41-bis: non avere paura di parlarne Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2015 Abbiamo ricevuto dal senatore Pietro Ichino una lettera sul 41 bis, lo ringraziamo perché ci costringe a non dimenticare mai che, quando rivolgiamo ai cittadini perbene l’invito, per dirla con Pirandello, a capire prima che a giudicare, "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere metti le mie scarpe", dobbiamo farlo davvero sempre per primi noi, questo sforzo di capire le ragioni dell’Altro, anche quando ci dà fastidio o ci fa soffrire. Al senatore Ichino abbiamo cercato di rispondere a più voci, perché il tema è davvero complesso, e non ci sono risposte semplici. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti Ci scrive il senatore Pietro Ichino: "È sacrosanto vigilare e interrogarsi permanentemente sull’effettività del carattere riabilitativo e redentivo della pena; ma non sarebbe giusto ignorare che la detenzione può anche rispondere a una esigenza essenziale di prevenzione del ripetersi di comportamenti illeciti particolarmente gravi". Lettera a Ristretti Orizzonti, periodico di informazione, riflessione e cultura dal carcere Due Palazzi di Padova, diretto con grande intelligenza e rigore da Ornella Favero Gentile Direttore, ho letto con grande interesse, come sempre, il numero di agosto e settembre di Ristretti Orizzonti; e in particolare l’articolo Quando ero al 41bis la mia ragione di vita era la rabbia, nel quale Giovanni Donatiello racconta la propria esperienza nel regime di massima sicurezza del 41-bis, denunciandone la durezza. Le sue ragioni vanno considerate con grande attenzione; ma proprio perché possano essere comprese fino in fondo, occorrerebbe conoscere un’altra parte della vicenda, che invece né l’autore dell’articolo, né alcuna nota redazionale raccontano: qual era, nel periodo di applicazione del 41-bis, il modo in cui Giovanni Donatiello si rapportava con il proprio passato e in particolare con l’organizzazione criminale a cui - dobbiamo presumere - aveva appartenuto? Perché la ragion d’essere di quel regime di massima sicurezza consiste essenzialmente nell’esigenza di impedire drasticamente la prosecuzione di qualsiasi rapporto tra il detenuto e l’organizzazione da cui proviene, al fine di evitare la possibilità di una sua cooperazione in nuovi reati di gravità estrema. Donatiello lamenta la lastra di vetro che impediva a sua moglie e ai figli di accarezzarlo; ma ad altri coniugi e altri figli accarezzare il proprio congiunto è impedito da una lastra di marmo; e il 41-bis è lì per evitare che altre lastre di marmo separino altre persone dal mondo circostante. Insomma, può essere che Giovanni Donatiello abbia ragione nella sua denuncia; ma perché i suoi lettori se ne convincano occorre che si spieghi loro che quel pericolo, nel suo caso, era ormai superato. Con grande cordialità e partecipazione. Pietro Ichino "Voi vorreste che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza" di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti Gentile professor Ichino, proverò a rispondere alla sua lettera aperta, e a discuterne anche in redazione, in particolare con i detenuti che arrivano da anni di 41 bis. Questa estate ho iniziato una inchiesta nelle sezioni di Alta Sicurezza 1, quelle dove ci sono "i capi" delle organizzazioni criminali, e ricordo in particolare l’incontro con un uomo di 46 anni, Gaetano P. Un uomo condannato all’ergastolo per l’omicidio di un giudice, commesso quando aveva poco più di vent’anni; poi 18 anni trascorsi in 41 bis, 18 anni di solitudine, di isolamento, senza nulla a umanizzare quella condizione disumana di privazione di qualsiasi relazione. Lui mi ha descritto efficacemente con poche parole come si vive al 41 bis: "Eravamo solo noi con noi stessi. Per cui se dovevi fare delle riflessioni sulla tua vita, o ci arrivavi da solo, o continuavi quello che stavi facendo prima". Pensare che le persone appartenenti ad organizzazioni criminali, cresciute in ambienti criminali, arrivino da sole alla consapevolezza del male fatto credo che sia un’illusione, un pensiero del tutto irrealistico. E tanto più lo è se uno entra nell’inferno del 41 bis: perché quando si è isolati per anni e si parla, come mi hanno raccontato in tanti, con i ragni e con gli scarafaggi, è quasi impossibile che un essere umano cominci a rivedere il suo passato e ad assumersi la responsabilità delle sue azioni. Io non so quindi se Giovanni Donatiello ai tempi del 41 bis era un delinquente e basta, io sinceramente dubito che fosse, da solo, arrivato alla consapevolezza del male fatto, però, mi scusi non voglio sembrarle cinica, non lo sono affatto, ma non credo che sia questo il punto fondamentale del ragionamento. Io di punti ne vedo almeno due, e provo a spiegarli: il primo è fino a che punto può arrivare una democrazia per tutelare i suoi cittadini, può arrivare per esempio a torturare? Io credo di no, credo che una democrazia che usi i mezzi dei criminali sia una democrazia malata. Non ho mai visto nessun delinquente cambiare per effetto di trattamenti disumani e degradanti, e un Paese che li usa, comunque, fosse anche per fermare il terrorismo, degrada se stesso. Ha presente le immagini delle torture di Abu Ghraib? A me hanno fatto orrore, e non credo si possa dire che tutto è giustificato dal fatto che, forse, quei regimi e quei sistemi fermano tanti terroristi e mafiosi, perché il rischio è un degrado complessivo della società: quando ci si sente in guerra e si risponde al male con il male, è difficile poi ritrovare la propria umanità e tornare a mostrare la faccia mite. E non credo nemmeno che si possa fare a finta che ci sia un 41 bis "civile, normale, umano": quando le persone stanno 10,15, anche vent’anni fuori dal mondo, con un’ora di colloquio al mese attraverso un vetro, costrette al nulla di una vita vuota di relazioni e di umanità, non è allora più onesta la pena di morte? Lo so che ci sono stati dei morti, che delle persone sono state uccise, e così come è successo negli anni del terrorismo, sono nate le leggi emergenziali, la sospensione dei diritti in nome della sicurezza. Ma quanto può durare un regime così poco umano, unito spesso alla condanna all’ergastolo ostativo e alla cancellazione di ogni speranza, quanto può essere compatibile con la democrazia? Non sono credente, ma riconosco al Papa di avere fatto il discorso più alto sulle pene che cancellano la speranza, definendo l’ergastolo "pena di morte nascosta". Ma c’è una seconda questione che mi interessa approfondire: io non sono certo tenera con i criminali, ma da tante testimonianze che ho sentito di "mafiosi" di una cosa mi sono resa conto, che può essere una banalità ma serve a fare un po’ di chiarezza: se sono nata in una città del nord del nostro Paese, padre medico, famiglia colta e benestante, credo che la mia scelta di essere una persona onesta sia stata più facile di quella di chi nasce al sud in certi ambienti degradati e saturi di illegalità. Questo non può essere un alibi, ma è senz’altro "un’attenuante della vita". Io poi non sono più così sicura che la lotta alla mafia si debba fare con il carcere duro e l’infierire su quei settecento detenuti che sono in 41 bis, alcuni addirittura da 23 anni, da quando quel regime è nato, o che dal 41 bis sono passati a nuovi ghetti, i circuiti dell’Alta Sicurezza, e poi sulle loro famiglie, sui loro figli. Perché se quei figli vedono solo la faccia dura delle Istituzioni, credo che finiranno per odiarle, e più d’uno rischierà di fare la fine di suo padre. E non si uscirà mai da quella pericolosa "subcultura" per cui in intere regioni del nostro Paese le Istituzioni sono il nemico. Io non mi sento e non voglio sentirmi in guerra, né rispetto alla mafia né rispetto al terrorismo, perché anche la guerra può diventare un alibi per giustificare la violenza dei "buoni". E vorrei che facessimo nostre le parole del marito di una giovane donna uccisa negli attentati di Parigi: "Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa". Risposta alla lettera aperta sul 41 bis di Pietro Ichino di Carmelo Musumeci (Ristretti Orizzonti) In questi giorni sto pensando che dopo i bruttissimi fatti di Parigi credo che ci sarà un arretramento culturale "fisiologico" nella società. Capisco, purtroppo, che è difficile continuare a essere umani con persone disumane che in nome del Dio di turno ammazzano e uccidono gente innocente. E sinceramente trovo molta difficoltà a rispondere alle parole che il professor Pietro Ichino scrive alla redazione di "Ristretti Orizzonti". Penso comunque che sia giusto che ci provo. Professor Ichino, io penso che se è solo una questione di sicurezza e non di vendetta sociale, sia più sicura per la collettività la pena di morte che il regime di tortura del 41 bis. Le sembrerà strano, ma anch’io sono convinto che questo duro regime abbia impedito a breve termine "che altre lastre di marmo separino altre persone dal mondo a cui hanno appartenuto", ma a che prezzo? A lungo andare credo che il regime di tortura del 41 bis abbia rafforzato la cultura mafiosa perché ha creato odio, rancore e devianza anche nei familiari dei detenuti. Poi mi creda, è difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami neppure per quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo stato e le istituzioni come nemici da odiare e c’è il rischio che i tuoi stessi figli diventeranno dei mafiosi in futuro. Che fare? Non lo so neppure io. Ho molti dubbi e poche certezze, ma credo che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Forse si potrebbe trovare la via di mezzo e il regime di tortura del 41 bis applicarlo in casi eccezionali. E non certo per anni e anni come accade adesso. Mi ricordo che ai miei tempi veniva applicato anche ai giovani adulti e in maniera indiscriminata, più per avere il consenso politico e sociale che per sicurezza. Professor Ichino, sinceramente, per me è stato molto più "doloroso" e rieducativo fare parte della redazione di "Ristretti Orizzonti" e rispondere alle "terribili" domande degli studenti durante il progetto "Scuola-Carcere", che gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41 bis. In quel regime, mi sentivo innocente del male fatto, ora, invece, che sono trattato con un po’ più di umanità mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo possa accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale. Professor Ichino, il mese scorso mia figlia è stata in vacanza a Parigi con i miei due nipotini e dopo i tragici attentati accaduti in Francia ho pensato con terrore come avrei ragionato e cosa avrei augurato ai terroristi, se fosse accaduto qualcosa per colpa loro ai miei cari. Non ho avuto dubbi, avrei forse voluto per loro la pena di morte ma non la tortura del regime del 41 bis e neppure la pena di morte al rallentatore dell’ergastolo ostativo. Le confido che però subito dopo ho pensato, con sconforto, che forse non sono ancora cambiato e sono ancora quel criminale di una volta, perché non riuscirei a perdonare ma neppure a essere una persona "perbene" e a "limitarmi" a torturare una persona nel regime di tortura del 41 bis o murarla viva per il resto dei suoi giorni senza neppure la sensibilità e l’umanità di ammazzarla prima, neppure per salvare delle vite umane innocenti. Un sorriso fra le sbarre. Il contesto dove si vive fa la sua parte di Tommaso Romeo, ergastolano ostativo (Ristretti Orizzonti) Nasco e cresco in un quartiere della città di Reggio Calabria dove è situato il carcere San Pietro, la maggior parte di noi del quartiere fin da piccoli conoscevamo bene il carcere perché quasi tutti avevamo un parente detenuto, mi ricordo che quando frequentavo le scuole medie il preside ogni martedì ci faceva uscire un’ora prima in quanto quasi tutti in classe dovevamo andare a colloquio dai nostri parenti. Vi racconto la giornata del martedì: siccome il carcere era antico le finestre di alcune celle si affacciavano sulla strada, la distanza poteva essere di venti metri. Tutti i martedì mattina prima di andare a scuola io e un altro mio amichetto avevamo il compito di andare sotto le finestre con il mio motorino ciao, quando arrivavo si affacciava un detenuto che mi elencava di cosa avessero bisogno, per esempio mi diceva: "Tommaso, digli a mia madre di portarmi due tute, digli alla moglie del tizio di portargli un pigiama, digli alla sorella del tizio di portargli le scarpe da calcio…", poi io andavo da un ragazzo più grande e gli lasciavo la nota e lui andava dai famigliari dei detenuti, io invece entravo a scuola. Alle dodici in punto ci vedevamo tutti davanti al carcere per il colloquio che facevamo in una stanza grande divisa da un bancone. Anche negli altri giorni, quando si sentiva un fischio particolare, qualsiasi automobilista del rione si fermava e andava sotto le finestre del carcere per vedere cosa volessero i detenuti, perché tutti del rione sapevano che quel fischio era una richiesta di aiuto dei detenuti e che era un dovere fermarsi a vedere di cosa avevano bisogno. Perciò il carcere diventa parte della nostra vita fin da piccoli e crescendo non ci fa paura. Certamente facevamo di tutto per non finirci dentro, tanto che fin da ragazzini imparavamo dagli errori dei grandi, e per esempio se un nostro parente veniva arrestato, appena sapevamo il suo errore subito lo commentavamo e ci ripromettevamo, se una volta grandi ci fosse capitato di trovarci nella sua stessa situazione, di ricordarci di non fare quel suo stesso errore. Perciò senza aver commesso dei reati sapevamo già come farli e non farci beccare e più gli anni passavano e più diventavamo esperti. E inoltre fin da piccoli con quei colloqui conoscevamo tutto il mondo criminale della città, sapevamo chi rubava, chi rapinava e anche quelli del crimine organizzato. Diventati grandi, erroneamente abbiamo pensato che eravamo così in gamba, che non saremmo mai finiti in carcere, invece quasi tutti ci stiamo trascorrendo la maggior parte della nostra vita, più di una volta abbiamo commentato "Chissà, se eravamo nati in una città del nord, se la nostra vita sarebbe andata a finire così", sicuramente siamo consapevoli che le scelte di vita sono personali, ma il contesto dove vivi influisce molto sulle tue scelte. (da "Quattro interrogativi (e alcune considerazioni) sulla compatibilità costituzionale del 41-bis", di Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara). "E se i detenuti per reati efferati di criminalità organizzata sono sottoposti a un regime speciale particolarmente severo, poco male: se lo sono meritati. Viene in mente una vignetta di Altan, dov’è rappresentato il dialogo tra un mafioso e il piccolo dodicenne Di Matteo (ricorderete, rapito perché figlio di un pentito, poi strangolato e infine sciolto nell’acido da Giovanni Brusca). Dice il primo: "Il carcere duro è inumano". Risponde il secondo: "Vuoi fare cambio?". È una tesi largamente diffusa. Non può però essere la tesi di un ordinamento democratico. La nostra Costituzione ammette la forza, ma vieta la violenza, specialmente da parte dei propri apparati. Vieta quel "puro esercizio di violenza", attestato alcuni giorni fa dalla Corte di Cassazione nella sua sentenza sul caso Diaz, che solo la perdurante inerzia del Parlamento impedisce di qualificare giuridicamente per quella che è: tortura. Avrà pure un significato se - al pari della nostra Costituzione - tutte le Carte internazionali dei diritti la vietano, senza eccezione alcuna. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sul punto, è categorica nell’escludere qualunque deroga al divieto di tortura (e a trattamenti disumani e degradanti), neppure nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo e al crimine organizzato, giusta la previsione dell’art. 15, 2° comma, della CEDU. Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini". Giustizia: non chiudiamo l’Europa dei diritti di Francesco Petrelli (Segretario Unione Camere Penali) camerepenali.it, 26 novembre 2015 È facile, nei periodi di pace e di assenza di tensioni sociali, coniugare la sicurezza e le garanzie, i diritti dei singoli e l’ordine pubblico, autorità e libertà. Difficile, invece, tenere ferma la barra dei diritti e dei principi costituzionali quando la vita dei singoli, le stesse ragioni della convivenza civile e la sicurezza sono scosse dalle fondamenta. Lo sgomento che pesa nel cuore di chi assiste ai più atroci gesti del terrore condiziona l’opinione pubblica ed orienta conseguentemente le scelte politiche di chi governa. Ma la tensione fra l’autorità e la libertà sembra gravare in modo particolare sulla magistratura, la cui indipendenza rischia di essere turbata e condizionata dalla domanda di sicurezza. Come ha voluto ricordare con coraggio il Procuratore di Trento, Giuseppe Amato, il "compito di un magistrato" non è affatto quello "di adottare un provvedimento popolare o impopolare, ma di valutare con assoluta serenità". E questo non significa affatto che si possa essere immuni "dall’emozione per fatti gravissimi come quelli di Parigi che colpiscono tutti come uomini, ma nel lavoro è ingiusto e non rispettoso farsi guidare da queste". Abbiamo ben compreso come il provvedimento adottato dal Gip di Trento, che tanto scandalo ha suscitato nei giorni scorsi, non è stato affatto il frutto - come qualcuno avrebbe scandalisticamente preferito - di qualche "errore di trascrizione", bensì il risultato di una meditata scelta di quella Procura che ha ritenuto, pur rischiando l’impopolarità, di dover applicare la legge processuale escludendo che a carico di sette dei diciassette indagati del processo, trasmesso per competenza territoriale dalla Procura romana, sussistessero i gravi indizi di colpevolezza necessari alla rinnovazione delle misure cautelari. Eppure è oggi proprio questo a fare scandalo: che un magistrato faccia prevalere la garanzia sulla pulsione repressiva, che un pubblico ministero, in un momento di crisi, faccia governare la sua scelta all’osservanza del diritto piuttosto che al giustificato, ma cieco, rifiuto di questo o quel fenomeno criminale. È successo con simile scandalo che la Cassazione prescrivesse i reati contestati nel processo Eternit, quando giudici di appello hanno ribaltato condanne in assoluzioni, perché nel tempo è maturata un’idea della giurisdizione cui si plaude solo se applica cautele, se somministra condanne e se provoca repressione. La mitezza delle sanzioni, la prudenza del principio di non colpevolezza, il riconoscimento delle garanzie corrono in questo clima difficile come distorsioni inaccettabili, un piegarsi al "nemico", senza invece comprendere che è proprio il declinare dai principi liberali e democratici della nostra civiltà, l’abbandonarne le fondamentali garanzie di libertà, che significa arrendersi a quel nemico. Ed è per questo che ci sembra importante essere solidali con chi con umiltà e serietà fa il suo difficile lavoro di magistrato, senza perdere il proprio equilibrio e senza dare spettacolo per un pubblico di tricoteuses. E ci sembra in verità anche necessario farlo, vedendo che la magistratura associata, sempre pronta ad intervenire in difesa di più modesti interessi corporativi, e ad evocare improvvidi attacchi alla sua autonomia, resta in imbarazzato silenzio quando si tratta invece di tutelare quei magistrati che, sull’onda del populismo, vengono indicati al pubblico ludibrio sol perché hanno applicato la legge senza rispondere ai furori giustizialisti di turno. Giustizia: il nostro stile di vita e la libertà di essere quello che siamo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 novembre 2015 Rinunciare ai piaceri della modernità è già perdere la guerra, è già un atto di sottomissione che umilierebbe il nostro mondo di fronte a chi vorrebbe annientarlo. Smaltito il grande afflato solidale con la Francia, svanite le note della Marsigliese, spese le lacrime dovute alle vittime dello stragismo jihadista, circola, ultima l’intervista di Carlo Nordio rilasciata al Foglio, una forma di sdegnato compatimento per chi si ostina a difendere il nostro "stile di vita" minacciato dai fondamentalisti e che invece agli occhi dei detrattori di casa nostra, finisce per apparire qualcosa da "fighetti", da sazi consumisti che sventolano la bandiera del bistrot più frequentato anziché quella dell’impegno militante, o addirittura militare. Sembrano dire: tenetevi pure i vostri apericena, il vostro loisir, la vostra mollezza occidentale, fatevi fare a pezzi dai fanatici assassini mentre inneggiate, fatui e irresponsabili, al vostro disordinato, edonistico "stile di vita". Chissà cosa diranno di Salman Rushdie che, in un’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera, ha strenuamente difeso il "mondo della pace e del divertimento" contro quello, lugubre, della guerra al nostro "stile di vita": "prendete il metrò, andate al ristorante, ai concerti". Non dategliela vinta. Rinunciare ai piaceri della modernità è già perdere la guerra, è già un atto di sottomissione che umilierebbe il nostro mondo di fronte a chi vorrebbe annientarlo. E invece il nostro "stile di vita" è una conquista buona e, si spera, duratura, ed è esattamente ciò che odiano quelli che si fanno esplodere per paralizzarci con la paura di andare al bar, di andare allo stadio, di andare in discoteca, di andare vestiti come ci pare, di ascoltare la musica che ci pare, di leggere i romanzi che ci pare, di andare al cinema come ci pare, di guardare la tv o "fare l’amore ognuno come gli va" (cit. Lucio Dalla). Di adottare il nostro "stile di vita". Dicono: ma così si sgretola l’ardore della battaglia, così, avvolti e vacui nelle spire del benessere, storditi dai nostri smartphone, lasciamo campo libero ai fanatici che invece sono determinati, concentratissimi, consacrati interamente e senza residui alla guerra santa che ci sterminerà. Così perdiamo la nozione stessa della guerra, del combattimento necessario. Sicuro? Stefano Montefiori ha scritto su nostro giornale che a Parigi ci si sta già abituando all’israelizzazione della vita quotidiana: molta doverosa vigilanza, ma anche la consapevolezza che la vita, il nostro "stile di vita", non può fermarsi per decreto. Ecco, Israele è l’esempio che smentisce i timori dei critici occidentali del nostro "stile di vita". Non ha perso nemmeno un frammento del suo spirito battagliero (anzi), ma a Tel Aviv i caffè di Dizengoff Street sono sempre pieni, la movida non conosce sosta, le acque di fronte a Jaffa pullulano di surfisti, le pizzerie e i ristoranti di Gerusalemme sempre rumorosi e affollati. Il pericolo incombe, la paura si fa sentire, i genitori sentono il cuore in gola ogni volta che accompagnano i loro bambini sui bus scolastici, ma non la si dà vinta ai tagliagole e ai kamikaze. La difesa di uno stile di vita è anche la difesa del diritto a essere se stessi. Invece loro, i nemici, i guerrieri della morte, chiamano "satanico" tutto ciò che assomiglia alla libertà, anche nei suoi aspetti più banali e meno eroici. A Kabul i talebani bruciavano libri, decapitavano i peccatori, frustavano le donne, ma poi impiccavano pure i televisori (davvero) e bandivano la musica. A Teheran bande di barbuti e prepotenti guardiani della fede e della moralità pubblica sorvegliano occhiuti le donne coperte e avvilite per controllare ogni piacere della vista, ogni avvenenza, ogni richiamo peccaminoso e decadente. I ragazzi del Bataclan sono stati accusati da chi li ha trucidati di essere la personificazione dell’"abominio" e della "perversione". Nei Paesi dominati dall’islamismo eretto a unica legge in grado di dettare e imporre uniformità di comportamenti, le donne non possono entrare negli stadi (troppo divertimento) e in Iran sono state incriminate persino le giocatrici di pallavolo perché scoprivano troppi centimetri del loro corpo. I locali di ritrovo sorvegliati come sentine del vizio. La musica "occidentale" è bandita dalle radio, come emblema di uno "stile di vita" corrotto: lo stesso "stile di vita" dileggiato da chi lo considera una concessione alla modernità rammollita e condannato a morte da chi lo considera l’esempio massimo della depravazione in cui è precipitato il mondo degli infedeli. Sono abolite le discoteche e le librerie libere. In Arabia Saudita, lo ricordava Danilo Taino su queste colonne, c’è un solo cinema, mentre nella sola Parigi ce ne sono oltre trecento. Andare al cinema è il nostro "stile di vita", senza cinema c’è solo buio e tristezza: quale dei due è il mondo migliore? Anche le cuffiette per sentire musica sono migliori, anche gli "apericena", terrificante neologismo che siamo costretti a difendere se qualcuno per punirci vuole farsi esplodere al tavolo del buffet. Questione di stile. Di stile di vita. Giustizia: il Presidente Mattarella "Europa ferita, più unità contro il terrorismo" di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Il tono era pacato ma la sostanza del discorso è stata drammatica. Perché Sergio Mattarella al Parlamento europeo ha detto che l’Europa "ferita" dal terrorismo rischia una ferita ancora più grave: la fine di un ideale di unità, di solidarietà e il ripiegarsi in antiche divisioni e nazionalismi. In poche parole rischia il fallimento. Non è stato così diretto il capo dello Stato ma ha messo tutti di fronte al paradosso di oggi che è quello di un’Unione che, dopo un attacco, invece di stringere i bulloni dell’integrazione va in ordine sparso. Di questo Mattarella ha discusso con il presidente della Commissione Ue Juncker al termine del suo intervento. Preoccupano tutti i riflessi successivi ai drammatici attentati di Parigi, preoccupa che si sia tornati a parlare di frontiere chiuse, che l’asse franco-tedesco si sia sgretolato, che la Gran Bretagna voglia tornare a una logica nazionalista sulla sicurezza - senza contare che tra poco avrà anche un referendum sull’Ue - preoccupa l’ostilità dei Paesi dell’Est contro i migranti proprio loro che sfidavano i confini ai tempi della guerra fredda. Glielo ricorda Sergio Mattarella scorrendo un po’ la storia di quegli anni e arriva fino agli ebrei in fuga dal nazismo per paragonare i profughi di oggi scappati dalle guerre e dell’Isis. Insomma, un messaggio politico molto netto che parla di un’Europa che non sa trovare la forza dell’integrazione, che non capisce come "nessun Paese possa farcela da solo" in nessun campo, da quello della sicurezza, dei servizi, della Difesa, dell’economia. "L’Europa è ferita: Bruxelles, Copenaghen, Londra, Madrid, Parigi, sono altrettante lacerazioni, dolorose e incancellabili, sul corpo della nostra Unione". I consensi sono bipartisan, dal Pse e dal Ppe con cui Mattarella - vista la sua storia di ex Dc - conserva buoni rapporti e un dialogo aperto. È arrivato in Parlamento con il presidente Schulz, accompagnato dal ministro degli Esteri Gentiloni e dal sottosegretario Gozi. "Il mondo ha bisogno di un’Europa unita. Di un’Europa che sappia anche completare il suo disegno organico, e penso all’area dei Balcani occidentali", ha detto ripetendo un suo pallino. Ma soprattutto ha indicato un ruolo per l’Europa nell’essere punto di riferimento e mediazione in un’alleanza anti-Isis che ancora oggi si muove con troppa ambiguità come dimostrano i fatti del jet russo abbattuto dalla Turchia. "L’Unione può favorire le necessarie convergenze internazionali per la Siria, per l’Iraq, per la Libia, cercando scelte condivise che contrastino con efficacia le forze del terrore. I tragici fatti di martedì ne confermano l’urgenza". E dunque all’Europa viene oggi chiesto un "di più di responsabilità, un di più di coesione", ripete il capo dello Stato non trascurando gli aspetti economici come il rafforzamento dell’unione economica e monetaria sulla base del rapporto dei 5 presidenti Ue. "Si deve uscire dalla logica emergenziale e avere una visione di lungo periodo, che consenta all’Ue di elaborare politiche in grado di stimolare crescita". Uno sviluppo che vuol dire anche coesione sociale e consenso politico sul progetto europeo oggi scosso non solo dal terrorismo ma da due fenomeni che si saldano: fondamentalismo e immigrazione. Su quest’ultimo punto Mattarella è stato più chiaro di sempre: gli accordi di Dublino sono superati, "fotografano un passato che non c’è più". E qui arriva al paragone tra migranti ed ebrei. "Solo chi non vuol vedere può fingere di non sapere da dove viene la dolorosa carovana di persone che risale l’Africa e il Medio-Oriente verso l’Europa. Ripetono la tragedia degli ebrei in fuga dal nazismo; delle centinaia di migliaia di prigionieri di guerra che vagavano in Europa, all’indomani della Seconda guerra mondiale". E ricorda anche ai Paesi dell’Est che oggi innalzano i muri e il filo spinato che i migranti di oggi sono "gli eredi di coloro che, a rischio della vita, valicavano il Muro di Berlino; dei cittadini che, sfidando i campi minati, cercavano di transitare dall’Ungheria in Austria". Chiude con una frase di uno dei padri fondatori dell’Europa, Jean Monnet: "Non possiamo fermarci quando il mondo intero è in movimento". Giustizia: sicurezza e accordi di Schengen, il valore dei confini di Antonio Polito Corriere della Sera, 26 novembre 2015 Quante volte avete sentito usare nei talk show il seguente interrogativo retorico: "Pensate forse che i terroristi arrivino in Europa sui barconi degli immigrati?". Ebbene sì, ormai sappiamo che qualche terrorista è effettivamente arrivato anche a bordo dei barconi. Vuol dire che dobbiamo rivedere tutti i tabù e tutti i luoghi comuni che anche per nobilissime ragioni (per esempio contrastare il razzismo contro i migranti) abbiamo accettato finora. Non possiamo più dare nulla per scontato, e del resto non sarebbe un atteggiamento liberale negare l’evidenza solo perché questa porta acqua al mulino di chi fomenta le campagne anti Europa. L’evidenza è che l’attuale sistema Schengen non funziona. È perforabile. Talvolta appare addirittura un colabrodo. Abbiamo detto dei barconi. Ma quello dei clandestini non è il solo problema. Anche più pericoloso è lo scarso controllo di chi entra mostrando i documenti alle nostre frontiere. E quando dico "nostre" intendo quelle comuni dell’Europa, perché le frontiere interne, tra Stato e Stato, come è noto non esistono più. Avendo eliminato i controlli nell’area Schengen, dovremmo avere infatti un sistema di verifiche a prova di bomba per chi ci arriva dall’esterno. E invece, come ha raccontato sul New York Times Roland K. Noble, che è stato per 14 anni a capo dell’Interpol, alle nostre frontiere, non dico sulle spiagge o nei porticcioli, ma perfino negli aeroporti, non è previsto un controllo sistematico incrociato con il database, in dotazione all’Interpol da dopo l’11 Settembre, di tutti i passaporti rubati, contraffatti o smarriti. Lì dentro ci sono 45 milioni di documenti, e un documento falsificato fa capolino in ogni grande azione terroristica sul suolo europeo, da Madrid a Londra fino a Parigi. La Gran Bretagna, che è fuori dall’area Schengen e che questi controlli li fa, ha fermato in un anno 10 mila persone che tentavano di entrare con documenti fasulli. L’anno scorso tra le dieci nazioni del mondo con il più alto numero di denunce per passaporti rubati o smarriti otto erano dell’area Schengen. Secondo l’Economist anche i database disponibili su presunti criminali e terroristi contengono troppo pochi dati, e troppo gelosamente custoditi dalle polizie nazionali. Se poi per caso i computer identificano un sospetto, l’unica informazione che restituiscono è il nome e il telefono del funzionario di polizia da contattare. Sembra che la libertà di movimento valga per i ladri ma non per le guardie. In questo modo, dice Noble, è come se avessimo appeso un cartello di benvenuto per i terroristi ai nostri confini. Senza contare i controlli sui cittadini europei con regolare e valido passaporto europeo. Essi hanno infatti diritto di entrare ed uscire quando vogliono, ma solo ora ci si è accorti che forse sarebbe meglio tenere traccia di quante volte escono e da dove rientrano, visto che tra loro ci sono anche i foreign fighters che fanno la spola tra l’Afghanistan, la Siria e le nostre città, importando il know how del terrore. Ci sono ottime ragioni per difendere la libertà di movimento nell’area Schengen. Una delle quali è che i nostri Paesi sono così intrecciati, uniti in un tale reticolo di connessioni che districarlo è impossibile: ci sono più di 200 strade che collegano il Belgio alla Francia. Un’altra buona ragione è che questo è uno dei maggiori successi dell’Unione Europea, e forse il più popolare, e tornare indietro su questa strada sarebbe certamente una sconfitta storica. Ma se si vuole salvare l’Europa senza frontiere che i nostri figli hanno conosciuto bisogna garantire loro che l’Europa sa controllare le sue frontiere esterne, che non entra chi vuole e quando vuole. Non c’è posto al mondo dove questo sia consentito. Perfino il sogno più ardito di un’Europa unita ha bisogno, da qualche parte, di una frontiera. Giustizia: Stato emergenziale e democrazia al collasso, la sfida Radicale di Barbara Alessandrini L’Opinione, 26 novembre 2015 In queste giornate di terrore, sgomento e spaesamento in cui sembra che l’unica strada per fronteggiare e contrastare il fenomeno della follia omicida dell’estremismo islamista sia quella, come sta facendo la Francia, di proclamare lo stato di emergenza che segua esclusivamente logiche securitarie ed emergenzialiste, il Partito Radicale non poteva che cercare di far sentire una volta di più la sua voce. Lo ha fatto con la interessantissima conferenza stampa intitolata "Stato di emergenza? Stato di diritto!" svoltasi nella sede di Torre Argentina con la consueta modalità indagatrice ed interlocutoria di una pattuglia che non rinuncia a scrutare possibili vie alternative mentre testimonia i dati e lo stato di erosione democratica sullo scacchiere internazionale, ma soprattutto nazionale. È infatti, come introdotto da Maurizio Turco, "a seguito delle risposte della Francia e dalla Russia che come unica alternativa al terrorismo propongono lo stato di emergenza ed al fatto che si si comincia a parlare di reintroduzione della pena di morte", che ha preso il via l’incontro in cui si è parlato dello stato crescente di illegalità europea dell’Italia (che si conferma ai primi posti per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come anche a livello Onu e pure nei confronti delle norme internazionali) e della necessità di rinvigorire la lotta, intrapresa da Marco Pannella in occasione della guerra in Iraq per salvare Saddam dalla pena di morte, per lo stato di diritto a livello internazionale ma soprattutto di far rientrare il nostro paese nella legalità costituzionale. Proprio per affiancare alle pur indispensabili operazioni di prevenzione e di controllo cui ogni Paese europeo sta provvedendo con il rafforzamento dei pattugliamenti delle aree e degli obiettivi sensibili a rischio, sembra che ancora una volta si muova l’azione dei Radicali. Un tentativo estremo di riaffermare quell’esercizio del raziocinio che, libero da strumentalizzazioni di sorta delle paure diffuse e crescenti, rinforzi la battaglia per lo stato di diritto. Come? Una volta di più attraverso un’azione di sensibilizzazione che ripropone l’urgenza di un impegno affinché l’Italia rientri nella legalità costituzionale, nazionale, europea ed internazionale. Attraverso tre sacrosante battaglie: quella da tempo condotta dai Radicali, per il completamento del plenum della Corte costituzionale, da un anno e mezzo privata del plenum costituzionale, per l’uscita del Paese dallo stato perenne di violazione nei confronti della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e del Diritto Comunitario e la battaglia per favorire la candidatura dell’Italia a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ponendola a guida del processo per la transizione verso lo Stato di Diritto ed il diritto alla conoscenza come risposta alternativa alla linea emergenziale che si sta affermando come unico argine alla sequela di tragici avvenimenti destinati a seguitare ad infiammare l’Europa e gli scacchieri geopolitici attualmente più caldi, come anche a breve in quegli Stati dove ancora non c’è emergenza ma, come ha spiegato Sergio D’Elia, dove l’emergenza potrebbe presto deflagrare. Da Israele al Kurdistan, e poi la Giordania, la Tunisia, il Niger, la Nigeria, la Somalia. Il rischio è ovviamente sempre quello che in nome della sicurezza si normalizzi l’emergenzialità e l’eccezionalità dei provvedimenti, compromettendo l’andamento democratico della vita di ogni Paese. Una lacuna, un vulnus del diritto che, oltre a determinare una condizione extragiudiziaria, comprometterebbe i princìpi democratici a fondamento dei partner europei. A questo quadro è legato il terzo obiettivo dei Radicali, quello dell’affermazione del diritto alla conoscenza che della consapevolezza del diritto e dei diritti e della loro costante violazione rappresenta la fonte primaria. Ma costantemente negata ai cittadini. A partire dal servizio pubblico e privato radiotelevisivo, ove da troppo tempo impera una regolare violazione di qualsiasi, anche minimo, pluralismo che consenta a chiunque di sapere per poter comprendere, orientarsi e decidere con consapevolezza sulle emergenze o questioni che investono l’attualità delle nostre vite e le modalità di rapportarsi ad un’emergenza come quella della furia omicida del radicalismo islamico, senza condizionamenti troppo spesso guidati dalle scelte populiste dei media e dei settori maggioritari delle forze politiche. Sul fronte dell’emergenza Corte costituzionale, il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick ha ribadito la pericolosità dell’attuale situazione proprio in un momento in cui il nostro Paese le riforme istituzionali e l’emergenza jihadista richiedono che il massimo organo di garanzia dello Stato sia al pieno delle sue forze e sia legittimato proprio grazie al completamento di quella componente parlamentare che attualmente, al di sotto del dovuto, crea squilibrio nel suo funzionamento. Non a caso Rita Bernardini, sul solco delle parole di Flick, ha ricordato che la Fini-Giovanardi è stata in vigore per nove anni prima del pronunciamento di incostituzionalità. Ma di questa consapevolezza sull’importanza della Consulta i cittadini vengono privati da un’informazione a dir poco parziale e che lede il diritto alla conoscenza. Della necessità di una visione strategica e dei profondi rischi e pericoli sul piano dei diritti costituzionali legati alla visione della sicurezza come principale valore di un Paese ed insiti nelle misure di emergenza e al progetto di riforma della costituzione francese e dell’importanza che l’opinione pubblica debba poter accedere all’informazione sulla situazione delle proprie libertà e sicurezza ha parlato l’ambasciatore ed ex ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata. Folle e preoccupante per la sensibilità europea, secondo Terzi, privilegiare la reazione immediata militare e l’azione indiscriminata nei confronti di interi centri urbani o settori di popolazione, cioè che contro criminali che invocano la religione per compiere efferatezze e stragi ricorrendo ai medesimi mezzi di repressione. Sempre sul piano internazionale, Matteo Angioli ha parlato del percorso di riflessione comune sullo scontro tra ragion di Stato e Stato di diritto confluita in un documento prima presentato a Bruxelles, poi al Consiglio dell’Onu dei diritti umani, alla Camera dei Comuni a Londra ed a Parigi. Una violazione dello Stato di diritto, quella entrata nel mirino dei Radicali che secondo D’Elia è la prova di una reazione ma di nessuna risposta in termine di visione di medio e lungo periodo. E che, con debita sostituzione dei protagonisti con il terrore sciita e sunnita, ricorda molto quell’equilibrio fondato sul terrore su cui si è costruita e stabilizzata la pace internazionale con la Guerra fredda. Bollettino di guerra, poi, per l’Italia, ha spiegato la Bernardini, sul piano dei diritti nella giustizia in tutti i suoi volti ed in tutte le fasi procedimentali. Dalla sentenza Torreggiani per trattamenti inumani e degradanti nelle carceri, alla violazione costante dell’articolo 6 della Cedu e così vis. Sono trent’anni, considerando che il diritto comunitario è legge anche per l’Italia, senza che si sia riusciti a migliorare la situazione di un millimetro. E la situazione è ugualmente disastrosa sul piano della giustizia legale se, come testimoniato dall’avvocato Deborah Cianfanelli, siamo sommersi dai ricorsi alla Corte dei conti per danno erariale e dalle violazioni della Cedu. Delle 18mila sentenze di condanna emesse dalla Corte di Strasburgo dal 1959 al 2014, l’Italia ne ha totalizzato 2312 sull’articolo 6 che parla di giusto processo e ragionevole durata. Ponendosi al secondo posto dopo la Turchia e seguita da Federazione Russa, Romania e Polonia. Un pessimo primato. L’andazzo è fallimentare anche sul fronte della legge Pinto, con cui si è tentato il rimedio interno alle violazioni dell’articolo 6. Un censimento dello stesso ministero della Giustizia parla di 5 milioni di procedimenti a giugno del 2015. Ma le riforme cui si attribuiscono taumaturgici proprietà di deflazione dei procedimenti pendenti in realtà non tengono conto dell’impennata delle cause pluri-triennali. Le riforme, ha denunciato la Cianfanelli, servono esclusivamente ad impedire il nuovo accesso di cause pendenti, rendendo più difficoltoso l’accesso al Tribunale. E chi si è visto si è visto. Ma anche questo gli italiani non hanno il diritto di conoscerlo né di conoscere il conseguente stratosferico danno erariale, né quanto l’Italia sta facendo spendere all’economia nazionale perché non è in grado di produrre rimedi adeguati. Quello che Pannella ha definito un’ipoteca sulla testa di ogni italiano. Altra beffa, l’aumento di queste cause è destinato ad aumentare perché a luglio una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 2 della legge Pinto, che prevedeva che la durata del processo penale si considerasse a partire dall’assunzione della qualifica di imputato. Ora parte giustamente dal momento dell’apertura delle indagini. La conseguenza è che si impenneranno le richieste di indennizzi anche nelle cause penali, motivo per il quale si sta cercando di abolire la Pinto. Le cause passeranno alla Cedu, altro futuro lavoro per Strasburgo da cui arriveranno condanne a pioggia. Tanto varrebbe mettersi al tavolo del gioco dell’Oca. Di tutto questo i cittadini non sanno nulla. Come spiegato da Marco Beltrandi, il diritto all’informazione è negato così come è negato il diritto conseguente di decidere cosa sostenere o meno. A questo proposito, un forte contributo viene dato dal Centro di ascolto dell’informazione radiotelevisiva, rinato grazie all’impegno di Rita Bernardini e all’imprenditore Silvio Scaglia, che tiene conto anche delle fasce orarie nell’attribuzione degli ascolti a ciascuna realtà e soggetto politico. I dati ultimi sono allarmanti: al 19 novembre Governo e Premier sono oltre il 50 per cento di presenza in tutte le edizioni principali, ossia quelle più viste, dei Tg nazionali. Sarà o meno un furto di conoscenza e di opportunità di scelta nei confronti dei cittadini cui è negata l’informazione su altre rappresentanze politiche? Giustizia: violenze e abusi sulle donne, la ricetta per la svolta necessaria di Barbara Carbone Il Messaggero, 26 novembre 2015 La violenza sulle donne non è soltanto fisica. Esiste quella psicologica che, pur non lasciando segni evidenti fa male quanto, se non più, di uno schiaffo. È una forma di abuso che lede l’identità della donna ed è finalizzata a sottometterla. È una violenza silenziosa e della quale si parla poco finanche in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, celebrata ieri. È meno denunciata e, spesso, non compresa appieno e in tempo neanche da chi la subisce. Questo perché è subdola, difficile da individuare soprattutto quando si è innamorati del proprio compagno o del progetto di vita insieme, nel quale si vuole ostinatamente continuare a credere. Il rischio è finire per convincersi che il possesso, il rimprovero, l’offesa siano una forma d’amore. Non è così. Deridere la propria partner, insultarla, umiliarla, renderla insicura, portarla a credere che non valga niente è una violenza a tutti gli effetti. E molto spesso la violenza psicologica si accompagna alla violenza economica. La tipica situazione è quella della donna che, con l’arrivo dei figli, se non supportata da una rete d’aiuti familiari o esterni, si vede costretta a lasciare il lavoro. Sceglie di essere mamma e moglie. Si sacrifica per non far mancare nulla alla propria famiglia, per esserci, per seguire i bambini e per dedicarsi totalmente al proprio nucleo. In molti casi questa si rivela la scelta giusta. In altri invece, è l’inizio di un calvario. Una volta persa l’indipendenza economica, tante donne si ritrovano isolate dal resto del mondo e "dipendenti", in tutto dal marito o dal compagno. La protezione che ognuna ricerca nel proprio uomo si tramuta in dominio. La violenza si realizza con il controllo-potere esercitato attraverso il denaro: una squallida sottomissione economica. Non esiste un conto corrente comune, lui esercita autonomamente la gestione del patrimonio familiare, provvede ad acquistare quello che serve per i figli e per la moglie. In pratica priva la propria donna, lentamente, di ogni risorsa materiale e psicologica, distruggendo la sua dignità e convincendola che, senza di lui, non può niente. Uscire da questo tunnel non è certo semplice per due motivi. Il primo è che anche per dire basta servono i soldi. Affrontare una separazione, per molte donne, è impossibile. Non sanno come far fronte alle spese legali né come sopravvivere senza il sostegno economico del marito. Il secondo motivo, non meno serio, è che benché si parli tanto di lotta alla violenza contro le donne, la strada che la donna deve intraprendere per dimostrare di essere stata abusata è lunga e tortuosa. Denunciare una violenza fisica è difficile perché, spesso, è talmente tanta la paura che si nutre verso il proprio partner che si finisce col temere che una denuncia possa peggiorare la situazione. Si teme persino di essere uccise. Ma quando si trova il coraggio di farlo, i segni sul volto, i lividi o le ferite riportate, diventano la prova inconfutabile della violenza subita. E allora arriva l’aiuto, il sostegno e la liberazione. Denunciare una violenza psicologica è invece più complicato che scalare l’Everest. Essere credute e quindi aiutate è un percorso ad ostacoli che spesso non conduce da nessuna parte. Quali sono le prove schiaccianti di una violenza psicologica? Che segni lasciano? Come distinguerle da una strumentale bugia? Questa materia si nutre di anima e di sentimenti. Per comprendere una storia di violenza psicologica ci vorrebbero persone competenti, tempo e voglia di giungere alla verità. Sentimenti, tempo e ascolto. Parole, queste, che non hanno accesso nelle nostre aule di giustizia. Giustizia: al via il braccialetto elettronico anti-stalker, sperimentazione su 25 coppie di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 26 novembre 2015 Trovati i fondi, si parte a gennaio. Se lui si avvicina suona l’allarme. Per fermare la strage delle donne arriva finalmente in Italia il braccialetto elettronico. Un sistema salvavita che rappresenta una svolta molto attesa, per un Paese che vanta un tristissimo record di omicidi, maltrattamenti e pestaggi, maturati troppo spesso tra le mura domestiche. A gennaio partirà la sperimentazione su venticinque coppie a rischio. Saranno dotate di un dispositivo di controllo satellitare, identico per la donna e per l’uomo e simile a un piccolo telefono cellulare. L’aggressore dovrà anche indossare una cavigliera, sarà obbligato a portare sempre con sé il dispositivo e non potrà avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima. Il via libera del ministero dell’Interno è stato annunciato ieri dall’onorevole Alessia Morani, autrice dell’emendamento alla legge contro il femminicidio con cui la norma, che consente l’uso di simili apparecchiature di controllo a distanza, è stata introdotta nel Codice di procedura penale, ultimo comma dell’articolo 282 bis: allontanamento dalla casa familiare. "Sono ancora troppe le donne che muoiono per un amore che si trasforma in odio feroce e noi vogliamo che la strage abbia fine - commenta con evidente soddisfazione Morani, componente della commissione Giustizia. Fin qui sotto mancati gli strumenti tecnologici a disposizione di tribunali e forze dell’ordine e il salvavita è una novità importante. Con la cyber security prevedo un salto di qualità nella prevenzione". Poiché i numeri drammatici della violenza sulle donne in Italia sono frutto di un retaggio culturale duro a morire, il successo delle nuove apparecchiature tecnologiche andrà verificato nel tempo e talvolta bisognerà superare le resistenze di giudici ed esponenti delle forze dell’ordine. Ma in Spagna, dove la sperimentazione è partita nel 2006 a Madrid e, in dieci anni, 1.500 coppie sono state sottoposte al monitoraggio, il cosiddetto braccialetto elettronico ha ottenuto risultati straordinari. Il rischio di recidive è stato praticamente annullato: zero omicidi su 756 coppie durante il periodo di osservazione. Dovrà essere il giudice, una volta stabilito l’allontanamento dal tetto familiare o imposto il divieto di frequentare i luoghi di vita della vittima, a decidere se la donna debba essere dotata del dispositivo salvavita. Il congegno sarà collegato con le forze dell’ordine ed emetterà un segnale acustico nel caso in cui lo stalker violi gli ordini del magistrato, varcando le "no access zone". L’avviso sul dispositivo della donna scatta anche al di fuori delle zone interdette, cioè quando l’uomo entra nel suo raggio di azione, a due chilometri di distanza. I dati, rilanciati da tutti i mezzi di informazione in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sono da allarme rosso. Quasi sette milioni di donne italiane hanno subito violenza fisica o psicologica almeno una volta nella vita e soltanto l’11,8 per cento trova la forza e il coraggio di denunciare. Spesso, altro fattore choc, chiedere aiuto non basta, se è vero che sette donne su dieci uccise da mariti, fidanzati o ex diventati pericolosi stalker, avevano chiesto aiuto perché oppresse dalla paura. E poiché, come dice Morani, "non è possibile avere un poliziotto fisso a presidio di ogni casa o luogo di lavoro", il braccialetto può garantire sicurezza e libertà per le donne. E consentire all’uomo di non compiere atti irreversibili. Giustizia: nuova fumata nera per la Consulta, vincono le divisioni dentro i partiti di Carlo Bertini La Stampa, 26 novembre 2015 Il quorum di 570 preferenze non è stato raggiunto da nessuno dei tre candidati su cui c’era l’intesa: Augusto Barbera, Francesco Paolo Sisto e Giovanni Pitruzzella. Ancora una fumata nera. Le divisioni dentro i partiti della maggioranza e dentro Forza Italia conducono al fallimento del tentativo di eleggere i tre giudici costituzionali che mancano per completare il plenum della Corte. Il quorum di 570 preferenze non è stato raggiunto da nessuno dei tre candidati su cui la maggioranza e Fi avevano stretto una intesa: Augusto Barbera, Francesco Paolo Sisto e Giovanni Pitruzzella. Esulta M5s che rivendica la propria "centralità" e chiede un azzeramento delle candidature, mentre Pd e Fi ribadiscono il loro sostegno a Barbera e Sisto. Quando alle 13 inizia la riunione del Parlamento in seduta congiunta, i tre candidati sulla carta possono contare sui 559 voti dei deputati e senatori della maggioranza, e dei 95 parlamentari di Fi. Senza contare il "soccorso" di Ala, il partito di Denis Verdini, che annovera 20 parlamentari. Insomma sulla carta in tutto ci sono oltre cento preferenze in più del quorum di 570 necessario per eleggere i tre alla Corte costituzionale: una maggioranza in teoria a prova di franchi tiratori. Alla fine però arriva la doccia fredda: Barbera fermo a quota 536 voti, Sisto a 511 e Pitruzzella 492. A impallinare i tre non sono stati però singoli franchi tiratori, ma un dissenso politico all’interno dei partiti che avrebbero dovuto sostenere tre i candidati. Diversi bersaniani del Pd, anche se non tutti, hanno votato scheda bianca. Barbera, spiega un parlamentare che chiede di non essere citato, "è un ultrà delle riforme di Renzi", per cui è "impossibile" sostenerlo. E poi culturalmente il professore bolognese è sempre stato un sostenitore del maggioritario e del semipresidenzialismo alla francese, ben lontano dal proporzionalismo e dal sistema tedesco amato dalla "ditta". E poi l’intesa con Fi evocava il Patto del Nazzareno. Ma anche nel campo dei centristi ci sono state frizioni e incomprensioni: Giovanni Pitruzzella, candidato dei partiti centristi, ha fatto storcere il naso ai deputati di Per l’Italia, come già martedì aveva chiaramente detto Lorenzo Dellai, che chiedeva un candidato cattolico-popolare. Alla fine il nome proposto da Pi, Gaetano Piepoli, ha ottenuto 56 voti, ben oltre i 15 dei parlamentari del suo gruppo. Segno che qualcosa non ha funzionato. Quanto a Sisto, il parlamentare azzurro è stato impallinato dal "cupio dissolvi" di Forza Italia, che ha certificato la quasi impossibilità di trovare una intesa che la coinvolga. Infatti è dal 12 giugno 2014 che il partito di Berlusconi avrebbe dovuto esprimere un candidato d’area, riuscendo però a bruciare molti candidati di alto profilo, da Antonio Catricalà a Francesco Caramazza, Maria Elena Sandulli e Stefania Bariatti. Fine che rischia di fare anche Sisto, tanto che alcuni "azzurri" già in serata parlavano della candidatura di Giovanni Guzzetta, Con buone ragione il pentastellato Danilo Toninelli ha potuto commentare: "Penso che oggi noi siamo più che mai necessari". M5s chiede però di "cambiare metodo", vale a dire di puntare a una terna del tutto estranea alla politica, non solo presente ma anche passata. Un metodo incarnato dal candidato proposto da M5s, il professor Franco Modugno, che oggi ha ricevuto 140 voti, più dei 127 in mano al movimento di Grillo e Casaleggio. Tuttavia sia il capogruppo del Pd, Ettore Rosato, che Fi, hanno affermato che le candidature di Barbera e Sisto rimangono in campo. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nei giorni scorsi aveva sollecitato una prova di unità del Parlamento consentisse l’elezione resta preoccupato per la funzionalità stessa della Corte, che con 12 giudici è oggi al limite del numero legale (11). Il premier Matteo Renzi, poi, è fortemente contrariato, anche con il proprio capogruppo. I presidente di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, hanno definito "grave" l’ennesimo fallimento. Martedì prossimo, 1 dicembre, alle 13 si terrà una nuova seduta del Parlamento in seduta congiunta per l’elezione. Giustizia: gioielliere uccide rapinatore in casa, è polemica di Angelo Mincuzzi Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Un nuovo assalto a una villa, un rapinatore ucciso e le polemiche sulla sicurezza e la legittima difesa che tornano ad affiorare. È accaduto martedì sera a Rodano, 4.500 abitanti a 15 chilometri dal centro di Milano, un susseguirsi di villette e piccole palazzine - spesso protette da inferriate - e strade deserte la sera. Tre banditi sono entrati nella villa di Rodolfo Corazzo, un gioielliere di 59 anni, minacciando la moglie e la figlia. Il gioielliere ha reagito sparando tre colpi e uccidendo un rapinatore. Gli altri due sono in fuga e ora gli investigatori li stanno cercando. Sono quasi le otto di sera quando il gioielliere arriva sulla sua moto davanti al cancello di casa. Tre banditi con il volto coperto entrano e lo immobilizzano. Corazzo indossa un giubbotto pesante e i rapinatori non si accorgono della pistola che ha sotto la giacca. Lo portano al piano di sopra dove lo aspettano la moglie e la figlia di 11 anni. "Hanno cercato di intimidire anche lei - racconta Corazzo - l’hanno portata al piano di sopra e le hanno detto "se tuo papà non ci dice dove sono i soldi gli taglieremo le dita". Quando stanno per andar via, il gioielliere estrae la pistola per sparare un colpo in aria. I tre scappano ma rispondono subito al fuoco. In tutto vengono esplosi 10 colpi, tre sparati dal gioielliere e sette dai rapinatori. Uno di loro, Valentin Frrokaj, albanese, evaso il 7 maggio 2014 dal carcere Pagliarelli di Palermo dove stava scontando una condanna all’ergastolo per l’omicidio di un connazionale, cade a terra ucciso. Frrokaj era già evaso nel 2013 dal carcere di Parma. "Ho fatto di tutto per difendere la mia famiglia, mia figlia e mia moglie - afferma il gioielliere -. La mia intenzione non era uccidere ma mandarli via". "Un commerciante, aggredito da tre rapinatori al suo rientro a casa, ha sparato e ucciso uno dei ladri, e messo in fuga gli altri due. Si è difeso, ha fatto bene! Spiace per il ladro morto, ma se l’è andata a cercare", scrive il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, in un messaggio su Facebook. "Condivido. È andato a cercarsela - rilancia il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni -. E mi pare che questa posizione sia condivisa anche dalla procura. Se però la procura dovesse cambiare l’accusa da legittima difesa a eccesso colposo in legittima difesa, ricordo che abbiamo una norma per il patrocinio legale gratuito". I magistrati che conducono l’indagine ipotizzano la legittima difesa, ha affermato il procuratore aggiunto Alberto Nobili nel corso di un summit con i carabinieri: i rapinatori hanno agito armati. I carabinieri, infatti, hanno ritrovato una pistola semi automatica Beretta calibro 9 con matricola abrasa. Giustizia: parla il gioielliere che ha ucciso il ladro "non sono un eroe ho difeso la famiglia" di Grazia Maria Coletti Il Tempo, 26 novembre 2015 È stato un’ora e mezzo in balia di un ergastolano latitante, ostaggio insieme con la moglie di 53 anni e la figlia di 10, di un albanese cattivissimo che aveva ucciso un connazionale a Brescia, catturato due volte e altrettante scappato, uno che nelle foto segnaletiche sorrideva beffardo, e si è sempre vantato di risolvere le questioni con le armi. Novanta interminabili minuti di terrore registrati dal sistema di videosorveglianza della villetta nel Milanese, a Rodano, che Valentin Frrokaj, 37 anni, il bandito ucciso martedì sera dal padrone di casa, aveva assaltato con due complici poi fuggiti. Ma Rodolfo Corazzo, 59 anni, il gioielliere che gli ha sparato con la pistola semiautomatica regolarmente detenuta, non dorme più. Anche se la vittima, ritrovata con le tasche piene di cocaina, è stata definita dai carabinieri un "bandito estremamente pericoloso", "un animale", "molto agguerrito", con una lunga serie di reati, tra cui un omicidio, e "che ha sempre agito con l’uso delle armi". Poteva finire davvero male per la famiglia Corazzo. Ma lui sa dire solo che "quello che ho fatto non è bello e non volevo farlo. Non sono un eroe. Sono stato costretto a sparare per difendere la mia famiglia". "I tre rapinatori erano incappucciati, armati - dice -. Mi hanno puntato una pistola addosso". Ne è nata una sparatoria in casa. Sette i colpi esplosi all’interno dell’abitazione da parte dei tre ladri, tre da Corazzo, con la semi automatica legalmente detenuta, uno dei quali ha colpito al petto il pluripregiudicato, Valentin Frrokaj, uccidendolo. È per questo motivo, che secondo la Procura si tratta di "un caso classico di legittima difesa". Stando alla ricostruzione dei fatti, il gioielliere, stava rientrando a casa a bordo del suo scooter martedì sera poco prima delle 20. Entrato nel garage della villetta è stato sorpreso dai tre. Corazzo sottolinea che la sua fortuna è stata che i ladri non lo hanno "perquisito" altrimenti si sarebbero accorti che nella tasca del giaccone aveva con sé una pistola, che porta sempre per difesa. "Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto. Loro hanno preso tutto quello che hanno trovato", soldi, gioielli. Ma non gli bastava. "Volevano altre somme che non avevo" e "hanno minacciato me e la mia famiglia". Corazzo riesce allora a caricare la sua arma. Spara prima un colpo al muro per spaventare i ladri e costringerli ad andarsene. Ne è scaturito un conflitto a fuoco. I tre se ne sono andati scardinando la cancellata con la 500 di Corazzo, ma solo in due sono fuggiti, il terzo è rimasto accasciato a terra. "Non sapevo neanche di averlo colpito", dice il gioielliere. "L’ho capito dopo. Stanotte non ho dormito e non dormirò per molte altre notti, sono devastato". Giustizia: processo Mafia capitale, Buzzi all’attacco "io vittima di linciaggio mediatico" Il Messaggero, 26 novembre 2015 Buzzi va al contrattacco. Il ras delle cooperative, figura centrale nell’inchiesta su Mafia Capitale, si prende il palcoscenico del processo, giunto alla sua quinta udienza, e attacca la procura, i mass media e si dice pronto a dare un contributo per la lotta alla corruzione. Venti minuti di dichiarazioni spontanee dal carcere di Tolmezzo. In videoconferenza da una saletta del penitenziario, l’ex numero uno della coop 29 giugno ha affermato di essere vittima di "un linciaggio mediatico". "Dal giorno del mio arresto - afferma - ho assistito inerme al linciaggio mediatico della mia persona con palesi violazioni delle norme che regolano la diffusione delle immagini". L’obiettivo principale delle dichiarazioni di Buzzi resta, comunque, la Procura di Roma che solo pochi giorni fa ha ribadito il suo no alla richiesta di patteggiamento avanzata dai suoi difensori. "Nell’udienza del 19 novembre e in quella odierna, nel motivare il parere negativo alla mia richiesta di patteggiamento, i pm hanno affermato che nelle mie deposizioni ho solo tenuto a difendere i miei amici, a lanciare strali verso altri senza dare alcun contributo alle indagini: questo non è assolutamente vero". Il presunto braccio destro di Massimo Carminati ha spiegato che "in cinque interrogatori" ha "ricostruito con precisione i vari fenomeni corruttivi svelando cose non conosciute dalla Procura, dichiarazioni confermate poi negli interrogatori di Odevaine e Cerrito e perfettamente aderenti alle intercettazioni telefoniche ambientali". Buzzi si spinge, quindi, a definire affermazioni "delegittimanti" agli occhi del tribunale quanto sostenuto in aula dai pm. L’uomo delle cooperative ha infine auspicato che inizi presto "l’istruttoria dibattimentale con l’acquisizione dei miei interrogatori per dare un contributo all’accertamento della verità e alla lotta alla corruzione. Il mio più grande auspico è essere giudicato con serenità senza essere pregiudicato nei diritti difensivi prima ancora che inizi il processo" e anche "per questo motivo, per dare sostanza alle mie dichiarazioni, il mio legale ha chiesto l’esame di molti testi, politici, giornalisti, ex detenuti utili a ricostruire le gravi ipotesi di reato". Il nome di Buzzi compare anche nelle motivazioni della sentenza della Cassazione di conferma della custodia in carcere per Franco Panzironi, l’ex amministratore delegato di Ama. I giudici della Seconda sezione penale scrivono che "è da escludere" che il ras delle cooperative "abbia dato 125mila euro alla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno per puro spirito di liberalità, in nome dei vecchi tempi passati insieme in carcere, a Rebibbia, nel 1982". "L’intera vicenda processuale" di Mafia Capitale - scrive la Cassazione citando l’ordinanza del riesame del 9 settembre che ha confermato il carcere per Panzironi - "dimostra in maniera inequivocabile" che Buzzi, "presidente della cooperativa 29 giugno, non ha mai corrisposto denaro se non in adempimento di patti corruttivi ovvero per acquisire vantaggi per le proprie aziende". È poi attesa per domani la decisione dei giudici sull’ammissione dei testimoni al processo a Mafia Capitale. Il tribunale deve decidere su un migliaio di persone inserite nelle liste dei difensori dei 46 imputati. Corposa la lista presentata dai difensori di Salvatore Buzzi che ha inserito 282 testimoni. Tra questi i nomi di politici come Nicola Zingaretti, Gianni Alemanno, Gianni Letta, Ignazio Marino e il ministro Giuliano Poletti. Nelle liste presentate dagli altri avvocati anche i nomi del magistrato Raffaele Cantone, del prefetto Franco Gabrielli e dell’ex assessore del Comune di Roma, Alfonso Sabella. Il favor rei guadagna spazio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Il favor rei può essere rilevato d’ufficio dalla Cassazione. Anche quando il trattamento sanzionatorio inflitto per effetto di una sentenza emessa prima di un cambiamento normativo più favorevole all’imputato non è stato oggetto di un impugnazione, peraltro giudicata inammissibile. E anche quando la pena inflitta rientra nella cornice definita dalla nuova disciplina. A precisare il punto sono le Sezioni unite penali con una sentenza depositata ieri, la n. 46653, che è intervenuta sul cambiamento delle misure punitive sul traffico di stupefacenti provocata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 32 del 2014. Il punto di partenza sottolineato dalle Sezioni unite è quello della funzione rieducativa della pena, una funzione che però rischia di uscire gravemente compromessa se inflitta con riferimento a un apparato sanzionatorio che lo stesso legislatore ha ritenuto non più adeguato per una condotta che comunque resta "diversamente" rilevante sul piano penale. A non venire garantito è anche il principio di proporzionalità, visto che la pena è stata stabilita in concreto sulla base di criteri che, in linea di massima, sembrano di maggiore gravità rispetto a quelli che il condannato avrebbe avuto diritto di vedersi applicare, sia pure sulla base di una valutazione "ora per allora". La stessa natura individualizzante della sanzione potrebbe poi essere stata trasgredita, dal momento che il legislatore ha ritenuto di doverla cambiare con l’astratta previsione di un trattamento sanzionatorio più attenuato. Sulla base di queste considerazioni allora si configura un vero e proprio obbligo del giudice di rimuovere la violazione di un principio fondamentale dell’ordinamento, costituito dal diritto dell’imputato a essere giudicato sulla base del trattamento più favorevole tra quelli che si sono succeduti nel tempo. Il passo ulteriore nella riflessione delle Sezioni unite è determinato dall’assenso alla rilevabilità d’ufficio da parte della Cassazione anche se l’imputato non ha proposto alcun motivo che riguardi la pena e neppure ragioni di critica alla sua determinazione da parte del giudice anche dopo le modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di appello che confermò la condanna. Infatti, anche se non si trova in una condizione di pena illegale, l’intervento d’ufficio è possibile se solo si tiene conto dell’articolo 2 comma 4 del Codice penale sul favor rei. L’unica condizione infatti è che la sentenza non sia diventata irrevocabile. E, se è vero che il principio di proporzionalità non è espressamente previsto dalla Costituzione, tuttavia rappresenta un’applicazione necessaria di quelli di uguaglianza e di rieducazione, cui devono ispirarsi non solo la fase dell’esecuzione della pena ma anche quella della determinazione. Si tratta quindi di un diritto fondamentale della persona la cui tutela rappresenta il fondamento delle numerose decisioni della Cassazione che hanno ritenuto superabile l’ostacolo dell’inammissibilità del ricorso in presenza di incontestabili violazioni a questa tipologia di diritti. Reato continuato, impugnazione limitata se non incide sulla pena di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 24 novembre 2015 n. 46501. In una catena di violenze sessuali perpetrate in continuazione tra loro, l’individuazione, da parte del giudice, dell’episodio da considerare più grave non è impugnabile, per difetto di interesse, se una diversa qualificazione non avrebbe comunque effetti sulla pena, in quanto fissata nel minimo. Mentre, a giustificare l’utilizzo delle dichiarazioni rilasciate dal teste al Pm all’interno del dibattimento è sufficiente che la minaccia sia soggettivamente percepita come tale, non richiedendosi una pericolosità oggettiva. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 24 novembre 2015 n. 46501, enunciando due principi di diritto e bocciando una serie di motivi sollevati da un uomo condannato per una serie di reati contro la moglie. Per quanto riguarda la presunta contraddittorietà nell’aver la corte territoriale individuato il fatto commesso nel maggio 2008 come più grave rispetto agli altri, la Suprema corte afferma che siccome i giudici hanno applicato la pena base nel minimo, "dall’individuazione di un episodio di violenza sessuale diverso non ne sarebbe comunque discesa alcuna utilità pratica per il ricorrente, dovendosi d’altronde considerare che tra diversi episodi di violenza sessuale contestati in continuazione, l’individuazione di quello più grave (in assenza di contestazione di aggravanti per uno di essi) costituisce giudizio di fatto incensurabile davanti a questa Corte". I giudici di Piazza Cavour hanno perciò codificato il seguente principio: "È inammissibile per difetto di interesse il motivo di impugnazione con cui, a fronte di una contestazione di fatti - reato in continuazione tra loro, si censuri l’individuazione da parte del giudice di merito del fatto - reato ritenuto più grave, ove il giudice applichi la pena base nel minimo, ciò in quanto, dall’individuazione di un episodio diverso non ne discende comunque alcuna utilità pratica per l’impugnante, dovendosi dunque ritenere che tra diversi fatti - reato contestati in continuazione, l’individuazione di quello più grave, in assenza di contestazione di aggravanti per uno di essi, costituisce giudizio di fatto incensurabile davanti a questa Corte". In merito, poi, alla contestazione dell’esame testimoniale, il ricorrente afferma che l’acquisizione del verbale del Pm all’udienza, sulla base delle presunte minacce alla teste, sarebbe avvenuto contro le regole, in quanto non era stata prodotta alcuna prova che l’intimidazione fosse effettivamente avvenuta. Sul punto, l’articolo 500, 4 comma, del Cpp, prevede che "quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento". Se questa è la lettera della norma, la Cassazione ha chiarito che "l’idoneità della minaccia, è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, essendo irrilevante la circostanza che quest’ultimo abbia poi deposto". Alcoltest, rifiuto senza aggravanti di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 24 novembre n. 46624. A forza di introdurre inasprimenti, di fatto si premia chi rifiuta di sottoporsi ai test per accertare la guida in stato di ebbrezza. Un effetto paradossale che emerge dalla lettura delle sentenze 46624 e 46625, depositate ieri, con le quali le Sezioni unite della Cassazione escludono che al rifiuto si possano applicare le stesse sanzioni "accessorie" che scattano nei casi più gravi di positività ai test. Tanto che, di fatto, le Sezioni unite "suggeriscono" di risolvere il problema contestando al conducente - quando possibile - non solo il rifiuto, ma anche quello di positività (sulla base di valutazioni dei sintomi che la persona mostra, in mancanza di test con etilometro o analisi del sangue). I complessi problemi che caratterizzano la questione nascono dal fatto che il rifiuto (articolo 186, comma 7 del Codice della strada) è tendenzialmente punito con le stesse, pesanti sanzioni dell’ebbrezza grave (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro, articolo 186, comma 2, lettera c). Però poi ci sono fattispecie particolari in cui scatta un trattamento ancora più pesante, che però alla luce delle due sentenze depositate ieri sono da intendere come applicabili alla sola ebbrezza grave e non anche al rifiuto. Queste fattispecie sono la guida di un veicolo che appartiene a un estraneo al reato (per la quale l’aggravamento della sanzione è rappresentato dal raddoppio del periodo di sospensione della patente) e l’aver causato un incidente (che comporta il raddoppio di tutte le sanzioni previste per il tipo di ebbrezza accertato). Le sentenze di ieri affrontano ciascuna una delle due fattispecie e premettono che i problemi d’interpretazioni sono dovuti al fatto che la normativa è stata cambiata più volte nel giro di pochi anni (dal 2007 al 2010) e senza un vero coordinamento. La sentenza 46624 si occupa del caso del veicolo di un estraneo e si basa sulla differenza tra rinvio recettizio (o statico, nel quale si recepisce per intero il testo di un’altra norma così com’è al momento in cui è stato scritto il rinvio, quindi non si fa altro che evitare di riprodurlo) e formale (dinamico, nel quale invece si recepisce il principio della norma di riferimento, per cui, quando quest’ultima cambia, "muta inevitabilmente" anche il significato della norma di rinvio). Secondo le Sezioni unite, nel caso dell’articolo 186, il rinvio non può essere di tipo dinamico, perché nella versione "intermedia" - quella che cancellò la depenalizzazione del rifiuto e fu introdotta dal Dl 92/2008, per essere ulteriormente modificata dalla legge 120/2010 - ci sono rinvii distinti alle pene previste per l’ebbrezza grave e alle modalità e procedure della confisca, che è una delle sanzioni previste per l’ebbrezza grave. Quindi c’è una "autonoma disciplina" del rifiuto rispetto a quest’ultima. Le Sezioni unite considerano poi il dato letterale che c’è anche nell’attuale versione dell’articolo 186: il comma 7 punisce il rifiuto "con le pene" previste per l’ebbrezza grave. E la sospensione della patente (il cui raddoppio è oggetto della sentenza) non è una pena, ma una sanzione accessoria. La sentenza 46625, oltre a richiamare anch’essa il dato letterale, si basa invece sulla "diversità ontologica" tra il conducente in stato di ebbrezza (per il quale il raddoppio delle sanzioni è previsto in modo diretto ed esplicito in caso d’incidente) e quello che rifiuta il test. Le Sezioni unite esaminano la successione delle modifiche dell’articolo 186 per concludere che l’ultima versione, per il modo in cui prevede la depenalizzazione dell’ebbrezza più lieve e introducendo la possibilità per il giudice di sostituire la pena col lavoro di pubblica utilità, se omette di stabilire esplicitamente che il raddoppio vale anche per chi rifiuta il test, non lo fa per un difetto di coordinamento, ma per una scelta precisa. Le vicende parlamentari del 2010 testimoniano che in realtà anche la riscrittura dell’articolo 186 fu frutto di spinte e controspinte di natura più politica che giuridica, per cui il coordinamento non era certo fra le priorità in quei giorni. Ma questo davanti alla Cassazione non conta. Politici infedeli: le dimissioni non bastano per la revoca dei domiciliari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 25 novembre 2015 n. 46803. Le dimissioni irrevocabili del politico locale che trucca gli appalti per favorire le imprese sponsorizzate dalla camorra, non bastano per la revoca dei domiciliari. La Corte di cassazione, con la sentenza 46803 depositata ieri, esclude che le legge 47/2015, che ha riformato la materia delle misure cautelari, possa essere d’"aiuto" al consigliere regionale accusato di aver turbato il regolare svolgimento delle gare con l’aggravante del metodo mafioso. Secondo la difesa dell’imputato - che si era "adoperato" per assegnare i servizi della Asl alle aziende legate ai clan - l’esigenza dei domiciliari doveva ritenersi superata in virtù del venire meno di qualunque carica politica e del tempo trascorso dai fatti, oltre a quello passato in stato di custodia cautelare. Elementi tali da dimostrare la non attualità del pericolo di reiterazione del reato, alla luce della riforma che impone la ricorrenza di esigenze cautelari concrete ed attuali. Di parere diverso i giudici della Cassazione, secondo i quali le dimissioni dell’amministratore regionale non sono per nulla rassicuranti. Il passo indietro in politica non basta, infatti, a scongiurare il rischio di recidiva, quando, come nel caso esaminato, il reato è stato commesso facendo leva su un ampio sistema di relazione intessuto sia con l’imprenditoria locale sia con la criminalità organizzata. Sul ricorrente pesano dunque "il radicato inserimento nell’ambito di un sistema politico basato su influenze e ingerenze - a prescindere dallo svolgimento di specifiche funzioni - e i collegamenti con la criminalità organizzata". Per i giudici il rischio di recidiva conclamato e persistente può essere scongiurato solo "tramite degli arresti, destinati a rimanere dunque insensibili alla definitiva cessazione della funzione pubblica". In questo quadro non poteva essere considerata irrilevante, come preteso dalla difesa, la pendenza a carico dell’imputato anche di un procedimento per fatti analoghi, indicativo della dedizione, tutt’altro che occasionale, a commettere reati nel settore. Né può essere considerato il tempo trascorso dall’applicazione del regime cautelare come "fatto nuovo". Ai fini della revoca o della sostituzione della misura cautelare il periodo trascorso dall’inizio dell’applicazione non conta. Ingiustificata interferenza del magistrato nell’attività giudiziaria di un collega Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2015 Magistratura - Ingiustificata interferenza del magistrato nell’attività giudiziaria di altro magistrato - Rilevanza come illecito disciplinare - Condizioni. L’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria costituisce illecito disciplinare del magistrato, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lett. e, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, solo quando la condotta del magistrato interferente sia idonea, almeno astrattamente, a mettere in pericolo la libertà di determinazione e la serenità di giudizio del magistrato destinatario. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 26 novembre 2014 n. 25136. Magistratura - Illeciti disciplinari - Sollecitazione ad una più rapida definizione di una controversia giudiziaria - Ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato - Configurabilità. La sollecitazione di un magistrato rivolta ad altro magistrato intesa ad ottenere una soluzione più rapida di una controversia giudiziaria integra sia gli estremi dell’illecito disciplinare previsto dall’ articolo 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 109 del 2006 che quelli dell’illecito di cui all’articolo 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, se commesso nella sua vigenza, in quanto rappresenta una forma di interferenza che, se non giustificata dall’esercizio di un’attività giurisdizionale, attenta ai valori di correttezza ed ai criteri di trasparenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale. • Corte di cassazione, sezione Unite, sentenza 24 giugno 2010 n. 15314. Magistratura - Illeciti disciplinari - Ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato - Nozione. Integra l’illecito disciplinare dell’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato non solo la condotta consistente in pressioni esercitate al fine di incidere sulla coscienza e volontà del magistrato nel libero esercizio delle sue funzioni, ma anche quella concretatasi in atti giudiziari abnormi suscettibili di frapporre ostacoli al procedimento nel suo progredire. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 maggio 2010 n. 11431. Magistratura - Illeciti disciplinari - Commissione del fatto nell’esercizio della funzione - lnserimento della fattispecie di ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato nella tipologia degli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni. La formula "costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni", con cui si apre il primo comma dell’articolo 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, non individua un presupposto della fattispecie, che si aggiunge agli elementi costitutivi dello specifico illecito e deve essere concretamente accertato, ma ha un significato meramente classificatorio, inteso soltanto a caratterizzare il disvalore della condotta in relazione al dovere violato. Ne consegue che l’inserimento della fattispecie di ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato nella tipologia degli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni non ha di per sé ristretto l’area di illiceità disciplinare, rispetto a quanto previsto dall’articolo 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 24 giugno 2010 n. 15314. Lettere: avvocati in sciopero e le vittime di reati di Antonia Spataro e Giuseppe Sturniolo L’Unità, 26 novembre 2015 Gentilissimo Direttore, le scriviamo in relazione all’astensione dall’attività dei penalisti italiani dal 30 novembre al 4 dicembre. Siamo i genitori di una bimba deceduta nel 2010 per una vicenda di malasanità; il reato rischia la prescrizione per ritardi ed errori in fase preliminare e di rinvio a giudizio per cui sono stati necessari 5 anni, nonché per un calendario dibattimentale connesso al carico di ruolo del giudice e per la situazione del tribunale di Roma dove sono necessari almeno 2 anni per un eventuale appello. L’astensione farà saltare verosimilmente la prossima udienza, fissata a distanza di mesi dalla precedente, con conseguenze negative su vari profili. Al di là dei riflessi dell’astensione nel caso specifico, indigna un’astensione proclamata dopo i provvedimenti di un giudice volti a celebrare rapidamente un processo, evitando i ritardi che ridicolizzano la giustizia italiana. La motivazione della protesta - sostanzialmente contro la spettacolarizzazione dei processi e la lesione dei diritti degli imputati - è teoricamente ineccepibile, ma turba un’iniziativa di tal genere a tutela di imputati, mentre mai si hanno mobilitazioni contro la prescrizione che viola i diritti delle vittime dei reati. Per la morte di nostra figlia a fronte di una limitata attenzione della magistratura inquirente, abbiamo segnalato personalmente in ogni sede le anomalie e un trattamento da reato minore non perseguito con la tempestività e la rigorosità prescritte; tali iniziative sono sconsigliate dagli avvocati per "non indispettire i magistrati". Oggi il mondo legale si mobilita contro provvedimenti per accelerare un processo! Non comprendiamo come si possa verificare un tale paradosso senza che nessuno si scandalizzi: protesta per i diritti dell’imputato sì, iniziative a tutela dei diritti delle vittime di un reato no? Ci chiediamo quindi le motivazioni di iniziative del genere: l’amore per la giustizia e per lo stato di diritto? Varrebbe a maggiore ragione per i diritti delle vittime dei reati. Allora stiamo parlando di "altro": gli imputati "valgono" per la categoria di più delle vittime dei reati. Ci siamo soffermati anche sugli effetti di tale forma di protesta; inequivocabilmente danneggerà esclusivamente le vittime dei reati; al di là degli effetti sulla prescrizione, che la cassazione prova a sterilizzare per impedire ad un imputato di nascondersi dietro un avvocato scioperante, solo tali vittime saranno danneggiate, dovendo quanto meno attendere ulteriormente per ottenere giustizia. Ogni giorno di attesa aggiuntivo è una sofferenza inaccettabile per la vittima di un reato. Altro profilo di difficile comprensione è la durata dell’agitazione, suscettibile di incidere negativamente sul funzionamento dei tribunali. Questo sciopero non avrà un impatto pari alla sua durata sui processi; a eccezione di quelli noti - le cui udienze sono fissate una dietro l’altra rispettando il principio della concentrazione del dibattimento e scandalizzando gli avvocati difensori - in un processo anonimo le udienze sono a mesi di distanza l’una dall’altra, con calendari suscettibili di favorire involontariamente la prescrizione. L’impatto sarà esponenziale: 5 giorni di astensione significheranno un posticipo di mesi. Non sarebbe più etica una protesta simbolica? Che non arrechi danni ai cittadini? Evitare di accentuare il caos giudiziario e di contribuire alla prescrizione, favorendo una corretta amministrazione della giustizia? Stupisce ancora la limitata pubblicità all’astensione che consente di evitare il pubblico giudizio, ma anche l’assenza di tentativi di conciliazione e persino di contestazioni da parte delle associazioni che si professano difensori dei diritti dei cittadini. Si riscontrano ulteriori profili surreali: uno sciopero determina uno svantaggio economico per lo scioperante, originando difficoltà nei rapporti con i suoi interlocutori professionali. L’astensione, peraltro dalle sole udienze, ha effetti opposti: a vantaggio della maggioranza dei clienti di un penalista. Ma non è anomalo? da parte di liberi professionisti poi? Perché nessuno segnala tale anomalia? Come giudicare infine i singoli? Consideriamo il caso ovviamente astratto di un professionista che si astiene, che personaggio è sul piano morale? In particolare se è difensore di un imputato in un processo volto ad accertare le responsabilità per la morte di una bimba? Esiste un codice morale oltre a quello deontologico? E se l’imputato è un medico che si professa innocente? Il professionista non ne dovrebbe tutelare il diritto ad una rapida conclusione del processo? Considerato un cliente disinteressato alla prescrizione ma intenzionato a dimostrare la sua innocenza, che significato ha l’astensione? Una manifestazione del diritto associativo? E l’imputato del nostro caso astratto? Esiste la possibilità, sostanzialmente, di "obbligare" il suo avvocato a non astenersi; se innocente non deve far altro che darle attuazione, non vorrà sicuramente nascondersi dietro al suo avvocato scioperante? Da ultimo cosa farà il giudice? Come interpreterà la legge? Concederà il rinvio o contempererà gli interessi in gioco? Riepiloghiamoli: da un lato l’interesse del medico, che si professa innocente e ha fretta di dimostrarlo, interesse che in questo senso coincide con quello dei genitori di giungere a un verdetto definitivo, c’è inoltre l’interesse superiore ad un corretta amministrazione della giustizia; dall’altro lo spirito associativo dell’avvocato dell’imputato che vuole esercitare il diritto riconosciutogli dalla costituzione. Anche qualora sia costretto al rinvio dalla giurisprudenza, il giudice potrà disporre una data immediatamente successiva alla fine dell’astensione, con un chiaro segnale a fronte di comportamenti strumentali? O, per l’eccessivo carico di ruolo, dovrà fissare l’udienza a mesi di distanza, con lo spreco di altro tempo in un procedimento in cui magari sono già stati sprecati degli anni? La risposta a queste domande ne implica altre: siamo un paese civile o cialtrone, un paese dove tutto funziona al rovescio? Certi avvocati sono persone civili o sono privi di morale e di etica professionale? La nota risulterà ingenua, priva di ogni possibilità di ottenere nulla: è una semplice riflessione di chi subisce un danno da tale astensione, indirizzata ai soggetti coinvolti in questa astensione, a coloro che non protestano contro la stessa, a coloro che non ne evidenziano le anomalie, alle vittime di ogni reato in attesa di giustizia, anche quando non direttamente toccate, a chiunque contempli le anomalie segnalate. È ancora possibile la revoca di una protesta con effetti inammissibili o seppellirla sotto il giudizio dell’opinione pubblica, unico presidio contro gli atti che provocano danni socialmente e moralmente inaccettabili, in assenza di altri interventi; basta una parola: vergogna! Le porgiamo i nostri distinti saluti. Lettere: depositato il ricorso di Giulio Petrilli, aumentano le adesioni all’appello Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2015 A metà novembre 2015 il legale di Giulio Petrilli, avv. Francesco Camerini, ha depositato presso il Tribunale di Cassazione dell’Aquila il ricorso in difesa del suo assistito, condannato nel mese di Ottobre a otto mesi senza condizionale per abuso di ufficio per avere regolarizzato 5 dipendenti part time quand’era presidente dell’Aret (azienda regionale economia e territorio) dal 2006 al 2008, e siglato un nuovo contratto con il direttore, riducendone il compenso da 110.000 euro annui a 39.000. Le tesi dell’avvocato non sono mirate a discolpare semplicemente il suo assistito, quanto a ridare dignità a chi, dal posto di pubblico amministratore, si occupa del lavoro, della sua qualità, e dell’investimento nella stabilizzazione dei precari. Giulio Petrilli fu già condannato a 5 anni e 8 mesi per "Banda armata", poi assolto definitivamente nel 1989 ma non può usufruire dei giovamenti della legge sull’ingiusta detenzione perché la stessa non è retroattiva. Noi sottoscrittori ci battiamo anche per sconfiggere i teoremi per cui chi ha avuto frequentazioni considerate non ammissibili col suo pentimento, debba essere sempre criminalizzato e condannato per un non reato, senza concessione delle attenuanti generiche e della condizionale. La mobilitazione prosegue. Noi cittadini, impegnati nella costruzione della reciproca convivenza basata sulla giustizia amministrativa e sociale, chiediamo alla Giustizia Italiana ma anche alla Politica di prendere la vicenda di Giulio Petrilli come tante altre, purtroppo nascoste nel clamore della politica urlata e nel disarmo dell’aggregazione, come momento per rifiutare la colpevolizzazione dell’impegno politico e sociale nel paese. I beni comuni e la sicurezza dei cittadini, lo ripetiamo in questi tristi giorni dopo gli attentati di Parigi, si fondano e rifondano su un terreno di lavoro, di fiducia e di ascolto reciproco. Revisione del processo e riconsiderazione politica dell’azione dell’imputato. Sottoscrivono: Giovanni Russo Spena, giurista, ex parlamentare; Italo Di Sabato, Osservatorio sulla repressione; Marcello Pesarini, Osservatorio permanente sulle carceri, Antigone; Antonio Di Stasi, Professore di Diritto del lavoro nell’Università Politecnica delle Marche, Avvocato; Stefano Trovato, Cnca; Roberta Palmieri; Francesco Orazi Professore di Sociologia nell’Università Politecnica delle Marche, Avvocato; Fabio Sebastiani direttore Controlacrisi; Paola Ferroni; Scaini Gianmarco; M. Rosaria Russo dott.ssa in Scienze dell’Educazione Direttivo CGIL Lombardia ; Adriana Spera; Antonio Nardantonio consigliere comunale L’Aquila; Claudio Grassi, ex senatore, Sinistra e Lavoro; Sergio Sinigaglia; Massimo Rossi, ex sindaco di Grottammare (AP) ex presidente Provincia AP, Forum Beni Comuni; Linda Santilli, Sinistra e Lavoro; Nicola Iannarelli, Sinistra e Lavoro; Abruzzo: appello detenuti di Lanciano per nomina Rita Bernardini a Garante regionale cityrumors.it, 26 novembre 2015 Un gruppo di detenuti di Lanciano invia una nota alla trasmissione Radio Carcere di Radio Radicale, che la legge in trasmissione, chiedendo alla popolazione carceraria abruzzese di unirsi nel sostegno a Rita Bernardini, candidata a Garante dei detenuti abruzzesi. Lo rende noto Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "In quanto detenuti della regione Abruzzo, ci rivolgiamo a tutta la popolazione detenuta perché sia solidale con l’onorevole Bernardini e le offra la stessa solidarietà che lei ci offre da tempo: per questo vi invitiamo a manifestare in forma pacifica il vostro appoggio perché Rita Bernardini sia eletta Garante dei detenuti della Regione Abruzzo". Così, in una nota inviata alla trasmissione Radio Carcere di Radio Radicale, un gruppo di detenuti di Lanciano ha chiesto alla popolazione carceraria abruzzese di unirsi nel sostegno a Rita Bernardini, candidata a Garante dei detenuti abruzzesi. Ieri, in Regione, l’ennesima fumata nera per l’elezione del Garante, seguita a una lettera dell’associazione Antigone abruzzese (a firma dell’avvocato Renzo Lancia) in cui si chiedeva formalmente un passo indietro a Rita Bernardini, che ha espresso il suo stupore, in quanto l’associazione le chiedeva un passo indietro "per il bene dei detenuti". "Tutti noi sappiamo che l’on. Rita Bernardini è da sempre tra i pochissimi politici impegnati in prima linea per i diritti dei detenuti, come tutti noi detenuti sappiamo", spiega infatti la nota pervenuta dal carcere di Lanciano: "proprio grazie a lei e ai Radicali si sono raggiunti risultati importanti come l’indulto e provvedimenti a livello europeo che hanno permesso dei miglioramenti delle condizioni di vita di noi detenuti". Immediato il commento del segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, l’avv. Vincenzo Di Nanna, che da mesi sostiene la campagna per l’elezione di Rita Bernardini a Garante dei detenuti abruzzesi: "Ribadisco quanto già espresso in precedenza. La domanda sorge infatti sempre più spontanea: chi ha paura di Rita Bernardini?". Trapani: detenuto 21 anni per un errore giudiziario, ora chiede 62 milioni di danni nuovosud.it, 26 novembre 2015 Giuseppe Gullotta fu condannato all’ergastolo. Dopo 9 processi la Corte di Reggio Calabria accertò che confessò dietro tortura. Ha chiesto un maxi risarcimento. I soldi li darà a una Fondazione che si occupa di casi di errori giudiziari. Si è svolta dinanzi alla Corte d’Appello di Reggio Calabria l’ultima udienza del procedimento nato dalla richiesta di risarcimento presentata da Giuseppe Gulotta, ingiustamente detenuto per la strage di Alcamo Marina (Trapani) del 26 gennaio 1977, condannato all’ergastolo e scagionato solo nel febbraio 2012, dopo 21 anni di carcere. L’uomo, assieme a Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo (per quest’ultimo il 20 novembre è stato confermato in via definitiva un risarcimento di 1,1 milioni), era stato individuato come uno dei presunti autori dell’eccidio che causò la morte dei due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Gulotta era stato condannato al carcere a vita, ma dopo nove processi venne assolto dalla corte d’Appello di Reggio Calabria che ammise che la confessione degli omicidi era avvenuta sotto tortura. Da allora, attraverso i suoi legali Pardo Cellini e Baldassare Lauria, ha iniziato una richiesta di risarcimento quantificata in 62 milioni di euro. Nell’udienza di oggi, presieduta dalla giudice Tommasina Cotroneo, sono stati ascoltati i periti di parte che hanno relazionato sul danno maturato. Gulotta, che all’epoca della strage era minorenne e faceva il muratore, lo scorso 18 novembre ha incontrato Papa Francesco e attualmente vive della generosità di un prete. "Siamo soddisfatti dello sviluppo dibattimentale", ha detto Baldassare Lauria -dal 10 marzo 2010 stiamo affrontando questa sfida storica. Gulotta ha affermato di aver intenzione di devolvere i soldi del risarcimento a una fondazione che si occupa di casi di errori giudiziari e spero che ne avrà la possibilità". La sentenza dovrebbe essere emessa tra un mese. Roma: detenuto operato in ritardo morì, due medici a processo per omicidio colposo di Giulio De Santis Corriere della Sera, 26 novembre 2015 Operarono in ritardo un detenuto affetto da appendicite, provocandone la morte a causa di una peritonite. È l’accusa per cui due medici del Fatebenfratelli all’isola Tiberina, Andrea Colaci e Paolo Mascagni, sono stati rinviati a giudizio. La vittima, Antonio Fondelli, 52 anni, perse la vita l’8 febbraio del 2010. L’uomo stava scontando un furto per il quale era stato condannato a due anni di reclusione. A quella data, doveva trascorrere ancora 11mesi in carcere, poi sarebbe tornato libero. Un traguardo che avrebbe tagliato se, secondo l’accusa, i due medici avessero operato con cinque ore di anticipo. L’intervento si svolse alla clinica Nuova Itor quando ormai era troppo tardi. Pescara: detenuti al lavoro per il Comune, firmata un’intesa con la Casa Circondariale primadanoi.it, 26 novembre 2015 È stata presentata ieri l’intesa fra il Comune e la Casa Circondariale di Pescara per l’utilizzo dei detenuti in attività promosse dall’ente comunale. Si tratta di una sinergia che viene riconfermata e ampliata ad altri settori prima non contemplati. Alla conferenza erano presenti il sindaco Marco Alessandrini, l’assessore al Personale Sandra Santavenere e il direttore della Casa Circondariale Franco Pettinelli. "La sinergia ci viene naturale con istituti che la praticano positivamente - dice il sindaco Marco Alessandrini - In più al direttore Franco Pettinelli mi lega un rapporto di stima e amicizia, consolidato dal fatto che se il carcere di Pescara è anch’esso stimato nel panorama italiano è sicuramente per il suo lavoro e le attività che vi si svolgono dentro. L’intesa - spiega il primo cittadino - dà campo a quella che si chiama giustizia ripartiva: perché la pena deve avere una funzione rieducativa. Molto spesso questa resta lettera muta, invece percorsi simili servono a sfavorire la commissione di altri reati e ad agevolare il reinserimento di quanti hanno un conto aperto con la società. Vogliamo aiutare le istituzioni che operano in tal senso a costruire anche un dopo e queste intese che presentiamo oggi lo agevolano". "Sono contenta che il sindaco abbia sostenuto questo percorso - dice l’assessore Sandra Santavenere - parliamo del rinnovo di una convenzione che impiega 4 detenuti in attività di manutenzione del verde pubblico e pulizia spiagge. La novità, invece, consiste in un nuovo protocollo che ha alla base il progetto di dematerializzazione in corso presso il Comune e che impegnerà tre detenuti: loro si occuperanno di inserimento dati per attività di digitalizzazione e archiviazione di atti e documenti, che consentirà di eliminare tutto il cartaceo che affolla scaffali e settori comunali. Si tratta di una collaborazione appena iniziata, in cui crediamo molto: ai soggetti che fra pochi giorni inizieranno il lavoro si è data la possibilità di credere in se stessi e farlo in modo produttivo per il nostro Ente che in deficit di risorse umane attraverso il loro contributo riesce a fare dei progetti che ci consentiranno a breve di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi. C’è poi anche il lato formativo, non indifferente, che ci affianca alla Casa Circondariale in un percorso di collaborazione e reinserimento che è fondamentale in una società davvero civile". "Ringrazio sindaco e assessore che ci hanno consentito di allargare la collaborazione fino ad oggi attiva con il Comune - sottolinea il direttore della Casa Circonbdariale Franco Pettinelli - Finora avevamo al nostro attivo sulla dematerializzazione un laboratorio interno all’istituto, un progetto intramurale per un ente pubblico; stavolta si fa all’esterno, il detenuto si mette a disposizione per ripagare il danno commesso alla società, esce dal carcere. Ovviamente sono opportunità importanti perché iniziamo a proiettarci in un vero discorso di reinserimento sociale e il detenuto riesce a recuperare risorse, anche economiche, per guardare al domani con altri occhi. Nelle intese siglate con il Comune si prevede l’impiego di tre detenuti presso l’ufficio anagrafe dal lunedì al venerdì e anche per due rientri pomeridiani, affiancati da un tutor dell’ente che li formerà. Il protocollo dura sei mesi, è sperimentale e alla fine del periodo vedremo come continuare, magari diversificando anche l’oggetto. Siamo partiti dalla manutenzione del verde, abbiamo collaboriamo con il canile comunale, cosa mai fatta sul territorio nazionale. Potrebbe esserci presto anche una implementazione anche su oggetti diversi, per ora abbiamo ampliato il protocollo anche alle detenzioni domiciliari, in modo che possano lavorare anche detenuti che hanno percorsi diversi da quello della carcerazione". Monza: Sappe; portano droga ai detenuti, due donne denunciate in due settimane Il Cittadino, 26 novembre 2015 Per la seconda volta in due settimane dall’esterno hanno tentato di introdurre in carcere a Monza della droga per altrettanti detenuti. In entrambi i casi la "consegna" è stata bloccata dagli agenti della polizia penitenziaria e i due corrieri, due donne, sono state denunciate. L’ultimo episodio è accaduto martedì nel pomeriggio quando una donna giunta nel reparto colloqui della struttura penitenziaria di via Sanquirico ha tentato di introdurre della sostanza stupefacente destinata al figlio detenuto, un 30enne sudamericano. Il suo atteggiamento sospetto ha indotto gli agenti a controllarla fino alla scoperta dello stupefacente, sottoposto a sequestro. Soddisfazione è stata espressa da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "Agli agenti di Monza andrebbe riconosciuto un adeguato apprezzamento da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Capece critica invece il sistema di sorveglianza dinamica, effettuato cioè con le telecamere, al quale anche il detenuto in questione è sottoposto "con controlli minimi di polizia". Un sistema che "consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria". Secondo Capece andrebbe sospeso "in via precauzionale proprio per i rischi congeniti che essi comportano". Torino: il carcere raccontato dai detenuti con uno spettacolo teatrale di Gabriele Guccione La Repubblica, 26 novembre 2015 Uno spettacolo teatrale in carcere, per raccontare dall’interno che cos’è e cosa dovrebbe essere un penitenziario. Sta andando alle Vallette in scena in questi giorni - ultima replica domani sera - "Le altre facce della medaglia", spettacolo realizzato con la regia di Claudio Montagna, dalla compagnia Teatro e Società, in collaborazione con la cattedra di Sociologia del diritto del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino. Uno spettacolo-dialogo, tra detenuti, nelle vesti di attori, e spettatori, alle cui domanda i carcerati rispondono improvvisando scene ideate con tecniche teatrali per presentare il loro punto di vista sul quesito. Pochi minuti, intensi e ricchi di significato, seguiti dal breve intervento di un gruppo di studenti di giurisprudenza sulla legge carceraria, e conclusi dai commenti degli esperti e studiosi del settore e di chi lavora per il carcere: direttore, educatori, polizia penitenziaria. "Il teatro in carcere - spiega il regista Montagna - è il tramite per far emergere le "altre facce della medaglia", mettendo a nudo luoghi comuni ma fornendo anche strumenti per discutere con cognizione di causa di situazioni di cui spesso si parla soltanto per sentito dire". E aggiunge il direttore della casa circondariale, Lorusso e Cotugno, Domenico Minvervini: "Il laboratorio teatrale di Teatro e Società è consolidato e negli ultimi anni si è orientato ad utilizzare il teatro per avviare una riflessione sulla legge di riforma penitenziaria, che compie 40 anni. Non abbiamo molto da festeggiare - aggiunge. La Corte europea di Strasburgo, con la condanna all’Italia a causa del sovraffollamento delle carceri, ci ha dato un forte impulso per recuperare il tempo perso, e questo è un momento favorevole, in cui molti provvedimenti a favore dei detenuti si stanno attuando. Provvedimenti, lo ricordo, che originano tutti dalla legge del 1975 che, per quanto ancora disattesa, è tra le più avanzate al mondo". Bari: "Sport in carcere" con il Coni, domani conferenza stampa di chiusura del progetto puglialive.ne, 26 novembre 2015 Nell’ultimo anno lo sport, come mezzo di socializzazione e rieducazione, è entrato nelle carceri in maniera corposa. Ciò grazie al progetto Sport in Carcere promosso dal Coni in collaborazione con il Ministero della Giustizia, tenutosi anche in Puglia: i risultati del lavoro svolto nella Case Circondariali di Bari - ma anche in quella di Taranto - saranno illustrati in conferenza stampa venerdì 27 novembre, alle 12.30, nella sala stampa della Presidenza della Regione Puglia (Lungomare N. Sauro 33). Interverranno il governatore Michele Emiliano, l’assessore regionale allo Sport Raffaele Piemontese, il presidente del Coni Puglia Elio Sannicandro, la direttrice della Casa Circondariale di Bari, Lidia De Leonardis e il dirigente della sezione Sicurezza del cittadino, politiche per le migrazioni e antimafia sociale della Regione Puglia, Stefano Fumarulo. L’incontro con la stampa sarà preceduto alle 10 da una cerimonia a porte chiuse nella Casa Circondariale di Bari per la consegna degli attestati di partecipazione ai detenuti coinvolti dal progetto, a cui parteciperà anche l’ex calciatore del Bari e della nazionale Antonio Di Gennaro; con lui, oltre a Sannicandro, De Leonardis e Fumarulo, anche il responsabile dell’area pedagogica della Casa Circondariale Tommaso Minervini, la responsabile della delegazione di Bari di "Carcere Possibile" Virginia Ambruosi, e gli esperti Coni avvicendatisi nel progetto: Stefano Arnone, Gianluca Cirillo, Davide Dentamaro, Lorenzo Catalano, Raffaele Police. Varese: "AperAttivo" dei Giovani Democratici su emergenza-carceri varesereport.it, 26 novembre 2015 I Giovani Democratici di Varese daranno il via, venerdì 27 novembre alle ore 18.30 presso il Cafè La Cupola, al primo "AperAttivo", un nuovo modo di concepire l’aperitivo, come un occasione sia per divertirsi e sia per confrontarsi su tematiche attuali insieme agli esperti che saranno invitati volta per volta. Questo primo incontro sarà incentrato sulle carceri italiane, un tema alquanto delicato per il nostro paese e che tanto ha fatto discutere nei mesi passati dopo la multa di 220 milioni di euro inflitta all’Italia dall’Unione Europea, a causa della situazione "disumana" di alcuni nostri istituti di pena. L’obbiettivo della serata sarà trarre dalla discussione argomenti che possano dar vita ad un dibattito politico più informato e consapevole, che possa analizzare la situazione del carcerato non solo come colpevole da punire e quindi reietto, ma anche come persona da rieducare e reinserire nella società. Per fare ciò, quale sistema si deve adottare? Per cercare di rispondere a questa domanda interverranno: l’avvocato Paolo Bossi, una delle figure forensi più in vista della città di Varese nonché responsabile giustizia del PD provinciale, il comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Varese Alessandro Croci, e infine, Sara Arrigoni, volontaria presso l’associazione LiberaMente. Il dibattito sarà moderato da Marco Regazzoni, collaboratore della Prealpina. Latina: "Filatelia nelle carceri", Poste italiane presenta progetto con le detenute h24notizie.com, 26 novembre 2015 È stato presentato ieri, presso la Casa Circondariale di Latina" il progetto formativo-culturale "Filatelia nelle carceri", promosso e sviluppato da Poste Italiane in collaborazione con i Ministeri della Giustizia e dello Sviluppo Economico, la Federazione fra le Società Filateliche Italiane e l’Unione Stampa Filatelica Italiana. A fare gli onori di casa il direttore dell’Istituto Penitenziario Nadia Fontana che, al termine del suo intervento, ha dato la parola ad Arcangelo Palmacci, in rappresentanza della Divisione Filatelia di Poste Italiane per la presentazione del progetto e a Marina Orossi, direttrice della Filiale di Latina di Poste Italiane. Presenti, tra gli altri, il Responsabile dell’Area Educativa della Casa Circondariale, Rodolfo Craia, l’educatore dell’Istituto, Arturo Gallo e il referente filatelico di Poste Alberto Annino il quale ha organizzato e svolto il corso di formazione avvalendosi della preziosa e professionale collaborazione del Prof. Vincenzo Finocchiaro. Presenti all’evento anche le circa 25 detenute "ospiti" della Casa Circondariale di Latina che hanno aderito al progetto partecipando ad una serie di lezioni finalizzate ad avvicinare le studentesse al mondo della filatelia e al collezionismo. Per l’occasione le allieve, in collaborazione con gli alunni del Liceo Artistico Statale di Latina di via G. Cesare, hanno realizzato un disegno raffigurante la loro idea di libertà, uno stormo di gabbiani multicolore su un cielo azzurro, che Poste Italiane ha riprodotto su una speciale cartolina filatelica, realizzata in 500 esemplari distribuiti tra i partecipanti. Più in generale, "Filatelia nelle carceri" si propone come progetto formativo di ampio respiro che, avvalendosi delle sostanziali caratteristiche di multidisciplinarità e interdipendenza tipiche della filatelia, consente agli studenti di sondare una varietà di aree di interesse collegate al francobollo come la storia, la geografia, l’arte, le Istituzioni, le diversità culturali, le tradizioni, i popoli, gli eventi celebrativi legati a personalità o avvenimenti storici che hanno segnato in modo rilevante la storia nazionale e internazionale. Espressione della società e della cultura di un paese, simbolo per eccellenza del collezionismo, al francobollo e alle sue peculiarità viene dunque affidato un ruolo decisivo ad alta valenza formativa: stimolare la curiosità e il desiderio di sottrarsi alla monotonia della vita carceraria, proporre spinte motivazionali per approfondire argomenti e tematiche di forte impatto culturale e soprattutto contribuire al processo di riabilitazione e reinserimento nella società dei detenuti, elementi fondanti e obiettivi dello stesso sistema carcerario italiano. Nel suo intervento, il direttore dell’Istituto Penitenziario Nadia Fontana ha dichiarato <