Shalabayeva. Insieme con i figli è cittadina della Capitale da tempo. Il marito, invece, è ancora detenuto in Francia. Una figlia grande vive in Svizzera ed un altro figlio è a Londra. Carcere inumano, la sentenza Torreggiani si applica anche se il sovraffollamento cessa Ansa, 27 novembre 2015 Via libera allo sconto di pena "retroattivo" - un giorno in meno di cella ogni dieci giorni trascorsi in condizioni di sovraffollamento - per i detenuti che chiedono questo "rimedio risarcitorio" anche dopo il venir meno delle condizioni di disagio. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 46966 depositata oggi dalla Prima sezione penale che ha esteso gli effetti della sentenza Torreggiani, emessa dalla Corte europea dei diritti umani a carico dell’Italia per la situazione delle carceri, anche quando viene meno "l’attualità" del pregiudizio subito dalla persona reclusa. Il rimedio dello sconto di pena è stato introdotto con norme del 2013 e 2014 dopo le sentenze della Cedu. Per chi è tornato libero e non ha interesse allo sconto, è previsto, invece, un risarcimento di otto euro per ogni giorno passato in una cella disumana. Con questo verdetto, i supremi giudici hanno accolto il ricorso di Alban Koleci, detenuto a Foggia, che aveva chiesto al magistrato di sorveglianza la riduzione della pena da espiare in considerazione del fatto che era stato in celle senza lo spazio necessario dal 14 agosto 2009 al 29 ottobre 2014. La domanda Koleci l’aveva presentata il 31 ottobre 2014 e pochi giorni prima era cessata la condizione di sovraffollamento. Per questo, il magistrato di sorveglianza, con decreto del 13 novembre 2013, aveva dichiarato "inammissibile" la sua richiesta sottolineando che "presupposto necessario ai fini del risarcimento nella forma della riduzione della pena detentiva da espiare, di competenza del magistrato di sorveglianza, è l’attualità del pregiudizio al momento della richiesta". Ad avviso della Cassazione questa tesi è "fallace". L’esclusione del rimedio risarcitorio dello sconto di pena - spiegano gli ermellini - "per coloro che in costanza di detenzione lamentino il pregiudizio derivante da condizioni di carcerazione inumane non più attuali, perché rimosse, non risulta conforme, sotto il profilo logico-sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di ordinamento penitenziario nel 2013 e 2014, per porre termine alle condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con la Convenzione dei diritti dell’uomo secondo la Corte di Strasburgo (a partire dai casi Sulejmanovic e Torreggiani), per risarcire i pregiudizi derivati da tali condizioni". Secondo la Suprema Corte, nulla "autorizza" a ritenere che le caratteristiche di "gravità e attualità" del pregiudizio "costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo". Così è stato accolto il ricorso di Koleci ed è stato annullato senza rinvio il decreto che gli negava lo ‘scontò. Ora tutti gli atti tornano al magistrato di sorveglianza di Foggia perché faccia i calcoli dei giorni di carcere da sottrarre alla condanna di Koleci. Messa alla prova, legittimo il limite del dibattimento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2015 Corte costituzionale - Sentenza 26 novembre 2015 n. 240. La Corte costituzionale salva l’applicabilità limitata della messa alla prova. La Consulta, con la sentenza 240 depositata ieri, esclude il contrasto con la Carta dell’articolo 464-bis comma 2 del codice di rito (legge 67/2004). I dubbi riguardavano la parte in cui la norma, in assenza di una disciplina transitoria, nega la possibilità di sospendere il processo applicando la messa alla prova degli imputati quando il procedimento è pendente in primo grado e il dibattimento si è aperto prima dell’entrata in vigore del nuovo istituto. Secondo il giudice monocratico di Torino che ha sollevato la questione, la Carta sarebbe violata sia a causa del "discrimine unico" - valido per i processi nuovi come per quelli in corso che disciplina allo stesso modo situazioni diverse, consentendo solo ai primi l’accesso al beneficio - sia in relazione alla deroga del principio della retroattività della legge più favorevole, sancito anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Le questioni però sono infondate. La scelta di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi nuovi o "avviati", è giustificata dal punto di vista processuale. Il legislatore ha fatto riferimento allo stato del processo trattando, sotto questo aspetto, in modo uguale situazioni processuali uguali. Il termine entro il quale l’imputato può chiedere la messa alla prova è collegato alle funzioni di un istituto alternativo al giudizio e finalizzato a un effetto retroattivo. Consentire, anche in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, significherebbe alterare il procedimento. E il non averlo fatto, non comporta una violazione della parità di trattamento. Escluso anche il contrasto sul fronte della retroattività della lex mitior. La preclusione censurata non è conseguenza "della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale". Il principio di retroattività della norma penale tutelato dalla Cedu (articolo 7) si riferisce, infatti, al rapporto tra un fatto e una norma sopravvenuta. E per quanto riguarda la messa alla prova, chiarisce la Consulta "l’applicabilità e dunque la retroattività della sospensione del procedimento non è esclusa, dato che la nuova normativa si applica anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore". La parte impugnata dell’articolo 464-bis riguarda il processo ed è espressione del principio del tempus regit actum. Un criterio che potrebbe essere derogato da una norma transitoria - invocata dal giudice torinese sulla scia di quella prevista nel procedimento penale a carico degli irreperibili - ma la mancanza di questa non viola la Convenzione. Sempre ieri la Consulta (sentenza 241) ha bollato come inammissibile la questione di legittimità relativa ai casi in cui l’aumento di pena per il reato satellite deve essere fissato inderogabilmente nel massimo edittale (articolo 81 comma quarto del Codice penale). Il giudice remittente non aveva fornito le indicazioni sul momento di applicazione della recidiva reiterata ed era partito da un presupposto interpretativo sbagliato. La Corte dei diritti umani: no al velo nel luogo di lavoro di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2015 Il divieto di indossare il velo islamico nel luogo di lavoro, imposto a un dipendente pubblico, è conforme alla Convenzione dei diritti dell’uomo. Tra principio di laicità dello Stato e diritto di manifestare in modo ostentato il proprio credo religioso, la Corte europea dei diritti dell’uomo fa pendere l’ago della bilancia a vantaggio della laicità e della neutralità dei servizi pubblici. La pronuncia della Corte è arrivata ieri, nel caso Ebrahimian contro Francia, con la quale Strasburgo ha dato via libera alla legislazione francese. A rivolgersi alla Corte una cittadina d’oltralpe, assunta a tempo determinato come assistente sociale in un ospedale pubblico. Alla scadenza del contratto, il dirigente le aveva comunicato il no al rinnovo del contratto per il suo rifiuto alla richiesta di non indossare il velo islamico durante le ore lavorative. La donna aveva fatto ricorso ai giudici amministrativi che le hanno dato torto in virtù del principio di laicità dello Stato in base al quale i dipendenti pubblici non devono mostrare la propria appartenenza religiosa con simboli esposti sul luogo di lavoro. Questo anche a garanzia del principio di neutralità dei servizi pubblici. Una conclusione condivisa da Strasburgo che ha respinto il ricorso. Per la Corte, nessuna violazione dell’articolo 9 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di religione. La Corte riconosce che indossare il velo islamico è un mezzo per mostrare il proprio credo religioso, come tale protetto dalla norma convenzionale, ma giustifica l’ingerenza della Francia la quale vuole assicurare che i dipendenti pubblici siano imparziali e non condizionino in alcun modo il pubblico, in questo caso i pazienti. Di conseguenza - osserva la Corte - l’ingerenza nella libertà di manifestare il proprio credo è proporzionata rispetto al fine perseguito. È vero che pochi Paesi del Consiglio d’Europa (solo 5) vietano di indossare simboli religiosi nel settore del pubblico impiego, ma la Francia ha raggiunto un giusto equilibrio tra libertà religiosa, che non è certo compromessa dal divieto di indossare il velo, e laicità dello Stato. D’altra parte, la legislazione francese vieta l’esibizione di simboli religiosi unicamente nel luogo di lavoro (per di più aperto al pubblico), senza limitare in alcun modo la libertà di religione e di coscienza. Del tutto compatibile con la Convenzione, quindi, la scelta di privilegiare l’interesse a salvaguardare un principio come la laicità dello Stato, rispetto all’interesse del singolo. Tra l’altro, la Corte sottolinea che l’applicazione del divieto è uniforme e non crea alcuna discriminazione. L’ordinamento francese, inoltre, garantisce un controllo dei giudici amministrativi i quali vigilano evitando che vi sia una lesione sproporzionata. E proprio i tribunali interni hanno tenuto conto del fatto che il servizio al quale era chiamata la ricorrente era aperto al pubblico e che la donna aveva scelto consapevolmente di indossare il velo, conoscendo i limiti imposti dalla legge interna. Milano: 62enne suicida nel carcere di Opera, sparò a ex complice dopo 8 anni in cella Agi, 27 novembre 2015 Si è suicidato in carcere a Opera Paolo Leone, 62 anni, accusato di tentato omicidio. L’uomo, che dopo aver scontato 8 anni di carcere per traffico di droga, appena uscito di cella aveva cercato di uccidere a Corbetta, nel Milanese, l’ex complice ferendolo gravemente, si è impiccato alla finestra della sua cella nel Reparto "Nuovi Giunti" del carcere. Subito dopo il fatto, martedì, si era costituito. Mercoledì sera si è tolto la vita. "È l’ennesimo suicidio di un altro detenuto in carcere - commenta il segretario del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria Donato Capece. Questo dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, al di la del calo delle presenze. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Purtroppo a Opera il pur tempestivo intervento del poliziotto di servizio non ha potuto impedire il decesso del detenuto". Leone accusava l’ex complice di averlo "venduto e rovinato". "Mi hanno confiscato tutto - aveva detto agli investigatori - anche la casa di mia madre che ho dovuto ricoverare in un ospizio". Pisa: il Garante regionale Corleone "il carcere Don Bosco va ristrutturato, è ecomostro" Ansa, 27 novembre 2015 "Troppi gli interventi che andrebbero fatti al carcere di Pisa, i locali avrebbero bisogno di una profonda ristrutturazione. Paradossalmente sarebbe meglio distruggerlo e ricostruirlo ex novo. Su questo edificio degli anni ‘20 pesa fortemente l’inadeguatezza delle strutture". Lo ha detto il garante regionale dei detenuti Franco Corleone in occasione di una sua vista all’istituto pisano Don Bosco, insieme al garante dei detenuti di Pisa Alberto Di Martino. Corleone, spiega una nota, ha aggiunto che "siamo in presenza di un ecomostro, un fortilizio iniziato e mai portato a termine che avrebbe dovuto ospitare il nuovo centro clinico". Il garante ha visitato la sezione femminile, maschile, penale e giudiziaria, il centro clinico e il polo universitario. Il penitenziario di Pisa che ospita 277 persone, rispetto alla capienza massima di 219, delle quali 155 stranieri e 122 italiani, presenta "una situazione complessa e variegata". Il 30% dei detenuti ha una condanna per reati di droga connessi alla legge Fini-Giovanardi. "Dovremo però approfondire - ha sottolineato - per capire se a loro carico gravino condanne per altri tipi di reato". La sezione femminile, "accoglie 28 detenute su una capienza massima di 13 e ha quindi problemi di sovraffollamento. In un paio di celle le detenute sono 4 o 5. In qualche caso, la presenza di troppi letti blocca perfino l’apertura delle finestre. E poi, senza alcun rispetto della privacy, si sono mantenuti i servizi igienici a vista". Riguardo alla semilibertà, "sono 21 - ha detto ancora il garante - i detenuti che hanno un’occupazione fuori dal penitenziario, costretti però, quando rientrano nel carcere, a dormire in celle invivibili". L’unico aspetto positivo evidenziato da Corleone riguarda il "polo universitario, che funziona seppur con dei limiti. Può accogliere 16 detenuti, costretti però a studiare sugli sgabelli". "Pisa - ha concluso - che fa della bellezza la sua caratteristica, non può dimenticarsi del carcere". Imperia: Uil-Pa "carcere al collasso, poliziotti senza divisa costretti a pagarsi parcheggio" sanremonews.it, 27 novembre 2015 "L’Istituto oltre a continuare a vivere la piena emergenza, numeri, che in Liguria, segnalano in negativo il record in regione, sia in merito al personale di Polizia Penitenziaria ridotto oramai all’osso, stanco, stremato, impiegato in turni strazianti, sia alla popolazione detenuta, 83 detenuti presenti su una capienza regolamentare di 69 detenuti e una percentuale di Sovraffollamento che supera il 50%. Imperia oggi è una struttura in pieno degrado". Lo sostiene Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa penitenziari, che prosegue: "Non solo, al personale di Polizia Penitenziaria in servizio ad Imperia, non si riescono a garantire le divise per espletare il regolare turno di servizio, ma addirittura neanche un posto auto. Ovvero un Poliziotto in servizio ad Imperia è costretto a pagare 10 euro circa di parcheggio al giorno e tutto questo non fa altro che peggiorare la situazione del carcere di Imperia, che effettivamente sembra non interessare a nessuno - ne alle Istituzioni tantomeno all’Amministrazione penitenziaria. Chiederemo al Sindaco di Imperia immediato intervento, per la questione parcheggi il momento che le Istituzioni diano reali segnali di vicinanza e di intervento verso gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria che quotidianamente garantiscono e gestiscono la sicurezza di Imperia, senza mezzi, penalizzati e soprattutto dimenticati da tutti". Savona: interpellanza in consiglio comunale "no chiusura carcere, serve nuova struttura" savonanews.it, 27 novembre 2015 I consiglieri chiedono nel documento alla giunta e al sindaco "di verificare presso il Ministero della Giustizia la possibilità che venga rivista o rinviata la decisione appena presa in sede governativa, in attesa che si realizzi il nuovo edificio". Chiusura del carcere di Savona. Il problema giunge in consiglio comunale. A presentare una interpellanza in merito alla disposizione decretata dal Ministro Orlando, il consigliere di "Noi per Savona-Verdi" Daniela Pongiglione oggi nel corso del consiglio comunale. "La firma del Ministro Orlando sul decreto di chiusura del Sant’Agostino porta nuovamente in primo piano il problema del carcere della nostra città e la necessità, ormai davvero improcrastinabile, di una soluzione concreta e definitiva - si legge nell’Odg. Del progetto di un nuovo carcere a Savona si parla ormai da quasi trent’anni, con ipotesi che hanno riguardato numerosi siti (da Santuario - Cà di Barbé ad Albamare a Metalmetron a Passeggi), ma è evidente che, ad oggi, non c’è stata alcuna soluzione al problema". I consiglieri chiedono nel documento alla giunta e al sindaco "di verificare presso il Ministero della Giustizia la possibilità che venga rivista o rinviata la decisione appena presa in sede governativa, in attesa che si realizzi il nuovo edificio; di portare tempestivamente in Commissione congiunta l’esame del problema "nuove carceri"; di esprimersi con chiarezza sulla possibilità di accogliere sul territorio cittadino il nuovo Istituto di pena, per consentire, in caso contrario, l’individuazione di un sito adatto fuori dal Comune di Savona". Ad intervenire erano stati anche i componenti della Commissione Emilia Minetti, Fausto Benvenuto, Dario Lavagna, Giovanni Maida, Daniela Pongiglione che aveva affermato: "Questa Commissione ha sempre sottolineato le criticità delle attuali condizioni del carcere di Savona, auspicando un intervento decisivo che migliorasse la qualità della vita delle persone detenute nel Sant’Agostino, ma oggi non può non rilevare il forte disagio che un trasferimento fuori Savona, in carceri lontane in Liguria o nel Basso Piemonte, potrà procurare ai detenuti stessi, alle loro famiglie e agli addetti alla tutela e alla sorveglianza. L’intervento di chiusura, dati i cospicui trasferimenti già in atto, sembra avere carattere di urgenza, e rischia di aggravare le situazioni di sovraffollamento esistenti nelle altre carceri destinatarie di tali spostamenti. È tutta poi da chiarire l’affermazione presente nel documento inviato dal Capo dipartimento Santi Consolo (del 7 ottobre 2015) che dice che il Ministero prevede "contestualmente [alla chiusura] la edificazione di una nuova Casa circondariale in prossimità di Savona. Poiché la chiusura è, evidentemente, avviata, riteniamo necessario un chiarimento da parte del Ministero relativo alla contestuale edificazione di una nuova Casa circondariale. Anche l’amministrazione comunale dovrà esprimersi quanto prima sul tema nuovo carcere: Passeggi è ancora in gioco? E soprattutto: Savona vuole un carcere sul suo territorio?". Foggia: 1.405 giorni nel carcere in "condizioni inumane", detenuto vince la sua battaglia foggiatoday.it, 27 novembre 2015 Detenuto albanese ha fatto ricorso in Cassazione chiedendo un risarcimento retroattivo per aver trascorso cinque lunghi anni in celle piccole e senza lo spazio necessario di movimento. Un giorno in meno in cella ogni dieci giorni trascorsi in condizioni di sovraffollamento. Via libera allo sconto di pena cosiddetto "retroattivo" anche per i detenuti che chiedono questo "rimedio risarcitorio" in un secondo momento. Chi è tornato libero potrà chiedere un risarcimento pari a otto euro per ogni giorno trascorso in una cella disumana. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 46966 depositata dalla prima sezione penale, quale estensione della sentenza Torreggiani. Per questo motivo i giudici hanno accolto il ricorso di un detenuto albanese ristretto a Foggia che aveva chiesto la riduzione della pena per aver trascorso cinque anni in celle piccole e senza lo spazio necessario di movimento, 1405 giorni trascorsi in carcere in "condizioni inumane". Eppure il magistrato di sorveglianza, con decreto del novembre 2014, aveva dichiarato inammissibile la richiesta sulla base del fatto che non era più attuale, in quando l’uomo - pochi giorni prima del ricorso - era stato spostato in una cella a norma. L’uomo ha proseguito la sua battaglia e ha fatto ricorso in Cassazione, facendo presente che "il pregiudizio derivante da condizione detentiva degradante ed inumana" era stato "determinato da un comportamento dell’amministrazione penitenziaria". In base a queste sentenza il detenuto può ottenere uno sconto di pena in caso di sovraffollamento anche dopo esser stato trasferito in una cella più grande e a norma. Torino: "Vale la pena", la birra prodotta in carcere per un regalo di Natale di Noemi Penna La Stampa, 27 novembre 2015 A Torino oggi apre il primo concept store di prodotti realizzati nelle carceri italiane: si chiama "Freedhome - Creativi dentro", proprio come il progetto nato da un gruppo di dieci cooperative sociali che lavorano all’interno delle case circondariali, e per Natale ha messo in piedi due sedi. Fino al 31 dicembre sarà ospitato da Marte, in via delle Orfane 24/d (taglio del nastro oggi alle 18), poi dal 30 novembre avrà uno showroom tutto suo, in via Milano 2/c, davanti al Municipio. Il progetto. Negli ultimi due anni Torino è stata vetrina del progetto "Extraliberi", che ora si amplia offrendo articoli artigianali prodotti non solo in Piemonte, valorizzando l’analogo lavoro svolto dai detenuti di tutta Italia: si offrono così inusuali idee regalo, belle e solidali. Ad esempio dal carcere femminile di Venezia arrivano i cosmetici "RioTerà dei pensieri", preparati con erbe coltivate nell’orto biologico della Giudecca. Con l’aiuto di grandi maestri birrai, i detenuti di Rebibbia hanno prodotto la bionda "Vale la pena". "Malefatte" sono le borse in pvc realizzate con banner museali e coperture di camion nel carcere di Santa Maria Maggiore. Del carcere Lorusso e Cutugno di Torino sono le t-shirt serigrafate artigianalmente con grafiche donate da designer e pubblicitari, mentre dalla sezione femminile esce "Fumne": linea di borse, accessori fashion e i capi d’abbigliamento all’ultima moda. "Banda Biscotti" sono le creazioni prodotte dai detenuti di Verbania; "BruttiBuoni" i prodotti da forno dal carcere di Brissogne; "Dolci Evasioni" le delizie bio prodotte nell’istituto penitenziario di Siracusa. "ÒPress" è invece la collezione di t-shirt realizzate dal carcere Marassi a Genova con i versi dei cantautori più celebri. Insomma, con l’ironia (nel nome) si sviluppano buone pratiche di economia carceraria. Gli orari. "Freedhome" è aperto tutti i giorni dalle 10,30 alle 19,30: è stato realizzato grazie al sostegno di Compagnia di San Paolo, in partnership con il Comune di Torino e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Cagliari: Cugusi (La Base) "lavoro di pubblica utilità per condannati e messi alla prova" di Federica Lai castedduonline.it, 27 novembre 2015 Via libera del Consiglio comunale alla proposta de "La Base" che prevede la sottoscrizione di una convenzione con il Ministero della Giustizia e il Tribunale di Sorveglianza per il reinserimento sociale delle persone condannate. Un lavoro gratuito a servizio del Comune di Cagliari per i condannati e i messi alla prova. Un modo per evitare il carcere ed essere reinseriti nella società. La proposta è approdata ieri in Consiglio comunale con un ordine del giorno presentato da Claudio Cugusi, La Base. "Facciamo scontare la pena all’esterno del carcere - ha spiegato Cugusi - facendo svolgere ai condannati e ai messi alla prova un lavoro di pubblica utilità a servizio del Comune. In cambio non verrà corrisposto nessuno stipendio, ma garantita la sola copertura assicurativa". La proposta passa con ventitré voti a favore e due contrari, ma l’opposizione frena. "Sarebbe un’ulteriore spesa per il Comune - ha detto Anselmo Piras, Ncd - Non vorrei che diventasse una guerra tra poveri e per i poveri". L’assessore. "Abbiamo già avviato delle interlocuzioni con gli enti interessati - ha risposto in Aula l’assessore ai Servizi sociali Luigi Minerba - Il tema è importante e va approfondito, ma soprattutto occorre capire quanto può costare per le casse comunali e quindi trovare le risorse necessarie". "Si può provare con una sperimentazione - ha aggiunto Cugusi - destinando alcune migliaia di euro nel bilancio comunale. Il risparmio sarebbe notevole visto che ogni detenuto costa circa mille euro al giorno. Ovviamente, le mansioni da assegnare dovranno essere compatibili rispetto al reato accertato". Saluzzo (Cn): detenuto diede fuoco a giornali davanti alla cella, condannato a sei mesi targatocn.it, 27 novembre 2015 "Era sotto stress, il compagno aveva dato in escandescenze ferendosi". Era sotto stress, perché il compagno di cella si era ferito mentre prendeva a pugni la porta. Mentre questi era stato accompagnato in infermeria, A.C., un nordafricano rinchiuso nel carcere di Saluzzo, aveva incendiato alcuni giornali con una bottiglietta d’alcol davanti alla cella. L’uomo è stato condannato a 6 mesi per danneggiamento dal tribunale di Cuneo. Il fatto avvenne nel settembre 2014. Secondo il resoconto di un agente di polizia penitenziaria, A.C. era agitato: "Diceva che aveva problema di soldi, non poteva fare la spesa". L’uomo era stato accompagnato in infermeria e poi sottoposto a sorveglianza particolare. Gli agenti trovarono la cella sottosopra: un tavolo rotto, il televisore buttato a terra e roba bruciacchiata sparsa. La difesa: "Nessuno lo ha visto materialmente danneggiare gli oggetti, semplice deduzione degli agenti". Verona: Festival della Dottrina Sociale "sconti di pena in cambio del lavoro in carcere" Agenparl, 27 novembre 2015 Proseguono gli incontri e i dibattiti organizzati dal Festival della Dottrina Sociale della Chiesa, in programma a Verona Fiera da oggi giovedì 26 novembre a domenica 29 novembre. Nel pomeriggio si è tenuto il convegno dedicato al lavoro carcerario, visto anche come occasione per il reinserimento nella società in seguito alla detenzione; questo appuntamento è stato organizzato in collaborazione con le Acli e la Associazione la Fraternità. L’Assessore ai servizi sociali, Famiglia e Pari Opportunità del Comune di Verona, Anna Leso ha portato il proprio saluto, riconoscendo il tema del lavoro carcerario importante: "L’amministrazione ne fa buon uso per il reinserimento sociale. Deve essere una risorsa, un’occasione per imparare a pensare a una nuova vita". Margherita Forestan, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona ha aggiunto: "Il senso del carcere è l’articolo 27, che dovrebbe essere impresso in ogni sezione del carcere, a ricordare a tutti noi perché siamo lì e cosa dobbiamo fare: la rieducazione". Hanno poi portato il proprio saluto Maria Grazia Bregoli, direttore della Casa Circondariale di Verona e Federico Lugoboni, presidente della Camera Penale Veronese. Italo Sandrini, presidente dell’Acli di Verona, ha poi introdotto la prima sessione del convegno in cui si è discusso dell’art.27 della Costituzione, in cui si parla della finalità educativa della pena. Sul tema è intervenuto Emilio Santoro, ordinario di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Firenze: "La Corte costituzionale ha lavorato nei decenni passati - ed è un salto culturale - per passare dal concetto di rieducazione al reinserimento sociale. Con l’idea dell’offerta per compensare i deficit culturali e sociali. Il detenuto non ha salario né retribuzione, ma "mercede" allineata al contratto collettivo del 1990. Sono state avanzate due interessanti proposte al recente tavolo degli Stati Generali sul tema carcerario. La prima, suggerisce che se l’amministrazione penitenziaria non è in grado di retribuire le persone, sconti la pena in cambio del lavoro svolto. La seconda proposta coinvolge la cosiddetta legge Smuraglia, che prevede detrazioni e sgravi per chi fa lavorare un detenuto: non si contano le truffe messe in atto in questo ambito sulla pelle dei detenuti. Si potrebbe fare come nelle carceri catalane dove, per il lavoro interno, è stata creata dentro il carcere una sorta di agenzia di lavoro interinale, che coordina il lavoro dei detenuti e concentra su di sé gli sgravi". Valentina Calderone, direttore dell’associazione "A Buon Diritto" ha affermato: "Ci sono responsabilità anche nel modo in cui si vuole continuare a spendere in questo campo. Un incremento di fondi ha fatto sì che in 14 carceri si siano potute realizzare officine in carcere. Prova positiva che qualcosa, questo Governo, ha fatto. Ma sembra un intervento schizofrenico, affiancato all’inasprimento delle pene, alla richiesta di nuovi reati, insieme però anche ad ottime novità come la messa alla prova. Prevede che chi deve andare a processo chieda di essere messo alla prova e, se il giudice accetta, questa persona segue un progetto specifico che permette di estinguere il reato senza passare dal Tribunale - prosegue Calderone - Impossibile pensare che ci si possa occupare di 53mila persone carcerate e che si possa pensare a dare lavoro a tutti questi. Iniziamo a togliere dal carcere i tossicodipendenti, i poveri, le persone con problemi mentali. Manteniamo in carcere solo chi ha effettivamente una pericolosità e si è macchiato di determinati reati". Enrico Sbriglia, Dirigente Generale del Ministero della Giustizia, Provveditorato regionale per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige: "Oltre che essere luogo di rieducazione, parola impegnativa, il carcere dovrebbe essere luogo di recupero di risorse umane, sia sul piano materiale che morale. Si può realizzare soprattutto grazie all’attenzione che il territorio riesce a dedicare al mondo del carcere. Trovando imprenditori coraggiosi e disponibili a giocare una partita all’interno delle carceri, per dare lavoro alle persone detenute che hanno tutto l’interesse, tutta la capacità di dimostrare di essere meritevoli di una chance. Già succede in tante realtà. Il tema del lavoro nelle carceri vede tutti gli operatori interessati, a partire dalla Polizia penitenziaria, che questa sia la strada più efficace per garantire una sicurezza permanente e duratura". Prato: "Credere nel cambiamento? Vale la pena", scritti degli studenti sulla vita in carcere Agenparl, 27 novembre 2015 La giornata è stata preparata attraverso un percorso in cinque scuole. Santi: "I ragazzi dimostrano che il cambiamento è possibile". La Festa della Toscana di quest’anno sarà una giornata di riflessione sulla vita in carcere oggi, a partire dalla riforma sui detenuti del Granduca Pietro Leopoldo del 1786. Lunedì 30 novembre dalle 9:30 nel Salone consiliare di Palazzo comunale alcuni ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado del Comune di Prato presenteranno gli elaborati del progetto "Credere nel cambiamento? Vale la pena" e rifletteranno anche insieme ad alcuni detenuti del carcere di Prato. "I ragazzi incontrati durante il percorso preparatorio nelle scuole nell’ultimo mese dimostrano che il cambiamento è possibile - ha affermato la presidente del consiglio comunale Ilaria Santi, che coordinerà l’incontro. Alle Mazzoni un detenuto in semilibertà, raccontando la sua esperienza ai ragazzi, ha fatto emergere che, se compi un reato, è giusto che ti venga inflitta una pena, ma anche che la pena inflitta è necessaria al cambiamento della persona". Oltre alla presidente del consiglio Ilaria Santi, all’iniziativa interverranno l’assessore alla Pubblica Istruzione Mariagrazia Ciambellotti, l’assessore alla Cultura Simone Mangani, il direttore della Casa circondariale "La Dogaia" Vincenzo Tedeschi e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale Ione Toccafondi. "Abbiamo creato le condizioni affinché i ragazzi delle scuole potessero entrare in carcere e alcuni detenuti potessero uscire fuori - ha detto l’assessore alla Pubblica Istruzione Maria Grazia Ciambelotti. Abbiamo ricevuto un’alta e inaspettata adesione. Stamattina l’incontro tra i ragazzi delle scuole Puddu e un ragazzo albanese in carcere è stato davvero toccante e fondamentale per l’affermazione di certi valori, a partire da quello dello studio". Partecipano al progetto le tre terze medie delle scuole Malaparte, Mazzoni e Puddu, una terza media delle Ser Lapo Mazzei e una quinta elementare di San Niccolò. Cinque le modalità di incontro e di scambio tra i soggetti che partecipano al progetto: oggi alcuni ragazzi delle scuole Puddu si sono recati in carcere, domani la compagnia Metropopolare discuterà il tema della pena di morte alla scuola Puddu, il 2 e il 3 dicembre sei classi delle Malaparte visiteranno Palazzo Pretorio e Palazzo comunale, a gennaio infine Palazzo Pretorio sarà raccontato in carcere attraverso alcune immagini ad alcuni detenuti che successivamente avranno la possibilità di visitarlo. Sondrio: porte (ancora) aperte in carcere, i big dello sport per la nuova palestra La Provincia di Sondrio, 27 novembre 2015 Autorità e cittadini hanno condiviso gli spazi quotidianamente abitati dai detenuti. La Casa circondariale di via Caimi ha nuovamente aperto le porte alla città. Come già successo il 9 settembre, anche ieri il carcere per una sera si è trasformato, divenendo luogo di incontro. Autorità e circa cinquanta cittadini hanno condiviso gli spazi quotidianamente abitati dai detenuti, dagli agenti di Polizia penitenziaria e dal personale amministrativo. Regista dell’evento benefico, che aveva lo scopo di presentare quanto realizzato con il ricavato della serata di settembre, la direttrice della struttura, Stefania Mussio. Allora la cena servita dall’Accademia del Pizzocchero aveva permesso di ricavare i fondi per la realizzazione di un nuovo pavimento per la palestra, uno dei pochi spazi di cui possono beneficiare i detenuti al di fuori delle celle. Ora che l’opera è stata completata, "volevamo mostrare- ha affermato la direttrice Mussio - il risultato ottenuto, per impegnarsi in un altro progetto". Ieri, dunque, è stata inaugurata la palestra rinnovata, all’interno di una serata - evento, anzitutto culturale, ma anche sportivo, "perché - ha aggiunto la direttrice - lo sport è uno degli elementi per la crescita educativa anche delle persone detenute, come ci insegna la legge". Alla serata, "Un giovedì da campioni", sono intervenuti tre testimonial, campioni sportivi valtellinesi : la runner di montagna Alice Gaggi, il canoista Giorgio Dell’Agostino e lo sciatore Giorgio Rocca Con loro, ad aprire il momento particolare di condivisione e di solidarietà, occasione per ricordare l’importanza dello sport che insegna la convivenza con gli altri, il sacrificio per il raggiungimento di un obiettivo, c’era anche il sindaco, Alcide Molteni. "I campioni presenti - ha spiegato la direttrice Mussio - testimoniano il loro desiderio e la loro passione e sono certa possano stimolare la speranza e per una sera ci sentiremo un po’ tutti protagonisti. Lo sport implica costanza, intelligenza, collaborazione, senso dell’onore, richiede capacità al cambiamento e porta con sé benessere e una persona che sta bene, che si sente bene è capace di progettare e darsi un’altra opportunità". L’evento, che si è svolto all’interno della sezione detentiva e a cui hanno aderito già i gruppi sportivi sondriesi e la polisportiva di Albosaggia, è stato allietato dalle note jazz di Alfredo Ferrano, Roberto Piccolo e Massimo Caracca. Nel corso della serata c’è stato spazio anche per un momento conviviale offerto dalle persone detenute che, dopo la partecipazione ad un corso per pizzaioli, sono abilissimi. Ai presenti è stata chiesta un’offerta minima di 10 euro: i fondi serviranno per ristrutturare la biblioteca. Dono di Natale. In vista delle feste natalizie sarà possibile offrire un sostegno ai detenuti anche attraverso le iniziative del cappellano del carcere, don Ferruccio Citterio. Trovandosi spesso a sostenere i carcerati con piccoli aiuti, dalla ricarica telefonica al piccolo contributo per chi torna in libertà e non ha i mezzi per affrontare il viaggio e le prime spese, come nelle precedenti feste natalizie, il sacerdote ha pensato di fare appello al buon cuore della popolazione con un’iniziativa chiamata, "Perdono divino". Questa consiste nella vendita di bottiglie di vino valtellinese: il ricavato servirà per opere a favore dei detenuti. Foggia: "Lib(e)ri dentro", lo scrittore Napolillo ha incontrato i detenuti Ristretti Orizzonti, 27 novembre 2015 Il Presidente, Pasquale Marchese: "Da gennaio, nuova edizione di "Innocenti Evasioni" nella sezione AS e varie attività grazie alla disponibilità della Direttrice Mariella Affatato". Le "Tartarughe tornano sempre! è dedicato a chi non si arrende e continua a cercare. Questo uno dei messaggi che lo scrittore Enzo Gianmaria Napolillo ha lanciato il 26 novembre scorso a 60 detenuti della Casa Circondariale di Foggia. L’incontro è stato organizzato dal Ce.Se.Vo.Ca. (Centro Servizi per il Volontariato di Capitanata), in collaborazione con la libreria Ubik e fa parte della rassegna "Lib(e)ri dentro", nata da una costola di "Innocenti Evasioni", il progetto che dallo scorso anno il CSV realizza con Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri nella sezione AS (Alta Sicurezza) dell’Istituto Penitenziario di Foggia. "La lettura - ha detto Napolillo - rappresenta un’occasione preziosa per incontrare chi non si può nella vita reale e visitare luoghi lontani, per evadere. Per me è una grande passione da sempre. Mi affascinava, da bambino, osservare i miei genitori che tutte le sere leggevano almeno un quarto d’ora prima di andare a dormire. Sfogliare i libri apre la mente e per questo amo ripetere che non esistono non lettori, ci sono persone che non leggono perché ancora non hanno trovato la storia giusta. È la concentrazione che mette in connessione scrittore e lettore, più si legge e più ci si ritrova nelle storie, più si conosce se stessi". I detenuti hanno ascoltato con attenzione la testimonianza di Napolillo e hanno fatto numerose osservazioni e domande: sulla storia d’amore dei protagonisti, sulla libertà, sulla genesi del romanzo e, in particolare, sull’immigrazione, uno dei temi de "Le tartarughe tornano sempre". "Non solo le vite dei protagonisti, Salvatore e Giulia, vengono sconvolte dalla scoperta del corpo di un ragazzino che rotola sul bagnasciuga - uno degli interventi dalla platea - ma tutta la comunità cambia da quel momento. Mi ha colpito questa storia perché anche i nostri padri, i nostri nonni sono stati emigranti. Purtroppo, invece, in Italia si dimentica il passato, le nostre radici e non è giusto". Il confronto si è poi spostato sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, sul caso Hirsi Jamaa e altri contro l’Italia del 23 febbraio 2012, che l’autore ha deciso di pubblicare in coda al romanzo e che ha interessato molti dei presenti, così come la pagina che Napolillo ha voluto leggere, su impulso di Michele Trecca. L’autore ha scelto il capitolo in cui uno dei protagonisti, per la prima volta, insegna l’italiano ad alcuni migranti sbarcati nell’isola, "quel pezzo di terra che comprende il sentimento di Salvatore e Giulia". "La collaborazione con l’Istituto Penitenziario di Foggia negli anni si sta consolidando, così come quello con l’UEPE, diretto da Angela Intini. Dalla sottoscrizione d’intenti - sottolinea il Presidente del Ce.Se.Vo.Ca., Pasquale Marchese - numerose sono state le iniziative realizzate e molte altre potranno essere programmate nel corso del 2016. Grazie alla disponibilità della direttrice della Casa Circondariale, Mariella Affatato, di Maria Giovanna Valentini dell’Area trattamentale e alla collaborazione degli operatori di Polizia Penitenziaria, già a gennaio potremo ripartire con una nuova edizione di ‘Innocenti Evasionì, nell’Alta Sicurezza. Quest’anno, il progetto avrà un taglio più legato all’attualità e all’informazione, rispetto al passato. Diversi, poi, saranno i progetti che potranno essere realizzati, sempre con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia e che avranno al centro la promozione del volontariato". L’incontro nell’Istituto Penitenziario di giovedì scorso è stato realizzato nell’ambito di un protocollo d’intesa sottoscritto da Ce.Se.Vo.Ca, Casa Circondariale e UEPE Foggia (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) e rientra nelle attività previste dal "Tavolo Carcere e Volontariato", cui siedono gli stessi soggetti e gli altri due Istituti Penitenziari di Capitanata (Lucera e San Severo), al fine di promuovere la collaborazione tra le realtà del Terzo Settore e quella penitenziaria. Alla Casa Circondariale di Foggia sono state donate, a metà novembre, alcune copie de "Le tartarughe tornano sempre": molti detenuti hanno letto il romanzo di Enzo Gianmaria Napolillo in meno di 5 giorni. "Il libro dell’incontro", l’abbraccio possibile tra vittime e carnefici recensione di Stefano Jesurum Corriere della Sera - Sette, 27 novembre 2015 "Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto", a cura di Adolfo Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato. Editore "Il Saggiatore". Gli incontri tra i terroristi degli anni di piombo e le famiglie degli uccisi, raccontati n in un libro, dimostrano che riconciliarsi è possibile. Ecco. Noi testimoniamo che un’altra strada è possibile, ma adesso non tocca più a noi. Tocca a voi che incontrate e ascoltate". Già, ma... "Quanta verità siamo disposti ad ascoltare?". Poche righe pescate nell’oceano di emozioni e ragionamenti contenuto nelle quasi 500 pagine de "Il libro dell’incontro" (il Saggiatore). Sette anni di colloqui/confronti nel senso più profondo - accompagnati finché è stato in vita dal cardinale Carlo Maria Martini - tra chi ha subìto un male terribile e chi quel male lo aveva causato. Vittime e responsabili della lotta armata nell’Italia del piombo e dell’odio, uniti da "qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo": ovvero la domanda, o la ricerca, di giustizia. Giustizia riparativa. Un flash. Domenica 17 giugno 2012, cimitero alle porte di Roma, davanti alla tomba di Aldo Moro un gruppo di persone, c’è Agnese la figlia dello statista ucciso dalle BR, familiari di ammazzati dal terrorismo rosso e nero, tre ex brigatisti tra cui due killer della strage di via Fani. Una preghiera, poi Agnese li abbraccia. Per chi ha fede un miracolo. Di sicuro qualcosa (come il tragitto che questo libro racconta) di difficile, impensabile, per alcuni indigesto, per altri scandaloso. Comunità della memoria. All’inizio - lo narrano i tre "mediatori" - tutti sapevano unicamente con chi e da che cosa volevano fuggire, "detto senza paura: dall’idea, di cui abbiamo constatato il fallimento, che una esperienza di giustizia significhi per i responsabili soltanto "pagare" le proprie colpe con anni di carcere; e per le vittime e i loro parenti trovare invece conforto e soddisfazione, in primo luogo, nell’espiazione di quella pena". Anni tenuti gelosamente lontani dai riflettori, secondo il metodo e le regole, appunto, della giustizia riparativa: volontarietà di partecipazione, riservatezza, confidenzialità, gratuità. A volte faccia a faccia, a volte in più d’uno, altre in molti, fino a ciò che non sono riusciti a chiamare in altro modo che "il Gruppo", una sorta di comunità di memoria. Ricordo, perdita, irreparabilità, verità, responsabilità, colpa, giustizia, pena, risocializzazione, riconciliazione. "Dobbiamo confrontare le due verità-la vostra, di ex, e la nostra, di vittime. È l’unico modo per arrivare a comprenderci tutti come vittime. Noi della violenza, voi della storia". Una esperienza davvero importante. Che non vuole spiegarci alcunché. A noi lettori immaginare (provare a vivere) le voci, i silenzi, le lacrime e la speranza, i climi interiori, la potenza dei volti, degli sguardi. Con la speranza che possa segnare una svolta nelle coscienze individuali e in quella collettiva e, perché no?, magari nell’ordinamento giuridico. "I ragazzi della Barriera, storia della banda Cavallero", di Claudio Bolognini recensione di Luca Sancini La Repubblica, 27 novembre 2015 "Pronto, parlo con Sante Notanicola? Ho scritto un romanzo sulla banda Cavallero, vorrei farle leggere il dattiloscritto". Capita quasi mai ad uno scrittore poter incontrare il protagonista di una storia difficile da narrare. Sulla banda Cavallero c’era un vecchio film, "Banditi a Milano", girato nel 1968, con la regia di Carlo Lizzani e il capo che aveva il volto di Gian Maria Volontè. E anche un libro, che in tempi complicati l’editore Feltrinelli decise di pubblicare, così che nel 1972 dal carcere arrivò nelle pagine de "L’evasione impossibile" la voce dello stesso Notarnicola. Raccontavano entrambi le vicende della banda Cavallero, diciotto rapine a metà degli anni 60, una scia di morti, ma anche foto in bianco e nero di banditi che stringono il pugno chiuso nel saluto comunista e cantano inni sovversivi, quando il giudice pronuncia la parola "ergastolo". Cosa c’era dietro quei fatti di cronaca nera? Claudio Bolognini, scrittore bolognese, ha provato ad indagare e il suo "I ragazzi della Barriera, storia della banda Cavallero", già in libreria edito da Agenzia x, è stato presentato ieri alla Feltrinelli davanti a un pubblico di lettori e allo stesso Notarnicola. Nei primi anni ‘60 Piero, Sante, Adriano, Danilo sono giovani dei quartieri proletari di Torino, la città della Fiat che cresce e ingloba nelle periferie i piemontesi di provincia e i meridionali che salgono al nord, restituendo vite da operai ma anche di militanti nelle sezioni del partito comunista. Già la rivolta di piazza Statuto nel ‘62 aveva fatto capire che non bastava avere i soldi per comprare la Cinquecento per affievolire il desiderio di una vita più giusta. Disillusioni, senso di ribellione, le vecchie armi dei partigiani ancora in giro, e ci fu chi la lotta al capitale decise di farla "andando a prendere i soldi dove sono". La banda Cavallero. "Ho fatto un lungo lavoro di ricerca tra archivi, giornali dell’epoca e andando anche più volte a Torino, nei luoghi ora irriconoscibili, in cui erano cresciuti questi ragazzi. C’era un’omissione, in questa storia: il perché e quali circostanze li avevano portati a quella scelta così radicale", dice Bolognini. Il Sante del romanzo e della realtà, ragazzo pugliese della Fgci che finisce bandito, che gira le carceri più dure battendosi per i diritti dei detenuti, una volta scontata la pena è arrivato a Bologna. Al Mutenye di via del Pratello ha servito birre ai ragazzi per anni e continuato ad occuparsi del problema carcerario. Così Bolognini, a stesura finita, l’ha cercato. Temeva una stroncatura. E invece: "Claudio ha fatto un bel lavoro - ha detto ieri Sante Notarnicola in libreria - è andato persino a Torino dove siamo cresciuti. È un libro onesto, frutto di una grande ricerca, finalmente dopo tanti anni in cui è capitato di essere messo in croce. Lì c’è la nostra storia che andò proprio così. Fu invece impossibile raccontarla in un aula di tribunale". Quali reazioni al terrorismo di Sergio D’Elia (Segretario di "Nessuno Tocchi Caino") L’Unità, 27 novembre 2015 Dopo i tragici fatti di Parigi, le risposte che giungono, a partire dalla Francia e dalla Russia, in termini di stato di emergenza e lotta al terrorismo con le richieste addirittura di pena di morte, sono reazioni immediate e riflessi automatici, prive di una visione strategica e di una proposta che abbia effetti duraturi nel tempo. C’era una volta il sistema dell’equilibrio fondato sul terrore, con cui si è inteso governare e "stabilizzare" il mondo, la pace e la sicurezza internazionali. Una "guerra fredda" durata circa mezzo secolo e condotta con mezzi politici, ideologici e psicologici ma, soprattutto, con la deterrenza di armi di distruzione di massa che hanno fatto la fortuna di quel complesso militare-industriale che Ike Eisenhower profeticamente denunciava come un pericolo non solo per il mondo, ma per gli stessi Stati Uniti. Assistiamo oggi a una riedizione della stessa teoria dell’equilibrio fondato sul terrore, con scenari e attori geopolitici diversi, ma rispondenti sempre alla stessa logica, ideologica, psicologica e, soprattutto, militare. Si accredita la tesi di una guerra, non più fredda, ma calda, tra sunniti e sciiti o interna allo stesso mondo sunnita. Si intende stabilizzare l’area più infuocata del mondo, il Medio-Oriente, e scongiurare gli effetti della "loro" guerra anche in Occidente, opponendo ed equilibrando il "terrore sciita" con il "terrore sunnita" o quello inter-sunnita. Nessuno considera né si preoccupa del fatto che si stanno accreditando come "stabilizzatori" e "mantenitori" di tale equilibrio internazionale regimi che al proprio interno conducono una guerra di lunga durata e di terrore nei confronti dei propri popoli. È quel che accade in Iran e in Arabia Saudita, due degli attori candidati alla "stabilizzazione" dell’area mediorientale, e non solo. Si affida il governo dell’emergenza a chi ha provocato l’emergenza stessa e si considera parte decisiva della soluzione del problema chi ne è parte primaria. La "guerra al terrorismo" ha dato un contributo consistente all’escalation della pratica della pena di morte nel 2014 e negli undici mesi del 2015, in particolare in Pakistan, Iraq, Ciad e Somalia. In nome della sicurezza nazionale, in Somalia, Egitto e Tunisia sono state emanate nuove misure antiterrorismo che erodono le garanzie del giusto processo e l’esercizio dei diritti civili e politici. In controtendenza c’è il caso di Israele, dove nel luglio scorso la Knesset ha respinto la proposta di pena di morte per terrorismo, mentre il Kurdistan iracheno ha deciso di mantenere la moratoria delle esecuzioni, nonostante la minaccia incombente dello Stato Islamico. La soluzione più realistica, perché concreta e durevole, non è quella di proclamare "stati d’emergenza", ma di fondare e rafforzare "Stati di Diritto", non solo in Medio-Oriente, ma anche nel mondo occidentale, cosiddetto libero e democratico. Lo Stato italiano si ponga alla guida, a livello Onu e non solo, del processo di transizione verso lo Stato di Diritto e il Diritto alla Conoscenza, come unica alternativa concreta e. durevole alle logiche militariste, emergenziali e securitarie, su cui fondare anche la sua candidatura a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che il Partito Radicale sostiene. L’affermazione dello Stato di Diritto e del diritto alla conoscenza passano anche dal servizio radiotelevisivo che deve prevedere adeguati e ampi dibattiti, ad oggi negati, tra diverse opzioni politiche sulle grandi questioni di attualità della pace e della sicurezza internazionali. Isis: Putin pronto a collaborare con gli Usa, la Merkel manda i Tornado di Anais Ginori La Repubblica, 27 novembre 2015 Il presidente francese Hollande vede prima il premier italiano e poi vola a Mosca Renzi: "La jihad si batte anche con la cultura". Più che una "grande coalizione", sta nascendo un "coordinamento" internazionale contro l’Isis. È il risultato di una settimana di frenetici negoziati che hanno portato François Hollande a viaggiare tra Washington a Mosca, organizzando anche colloqui con i leader europei. Tappa finale del tour diplomatico, provocato dagli attentati del 13 novembre, l’atteso incontro tra il presidente francese e Vladimir Putin. In un momento di escalation, dopo l’abbattimento del caccia russo da parte della Turchia, Putin ha dato qualche segno distensivo all’Occidente, promettendo una "più stretta cooperazione" tra i paesi che combattono contro il Califfato. "È il nostro nemico comune" ha riconosciuto il presidente russo, senza concedere molto altro al leader francese. Ma la riapertura di un dialogo con Mosca è considerata già un primo successo, dopo il lungo isolamento diplomatico per la crisi ucraina. Putin e Hollande hanno parlato a lungo, dandosi del "tu". Piccoli gesti per dimostrare che qualcosa si sta muovendo e una nuova alleanza inizia a prendere forma. Il risultato più importante dal punto di vista francese è la disponibilità del premier britannico David Cameron che ha chiesto l’autorizzazione al parlamento per i raid aerei contro l’Is. Se la Camera dei Comuni voterà in favore della proposta, la Gran Bretagna diventerà il quindicesimo paese della coalizione che partecipa ai bombardamenti sulla Siria. L’Eliseo mostra soddisfazione anche per il maggior impegno annunciato dalla Germania. Angela Merkel ha promesso di inviare Tornado e una nave da guerra, oltre a 650 soldati in Mali per appoggiare Parigi. Ieri Matteo Renzi è arrivato nella capitale francese per rinnovare l’impegno dell’Italia in una strategia globale contro il terrorismo. Il presidente del Consiglio appoggia i negoziati per una "coalizione sempre più ampia", ma ha ribadito la necessità di un approccio che non sia solo militare. "Siamo impegnati a livello militare, in molti casi con la Francia - ha detto Renzi e penso al Libano ma non solo: anche all’Iraq, alla Siria, Afghanistan, Kosovo e Africa". Il contributo dell’Italia resta, ma senza un cambio sostanziale di passo. Renzi ha chiesto un maggiore scambio delle informazioni di intelligence all’interno dell’Ue. "È la lezione più importante che si può trarre dagli attentati del 13 novembre". Dopo l’incontro all’Eliseo, il premier è andato alla Sorbona, dove studiava Valeria Solenni, rinnovando il suo appello in favore della cultura per combattere il terrorismo, ed evitare così che ragazzi nati e cresciuti in Europa si trasformino in macchine da guerra. "Per ogni euro investito in sicurezza ce ne vuole uno investito in cultura" ha spiegato Renzi, salutato da una standing ovation degli studenti. Il ruolo di negoziatore di Hollande tra Mosca e Washington appare ancora in salita. Dopo gli attentati di Parigi, Putin aveva offerto piena collaborazione militare alla reazione di Hollande, ordinando allo stato maggiore di coordinarsi con quello francese e alla flotta russa sulla costa siriana di prendere contatti con la portaerei Charles de Gaulle. Un primo passo verso una possibile nuova alleanza anti-Is. Ieri sera il leader del Cremlino ha confermato a Hollande che la Russia è "disposta a cooperare con la Francia", apprezzando i suoi sforzi per creare una larga coalizione. Anche a guida americana. "Noi siamo pronti per questo lavoro comune", ha sottolineato Putin. "Ora è arrivato il momento di assumersi la responsabilità di quanto sta accadendo" ha ribadito Hollande durante la visita a Mosca. Quattro giorni fa a Washington, il presidente francese si è trovato davanti un prudente Barack Obama. La coalizione a guida americana continua a chiedere a Mosca di concentrarsi su obiettivi Is evitando attacchi ai gruppi della cosiddetta opposizione moderata. Gli Usa sono allarmati dal dispiegamento nella base russa di Latakia dei missili anti aerei S-400, che ora rendono Mosca padrona dei cieli siriani. Intanto la Russia accusa Washington di "continuare a giocare con le sanzioni invece di consolidare gli sforzi nella lotta alle minacce comuni", condannando le recentissime sanzioni ad alcune società e cittadini russi "con un nesso inspiegabile alla situazione in Siria". L’altro punto che blocca un’ipotesi di alleanza con la Russia è il futuro di Bashar al Assad. Di fronte a un Putin contrario ad ogni ingerenza esterna sul futuro della Siria, Hollande ha messo in sordina la richiesta di una partenza al più presto di Assad. Molte, dunque, ancora le divergenze che pesano sulla creazione di una coalizione unica che includa Mosca. L’abbattimento del jet russo da parte di una Turchia, membro della coalizione a guida Usa, ha aggravato la situazione: Putin non ha esitato a dipingere il governo di Istanbul come complice dell’Is, esigendo scuse che Erdogan pretende a sua volta dal presidente russo. Isis: la tela di Hollande tra Mosca e Berlino di Andrea Bonanni La Repubblica, 27 novembre 2015 Da Obama a Putin, dalla Merkel a Cameron, tutti dicono di sì a Hollande che, in nome della sua Parigi insanguinata, invoca una "grande coalizione" contro Daesh. Il presidente francese incassa anche un grosso successo con l’assenso russo a combattere a fianco di "un’alleanza a guida Usa". Un passo che modifica il quadro degli equilibri mondiali. L’unico che gli ha sparato contro, in modo neppure tanto metaforico, è Erdogan. IL missile con cui ha fatto abbattere un jet russo è stato un estremo tentativo di boicottare la nascita di una alleanza mondiale che avvii a soluzione la crisi siriana. Una prospettiva in cui Ankara ha molto da perdere, a cominciare dalla inevitabile creazione di una nazione curda e semi indipendente ai suoi confini. Ma se Erdogan può tenere in ostaggio l’Europa usando l’arma dei rifugiati, il suo tentativo di tenere in ostaggio il mondo giocando sulle divisioni che riguardano la sorte del dittatore siriano Assad è probabilmente destinato a fallire. Con l’offensiva terroristica lanciata contro l’Occidente, con i morti di Parigi e dell’aereo russo esploso sul Sinai, il sedicente Califfato è riuscito a coalizzare contro di sé l’intero Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: impresa mai così compiutamente realizzata in sessant’anni di crisi e di sforzi diplomatici. Quali saranno i risultati concreti della coalizione voluta da Hollande è ancora tutto da vedere. I cacciabombardieri della portaerei Charles De Gaulle difficilmente riusciranno da soli a risolvere una guerra che si trascina da quasi cinque anni. Ma intanto l’attivismo diplomatico del presidente francese sta avendo effetti politici di grande portata su almeno tre fronti. Il primo fronte è ovviamente quello siriano, dove finalmente le grandi potenze e le potenze regionali sono costrette a lavorare davvero per cercare una soluzione che consenta di riportare la pace del Paese. La guerra ha fatto comodo a molti. Ora però, se Daesh è destinato alla sconfitta militare sul terreno, tutte le capitali coinvolte in questo conflitto sono consapevoli che occorre un accordo preventivo su come riempire il vuoto che sarà lasciato dalla scomparsa del Califfato. Nessuno vuole ripetere l’errore della Libia, dove la caduta di Gheddafi ha lasciato un buco che nessuno si è preoccupato di riempire. Il secondo fronte è quello dei rapporti con la Russia. Dopo la gravissima crisi ucraina, le relazioni tra Mosca e l’Occidente erano precipitate ad un livello da Guerra fredda. La visita di Hollande al Cremlino, non come mediatore di un conflitto irrisolto e forse irresolubile, ma come alleato di una coalizione nascente a fianco degli americani, cambia in un colpo il quadro delle relazioni internazionali e relativizza la profondità del fossato che separa la Russia dall’Europa. Non a tutti questo fa piacere, come dimostrano i missili turchi. Ma il riavvicinamento conferma la tesi, sempre sostenuta dall’Italia, che il Cremlino è comunque un interlocutore indispensabile del mondo occidentale. Il terzo fronte è quello dell’Europa, che si trova ancora una volta messa in discussione. Hollande ha giustamente detto che l’attacco contro Parigi è stato un attacco contro l’Europa. Ma si è ben guardato dal trarne le conseguenze. La richiesta francese di solidarietà ai partner comunitari è stata fatta in base ad un articolo del Trattato, il 42.7, che di fatto consente a tutti di mantenere le mani libere e garantisce così all’Eliseo un ruolo di "pivot" nel coordinare la reazione europea. Se avesse invocato l’articolo 44 dello stesso Trattato, Hollande avrebbe comunitarizzato questa crisi, che sarebbe passata sotto il controllo di Bruxelles e del Comitato politico e di sicurezza, il Cops, che è un organo del Consiglio Ue. Non lo ha voluto fare, per gli stessi motivi per cui, all’indomani della strage di Charlie Hebdo, si è opposta alla creazione di una "intelligence" europea. Anche nel momento del massimo pericolo, la Francia non rinuncia al proprio ruolo di stato- potenza, sia pure al centro di un concerto di altri stati europei. L’emergenza terrorismo le offre semmai l’opportunità di riequilibrare almeno in parte, sul piano militare, la supremazia che la Germania aveva acquisito sul piano economico e politico. Oggi la Merkel è costretta a seguire Hollande, offrendogli aiuto in Africa o mettendogli a disposizione i Tornado della Luftwaffe, come Hollande l’aveva seguita, molto a malincuore, nell’apertura alla redistribuzione dei migranti. Lo stesso Cameron è obbligato a tornare davanti ai Comuni per richiedere il permesso di mandare la Raf in Siria, negatogli mesi fa. Renzi, il più renitente dei partner europei anche perché aspetta (e spera) il riconoscimento di un ruolo dell’Italia in Libia, è convocato a Parigi per un breve colloquio prima che Hollande parta per Mosca. E comunque neppure lui può esimersi dall’offrire un piccolo contributo italiano per alleviare lo sforzo dei soldati francesi in Libano. I belgi, maltrattati per le pretese carenze della loro intelligence sul terrorismo, sono ridotti ad offrire una fregata che scorta la portaerei Charles De Gaulle nei mari siriani in quello che sembra un omaggio più che una difesa. Tutto giusto, per carità. In questa crisi la supremazia francese ha radici legittime. Da mesi la Francia si è assunta l’onere di combattere il Califfato anche in nome e per conto di quegli europei che non lo hanno voluto o potuto fare. Parigi ha pagato un prezzo altissimo per questo impegno. È logico che oggi riscuota la solidarietà dei partner ed è incoraggiante che questi onorino, sia pure a prezzo scontato, i propri obblighi morali. Ma il modo in cui Hollande sta gestendo la crisi lascia l’Unione europea in secondo piano. La relega al ruolo di spettatore consenziente di un balletto degli stati nazione sotto regia francese. Forse questo basterà a risolvere l’incerto futuro della Siria. Di certo, non aiuta a schiarire il futuro incertissimo dell’Europa. Le pagelle dei Grandi ai tempi dell’Isis di Stefano Stefanini La Stampa, 27 novembre 2015 Come hanno reagito i leader agli attentati? La risposta agli jihadisti è efficace? Ecco i nostri voti. Fare le pagelle è sempre difficile, opinabile e spiacevole. Nel caso della risposta agli attentati di Parigi (e, non dimentichiamo, di Ankara, Sharm El Sheikh, Beirut e Bamako) rischia di banalizzare scelte e comportamenti estremamente complessi di leader investiti di pesanti responsabilità. Non mi sarebbe mai venuto in mente di arrogarmene il titolo, se La Stampa non me lo avesse chiesto, per offrire al lettore uno spaccato di semplicità nel bombardamento di complessità che continuerà ancora a lungo. È in questo spirito che ho accettato di farlo, ben cosciente dei miei limiti di soggettività e d’informazione. Questa non è (purtroppo) la pagella di una partita. In campo ci sono più di due squadre, ci sono solisti e invasioni di campo del pubblico, il terreno non è piatto, si gioca sia nello stadio che nei campi di periferia. Non è un gioco e siamo sì e no ai primi 15’. Alla fine della partita le pagelle potrebbero risultare molto diverse. Nell’ottobre del 2001 George Bush avrebbe avuto un voto ben più alto che non dopo l’intervento in Iraq o a fine Presidenza. Bisognava anche delimitare l’oggetto. Il voto riguarda esclusivamente la risposta alla minaccia dello Stato Islamico, dopo che la serie di attentati l’ha brutalmente fatto emergere come la principale minaccia alla sicurezza e alla normalità del nostro modo di vivere; in subordine, tiene conto della capacità di estendere solidarietà ed esprimere empatia. François Hollande - Voto: 9. Il Presidente francese è stato subito all’altezza della crisi. Si è rivolto alla Nazione, non ha avuto esitazioni nell’individuare il nemico, l’ha immediatamente colpito, ha rapidamente messo la Francia al centro di una forte risposta internazionale, diplomatica e militare. Ha mobilitato le energie del Paese senza nasconderne i limiti di capacità. Ha disegnato la grande alleanza di cui ha bisogno. I francesi si sono sentiti in buone mani. Il mondo ha visto un leader all’opera. Finora Hollande non ha perso un colpo. Barack Obama - Voto: 5. lancio iniziale di solidarietà, abile apertura a Putin al G20 di Antalya, ma scarsa voglia di prendere la guida della risposta internazionale a Isis. Sul terreno gli americani non si tirano indietro; sarà loro, come sempre, lo sforzo maggiore. Non basta: il mondo è abituato ad attendersi leadership dall’America. Forse non era il momento di ripetere che tocca agli europei fare di più: vero, ma con di mezzo Isis, Russia e Turchia non è neppure quello di "guidare da dietro". Riaffiorano timori di distacco transatlantico. Si conferma Presidente di lunghe visioni, ma preso in contropiede dalle crisi. David Cameron - Voto: 6. Il Primo ministro britannico ha gli istinti giusti e li ha confermati nella visita lampo a Parigi. È chiara la volontà di essere al fianco della Francia. Sconta però un’intrinseca insicurezza all’interno. Il suo intervento ai Comuni ha toccato la logica dell’intervento contro Isis ma non le corde che fanno vibrare il consenso di una Nazione. Manca della passione di Blair e della glaciale determinazione di Thatcher. Ottiene il risultato voluto ma non guadagna in carisma. Angela Merkel - Voto: 7. Ancora una sorpresa dalla Cancelliera. Non solo ha rafforzato la mano di Hollande per l’incontro con Putin, con l’offerta di truppe per il Mali ha fatto un salto d’impegno militare. Andare in Mali non è una passeggiata. Non c’è una cornice Onu, Ue o Nato: una novità per i tedeschi. Pur al di fuori del suo normale campo d’azione, Merkel ha avuto il coraggio di alzare il suo gioco. L’ha fatto malgrado sia sotto il fuoco di critiche sui rifugiati. Questa è leadership. Angela ha preso il suo tempo, ma è sempre stata una fuoriclasse nella progressione, non nello scatto. Matteo Renzi - Voto: 5. Il presidente del Consiglio ha detto tutte le cose giuste. Fa bene a ricordare che la sfida di Isis è una prova di tenuta culturale e non solo militare o di sicurezza. Ma, ieri mattina, l’Eliseo avrebbe preferito qualche fatto in più e qualche parola in meno. La Germania sorpassa così l’Italia in materia di stabilità e sicurezza internazionale. Non era mai successo. La prudenza è probabilmente quello che gli italiani vogliono da Renzi. A Roma o Firenze prenderebbe la sufficienza abbondante, ma fa piccolo cabotaggio internazionale. Vladimir Putin - Voto: 6. In questa crisi la lucidità e determinazione del Presidente russo non sono state oscurate dalla retorica slavo-nazionale che aveva sparso a piene mani sulla crisi ucraina. Putin sa quello che vuole nella crisi siriana - è forse uno dei pochi ad avere le idee chiare. Ha aggiustato rapidamente il tiro contro lo Stato Islamico, un po’ per solidarietà con Parigi, un po’ dopo aver finalmente ammesso che Metrojet russa ne era vittima. Deve stare attento a non voler stravincere: otterrebbe l’opposto. La violazione dello spazio aereo turco era un’inutile bravata, ma si può far perdonare in nome della guerra contro Isis. I turchi chiederanno di più. Qui Putin rischia perché una guerra economica con Ankara sarebbe disastrosa. Abbassare la retorica non sarebbe una brutta idea. Recep Tayyp Erdogan - Voto: 5. Il Presidente turco è un ottimo tattico ma uno stratega disastroso. Vuole togliere di mezzo Assad a Damasco; teme il crearsi di un Kurdistan sotto la pancia anatolica; chiudeva un occhio sui traffici di Isis che l’ha ricambiato con un sanguinoso attentato ad Ankara; ha problemi con l’Ue per i rifugiati. La Turchia ha molto da perdere e poco da guadagnare dalla crisi siriana, sia che si risolva sia che continui. Adesso aggiunge uno scontro frontale con Russia. Aver ragione sull’invasione di campo del Su-28 per un mero chilometro e mezzo d’incursione è ben magra soddisfazione. Qualche scusa non sarebbe fuori luogo; peccato che non siano in carattere col personaggio. Erdogan deve ancora mostrare che anche per lui il nemico principale è Isis. Altrimenti rimane l’uomo forte - e solo. Mogherini, Tusk, Juncker - Voto: 5. L’Ue sperimenta per la prima volta l’Art. 47.2 del Trattato di Lisbona. Per il resto abbondano i "siamo tutti francesi" e si costruiscono i bastioni della Fortezza Bastiani. Meglio che niente ma non è questa l’Europa che chiedono i cittadini. I populisti stanno scaldando i muscoli per la partita che si giocherà presto sul futuro dell’Unione. La Nato - Voto: 5. Mentre alcuni dei suoi principali azionisti (Usa, Francia, Regno Unito) preparano la guerra, la più grande alleanza del mondo pensa ad altro. Si accorge della Siria solo quando un Paese membro (Turchia) abbatte l’aereo di un Paese partner (Russia) col quale l’Alleanza non parla più perché è in corso una causa di occupazione abusiva. Personaggio in cerca d’autore? Parigi e i parigini - Voto: 10. Hanno incassato una ferita al cuore. Non si sono fatti prendere dal panico. Non hanno dato la caccia al musulmano. Non si sono fatti trascinare in un’ebbrezza nazionale. Non hanno cancellato la conferenza sui cambiamenti climatici. Esitano, ma tornano a giocare a calcio, a ballare, ad andare al bar e ai concerti. I kalashnikov non hanno ucciso la joie de vivre. Chapeau! Reazioni islamiche - Voto: 4. Molte, in tutto il mondo, sono state le voci di solidarietà e di sconfessione di Isis. Ma non si è sentito quel rigetto corale che, solo, farebbe pensare "siamo tutti dalla stessa parte". Molti silenzi, molte spiegazioni accademiche, troppa storia. I jihadisti che sparavano al Bataclan e il terrorista che ha confezionato la bomba piazzata sul Metrojet russo non pensavano alle Crociate. Le colonie sono finite da tre generazioni. L’Islam guarda mai al futuro? Belgio - Voto: 3. Dieci giorni di blindatura della capitale d’Europa sono un’emergenza in attesa di spiegazione. Cosa la rende più sicura a partire dal 1° dicembre, salvo arresti e senza ritrovamenti d’armi o d’esplosivi? Contro la guerra non si può restare in silenzio di Etienne Balibar e Jacques Bidet (traduzione di Marinella Correggia) Il Manifesto, 27 novembre 2015 "Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevano che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire". Un appello di intellettuali francesi. Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone - e le comprendiamo - ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo? Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine? La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I "Rafale" uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato. Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche? La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano? Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono. Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome. Primi firmatari: Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico). I "No war" in piazza a Firenze di Chiara Del Corona e Serena Fondelli Il Manifesto, 27 novembre 2015 Venti di guerra. Per Parigi e contro il traffico di armi da Piombino e Pisa a Riyadh, più di mille manifestano a Firenze, mentre Rebeldìa, Toscana a Sinistra e Prc presentano interrogazioni nei consigli comunali e in quello regionale. Complice la due giorni dell’assemblea parlamentare della Nato in corso a Palazzo Vecchio, la Toscana arcobaleno si è fatta vedere e sentire con cortei, presidi, e con la denuncia di un carico di armi transitate nel porto di Piombino e dirette in Arabia Saudita. Quest’ultimo caso finirà anche in consiglio comunale grazie a mozioni di Un’altra Piombino e Rifondazione, e in quello regionale con l’interrogazione di Tommaso Fattori e Paolo Sarti di Toscana a Sinistra. Mercoledì sera nel capoluogo toscano più di mille persone hanno partecipato ad una manifestazione per le vie del centro, dietro lo striscione con la scritta "Le vostre guerre, i nostri morti. Basta guerre, basta Nato". Il corteo promosso dall’Assemblea fiorentina contro il vertice Nato è sfilato pacificamente: "Siamo tutti toccati dai fatti di Parigi - hanno spiegato i promotori - ma qui in piazza è scesa quella parte della città che non crede che l’unica risposta possibile siano le guerre e i morti. La nostra protesta era stata convocata prima di Parigi, gli attentati ne hanno rafforzato i contenuti: non ci possiamo arruolare in questa guerra, né difendere le istituzioni che sono complici del terrore, in Francia come in Turchia". Intanto la denuncia dei quattro tir carichi di bombe Mk83, prodotte in Sardegna e destinate all’Arabia Saudita, ha portato Rebeldìa, collettivi studenteschi e Un Ponte per.… ad appendere alla recinzione dell’aeroporto militare di Pisa lo striscione "Frontiere chiuse alle armi. Non alle persone". "Dopo Parigi - spiegano gli attivisti di Rebeldìa - questa movimentazione sarebbe aumentata coinvolgendo il territorio toscano, dove ci sono centri di smistamento e deposito di armi come la base militare di Camp Darby e questo aeroporto. Da anni ormai chiediamo la chiusura della base e il suo riutilizzo a usi civili, per motivi di sicurezza e perché il nostro territorio non sia complice di omicidi di massa di civili, tra cui donne e bambini, come avviene nei frequenti attacchi sauditi in Yemen". A dare la notizia della movimentazione di armi era stato il deputato sardo Mauro Pili (Unidos). I tir erano sbarcati a Piombino sabato scorso, provenienti dal porto di Olbia. In totale mille bombe Mk83, prodotte dalla Rwn Italia di Domusnovas (Carbonia-Iglesias) che fa capo al colosso internazionale Rheinmetall Defense, e destinate all’Arabia Saudita. "Mille bombe Mk8 - ricordano i consiglieri regionali Fattori e Sarti - lo stesso tipo di bombe usate per colpire la popolazione civile dello Yemen. Il passaggio di armi avviene con cadenze regolari nel porto toscano, ed è in contrasto con la legge italiana che vieta le esportazioni di materiali militari e loro componenti verso i paesi in stato di conflitto armato. E l’Arabia Saudita, oltre a essere responsabile di gravi e reiterate violazioni dei diritti umani, per il suo intervento militare in Yemen non ha mai ottenuto dall’Onu alcuna autorizzazione né legittimazione". L’inverno soffia sui profughi di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 27 novembre 2015 Al confine tra Slovenia e Austria chi è individuato come "migrante economico" non procede. Filtrano solo siriani, iracheni e afghani. Mancano scarpe. Nel tendone della protezione civile slovena che ordinatamente raccoglie e smista quintali di vestiti usati, nel campo profughi di Sentilj, c’è una cronica penuria di calzature, specie maschili, in particolare dal 39 in su. "Le consumano", spiega Ann, volontaria. Alla fine della rotta balcanica, a un passo dalla Mitteleuropa, arrivano coi tacchi logori, le suole rotte, le tomaie scucite: "Da buttare". Riad Ali ha camminato almeno due ore sotto la pioggia battente al confine tra Macedonia e Serbia: "Pochi chilometri, ma eravamo tutti bagnati, i bambini piangevano, e dovevamo andare piano per gli anziani". Reporter, ha girato un ultimo servizio per un’emittente di Dubai nella sua Afrin, a nord di Aleppo, quindi ha raggiunto moglie e figlia in Turchia e con loro si è messo in viaggio. In gommone fino all’isola di Kos, in traghetto ad Atene. Alla frontiera tra Grecia e Macedonia, meno di una settimana fa, Riad ha assistito alla "selezione" dei rifugiati: "Gli iraniani non li facevano passare". Nemmeno pachistani, né bengalesi. Le organizzazioni internazionali segnalano che a Idomeni ci sono mille persone bloccate. L’ultima novità di questa marcia-roulette: chi è individuato come "migrante economico" non procede. Filtrano solo siriani, iracheni e afghani: al confine tra Slovenia e Austria sono gli unici che riescono ad arrivare. Più o meno velocemente. I Paesi balcanici cercano di accelerare il transito (e "spostare" il problema più a nord). Ogni tanto compare del filo spinato, una transenna, un tentativo di blocco, ma in linea di massima il flusso scorre. Il rallentamento comincia qui, in Stiria, tra gli affluenti del Danubio. L’inchiesta sui terroristi di Parigi ha indicato che l’Austria è stata un passaggio facile, fin troppo, e ora le registrazioni richiedono tempi più lunghi. A ridosso del vecchio valico di Sentilj, allora, ci sono centinaia di persone in fila, e altrettante che attendono la chiamata della polizia. Coperte sulle spalle, accendono fuochi di sterpi e rifiuti per il freddo che ormai è andato sotto zero. La preoccupazione principale dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è in questa terra che gli stessi funzionari chiamano "di nessuno". I profughi, così vicini alla meta, spiega il portavoce per l’Europa centrale Babar Baloch, restano il minor tempo possibile nel campo attrezzato e riscaldato, mezzo chilometro indietro, e si spingono tutti nella "no man’s land" a pochi metri dall’Austria. Per la precisione, il prato brullo oltre la grata arrugginita e piegata dove un ragazzo afghano s’aggira per raccogliere rami da bruciare è già Austria. Da un decennio, da quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea e in Schengen, questo vecchio pezzo di impero austroungarico s’è ricomposto, e il passaggio - in particolare dei lavoratori da Maribor a Graz - è cospicuo e quotidiano. Ma far defluire 200 mila profughi in meno di due mesi in un unico punto non è impresa facile nemmeno per i diligenti sloveni. Autobus e treni li vanno a prendere al confine con la Croazia, con una fermata speciale a Sentilj. Dello smistamento si occupano militari e poliziotti: lo sforzo è notevole, gli agenti sono reduci da uno sciopero. La protezione civile gestisce l’accampamento. E anche per il funzionario Rudolf Golob la preoccupazione è il freddo. "Abbiamo avuto un ottobre splendido e fino a poco fa era bello - osserva -. Da ora in poi le temperature saranno negative". Il rumore dei generatori è costante, stufe-fungo spuntano a ogni angolo, le coperte grigie e ispide dell’Unhcr vanno subito in lavanderia, pronte per i turnover sulle brande. Sono arrivati gli aiuti del governo svizzero, nei magazzini ci sono provviste francesi, e le mele che sarebbero state destinate all’esportazione verso la Russia dopo la crisi ucraina sono state dirottate qui a tonnellate. I vestiti arrivano dai punti di raccolta sparsi per il Paese. Scarpe, ma servono anche giubbotti pesanti, berretti, sciarpe e pantaloncini per bambini: "Si son fatti tutti la pipì addosso durante almeno una tappa del viaggio", spiega un’altra volontaria, Tatiana. Il cambio d’abiti serve allora per pulirsi e per imbottirsi, perché dove vanno, tra Germania e Svezia, non farà meno freddo. All’ingresso del tendone-armadio, Mahmoud indica un cappotto che pare abbastanza pesante. Artigiano siriano, non c’è dubbio che sia in fuga: viene da Raqqa, la capitale dell’Isis. "Bombe, distruzione" scuote la testa, si fa capire un po’ in inglese, un po’ a gesti. Nemmeno i serbi scherzano, vuole dire, indica di essere stato picchiato. Al bancone il volontario gli ricorda che è il suo turno. E lui per concludere chiede scarpe: "Numero 43". Barba, kalashnikov e inni jihadisti: quelle milizie turche uguali a Isis di Maurizio Molinari La Stampa, 27 novembre 2015 Si fanno chiamare i "Leoni di Allah" e terrorizzano le comunità curde nel sud del Paese. "È Ankara che li manda per ostacolare gli aiuti al Pkk". Il governo nega coinvolgimenti. Barbe lunghe, jalabye, kalashnikov e inni jihadisti: nelle strade di Idil, nella provincia turca di Sirnak, i "Leoni di Allah" si manifestano con le caratteristiche di una cellula dello Stato Islamico (Isis) e le comunità curde locali temono l’estensione alle loro regioni della guerra civile siriana. Soprattutto perché, secondo alcune testimonianze locali, "operano nei ranghi della polizia". È Caglar Demirel, deputato del Partito democratico del popolo (Hdp) a recapitare al Parlamento di Ankara una descrizione minuziosa di quanto sta avvenendo: "Questi miliziani con le barbe puntano le armi contro donne e bambini, obbligano gli uomini a stendersi faccia a terra, con le mani legate dietro la schiena, non rispettano alcuna legge, hanno i volti coperti e nessuno sa in realtà chi siano". Alcune testimonianze locali li descrivono in un distretto a Sud di Diyarbakir "comportarsi come se fossero poliziotti anche se in realtà non lo sono". L’aggressività è rivolta sempre verso i civili curdi, al punto che in alcuni villaggi vengono considerati come la ripetizione turca delle ronde del Califfato che pattugliano le zone urbane della Siria Orientale. Il termine "Leoni di Allah" - Esedullah - è quello che gridano nei megafoni e scrivono sulle pareti delle case quando entrano nei villaggi, innescando panico fra gli abitanti. Idris Baluken, deputato del Partito repubblicano del popolo eletto in un distretto del Sud, ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministero dell’Interno, spiegando che gli "Esedullah" gridano "slogan dello Stato Islamico, parlano turco e curdo, usano la forza senza alcuna pietà e ritmano Allah hu-Akbar in una maniera che somiglia ai jihadisti" del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Sezgin Tanrikulu, anch’egli rappresentante del Partito repubblicano del popolo, chiama direttamente in causa il governo di Ankara, sollevando il sospetto che queste "unità Esedullah" siano state "create dal ministero degli Interni" con "modalità e intenti da verificare" al fine di terrorizzare le popolazioni locali, che in gran parte sono curde. Si tratterebbe dunque di un’operazione tesa a mettere sotto pressione le comunità curde per ostacolare qualsiasi forma di sostegno a gruppi armati del Partito dei lavoratori curdi (Pkk). Il ministro dell’Interno di Ankara nega un coinvolgimento diretto e assicura di aver "lanciato un’inchiesta" sulla base delle "segnalazioni ricevute" che parlano di "gruppi di uomini vestiti di nero", con "forti motivazioni" che "agiscono nei ranghi della polizia" con "comportamenti ostili verso i curdi". "Appureremo la verità", assicurano i portavoce. Il termine "Leoni di Allah" è adoperato nel Califfato per indicare unità di fedelissimi di Abu Bakr al-Baghdadi e, in particolare, i "cuccioli di leone" sono i bambini sequestrati ad altre etnie - curdi o yazidi - convertiti e avviati alla Jihad. La coscienza occidentale all’ombra dei Saud di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 27 novembre 2015 Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani. Una volta elaborato il lutto, una volta eliminati i responsabili dell’eccidio parigino, che fare delle altre migliaia di adepti al jihad?… Intendendo ovviamente il jihad offensivo, non quello interiore di superamento di se stessi. Mi è capitato di recente di attraversare a piedi il 19°mo Arrondissement di Parigi. Per una buona mezzora mi pareva di esser tornato ad Algeri: strada dopo strada nient’altro che negozi, volti e vestiti di umili maghrebini. Umili e gentili, almeno per il momento. Su internet scopro ora che il quartiere è bollato come dangereux: a me non sembrava pericoloso per me quanto per loro, visto che le vittime del fanatismo sono al 95% musulmane. (Mi è capitato anche di attraversare il quartiere ebraico nel Marais e chiedere un’informazione stradale: l’unica risposta è stato un mugugno accompagnato da un’occhiata torva. Ma questa è un’altra storia). L’Isis, trovandosi in difficoltà sul proprio territorio, ha avviato il piano B: lanciare cani sciolti all’attacco del cuore metropolitano dell’Occidente. Questi jihadisti potranno sempre contare sulla simpatia - se non sulla connivenza - di tanti loro confratelli residenti nelle periferie disagiate d’Occidente. Che faremo allora? Punteremo droni e missili contro le nostre metropoli? Iniziamo, invece, a scandagliare la profondità della frustrazione in cui si dibattono le comunità arabo-musulmane. Iniziamo a sostenere l’aspirazione di chi propugna - se non un Califfato - almeno un’esegesi moderna dei sacri testi, dopo otto secoli di deserto teologico e il colpo finale inferto da Ataturk nel 1924 con la destituzione della khalifa (forse ci penserà Erdogan, ora che ha stravinto le elezioni, a ricoprire la sede vacante una volta eliminato al-Baghdadi). Se la Chiesa ha percepito l’urgenza di aggiornarsi con un Concilio nel 1962 - ed era il 21° della sua storia - "aggiornamento" dovrebbe a maggior ragione diventare la parola d’ordine dell’Islam. Perché da secoli ormai le scuole coraniche - dal Marocco al Bangladesh - non fanno che insegnare a ripetere, alla lettera e in una lingua sconosciuta, brani di un testo del VII° secolo: da cui espungono parole come rahme (misericordia) e gafara (perdono) - ricorrenti nel Corano più volte che nella Bibbia - a vantaggio di parole come harb (guerra) o come thar (vendetta). I miliziani dell’Isis praticano esecuzioni rituali non solo per asseverare la radicalità dei loro principi, ma soprattutto per sfidare i "crociati" a singolar tenzone e attirarli sul terreno militare. Precisano anche dove: a Dabiq, un villaggio nella piana a nord di Aleppo a pochi chilometri dalla frontiera turca; là si daranno battaglia decisiva le forze del bene e del male. E per confondere ancor più le idee, ci dicono che a guidarli alla vittoria sarà il secondo profeta più riverito dell’Islam, Gesù. Tempo fa attraversavo Dabiq in direzione della Turchia e mi pareva che i poveri agricoltori locali ignorassero tutto del giorno fatidico in cui saranno risvegliati dal clangore di cozzanti scimitarre e vedranno i loro campi arrossarsi di sangue impuro. C’è poco da sorridere. I parigini che nei giorni scorsi intonavano il refrain della Marsigliese reclamavano "che un sangue impuro irrighi i nostri solchi". Ad ottobre, in coincidenza con i primi raid russi in Siria, 55 esponenti religiosi e accademici sauditi hanno pubblicato un appello ai "veri musulmani", scongiurando di "fornire aiuto morale, materiale, politico e anche militare" a chi combatte in Siria contro il regime alauita (e contro Russia e Iran che lo sostengono). Si riferivano ai miliziani dell’Isis, definiti "guerrieri santi che stanno difendendo l’intera nazione islamica". I firmatari dell’appello al jihad offensivo lo giustificavano con queste parole: "Se i santi guerrieri venissero, Dio non voglia, sconfitti, le nazioni sunnite cadrebbero una dopo l’altra". Per il momento, a cadere è stato un aereo russo con 224 turisti innocenti (e un cacciabombardiere sempre russo abbattuto dagli F-16 degli "alleati" turchi). Un diplomatico libanese mi ha raccontato di aver chiesto a dei funzionari sauditi come mai il governo di Ryad consentisse ad esponenti religiosi di perorare la causa della guerra ad oltranza. La risposta è stata: che vuole, caro amico, si tratta di persone influenti e libere di predicare. Il problema è che nella penisola arabica questa libertà di parola viene punita - all’occorrenza - con 1000 colpi di frusta somministrati 50 alla volta, se è il blogger saudita Raif Badawi a voler parlare. Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani. Fin dall’inizio il neo-califfo Abu Bakr al-Baghdadi invitava i suoi emissari in Arabia Saudita a combattere anzitutto "gli sciiti e i sulul (i difensori della monarchia saudita), prima di attaccare i salibi (i crociati, ossia i cristiani)". I sauditi giocano col fuoco, anche perché l’autosufficienza energetica conseguita da Obama ha disinnescato il terribile ricatto che vincolava Washington al petrolio di Ryad. È stato uno dei grandi successi, inseguito con forza da sette anni, di questo lungimirante presidente. D’ora in poi Congresso e Casa Bianca - com’è accaduto in questi giorni - forniranno armi a Ryad solo se lo vorranno, non per imposizione degli amici di Bush. E in questi flussi e riflussi di alleanze e di inimicizie, anche Turchia e Israele stanno giocando col fuoco. La Turchia perché ha favorito alla grande il transito verso il fronte di giovani "idealisti" votati al martirio. Quanto a Israele, l’inedita vicinanza all’Arabia Saudita voluta da Netanyahu il "cinico" finirà come finì nel 1979 la cinica alleanza di ferro con lo Scià di Persia: male. Arabia Saudita: il poeta palestinese condannato a morte per apostasia "non sono ateo" Aki, 27 novembre 2015 Il poeta palestinese Ashraf Fayadh, condannato a morte in Arabia Saudita con l’accusa di aver "dubitato dell’esistenza di Dio", ha detto di non essere ateo e di essere vittima di una disputa personale. Intervistato da Mecca Online all’interno del carcere dov’è detenuto, Fayadh ha detto di essere stato denunciato alla polizia religiosa da uno studente che lo ha definito ateo, accusandolo di voler diffondere l’ateismo con un libro di poesie che aveva scritto nel 2008. Fayadh ha aggiunto che le sue poesie possono essere mal interpretate. Nato da genitori palestinesi, ma cresciuto in Arabia Saudita, Fayadh era stato arrestato dalla polizia religiosa nel 2013. Rilasciato dopo pochi giorni, il poeta 50enne era stato arrestato nuovamente a gennaio 2014 nella città sud-occidentale di Abha. Una prima sentenza lo aveva condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate, ma il giudice d’appello ha deciso di condannarlo a morte. La condanna, secondo alcuni attivisti, sarebbe legata a un video pubblicato sul Web dal poeta, che mostra la polizia religiosa di Abha che picchia un giovane in pubblico. Per chiedere la sua liberazione, lo scorso anno è stata lanciata una petizione, sottoscritta da centinaia di artisti e intellettuali. Almeno 150 persone sono state giustiziate in Arabia Saudita nel 2015, il dato più alto degli ultimi anni. Egitto: lettere dall’inferno, un detenuto disegna le torture subite in carcere di Ilaria Giuppon Left, 27 novembre 2015 Al primo sguardo sembrano disegni di un bambino. Avete presente quelli che fanno immaginando storie di battaglie fra guardie e ladri, con tanto di divise e armi? Avventura, immaginazione e fantasia. E invece no: questi sono verissimi. E in maniera agghiacciante: sono gli schizzi, dettagliatissimi, di un detenuto egiziano e delle torture che la polizia penitenziaria compie abitualmente nei loro confronti. Il carcere è quello di Al-Fayoum, centro di detenzione fra i più grandi del Paese (situato nel deserto egiziano, a un centinaio di chilometri da Il Cairo) e non nuovo alle organizzazioni umanitarie: già nel 2011 Amnesty International lo aveva denunciato per ipotesi di torture e violazioni di diritti umani. L’elenco stilato da questi terrificanti murales su carta, accompagnano una lettera che traccia una vera e propria lista dei metodi di tortura utilizzati all’interno del penitenziario. Trapelato sul sito di informazione Rassd, il documento è stato significativamente ribattezzato "lettere dall’inferno". Eccole: "La posizione del cancro" L’elettricità è collegata al dente del giudizio del detenuto, mentre questo viene spruzzato con acqua e picchiato ripetutamente e duramente con strumenti taglienti "La posizione della carcassa" Il detenuto è legato testa in giù e picchiato "La posizione della borsetta" Il detenuto viene spogliato nudo. Gli viene ordinato di piegarsi e, legato mani e piedi insieme con una catena, viene gettato in mezzo alla strada, prima di essere inviato nella "stanza dell’inferno" (quella delle torture, appunto) "La posizione dell’ossatura/della cornice Mani e piedi del detenuto sono legati tra loro e verso l’alto. Un pezzo di legno viene spinto contro la parte posteriore della testa, costringendo il mento a ripiegarsi sul petto e causando forti dolori "La posizione del materasso" Il detenuto è steso su un materasso bagnato con due sedie situate agli opposti: una per bloccare le gambe, l’altra le mani, in maniera da causare forti dolori al corpo "La posizione di scarafaggio" Il detenuto è legato a testa in giù per un piede mentre viene colpito con le scarpe, calci e sputi "Tortura sessuale" Il detenuto è spogliato, completamente nudo. All’uomo viene ordinato di piegarsi davanti a una sbarra di ferro cablata con l’elettricità, che viene inserito nel retto "La posizione del cane" Un collare di ferro è apposto al collo del detenuto, al quale viene ordinato di abbaiare come un cane per un giorno intero "La posizione del verme" Al detenuto viene ordinato di strisciare come un verme "La posizione dello scorticato" Il detenuto è legato al soffitto mentre gli ufficiali gli bruciano la pelle, per poi rimuovere le parti ustionate. E poi riprendere. "Le dita spezzate" Le dita del detenuto sono tirate all’indietro con forza, fino a quando non si rompono "La posizione dell’accovacciato" L’elettricità è collegata alle orecchie e al pene del detenuto, che deve mettersi in posizione accovacciata. Gli vene, così, versata addosso dell’acqua a secchiate che lo fulmina Tornano ora, con agghiacciante linearità, le immagini girate di nascosto l’8 febbraio del 2011 all’obitorio di Zenhoum da due fratelli (Malek Tamerdi e Mohamed Ibrahim Eldesouy) di due ex carcerati, deceduti ad Al-Fayoum in circostanze "ignote", nonostante i cadaveri mostrassero evidenti segni di torture laceranti. Unghie strappate, dita di mani e piedi mancanti, versamenti cerebrali, ustioni. Decine di uomini, uccisi al seguito di quanto sopra illustrato, e per i quali non è mai partita, sebbene richiesta a gran voce dai parenti delle vittime e dall’organizzazione umanitaria, un’indagine delle autorità egiziane. Notizie su eventuali autopsie o altri esami medico-legali effettuati sui corpi dei due prigionieri non sono mai state fornite dalle autorità. I certificati di morte parlavano rispettivamente di "soffocamento" e di "cause da accertare". Nonostante i parenti - assistiti dal Centro egiziano per lo sviluppo e i diritti umani - avessero consegnato le immagini all’Ufficio del pubblico ministero del Cairo. Non hanno ricevuto alcuna risposta. Inutile dire che la brutalità con la quale il regime di al Sisi combatte i suoi avversari politici, Fratellanza musulmana in primis, sta consegnando nelle mani dei reclutatori dell’islam più estremo decine di carcerati.