Circolare sulle modalità di esecuzione della pena: riflessioni e domande di Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2015 La Circolare DAP del 23 ottobre 2015 "Modalità di esecuzione della pena" prevede una ulteriore differenziazione dei detenuti all’interno delle sezioni di media sicurezza (in cui sono collocati i detenuti comuni, la stragrande maggioranza, circa 43.000, mentre i tre circuiti di Alta Sicurezza di detenuti ne ospitano quasi 9.000, e quelli sottoposti al regime differenziato ex art. 41 bis o.p. sono attualmente oltre 700). I detenuti comuni verrebbero divisi in due categorie: la prima (detenuti con lieve o basso grado di pericolosità) sarebbe ammessa alla custodia "aperta" (piena applicazione della sorveglianza indiretta e "dinamica", celle aperte fino a 14 ore, movimentazione interna senza accompagnamento, attività trattamentali anche esterne alla sezione, 6 ore al giorno di passeggi); la seconda (detenuti con medio o alto grado di pericolosità) sarebbe destinata alla custodia "chiusa" (sorveglianza diretta e "statica", celle aperte 8 ore con apertura solo estiva dei blindati, movimentazione solo con accompagnamento, attività trattamentali scolastiche e formative limitate alla sezione e attività lavorative tendenzialmente interne alla sezione salvo casi eccezionali, 4 ore al giorno di passeggi). Quelle che seguono sono riflessioni e domande, relative a questa discussa Circolare, che vorremmo rivolgere al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: - In base a quali presupposti si sostiene che la "differenziazione dei detenuti e delle modalità di svolgimento della vita detentiva è funzionale al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza, alla responsabilizzazione dei soggetti in stato di detenzione e all’incremento delle attività trattamentali necessarie per la concreta attuazione della finalità rieducativa della pena"? Come si può pensare di responsabilizzare i detenuti se i "buoni" stanno con i buoni e i "cattivi" con i cattivi? - Quando si dice "deve esser prevista la possibilità di rivedere il giudizio di pericolosità in senso positivo o negativo e pertanto saranno programmate riunioni periodiche di rivalutazione", non si mette in atto di fatto un nuovo meccanismo di declassificazione, senza per altro definire il suo funzionamento? Se si considera poi quanto è già complicata la declassificazione dall’Alta alla Media Sicurezza, non si rischia di creare delle nuove sezioni-ghetto da cui è difficile uscire? - "Per i futuri ingressi varrà la valutazione relativa al titolo di reato, ai precedenti penali e alla eventuale conoscenza comportamentale relativa a pregresse carcerazioni". Su questa questione vale una piccola esemplificazione: le persone con reati violenti (in famiglia per esempio) molto spesso sono le persone più "affidabili" dal punto di vista della vita detentiva, ma non avendo pregresse carcerazioni l’unico criterio per loro sarà il reato, e quindi verranno inserite tra i "comuni a custodia chiusa". - I "comuni a custodia chiusa" saranno in pratica due grandi categorie, la prima (grado di pericolosità di alta significatività) che non potrà muoversi dalle sezioni e dai passeggi a lei dedicati, quindi bisognerebbe inventare attività trattamentali al loro interno, perché attualmente nelle sezioni non c’è pressoché nulla, la seconda (grado di pericolosità di media significatività) che potrà partecipare a qualche attività esterna alle sezioni dopo un "apprezzabile lasso di tempo di buona condotta". Nel frattempo per esempio, come verrà garantito il diritto allo studio? Si inventeranno corsi scolastici in sezione anche per i "comuni a custodia chiusa con pericolosità di alta significatività", e quelli a media significatività pure dovranno avere i loro corsi scolastici magari per qualche mese, o anno non si capisce, finché non passerà un "apprezzabile lasso di tempo di buona condotta"? - In questi due primi "sotto-circuiti" la classificazione e successiva collocazione si basa su criteri poco chiari come "soggetti comunque gravitanti in contesti di criminalità mafiosa" o soggetti che "mantengono atteggiamenti di tipo dissociale", dove lo stesso termine "Atteggiamento" (che è una delle categorie scelte per stabilire il grado di pericolosità) è assolutamente vago e indefinito. - Oltre ai "comuni a custodia chiusa" e a complicare ulteriormente delle situazioni già complesse (l’equivalente delle classi differenziali di una volta) dovrebbero essere collocati in settori chiusi anche i "comuni pericolosi" previsti dalla circolare del 26.6.2015 e "quei detenuti dotati di una pericolosità e di una tendenza all’aggressività e alla prevaricazione tali da dover essere gestiti con maggiore attenzione". - Per essere collocati nelle sezioni a custodia aperta tra gli altri criteri bisogna aver commesso reati che non consistano in "comportamenti prodromici alla commissione di atti violenti o in condotte agevolatrici di comportamenti violenti altrui": ma chi compie queste valutazioni, qual è il personale in grado di farlo? L’elenco dei detenuti che dovrebbero andare nelle sezioni a custodia aperta dovrebbe essere redatto dal comandante del reparto, che "formula una proposta contenente l’elenco nominativo dei detenuti inseribili alla custodia aperta", ma in base a quali competenze lo può fare? - Le camere detentive delle sezioni aperte verranno chiuse obbligatoriamente durante le ore dedicate alle attività, prefigurando una vita detentiva deresponsabilizzante al punto, che la persona non può neppure decidere di stare in cella a leggersi un libro in solitudine - Il volontariato è nominato tre volte: si parla di "attività svolte con altri operatori, sia penitenziari che di altri enti pubblici e privati oltre che di volontari", e di attività autorganizzate dai detenuti, coordinate anche dai volontari, per "riempire di contenuti, anche semplici, la quotidianità all’interno dei reparti", si invita a coinvolgere ed organizzare "tutte le risorse istituzionali, private e volontarie", con assoluta sottovalutazione del ruolo del volontariato stesso, a cui di fatto sappiamo invece che è spesso delegata la gestione della maggioranza delle attività rieducative - Si escludono i detenuti di Alta Sicurezza dalla custodia aperta (tranne qualche eccezione) e li si sottopone a una vigilanza che deve "tendere a sviluppare le capacità di analisi e osservazione della polizia penitenziaria", quindi, magari dopo anni di 41 bis, li si sottopone ancora a costante controllo e osservazione nelle loro sezioni-ghetto, invece che a percorsi di confronto e responsabilizzazione - Si invita a usare i fondi della Cassa Ammende per realizzare questo complicato sistema che prevede di creare attività per tutti i sotto-circuiti, dunque una inutile moltiplicazione di attività per i comuni aperti, i comuni chiusi e i comuni pericolosi - Infine è paradossale che, nel momento in cui, nell’ambito di quegli Stati Generali, che hanno avuto dal Ministro un mandato per arrivare "a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto", la maggioranza del Tavolo 2 perviene a una riflessione sulla necessità di superare gradualmente i circuiti, con una Circolare si proceda invece a una ulteriore suddivisione in sotto-circuiti, e si investano risorse per realizzare in ogni singola sezione un minimo accettabile di attività rieducative, con il rischio di frantumare le poche attività disponibili in tante sotto-attività, invece di sviluppare le occasioni di confronto e di superamento delle tante sottoculture carcerarie - Dal punto di vista rieducativo, creare sezioni con un concentrato di persone particolarmente difficili significa rischiare di trasformarle in ghetti con alti livelli di aggressività, dove non sono presenti quei detenuti che hanno la capacità di essere credibili nel cercare di ridurre la conflittualità e le tensioni dei compagni. Non ha molto più senso invece abituare le persone a vivere in situazioni dove ci si confronta, si è impegnati in attività significative, non si ha tempo per pensare ad alimentare tensioni? E se le tensioni ci sono, attivare in ogni carcere un ufficio per la mediazione abituerebbe le persone a cercare strade nuove per risolvere i conflitti, invece di caricarsi, per i propri comportamenti irresponsabili, di anni di galera, perdita della liberazione anticipata, denunce. Giustizia: Renzi "non solo sicurezza…. la cultura è la risposta italiana al terrorismo" di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 novembre 2015 Il premier all’Ue: "Non solo sicurezza, l’Europa deve tornare ad essere se stessa". "Ad ogni telecamera installata, un video maker. Per noi un patto di umanità vale più del patto di stabilità". Tornare ai principi fondanti dell’Unione europea: "democrazia e cultura". Né "reazione" né "solo securitarismo". "Abbiamo il dovere di restare umani". È questa la proposta dell’Italia all’Europa per sconfiggere il fondamentalismo islamico di cui si nutre il terrorismo di Daesh illustrata ieri da Matteo Renzi nella sala degli Orazi e dei Curiazi dei Musei capitolini, luogo simbolico per eccellenza della nascita della Comunità europea perché lì, il 25 marzo 1957, venne firmato da sei Paesi il primo Trattato di Roma. Una proposta, per fermarsi alle belle parole, che sarebbe pure tutta da condividere: "Per ogni euro in più investito in sicurezza ci deve essere un euro in più investito in cultura - è l’idea del premier italiano - Per ogni telecamera nuova installata un videomaker o un regista teatrale, per ogni mezzo blindato in più alle forze dell’ordine un campo da calcetto. Oggi l’Europa deve ricordarsi perché è nata, tornare ad essere se stessa - esorta Renzi. C’è bisogno di un nuovo umanesimo, nel continente. Perciò vogliamo ricordare con forza che c’è un patto di umanità che vale di più del patto di stabilità, valori umani che sono molto più importanti di quelli economici". Premesso che l’Italia "non cambia posizione" rispetto alla coalizione internazionale in cui "si riconosce" e che deve essere "più ampia possibile", né rispetto al "ruolo degli Usa, cruciale per sconfiggere il fondamentalismo", Renzi però, in linea con la tradizionale posizione democristiana e socialista, ricorda la "centralità strategica" non solo per noi ma "per l’intero pianeta del Mediterraneo, dei Balcani e del Medio Oriente". E avverte: "Senza nessuna strategia per il "dopo", qualsiasi "adesso" diventa meno forte e meno credibile". Ma non è di come estirpare il "tumore", che parla il presidente del consiglio, quanto piuttosto di come evitare che le "metastasi" si diffondano nel corpo del vecchio continente. Perché così "rischiamo che l’Europa diventi una vittima collaterale degli attacchi di Parigi". "Siamo spaventati dalle immagini di guerra, è giusto", ma, dice, avrebbero dovuto spaventarci anche quegli "imam che insegnano ad odiare la musica", come ben denuncia il candidato agli Oscar "Timbuktu", film del mauritano Sissako ambientato nel Mali della Sharia imposta da un gruppo di jihadisti che mettono al bando musica e calcio. Ecco perciò che, annuncia Renzi, il governo proporrà alla Camera un emendamento alla legge di stabilità "per spostare al 2017 la diminuzione dell’Ires". In questo modo, secondo il premier, si troveranno due miliardi di euro, metà da investire sulla sicurezza e l’altra metà "sulla nostra identità culturale". "La proposta del governo al parlamento per la sicurezza sarà impiegare il miliardo di euro su quattro linee guida": 150 milioni per la cyber security, "nel rispetto privacy"; il bonus da 80 euro esteso al personale delle forze dell’ordine, "a partire da chi sta sulla strada"; 500 milioni "per le esigenze strategiche, non quelle organizzative, della difesa italiana". E poi ancora, 50 milioni per rinnovare la strumentazione dei corpi di polizia, a patto però che vengano riorganizzati: "Entro l’anno dovranno essere ridotti da cinque - troppi - a quattro", afferma il premier preannunciando per l’ennesima volta che "la forestale entrerà nei carabinieri". "Abbiamo troppi impiegati negli uffici che invece devono tornare a svolgere servizio in strada - aggiunge - troppe caserme inutilizzate che devono essere restituite rapidamente" ai cittadini. Quattro linee guida anche per decidere come investire il miliardo di euro destinato a "cultura e identità": 500 milioni per le città metropolitane e "per un intervento sulle periferie", con progetti da presentare entro il 2015 e fondi che devono essere spesi entro il 2016; 50 milioni per le borse di studio, estese però a tutti i "meritevoli", senza "questioni di reddito"; "150 milioni per donare a tutti i cittadini che lo vorranno la possibilità di dedicare il 2 per mille a un’associazione culturale specifica: il singolo teatro o la scuola di musica di periferia, in modo che ciò che è possibile per i partiti sarà possibile anche per i centri di cultura". E infine, verrà estesa a coloro che compiendo 18 anni entrano "nella comunità dei maggiorenni" "una misura già prevista per i professori: una carta da 500 euro annui da spendere in consumi culturali". Tutto questo per combattere chi sta "cercando di equiparare gli immigrati ai terroristi", chi "vuole farci credere che il nemico venga solo da fuori, nascondendo che è cresciuto nelle nostre periferie e che non basta chiudere le frontiere". "A costo di perdere voti voglio dirlo", conclude Renzi: la stragrande maggioranza dei profughi e degli immigrati "fugge dalla guerra, dai tagliatori di teste, dalla violenza e dalla fame, da quelli che sono i nostri stessi nemici". Mentre io "voglio che mia figlia possa crescere come una donna libera e senza paura. Per me l’Europa è questo". Giustizia: alla Difesa 500 milioni, cyber-security rafforzata Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2015 Il bonus da 80 euro destinato "a tutte le donne e gli uomini che lavorano per le forze dell’ordine". Il premier Matteo Renzi è chiaro: si tratta di "un’estensione" di "una misura già approvata un anno e mezzo fa dal governo per chi guadagna meno di 1.500 euro". Tetto che ha lasciato fuori la stragrande maggioranza di carabinieri, poliziotti, finanzieri, penitenziaria. Ieri, dopo l’annuncio a sorpresa per tutti, i vertici delle forze di polizia, a cominciare dal numero uno della Ps, Alessandro Pansa, hanno cominciato a fare due calcoli. Il ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano è entrato in fibrillazione. Secondo stime del Sole24Ore, la platea destinataria del bonus ammonta a circa 300mila addetti del comparto sicurezza. Probabile che dalla misura siano esclusi i dirigenti. Fatto sta che il costo globale dovrebbe ammontare a circa 300 milioni di euro l’anno. La sola cifra, guarda caso, è quella già circolata alcuni giorni fa in un confronto tra le delegazioni sindacali e del Cocer con i gruppi parlamentari mentre si discute della legge di stabilità in Parlamento. I sindacati, in realtà, immaginavano che le somme attese fossero destinate al riordino e alla riorganizzazione delle forze dell’ordine. Sul tema il premier non ha mancato di dire la sua, anzi ci mette altri soldi. Ha previsto "un investimento di 50 milioni di euro per rinnovare la strumentazione delle forze dell’ordine a fronte di un processo di riorganizzazione. Abbiamo cinque forze di polizia, sono troppe - si legge nel sito del governo - entro l’anno la Forestale entrerà nei carabinieri. Abbiamo troppa gente - sottolinea il premier - nei palazzi romani. Chiederò con forza ai comandanti di aumentare la presenza in strada diminuendo quella in ufficio". Questo passaggio fa il paio con la precisazione che il bonus di 80 euro sarà dato "a cominciare da chi sta sulla strada". Facile immaginare, insomma, che la concessione del bonus possa essere graduale e comunque si accompagni a un robusto processo di riorganizzazione della presenza degli agenti: molti meno in ufficio, molti di più per strada. Questione annosa e finora mai risolta. L’idea dei sindacati, dunque, di spuntare incrementi di retribuzioni con un riordino di carriere che avrebbe previsto promozioni e passaggi di livello, sembra sfumare. Anche se sul riordino ci sono comunque ogni anno disponibili 119 milioni più quelli - da quantificare - derivanti dai risparmi conseguiti dai processi di razionalizzazione. Da palazzo Chigi arrivano anche 150 milioni sulla cyber-security. E "500 milioni per la difesa italiana - sottolinea Renzi - con investimenti efficaci finalizzati a dare una risposta immediata alle esigenze organizzative e di bilancio". Giustizia: armi e bersagli, ecco il manuale dei jihadisti in Italia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 novembre 2015 Nel computer di uno dei marocchini espulsi lunedì un vero e proprio decalogo con le istruzioni per la guerriglia urbana: "Contatti solo col capo, doppie ricognizioni, cinture esplosive da 20 chili". "C’è bisogno di organizzare la lotta tramite le cellule separate e il modello cosiddetto "del grappolo", che aiuta a non rendere smantellabile l’intera rete". E ancora: "Il guerrigliero nelle città non è obbligato ad avere le sembianze del combattente ma potrà essere, per esempio, un commerciante". Come i brigatisti rossi degli anni Settanta diffondevano tra i militanti i manuali per camuffarsi nelle metropoli con le regole della clandestinità, così i jihadisti del ventunesimo secolo impartiscono strategie per combattere la loro guerra nelle città degli "infedeli". Non più attraverso il ciclostile, ma con sermoni registrati che possono essere facilmente trasmessi attraverso Internet. Tuttavia le direttive si somigliano molto con quelle studiate dai terroristi nostrani quarant’anni fa. Nel computer di Abdelkrim Kaimoussi, uno dei quattro marocchini espulsi lunedì dall’Italia per presunta attività di proselitismo e addestramento alla jihad (secondo la Procura, non per il giudice), la Digos di Bologna ha trovato una sorta di decalogo illustrato da un predicatore per "organizzare la guerriglia urbana". Un file audio intitolato "La tecnica di guerra nelle città", dove si indicano comportamenti e modalità d’intervento per un attacco armato, mirato alla "uccisione del nemico o un attentato". Da realizzarsi attraverso cellule chiuse e "compartimentate", come raccomandavano le formazioni rivoluzionarie del secolo scorso. Contatti solo con il capo. L’organizzazione "piramidale" è sconsigliata, meglio nuclei autonomi in cui ciascuno conosce soltanto il proprio referente, per evitare che l’eventuale collaborazione di un militante con il nemico possa danneggiare l’intera struttura: "Ognuno conosce solamente il suo capo, cioè chi l’ha reclutato. Il capo deve cambiare il suo domicilio subito in caso un componente della cellula venga arrestato, oltre a non dover neanche far conoscere il suo nome alle sue reclute". La proliferazione "a grappolo" garantisce la moltiplicazione delle cellule: "Ognuna deve formarne altre, non devono comunicare fra loro e devono avere collegamenti attraverso mediatori che hanno due o tre cittadinanze per poter circolare liberamente da un Paese all’altro". Al loro interno, le cellule sono composte di quattro gruppi, ciascuno con un compito specifico: "Il primo gruppo è il comando, costituito dall’emiro e dal suo vice. Il comando sceglie il bersaglio e il metodo, e coordina gli altri gruppi. Il secondo gruppo è quello della ricognizione, formato da due o tre persone, che deve fare due tipi di ricognizione; una generale e un’altra più precisa". Significa raccogliere informazioni sull’obiettivo nella maniera più dettagliata possibile, anche se ci vogliono mesi. Nel caso di attentato alla sede della Banca centrale europea, simulato dal manuale, "bisogna raccogliere tutte le informazioni: il numero del personale e delle guardie, i punti della guardia, le dimensioni della struttura, le entrate, le uscite di emergenza... Il comando progetta l’operazione secondo le informazioni raccolte. Il fallimento dell’operazione dipende dalla validità delle informazioni raccolte". È ciò che accadde nel primo attacco al World Trade Center di New York nel 1993, secondo il racconto del predicatore: "I fratelli hanno sbagliato la modalità dell’attentato usando un camion imbottito di una tonnellata di esplosivo, causando la morte di 5 persone e il ferimento di 1.000, senza fare cadere lo stabilimento, perché non hanno preso in considerazione che le travi erano in acciaio e non in cemento armato... Alla fine Allah ha mandato Mohamed Atta (il primo dirottatore dell’11 settembre 2001, ndr ) per fare crollare questa torre". Cinture da 20 chili. Il terzo gruppo si occupa del rifornimento di armi per l’equipaggiamento del quarto, quello che entra in azione. Senza contatti diretti, ma consegnando il materiale al comando oppure nascondendolo in un posto predefinito: "I gruppi non devono comunicare fra di loro, è compito del gruppo di comando fare la mediazione". La scelta dei mezzi dev’essere commisurata all’ampiezza dell’obiettivo: "Se il comando decide di fare l’attentato alla Banca centrale europea e decide che ci vogliono 12 mujaheddin, ognuno di loro è munito di 20 chili di cinture esplosive per entrare nell’edificio senza combattimento e dovranno distruggere l’edificio dall’interno... loro hanno bisogno di circa 240 chili di esplosivo, di 12 kalashnikov, 36 bombe a mano". Infine il gruppo "della ricognizione" dovrebbe filmare l’azione per garantire il condizionamento dell’opinione pubblica mondiale e controbattere alla propaganda nemica: "Nell’attentato di Mombasa i morti ebrei erano 167 invece le autorità hanno dichiarato che i morti erano in totale 17 ; 3 ebrei e 14 kenioti". Giustizia: femminicidio, l’orrore nei cinque continenti di Geraldina Colotti Il Manifesto, 25 novembre 2015 La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’ultima delle sorelle Mirabal, Dedé, è morta a febbraio in una clinica di Santo Domingo. Aveva 88 anni. Era la seconda di quattro. Le altre tre, Patria, Minerva e María Teresa, vennero assassinate dalla polizia segreta del dittatore Rafael Trujillo (1930-1961), il 25 novembre del 1960. Rientravano dalla visita in carcere ai propri mariti, prigionieri nella Fortezza di San Felipe, 215 km a nord della capitale dominicana. Furono torturate e uccise a bastonate e strangolate, e poi gettate in precipizio a bordo della loro auto, per far credere a un incidente. Da allora, Dedé aveva aggiunto ai suoi figli anche quelli delle sorelle, diventate un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne. Ogni anno, il 25 novembre si ricorda il loro sacrificio e si fa la conta delle donne uccise nei cinque continenti. La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere è stata proposta nell’81 durante l’Incontro femminista latinoamericano e dei Caraibi e poi istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 17 dicembre del 1999. Sia l’Onu che la Convenzione interamericana per prevenire, sanzionare e sradicare la violenza contro la donna, (di Belem do Para, l’anno dopo), con la definizione di violenza di genere hanno riconosciuto che i fattori di rischio, le conseguenze e le risposte alla violenza contro le donne sono determinate in gran parte dalla condizione sociale, economica e giuridica subordinata che vivono in molte situazioni. Maltrattamenti e stupri sono un fenomeno diffuso e trasversale che però oggi mette in primo piano i paesi più avanzati dove le donne lavorano. Una ricerca dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha evidenziato che 62 milioni di donne in Europa (pari al 33% della popolazione femminile) hanno subito violenza. Il vergognoso primato va ai paesi in cui il tasso di occupazione femminile è più elevato: Danimarca, Finlandia, Svezia e Olanda. Violenza di genere come indicatore della crisi di ruolo che attraversa il patriarcato. Emergono poi le cifre della pedofilia. Risulta che il 12% dei 21 milioni di donne europee ha subito violenza sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni, prevalentemente da un famigliare o un amico. Olanda, Francia, Regno Unito, Svezia e Lussemburgo guidano - in ordine - la classifica. A seguire, Italia e Spagna (11%) e in fondo Portogallo, Bulgaria (3%), Croazia e Romania (rispettivamente 2 e 1%). In Italia, secondo dati dell’Istat e del dipartimento Pari opportunità, tra il 2009 e il 2014 la percentuale delle donne fra i 16 e i 70 anni che ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita arriva al 31,5%. Pari a circa 6 milioni e 788mila persone, una donna su tre. Dati inquietanti ma certamente al ribasso: le denunce che arrivano ai centri antiviolenza o alla polizia non rispecchiano l’intera realtà. E le reti di donne che lavorano sul territorio lamentano la poca attenzione del governo alla promozione dei Centri antiviolenza. Nel continente africano, gli abusi sulle minori sono molteplici: dalle bambine di strada nella Repubblica democratica in Congo, alle vittime di violenze domestiche in Sudafrica o alle mutilazioni genitali in Costa d’Avorio. Ma restano sempre poco denunciati. Il corpo femminile è territorio di scontro e bottino di guerra nel ritorno di visioni arcaiche che squassano il Medioriente e l’Africa: bambine decapitate o usate come bombe, violentate e asservite dal Califfato aumentano le cifre dell’orrore. In India, stupri e violenze hanno lasciato una scia di sangue nel corso dell’anno. Il rapporto pubblicato dal National Crime Records Bureau per il 2013 (il più recente monitoraggio governativo) mostra che la maggioranza delle aggressioni è avvenuta a New Dehli e il numero è in aumento da cinque anni: dal 9,2% di tutti i crimini commessi nel 2009, all’11,2% di quelli commessi nel 2013. Il Madhya Pradesh, al centro dell’India, registra il record di denunce per stupro, e il Bengala Occidentale (a Est) ha quello della schiavitù sessuale. Nell’Uttar Pradesh (Nord), lo stato più popolato, si è registrato il maggior numero di sequestri e di assassinii legati alla dote. Il rapporto mostra che il 70% delle violenze sulle donne ha luogo nelle 53 città più grandi. Le città a forte componente di immigrati sono quelle più colpite, come nel caso di New Delhi. Nelle zone rurali la situazione è più occultata ma altrettanto drammatica. "Non una di meno", gridano le donne argentine. "Se toccano una, toccano tutte", manifestano le uruguayane. L’anno scorso, le cifre fornite dalla Cepal sul femminicidio mostrano che nel continente la violenza di genere è sempre un problema bruciante. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, in Argentina muore una donna ogni 30 ore a causa della violenza dei maschi. Dal 2012, sono state aumentate le pene per il femminicidio. Le donne chiedono, però, che la tematica sia inclusa nei contenuti educativi a tutti i livelli Ma con il ritorno della destra, la prospettiva si allontana. In Uruguay, per il 25 novembre il governo dovrebbe presentare un progetto per caratterizzare come delitto il femminicidio. Una legge simile è già stata approvata a marzo in Brasile. "Sradicare il maschilismo è compito di tutti", manifestano le giovani comuniste cilene per spingere il parlamento a discutere la legge sulla depenalizzazione dell’aborto. Dal 2007, la normativa venezuelana protegge le donne da 19 tipologie di violenza tra cui la violenza economica e patrimoniale esercitata dal coniuge o dal convivente. A novembre del 2014, la legge sul Diritto delle donne a una vita libera da violenza è stata ulteriormente riformata e ora vengono delineati 2 tipologie di violenza in più, "femminicidio" e "induzione al suicidio". Giustizia: elezioni per la Consulta, sul nome di Barbera salta l’intesa tra Pd e M5s di Ugo Magri La Stampa, 25 novembre 2015 Sul nome del costituzionalista si irrigidiscono i grillini. Il Pd si vendica: oggi può votare tre nomi con Forza Italia e centristi. Ieri l’altro Pd, Fi e M5S sembravano sul punto di eleggere insieme almeno due dei tre giudici costituzionali rimasti in sospeso per completare l’organico della Consulta. La scena cambia ogni 24 ore. L’altra sera eravamo all’"embrassons-nous" tra Pd e Cinque Stelle, che sembravano sul punto di eleggere insieme almeno due dei tre giudici costituzionali rimasti in sospeso. Stamattina invece lo scambio di tenerezze è tra Pd e Forza Italia, vecchi amanti che si erano lasciati male, però alle 8 in punto tornano a incontrarsi per reciproca convenienza: insieme con i centristi, proveranno ad accaparrarsi tutte e tre le poltrone, lasciando fuori i grillini. Non è detto che ci riescano. Ma proprio qui sta l’aspetto più interessante (e imbarazzante) dell’intera vicenda. Alle ore 13, quando si riunirà il Parlamento in seduta comune, una larghissima maggioranza dovrebbe teoricamente convergere su Augusto Barbera, su Francesco Paolo Sisto e su Giovanni Pitruzzella candidati rispettivamente del Pd, di Forza Italia e dei centristi a vario titolo. Gli unici contrari, sempre sulla carta, dovrebbero essere i grillini che, sul totale di 950 parlamentari, non arrivano a metterne insieme neppure 130. Per cui la sorpresa sarebbe notevole, e lo shock politico ancora di più, se questa "Invincibile Armada" dovesse fallire quota 570, pari al quorum dei 3 quinti richiesto per eleggere i tre giudici costituzionali. Vorrebbe dire che Renzi e Berlusconi, Alfano e la Meloni, Bersani e Salvini non sono riusciti a fare senza Grillo neppure mettendosi tutti quanti insieme. La rottura coi Cinque Stelle si è consumata sul nome di Augusto Barbera. Candidandolo, il Pd aveva creduto di fare buona figura perché di tratta (lo spiega bene il capogruppo alla Camera Rosato) di un costituzionalista eminente, di una persona molto stimata che prima di accettare aveva avuto lo scrupolo di far presente come anni fa i giornali avessero parlato di lui per delle indagini su presunte raccomandazioni in concorso accademico, ma di cui non si era mai più saputo nulla: nessun indagato e zero rinvii a giudizio. Fosse stata una cosa davvero seria, qualcosa sarebbe successo. Per i grillini, tuttavia, siamo già ben oltre il consentito. Le reazioni dei parlamentari M5S hanno preso una piega negativa, senza nemmeno attendere il parere degli iscritti che si sarebbe dovuto esprimere ieri tramite un referendum online, però nel frattempo sul blog di Grillo era già stata lanciata un’altra consultazione (su chi candidare a Roma) cosicché alla fine per evitare pasticci non se n’è fatto nulla. Comunque il no grillino a Barbera è rimasto, forte e chiaro. Il Pd ha reagito bocciando l’incolpevole Franco Modugno, anch’egli autorevole costituzionalista, candidato lunedì sera dal M5S. La vendetta può apparire cinica, ma così va la politica. Si sono fatti avanti i berlusconiani, proponendo al Pd un’intesa che verrà sancita stamattina, della serie "voi vi prendete Barbera e noi Sisto". Astuti, quelli di Scelta civica hanno pure loro avanzato una candidatura (Pitruzzella) che nelle intenzioni dovrebbe occupare la terza poltrona libera, levandola per l’appunto ai grillini che sono la seconda forza nei sondaggi eppure rimangono costantemente fuori dalle intese istituzionali. Che sia una buona cosa, è lecito dubitare. Giustizia: Consulta, il fuoco amico del M5S di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 novembre 2015 Si rischia un nuovo buco nell’acqua, sarebbe il 27esimo, nell’elezione dei tre giudici costituzionali. I grillini si sfilano su Barbera, sacrificando così il loro candidato Modugno che non a tutti piaceva. Una riunione dei parlamentari del Pd questa mattina alle 9.30 cercherà una soluzione al puzzle dell’elezione dei tre giudici costituzionali; sembrava una partita finalmente risolta - un giudice manca all’appello da 17 mesi - e invece si è complicata in dirittura d’arrivo. A causa della retromarcia del Movimento 5 stelle che non è più disponibile a votare per il candidato proposto dal Pd, Augusto Barbera, anzi neanche a discuterlo in assemblea o sottoporlo al verdetto del blog. Senato e camera in seduta comune sono convocati questo pomeriggio, si rischia il 27esimo buco nell’acqua. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto per mesi agli altri partiti di fare i loro nomi per poterli valutare, avendo da tempo selezionato una quaterna (diventata poi una terna per una rinuncia) di suoi possibili candidati alla Consulta. Nei mesi precedenti Pd e Forza Italia hanno portato i loro nomi direttamente in aula, e anche per questo i grillini li hanno bocciati. Hanno detto no a Violante soprattutto perché considerato un politico e forse anche privo dei requisiti, hanno detto no a Vitali candidato forzista perché imputato in più di un processo. Hanno aspettato a scegliere all’interno della loro rosa fino a che il Pd non fosse stato pronto con la sua proposta, cosa che è avvenuta lunedì scorso. Il Pd ha lanciato Barbera. E poco dopo, la sera, i 5 Stelle hanno scelto, non in rete ma in un’assemblea dei parlamentari per niente gremita. Dal loro mazzo è uscito il candidato più gradito al Pd, il costituzionalista Franco Modugno. Ma quella scelta non è piaciuta a tutti i 5 stelle presenti, e soprattutto assenti alla riunione. Convinti che la forza "contrattuale" del movimento andasse giocata meglio, puntando su un candidato più in sintonia con le posizioni espresse dai grillini sulle riforme e sulla legge elettorale. Felice Besostri, innanzitutto, che è il protagonista dei ricorsi in tribunale contro l’Italicum. O Silvia Niccolai, che a differenza di Modugno ha avanzato argomentate critiche alla riforma costituzionale di Renzi e Boschi. Barbera è apertamente schierato in favore delle riforme renziane, ma non ha macchie giudiziarie. È stata pubblicata una sua intercettazione, disposta dalla Guardia di Finanza di Bari, in cui si interessava di un concorso universitario a Roma - per l’università fondata dalla Congregazione dei legionari di Cristo - ma non risulta indagato per questo nell’inchiesta "do ut des" sui concorsi a cattedra. La decisione dei 5 stelle di impallinarlo arrivata ieri, anche a seguito della lettura dei giornali, è assai debolmente fondata su un criterio "legalitario". Viceversa, se il no a Barbera sarà confermato, si tratterà più verosimilmente di fuoco amico contro la candidatura Modugno. Che a questo punto, sia pure a malincuore perché il professore è apprezzato per la sua prudenza quanto per la sua competenza, il Pd non potrebbe più votare il candidato di un partito che si rifiuta di sostenere quelli degli altri. E i giochi dovrebbero riaprirsi, con buona pace del presidente Mattarella che da mesi chiede che la Consulta sia messa in grado di funzionare regolarmente (mancando tre giudici, l’assenza di un quarto porta frequentemente la Corte sulla soglia del numero legale). E di Renzi che non vuole continuare a dare dimostrazione di inconcludenza. Se la somma dei parlamentari Pd e grillini non è sufficiente a raccogliere il quorum dei tre quinti previsto (571 voti), un accordo di tutta la maggioranza e di Forza Italia dovrebbe garantire il successo. Ma il Pd non può tanto facilmente escludere la seconda forza in parlamento, almeno non senza poter accusare il M5S di auto escludersi. A destra poi non c’è alcuna garanzia che il candidato forzista Francesco Paolo Sisto sia davvero sostenuto. È un ex seguace di Fitto rimasto con Berlusconi, scontenta sia i "moderati" che i "conservatori". Tanto che molti parlamentari di quel fronte hanno visto bene la candidatura last minute del presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, giurista sempre stato molto vicino a Renato Schifani. Giustizia: processo Mafia Capitale, braccio di ferro tra accusa e difesa sulle intercettazioni di Valeria Di Corrado Il Tempo, 25 novembre 2015 Gli avvocati degli imputati: "Non ci hanno dato tutti i file". Braccio di ferro in aula tra pm e difensori per l’utilizzo delle intercettazioni. Ieri, alla quarta udienza del processo "Mafia Capitale", sono state sviscerate dagli avvocati dei 46 imputati le ultime questioni preliminari, tutte rigettate dal Tribunale. Alcuni legali avevano eccepito la violazione del diritto alla difesa, perché non gli è stata data copia di tutti i files delle conversazioni telefoniche e ambientali registrate in due anni di indagini. I penalisti hanno la possibilità di ascoltare tutte le intercettazioni da una saletta audio allestita per la prima volta a piazzale Clodio, appositamente per questo processo. Se ritengono che ci siano delle conversazioni utili da portare in dibattimento devono, di volta in volta, fare una richiesta al giudice. Tutto questo ha un costo e richiede tempo. "Solo Buzzi è stato intercettato una media di 8 ore al giorno da ottobre 2012 a novembre 2014 - ha spiegato Alessandro Diddi, legale del ras delle coop di ex detenuti - Per ascoltare tutto dovrei passare 8 ore al giorno in Procura per due anni". Per questo il penalista ha fatto notare che dovrebbe essere consentito anche agli imputati di ascoltare le registrazioni. "La Procura teme la diffusione incontrollata delle conversazioni a carattere personale, tra difensori e assistiti, e di quelle che coinvolgono soggetti estranei al processo - ha precisato il pm Giuseppe Cascini - Da dicembre sono a disposizione tutti i files audio utilizzati per la prima misura cautelare e da giugno quelli della seconda misura". Parliamo di 200 cd: ciascuno costa agli avvocati circa 300 euro. "Il rilascio di altri files viene autorizzato dal giudice solo per ciò che ha rilevanza e pertinenza con questo giudizio - ha concluso Cascini - Per il resto deve essere tutelato il diritto alla riservatezza". Per quanto riguarda le altre eccezioni, l’avvocato Cataldo Intrieri ha sostenuto che "questo non è un processo da immediato, anche se viene fatto passare come un processo paligenetico della società. La Procura ha fatto una valutazione politica sulla corruzione, legandola al 416bis: è stato come buttare una bomba atomica per distruggere la malaria. E tra le tante vittime c’è anche il mio assistito Guarany. Dopo una vita grigia da incensurato, lo potete ammirare nel suo mafioso splendore nella gabbia 3". Secondo i pm Paolo Ielo e Luca Tescaroli i decreti di giudizio immediato non presentano vizi di nullità e incostituzionalità: "I capi di imputazione non sono generici né indeterminati". E il collegio ha dato loro ragione. L’udienza si è chiusa con una polemica sulla tempistica tra i difensori e il presidente Rosanna Ianniello, che ha deciso di non rinviare a stamattina la lettura dell’ordinanza sulle questioni preliminari. "Se non ci agevola in queste piccole cose, ci impedisce di fare il nostro lavoro di studio", ha fatto notare il vicepresidente della Camera Penale di Roma, Cesare Placanica. Giustizia: l’On. Bruno Bossio (Pd) "nuova legge per evitare tragedie come quella di Cocò" Ansa, 25 novembre 2015 Una proposta di legge che preveda l’obbligo di avviso ai Tribunali per i minori in caso di arresto, fermo, custodia cautelare o esecuzione di pena per condanna definitiva disposti nei confronti di soggetti che abbiano figli di età inferiore ai diciotto anni, per evitare altre tragedie come quella del piccolo Cocò, il bimbo di 3 anni ucciso e bruciato in Calabria insieme al nonno e alla sua compagna. È quanto ha annunciato oggi, nel corso del convegno "Indottrinamento mafioso e responsabilità genitoriale" al senato, la deputata Enza Bruno Bossio (Pd). "Questa proposta di legge - ha detto nel suo intervento Enza Bruno Bossio - è il frutto delle audizioni svoltesi durante la visita della Commissione antimafia in Calabria lo scorso 26 e 27 ottobre. In quella occasione, riflettendo sulla tragedia del piccolo Cocò, assassinato a Cassano Ionio insieme al nonno in un agguato di mafia, è stato denunciato un grave vuoto normativo. Allo stato attuale, infatti, qualora uno dei due genitori di figli minori d’età sia detenuto, nessun obbligo di informazione è previsto all’autorità giudiziaria minorile e ciò impedisce alla stessa di poter intervenire tempestivamente a tutela di minori i quali si trovano a correre un duplice rischio: o essere allontanati dal contesto familiare in via d’urgenza dagli operatori dei servizi senza il vaglio della magistratura, oppure essere lasciati senza alcun intervento utile in contesti potenzialmente pregiudizievoli per la loro incolumità psico-fisica. Nello stesso tempo nessun obbligo è fissato ai servizi sociali dei comuni che sono chiamati a gestire i minori che si trovino in queste condizioni". "Quanto è accaduto al piccolo Cocò - ha concluso Bruno Bossio - affidato al nonno affiliato ad una organizzazione criminale e che lo ha esposto al rischio che ne ha causato la morte, costituisce un caso emblematico. Quella morte probabilmente si sarebbe potuta evitare se il Tribunale dei minori fosse stato messo in condizione di intervenire". Giustizia: evase dal carcere di Palermo Pagliarelli, è stato ucciso durante rapina a Milano rainews.it, 25 novembre 2015 Si chiamava Valentin Frrokaj il rapinatore ucciso ieri sera a colpi di pistola dal padrone di casa di una villa a due piani nel milanese ed era ricercato dal 7 maggio 2014 quando fuggì dal carcere "Pagliarelli" di Palermo. È caccia per mezzo Nord Italia ai due complici del rapinatore ucciso ieri sera all’interno di una villetta della frazione Lucino di Rodano, in provincia di Milano, da un commerciante di gioielli, durante una sparatoria. I carabinieri del Comando provinciale di Milano, che indagano sul caso, hanno esteso la ricerca in tutte le possibili direzioni di fuga, coordinati dal pm di Milano Grazia Colacicco, anche se al momento non è detto che i due siano già lontani. Non lontano dalla villetta è stata anche trovata una Golf che risulterebbe rubata ma al momento non si hanno conferme che possa essere collegata alla "batteria" di rapinatori. Intanto è stato identificato il rapinatore ucciso: è il 37enne pluripregiudicato albanese Valentin Frrokaj. Frrokaj era ricercato dopo essere evaso il 7 maggio 2014 dal carcere "Pagliarelli" di Palermo dove stava scontando una condanna all’ergastolo per l’omicidio di un connazionale commesso il 23 luglio 2007 a Brescia. Il 37enne era già evaso il 2 febbraio 2013 dal carcere di Parma (insieme con un altro detenuto albanese) ma era stato catturato il 14 agosto dell’anno successivo dai carabinieri di Cassano d’Adda. Nel nome di Valeria Solesin, restiamo umani di Giulio Marcon Il Manifesto, 25 novembre 2015 Funerali di Valeria Solesin, unica vittima italiana dell’attentato terroristico a Parigi. I funerali della ragazza veneziana Valeria Solesin ci ricordano ancora una volta l’importanza della grave perdita di un’italiana giusta, impegnata, dedita al proprio dovere e alla solidarietà, aperta agli altri e al futuro, studiosa e preparata. E, dopo la strage di Parigi dello scorso 13 novembre, ci evidenziano - con la sua famiglia, così civile e pacata seppur immersa in un dolore immenso - il valore di una comunità consapevole dei contorni di una tragedia cui non si deve rispondere con rancore e vendetta, ma - oltre che con la fermezza, con la solidarietà e la compassione, con l’umanità e la condivisione. Un altro italiano, Vittorio Arrigoni - attivista contro l’occupazione militare israeliana dei Territori palestinesi - anche lui vittima nel 2011 del terrorismo a Gaza, terminava molti suoi discorsi ed interventi con l’adagio: restiamo umani. Di fronte alle tragedie di questo pianeta, alle violenze e alle ingiustizie, alle guerre e al terrorismo, bisogna restare umani senza mai farsi trasformare dall’odio e dalla violenza, dal risentimento e dalla vendetta bestiale. Valeria era una volontaria di Emergency e quella umanità e compassione le aveva messe in pratica nella sua opera di volontariato. Il suo volto, con il suo sorriso aperto ed il suo temperamento erano la migliore espressione di una umanità solidale, dell’apertura al mondo e ai suoi popoli. E le parole e i gesti civili e sereni della sua famiglia - alla notizia della morte, in un momento così tragico di fronte ad una perdita incolmabile - nella organizzazione del suo ultimo ricordo e dei suoi funerali, ci consegnano l’idea di una Italia di cui avremmo bisogno di fronte allo smarrimento che ognuno di noi prova di fronte al terrorismo e alla guerra. "Noi crediamo nei valori che non dividono le persone", ha detto il papà di Valeria. Un’Italia giusta capace di fronteggiare il terrorismo non con la parola delle armi, ma con le armi della parola, con le espressioni civili della solidarietà, con la testimonianza di pace, con la ferma irriducibilità ad ogni espressione di vendetta, con l’impegno a continuare in ciò che è giusto. Come faceva Valeria Solesin, tutti i giorni. Emilia Romagna: ancora sovraffollamento nelle carceri di Ravenna, Bologna e Parma ravennanotizie.it, 25 novembre 2015 È quanto emerge dalla relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna illustrata ieri dall’assessore regionale al Welfare Elisabetta Gualmini alle commissioni Politiche per la salute e politiche sociali, presieduta da Paolo Zoffoli, e Parità e diritti delle persone, presieduta da Roberta Mori. "Il numero dei detenuti - ha detto Gualmini - negli ultimi cinque anni è assolutamente diminuito, permangono ancora dei picchi come Parma, Ravenna o Bologna dove alla fine dello scorso anno si ravvisavano ancora dei segni di sovraffollamento. L’alzarsi della percentuale dei condannati definitivi è segno di un miglioramento dell’iter processuale". Sono 2.884 i detenuti presenti negli 11 istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, a fronte di una capienza regolamentare di 2.795 posti: 1.776 risultano con almeno una condanna definitiva (61,58%) e poco meno del 44% presenta una pena residua sotto i 5 anni. I reati più frequenti sono contro il patrimonio (1.652, di cui 600 commessi da stranieri), contro la persona (1.371, di cui 569 stranieri) e quelli in violazione della legge sulla droga (951, di cui 525 stranieri). I detenuti in carcere per associazione di stampo mafioso sono 264. L’indice di sovraffollamento è pari a 103 detenuti ogni 100 posti (a livello nazionale è 108). Gli istituti con i tassi più elevati sono Parma (122), Ravenna e Bologna (137). Nel 2014 è stata disposta una misura di espiazione della pena alternativa alla detenzione in 1.685 casi. Abruzzo: Garante detenuti; tuti vogliono Bernardini ma non c’è la maggioranza (ancora) primadanoi.it, 25 novembre 2015 Niente da fare. L’accordo almeno a parole sul nome c’è da qualche settimana ma acnhe ieri il Consiglio regionale non è riuscito a trovare la maggioranza per eleggere il primo garante dei detenuti abruzzese. "Non c’è due senza tre... e quattro vien da sé. Dopo due tentativi andati vani, è arrivato anche il secondo rinvio con la maggioranza di centrosinistra che naufraga clamorosamente ancora una volta sull’elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale", dice Mauro Febbo (Fi), "sta diventando una vera e propria barzelletta: quarta volta che il punto è inserito all’ordine del giorno e viene presentato in Aula, due volte il candidato del centrosinistra non ha raggiunto neanche la cifra della maggioranza (18 voti) e oggi è stato chiesto un secondo rinvio per un totale di 4 sedute spese inutilmente". "L’aspetto paradossale che registriamo - prosegue la nota di Febbo- è rappresentato dal fatto che la maggioranza di centrosinistra ha faticato anche a ottenere il semplice rinvio per il quale erano necessari 16 voti ottenendolo al fotofinish. Una situazione grottesca che pone però degli interrogativi inquietanti: se non sono in grado di eleggere il garante, faticando anche a rinviare la votazione, come può questa maggioranza essere in grado di dare risposte credibili su tematiche serie come il lavoro, lo sviluppo o la tenuta sociale? È giusto che gli abruzzesi sappiano chi e come governa questa regione". Sardegna: detenuti psichiatrici sardi in esilio, inattuata la regionalizzazione della pena L’Unione Sarda, 25 novembre 2015 Nell’Isola i posti nelle Rems - residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza sanitarie - sono finiti, così i sardi ancora detenuti negli ospedali psichiatrici italiani non possono tornare in Sardegna, come prevede la legge. Peccato che il "tutto esaurito" nelle strutture create per superare gli ospedali psichiatrici giudiziari sia legato alla presenza di "ospiti" non sardi. È il caso - ad esempio - di Luigi Chiatti, il mostro di Foligno arrivato a settembre in una Rems di Capoterra. Insieme a lui vivono altre due persone originarie della Penisola. Il risultato è che il gruppo di detenuti-malati psichiatrici sardi ospitato da tempo nell’Opg di Montelupo Fiorentino non può ancora tornare in Sardegna e riavvicinarsi a famiglie e affetti. "La riforma impone che ogni regione, attraverso le Asl, si prenda cura di queste persone", spiega Anna Maria Busia, consigliere regionale e avvocato di fiducia di uno dei sardi internati in Toscana, un trentasettenne di Oristano che ora vorrebbe tornare in Sardegna. Qualche giorno fa ha presentato un reclamo all’ufficio di sorveglianza di Firenze. Il magistrato ha risposto con un’ordinanza che intima alla Regione Toscana di rimediare alla mancanza di Rems nel proprio territorio, in modo da "porre rimedio al pregiudizio" del giovane sardo entro tre mesi. Cagliari: Caligaris (Sdr); dopo un anno ancora inadeguati collegamenti col carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2015 "250 firme di detenuti e familiari per rappresentare i disagi determinati dalla carenza del servizio di collegamento tra il capoluogo di regione e la Casa Circondariale, ubicata nell’area industriale di Cagliari, a circa 23 chilometri dalla città, sono state raccolte dalla responsabile Rita Pisano e dai volontari dell’associazione Acat - La Speranza onlus. L’iniziativa segue le diverse denunce dell’inadeguatezza del servizio garantito dal Ctm e l’assenza di una pensilina". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "il problema non ancora risolto, a un anno esatto dal trasferimento del personale e dei cittadini privati della libertà da Buoncammino a Uta, si è aggravato negli ultimi mesi inducendo anche gli Agenti della Polizia Penitenziaria a una raccolta di firme per richiedere l’adeguamento ai reali bisogni dei lavoratori". "Appare singolare che sia necessario rappresentare con delle firme il disagio di una comunità che per lavoro o per fare visita ai parenti è costretta a percorrere con propri mezzi le strade della zona industriale. Un’area peraltro svantaggiata per l’assenza di infrastrutture idonee alla sosta di persone - sottolinea Caligaris - spesso con bimbi in tenera età al seguito. Risulta poi paradossale che non si sia ancora fatta una verifica della adeguatezza degli orari degli autobus ai bisogni dei lavoratori e dei familiari dei detenuti nonché dei cittadini privati della libertà che usufruiscono dei permessi di lavoro all’esterno dell’Istituto. Tutte persone disponibili a fare qualche sacrificio ma non a rinunciare al trasporto pubblico. È evidente che in assenza di un servizio efficiente le persone sono necessitate a utilizzare altri mezzi per raggiungere la Casa Circondariale sobbarcandosi spesso costi aggiuntivi pesanti per famiglie già in difficoltà. Né si può più accettare che la domenica e in tutti i giorni festivi non ci sia alcun mezzo in circolazione. È appena il caso di ricordare che le strutture penitenziarie sono aperte tutti i giorni dell’anno comprese le festività". "È diventato pertanto improcrastinabile un autorevole intervento dell’assessorato regionale dei Trasporti che, attraverso un tavolo tecnico con i rappresentanti degli utenti, studi la migliore soluzione per garantire un servizio coerente con le diverse esigenze utilizzando eventualmente anche i mezzi dell’ARST che effettuano i collegamenti con i centri dell’hinterland. È infine indispensabile - conclude la presidente di SDR - realizzare una pensilina coperta per consentire a chi aspetta l’autobus di stare seduto e al riparo dalla pioggia". Salerno: chiusura del carcere di Sala Consilina. Carfagna a Orlando "riveda la decisione" salernotoday.it, 25 novembre 2015 La deputata salernitana di Forza Italia ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia affinché elimini dal decreto sui tagli la casa circondariale del Vallo di Diano. La portavoce del Gruppo Forza Italia alla Camera Mara Carfagna, ha presentato al ministro della Giustizia Andrea Orlando un’ interrogazione a risposta scritta sul decreto che prevede la soppressione della casa circondariale di Sala Consilina chiedendo di rivederne la decisione. Secondo il provvedimento adottato, infatti, la struttura sarebbe antieconomica ma la parlamentare azzurra, sentiti anche i protagonisti della vita istituzionale, sociale e politica del territorio, tra questi Valentino Di Brizzi vice segretario provinciale di Forza Italia, anch’egli impegnato in questa battaglia, ha evidenziato al ministro che: "Differentemente da quanto viene ritenuto nel provvedimento rispetto all’antieconomicità del complesso, in termini di costi benefici, nonché della sua modesta ricettività e la grave inadeguatezza, quest’ultima ha ospitato detenuti in celle di grandi dimensioni composte ognuna da un bagno, con relativa porta divisoria. Inoltre nella medesima struttura si sono svolte attività sociali, culturali e ricreative che hanno visto la partecipazione di molti detenuti ed il Comune, inoltre, si è detto pronto a sostenere i costi della ristrutturazione". Per questo da deputata salernitana ritiene "indispensabile una revisione del decreto che, se confermato, andrebbe ad infliggere una ulteriore ed ingiusta penalizzazione in termini di risorse umane ed economiche ad una città, Sala Consilina, che è tra le più produttive del territorio salernitano. Ma che purtroppo - conclude Carfagna - viene continuamente svuotata dei suoi servizi essenziali: prima dal Governo Monti che ha deciso di chiuderne il Tribunale, ora dal Governo Renzi che con il decreto di soppressione del carcere decide, così, di accanirsi contro una comunità intera privandola del suo diritto di crescere e svilupparsi". Vasto (Ch): nella Casa di Lavoro… non si lavora, una Risoluzione in Consiglio regionale histonium.net, 25 novembre 2015 L’esponente del Movimento 5 Stelle Pietro Smargiassi torna ad occuparsi del penitenziario di Torre Sinello. Una Risoluzione in Consiglio regionale con la quale si auspica lo sblocco della "paradossale situazione che le persone che si trovano in quella struttura stanno vivendo". Si parla della Casa di Lavoro di Torre Sinello di Vasto, da qualche tempo diviso in una parte come luogo di reclusione temporaneo per chi sottoposto al regime della detenzione e, per la massima, in luogo destinato ad ospitare internati da poter recuperare a livello sociale ed umano con l’organizzazione di attività lavorative. Ad intervenire in merito è il consigliere regionale vastese del Movimento 5 Stelle Pietro Smargiassi. "Le parole del rappresentante dell’associazione Antigone, audito in V Commissione - dice, hanno confermato lo stato di tensione tra agenti di Polizia Penitenziaria ed i detenuti che conoscono sia la pena ma soprattutto le norme ed i diritti che regolano il funzionamento della Casa Lavoro. Se questa situazione di impasse è dovuta a ritardi o cavilli burocratici - sottolinea -, allora la Regione deve farsi portatrice della voce e delle esigenze dei più disagiati, interloquendo con il Ministero competente, affinché il ‘lavorò nell’istituto di Torre Sinello rappresenti un’opportunità concreta di recupero sociale e non rimanga soltanto una parola svuotata, nei fatti, dei suoi più alti contenuti". Padova: indagini in corso sull’omicidio di Antonio Floris, la polizia batte "la pista sarda" padovaoggi.it, 25 novembre 2015 Non ha ancora un volto né un movente l’assassinio del detenuto del Due Palazzi di Padova, ucciso da una serie di colpi al cranio e poi occultato sotto una pila di legna. Sentite dalla Mobile 14 persone nella trasferta in Barbagia. È ancora avvolto nel mistero l’omicidio di Antonio Floris, il detenuto 61enne trovato cadavere, il 9 novembre scorso a Padova, nascosto da una pila di legna, in via Righi, all’interno del centro Oasi (Opera assistenza scarcerati italiani) dei padri Mercedari, dove da anni lavorava la terra con altri carcerati ammessi al programma di reinserimento nella società. La squadra Mobile di Padova sta portando avanti l’indagine ma la risoluzione del caso sembra ancora lontana. Il dirigente Giorgio Di Munno è volato in Barbagia, la terra che ha dato i natali a Floris sin al suo arresto. Sono state ascoltate 14 persone che potrebbero tornare utili all’attività investigativa. La pista più accreditata è dunque quella sarda anche se si continua a scavare sia nell’ambiente carcerario sia nel centro Oasi. Al oggi non ci sono elementi rilevanti che possano portare ad individuare un’omicida o un movente ma alcuni interrogativi su cui gli inquirenti stanno lavorando. Uno di questi potrebbe essere: perché da 16 anni Floris non faceva ritorno nella sua terra? Temeva una resa dei conti? In un primo momento si era pensato che la mano omicida potesse essere quella di un siciliano la cui camera, all’interno dell’Oasi, si trovava quasi di fronte a quella usata da Floris per cambiarsi e riporre le proprie. Inoltre, in passato, lo stesso siciliano sarebbe stato accusato di avere derubato il detenuto ucciso. Antonio Floris è stato ucciso con una serie di colpi al cranio, forse con una spranga o con un bastone. L’arma con la quale è stato ucciso Floris non è ancora stata ritrovata. Floris si trovava al Due Palazzi per scontare una pena di sedici anni per due tentati omicidi. Venerdì 6 novembre non era rientrato in carcere dopo il pomeriggio trascorso al centro Oasi. Negli anni 90 era uno degli "emergenti" della criminalità sarda, Floris era originario di Desulo. L’uomo era già scappato dal carcere, nel gennaio del 1991, dalla colonia penale all’aperto di Mamone, dove stava scontando alcune condanne, tra le quali una per rapina in banca. Una latitanza che ebbe fine cinque anni dopo. Il 10 gennaio 1996 era stato trovato dalla Criminalpol, che lo intercettava da tempo. In quell’occasione, gli agenti fecero una scoperta sorprendente: i diari scritti in codice cifrato che l’uomo teneva nei tascapane, e nei quali aveva registrato le sue attività criminali. Il materiale fu studiato, analizzato e tradotto. Gli agenti affermarono che Floris scriveva basandosi su un antico dialetto nordafricano modificato con "accezioni" personali. La decriptazione aveva consentito agli investigatori di denunciare 20 persone per favoreggiamento. Alghero: il Coro Polifonico Algherese ha tenuto un concerto nella Casa di reclusione notizie.alguer.it, 25 novembre 2015 Sabato, i componenti del Coro Polifonico Algherese hanno tenuto un concerto in favore dei detenuti della locale Casa di reclusione G. Tomasiello. Il concerto è stato fortemente voluto, oltre che dal presidente del Coro Marina Carmela Scala, anche dal direttore del penitenziario Elisa Milanesi, dal comandante della Polizia penitenziaria Antonello Brancati e dagli operatori dell’area educativa. Due mondi, due realtà che hanno collaborato con il comune intento di donare un momento di svago ai detenuti, a ridosso delle festività natalizie, che hanno accolto con entusiasmo l’iniziativa applaudendo a ripetizione il Coro. Con la direzione artistica del maestro Ugo Spanu, spaziando con le loro performance nei vari campi musicali, hanno trascinato la platea presente in un’atmosfera di spensieratezza. I detenuti hanno apprezzato la corale nelle varie forme musicali. "La manifestazione di oggi è stata senza dubbio uno dei momenti più emozionanti e toccanti della nostra carriera - ha dichiarato un componente del Coro Polifonico Algherese - La risposta dei ragazzi alla nostra corale, il calore che ci hanno dato, i sorrisi e la voglia di vita che ci hanno trasmesso sono indescrivibili. Abbiamo voluto portare un po’ di spensieratezza e felicità a chi sta vivendo una fase difficile della loro vita e abbiamo voluto ricordare a tutti, ed "in primis" a noi stessi, che nei penitenziari ci sono persone, esseri umani con un cuore e delle emozioni. Gli errori sono ostacoli, ma tutti devono avere il diritto di potervi rimediare. Abbiamo voluto essere a fianco dei detenuti, perché troppo spesso privati della dignità di esseri umani, costretti a non avere una possibilità di riscatto, ma solo a covare rabbia contro la società". Parole che portano a riflettere. Roma: "Il Figliol ProdigIo", detenuti-pittori in mostra al Museo delle Mura volontariatoggi.info, 25 novembre 2015 Gli artisti dell’avanguardia romana sono entrati in carcere e hanno scelto la parabola del figliol prodigo per farsi accettare dall’istituzione, e farsi capire dai detenuti. Convinti che pittori e prigionieri abbiano in comune una forte difficoltà a farsi accettare "così come sono", alcuni dei più attenti artisti romani hanno accolto la sfida di tentare di fare qualcosa di "non inutile" all’interno di un luogo dove apparentemente tutto è assolutamente inutile, ossia un carcere italiano. E visto che da troppo tempo la politica non si occupa più del "sociale", senza rassegnazione e con un pizzico di altera provocazione i neo artisti rebibbiani si uniscono ai pellegrini di questo anno giubilare che sta per iniziare. Potevano fare diversamente? Davvero si può parlare di emarginazione solo da un punto di vista cattolico? "Il Figliol ProdigIo" è una variazione sul tema della Misericordia, ossia quella virtù che Papa Francesco ha messo a basamento di questo anno giubilare. Quale spunto migliore della parabola in cui un figlio lascia la famiglia, e poi è costretto a tornarvi perché è stato respinto dal mondo. Quale riflessione più attuale della necessità che ha ogni essere umano di ripensare continuamente il proprio vissuto. Quale linguaggio più adatto, meno doloroso, di quello mediato dall’arte? Undici detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso con gli artisti Paolo Bielli, Alessandro Costa, Giuseppe Graziosi, Marina Haas, Vincenzo Mazzarella, Laura Palmieri, Elena Pinzuti, le associazioni Pronto Intervento Disagio e Nessuno Tocchi Caino, hanno dato vita al laboratorio di pittura dove sono state realizzate le opere che saranno esposte presso l’antico, suggestivo complesso del Museo delle Mura. Grazie alla sovraintendenza dei Beni Culturali e del Comune di Roma, la Mostra "Il Figliol ProdigIo" sarà inaugurata Sabato 21 novembre 2016 alle ore 11 e resterà esposta fino al 13 dicembre 2015, a Porta San Sebastiano 18 Roma. Dalle opere è nato anche un calendario 2016 con testi e foto del laboratorio il cui ricavato sarà utilizzato per altri laboratori interni al carcere. Radio Carcere: il suicidio nel carcere di Bari e la realtà del carcere Rebibbia di Roma radioradicale.it Puntata del 19 novembre 2015: la realtà del carcere Rebibbia di Roma, dove cinque persone detenute dividono una piccola cella. A seguire le lettere scritte dalle persone detenute. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/459359/radio-carcere-la-realta-del-carcere-rebibbia-di-roma-dove-cinque-persone-detenute "Dustur", lo spazio della parola per raccontare il mondo di Cristina Piccino Il Manifesto, 25 novembre 2015 Torino Film Festival 33. "Dustur", la Costituzione di Marco Santarelli nel concorso del Tff Documentari italiani. La scommessa di interrogare legge e religione nel confronto della Storia Nel frullatutto che è il Torino Film Festival numero 33 - duecento titoli sbandierati con orgoglio bulimico sulla riga delle primissime edizioni del Festival di Roma che l’originale ha abbandonato (per fortuna) da tempo, i film finiscono per perdersi nei rivoli delle sezioni (e sotto). La bulimia infatti, e lo sappiamo, è una malattia seria. E Torino non è Berlino, che pare il modello di riferimento, pure se recitava secoli fa un film (di Vincenzo Badolisani) "I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno e a Berlino". Oggi quei ragazzi saranno invecchiati, e i tempi anche festivalieri sono altri. Senza dimenticare che nella bulimia la Berlinale, specie in alcune sezioni autofagocitatesi ha perduto di smalto, sfrontatezza, capacità di veicolare progetto. Perché è questa oggi la scommessa di un festival della taglia torinese - peraltro la Berlinale è categoria "big" come Cannes e Venezia, con la differenza che a Berlino, metropoli attiva, il pubblico è "vero" e non di soli accreditati. Anche a Torino, sicuramente, ma la città è piccola, il mercato italiano è quello che è, vale davvero la pena inzeppare invece di valorizzare meraviglie, e ce ne sono in questo cartellone, un titolo per tutti il magnifico Weerasthekaul di Cemetery of Splendor (Onde)? Il festival di Locarno che è quello più vicino come formato (molto più internazionale però) non so se ha meno film (ma credo di sì) esclusa la retrospettiva sempre ottima, e lo stesso non si può dire di questa torinese, un altro grande peccato visto che il festival sotto la Mole era rinomato per le sue riscoperte critiche e sistematizzazioni di autori attraverso magnifiche retrospettive e volumi a esse annessi). Ma soprattutto il festival di Locarno ha un progetto forte, che va anche al di là della qualità dei singoli film, e che li valorizza col suo pubblico. Scommessa di cui sopra vinta su tutti i fronti. Eccoci dunque al nostro titolo, Dustur di Marco Santarelli, nome "abituale" nelle selezioni torinesi, nel concorso Documentari italiani - chissà perché non in quello principale. Cosa racconta questo nuovo film del cineasta, attento sempre a stare sulle cose della realtà senza sfruttarle "economicamente"? La cui sfida è restituirne i molti sensi, attraverso detour e postazioni (di sguardo) oblique. E tanto più qui dove si parla di confronto tra diverse culture e esperienze della legge, del rapporto tra questa, la religione, la politica, l’idea e il ruolo dello stato. L’occasione è un corso sulla Costituzione italiana organizzato per i detenuti del carcere di Dozza, a Bologna, da Ignazio, un monaco che ha vissuto a lungo in Medio oriente, a cui si affianca Yassine, giovane musulmano rappresentante delle comunità islamiche della città. "Colpa" nel linguaggio giuridico ha un significato diverso che "dolo", ma tra il diritto e la religione il senso di colpa cambia spiega Dino, amico di Ignazio, laureato in legge, al giovane Samad, marocchino, ventisei anni, arrestato per traffico di droga, quattro anni scontati a Dozza, in attesa del foglio di fine pena che non arriva mai. Ora lavora, studia legge, si impunta e affronta la vita con le sue sfide. Ai ragazzi spiega che la sua idea di libertà sono quegli 800 euro di ore di fatica, un buco dove vivere ma di cui ha la chiave in mano. I detenuti, sono quasi tutti musulmani, a ogni appuntamento c’è un nuovo ospite: può dio convivere con il diritto, è la questione che lancia qualcuno. Le posizioni sono molto diverse, Yassine spiega il reale significato di sharia e la necessità di una preghiera che non sai strumentalizzata dalla politica dell’odio. L’ultimo ospite è Samad, i punti chiave della sua proposta di costituzione sono studio, lavoro, reddito massimo e minimo, libertà. Lo spazio della parola è quello che Santini privilegia per indagare quelle convinzioni, confuse e talvolta anche conflittuali, che orientano il legame tra religione e vita sociale. Ed è la parola che permette un confronto in profondità, lontano dai clamori della cronaca, dalle certezze, dalle ideologie precotte interrogando concetti millenari e attuali. L’articolo 21 nato dal fascismo dopo la resistenza, e le primavere arabe che nascono da un sentimento diffuso di cambiamento. "In Tunisia vogliamo l’Islam della tolleranza" dice il mediatore culturale Yassine. La sua parola è quella più composta e più difficile. Gli Stati e l’ordine mondiale di Sabino Cassese Corriere della Sera, 25 novembre 2015 Il presidente francese ha risposto agli attacchi del terrorismo globale con una triplice strategia. Ha mandato i bombardieri a colpire le centrali terroristiche: questa è la classica risposta dello Stato che vede minacciata la propria sovranità e l’ordine interno. Si è poi rivolto all’Unione Europea, invocando l’applicazione dell’articolo 42, comma 7 del trattato sull’Unione Europea, e quindi chiedendo l’aiuto e l’assistenza dell’Europa: questa è una dichiarazione di debolezza dello Stato, che richiede la solidarietà di altri Stati della regione. Infine, ha promosso l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha autorizzato "tutte le misure necessarie", anche se non ha richiamato il capitolo 7 della Carta dell’Onu: questo passo è diretto a ottenere la "copertura" della comunità internazionale alla sua risposta esterna all’aggressione interna. In questa triplice mossa si rivelano tutte le caratteristiche, le forze e le debolezze della globalizzazione. Innanzitutto, risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi. Poi, si evidenzia la duplice natura della globalizzazione: se gli Stati non possono far a meno dell’intervento di organismi sovra-statali, questi ultimi da soli non bastano, perché debbono necessariamente valersi di forze statali, nelle cui mani rimangono eserciti e polizie. Gli Stati fanno parte di "condominî" sempre più ampi, senza dei quali non possono svolgere alcune attività, ma "condòmini" rimangono gli Stati. Questi ultimi debbono sottomettersi alle regole "condominiali", anche se i titoli di proprietà rimangono nelle loro mani. Ora, però, comincia la parte più difficile. Nessuno dei membri della comunità internazionale è disposto da solo ad affrontare la sfida, che è sia militare, sia di polizia, sul terreno. Ognuna delle potenze che detengono la forza delle armi ha bisogno della collaborazione delle altre potenze. E questo pone un problema tradizionale, di intesa tra Stati, quell’intesa che il presidente francese va cercando in questi giorni. Ma c’è un problema più vasto, che riguarda tutta la comunità internazionale, tutto lo spazio globale: vi sono nel mondo territori non governati, Stati falliti (Libia, Yemen, in parte Siria e Iraq), che sono altrettanti focolai di disordine e origine di forze terroristiche. Le organizzazioni internazionali sono interessate a restaurare poteri statali in queste aree, che altrimenti diventano fattori di destabilizzazione di dimensioni mondiali e impongono costi altissimi alle popolazioni dei Paesi sviluppati. Gli Stati Uniti, il Paese che ha finora svolto (in parte) il ruolo di poliziotto mondiale, collaborando a questo compito, sembra aver sposato la tesi esposta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: questo compito di ordine deve essere affrontato a livello "regionale", nelle grandi aree del mondo (l’Europa, l’America del Sud, quella del Nord, il Sud-Est asiatico), dagli organismi sovranazionali della regione, ad esempio, l’Unione Europea. Si riaffaccia qui un problema che si pone fin dalla Seconda guerra mondiale: come forze estranee, con la legittimazione della comunità internazionale, possano, con il potere delle armi, nello stesso tempo, creare Stati, dare ad essi legittimazione, assicurarvi il rispetto di essenziali regole democratiche e del diritto. E tutto questo imponendosi a comunità locali dilaniate da divisioni tribali, etniche, di clan, e quindi tradendo il tradizionale principio secondo cui sono i popoli che si danno organizzazioni statali, scegliendone i principi e le regole costituzionali. Europa vs. Islam, una guerra di religione di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 25 novembre 2015 Sun Tzu, stratega cinese, vissuto tra il VI o V secolo avanti Cristo, sosteneva che la guerra è l’ultima risorsa di uno statista e la battaglia l’ultima risorsa di un comandante. Queste parole tornano alla mente quando si pensa al crescendo di appelli alle armi che risuonano a Parigi, a Bruxelles come a Londra. Quello che si vuole da tante parti non è neanche più uno scontro di civiltà alla Huntington. È una guerra di religione, contro l’Isis o Daesh, ma anche contro l’Islam, contro gli immigrati, contro tutti i fantasmi o gli incubi che assillano un’Europa impaurita e paranoica. Certo, gli accenti sono diversi. Si va dai fanatici dei diritti umani, nostalgici della guerra lampo del Kosovo, a quelli che vedono nell’Islam una volontà millenaria di rivalsa contro l’occidente cristiano, agli opinionisti "ragionevoli" che esigono dai musulmani che "escano allo scoperto" e "si pronuncino contro il terrorismo", ai simpatizzanti di Netanyahu, che mettono nello stesso sacco Isis e resistenza palestinese, ecc.. Ma l’idea di fondo è che si faccia una bella coalizione di tutti contro l’Isis, che lo si polverizzi, magari insieme ai civili di Raqqa tra cui si nasconde, e poi… E poi? Sembra che venticinque anni ininterrotti di guerre dell’Occidente nei paesi arabi e/o musulmani non abbiano insegnato nulla. Che cioè i bombardamenti non fanno un gran male ai militanti e agli armati, ma prostrano le popolazioni e creano le condizioni per future insurrezioni, fanatismi e reti terroristiche. Così è stato in Iraq nel 1991, in Afghanistan, di nuovo in Iraq, in Libia e oggi in Siria. Se si considerano i risultati politici, e non la mera contabilità militare di morti nostri e morti loro (per non parlare delle vittime civili che pagano sempre il prezzo più alto), tutte le guerre occidentali sono finite con sconfitte, con immani spargimenti di sangue dopo i quali Usa, Inghilterra, Francia e così via sono più deboli di prima. Se oggi l’Isis è contenuto in Siria è grazie ai curdi, come in Iraq grazie alle milizie sciite e iraniane. Ma se anche qualche stato occidentale volesse mettere i boots on the ground, e cioè mandare le forze di terra, non cambierebbe nulla. L’esercito americano, il più potente al mondo, si è dovuto ritirare, di fatto, sia dall’Afghanistan, sia dall’Iraq Quanto alla Francia, la sua vittoria in Mali non è servita a granché, se la guerriglia può attaccare di sorpresa Bamako. Il punto decisivo della questione è che se gli altri, i cattivi, i terroristi, sono disposti preventivamente a morire, a farsi uccidere per qualsiasi motivo e cioè a non sopravvivere, quando uccidono noi, ebbene, in un certo senso hanno già vinto. Questo Obama l’ha perfettamente compreso, diversamente dai fanatici neo-con che hanno contribuito a creare tutto questo invadendo l’Iraq nel 2003. Ma se persino Tony Blair, oggi, sente il bisogno di chiedere scusa per quella guerra, così stupida per lui e così letale per centinaia di migliaia di iracheni! Il dolore e l’emozione per quello che è successo a Parigi non giustificano l’orgia militarista, in Francia come da noi, con cui si vorrebbe rispondere al terrorismo. Invece di ragionare, di riflettere sul groviglio di ragioni che hanno portato a tutto questo, e cioè sul fatto che giovani europei si trasformano in alleati dell’Isis in nome della religione, si preferisce evocare il nemico assoluto, tirar fuori argomenti da prima crociata, eccitare un’opinione pubblica già scossa per conto suo. Probabilmente, il terrorismo ci accompagnerà per molto tempo. Bastano poche centinaia di aspiranti martiri in Europa, cresciuti nelle banlieue più derelitte, frustrati dalla marginalità e magari fanatizzati da predicatori retrogradi a compiere azioni come quelle di Parigi. Al di là del lavoro di intelligence, che nel caso francese presenta ampie zone di opacità, il terrorismo si può contrastare con un lavoro di educazione civile e politica di lungo periodo e rimuovendo le cause della frustrazione e dell’odio. Un lavoro lungo che non darà, ammesso che lo si voglia cominciare, risultati nel breve periodo. E si potrà contrastare, soprattutto, rinunciando alle tentazioni neo-colonialiste che si manifestano nella difesa dei diritti umani a suon di bombe. Forze dell’ordine e proibizionismo di Giorgio Bignami Il Manifesto, 25 novembre 2015 Ai danni collaterali più gravi delle normative proibizioniste e repressive per le droghe vanno aggiunte le situazioni di sempre maggior disagio di coloro che "per dovere d’ufficio" sono tenuti ad applicare tali normative. Nel caso dei magistrati di vari paesi, compresa l’Italia, sono frequenti le aspre e documentate critiche, le insistenti proposte di un cambio di rotta. Più difficile appare la posizione degli appartenenti alle forze dell’ordine: cioè a corpi per lo più militarizzati (di diritto o di fatto), nei quali non di rado si impartisce una formazione mirata a creare atteggiamenti hard on crime: atteggiamenti che ripetutamente sfociano in trattamenti duri, anche letali, nei riguardi di rei veri o presunti. Per contrastare tale tendenza è stata fondata anni fa, d’iniziativa di agenti di polizia australiani, la rete internazionale Law Enforcement and Hiv Network (Leahn - l’Hiv nel titolo sta per sottolineare l’importanza delle azioni mirate alla prevenzione della diffusione dell’Hiv): all’insegna del motto "La polizia può essere il migliore amico o il peggior nemico della riduzione del danno". A tale rete afferiscono organizzazioni di oltre 30 paesi, tuttavia per non pochi di questi non si trova nel sito alcuna informazione: come se in qualche momento fosse stata data una disponibilità ma senza alcun seguito sul piano operativo. E a questo gruppo di paesi con forze dell’ordine "in sonno", ahinoi, appartiene l’Italia. Rinviando al sito, per motivi di spazio, per le molteplici attività svolte da Leahn, pare opportuno segnalare una recente presa di posizione di un ex agente-detective della polizia del Michigan, Howard Wooldrige, che è stato attivo anche come "lobbista" nel Congresso Usa: sino a tampinare uno per uno tutti i parlamentari chiedendo loro "ditemi un solo vantaggio del proibizionismo" - domanda che non ha avuto una sola risposta. Wooldrige racconta la sua passata esperienza di lavoro e di rapporti con molti colleghi, in particolare con agenti delle squadre narcotici. Descrive efficacemente il passaggio dagli entusiasmi dei neofiti per un lavoro che appariva così importante allo stato di scoraggiamento e di frustrazione, man mano che cresceva la consapevolezza dell’inutilità e dei gravi danni collaterali del lavoro che erano costretti a svolgere. Per esempio, fermare e perquisire l’uno dopo l’altro innumerevoli soggetti e le loro auto, montare ripetutamente degli show mediatici con esibizione di armi e droghe sequestrate; per poi constatare che per ogni pusher arrestato (o magari sparato), per ogni poco di droga sequestrata, spuntavano come funghi nuovi pusher e nuove forniture di sostanze. E questo, con due conseguenze pesantemente negative: l’escalation del livello di aggressività in una parte degli agenti, causa dei sempre più frequenti casi di uccisione più o meno a freddo di soggetti spesso giovanissimi; lo sviluppo della consapevolezza che tale strategia, impegnando sino allo stremo buona parte degli agenti in servizio, di fatto impedisce lo svolgimento di compiti più importanti, dall’individuazione e fermo dei guidatori ubriachi alla caccia agli autori di gravi reati contro le persone e la proprietà. Sono cose che sappiamo: ma sentirle raccontare da una "voce di dentro" che ha vissuto sulla sua pelle tali situazioni, che ha constatato le sofferenze e i danni che un tale indirizzo provoca, comporta un salto di visibilità e di udibilità che dovrebbe smuovere l’inerzia di tanti politici e responsabili di corpi separati. Ma come commenta Wooldridge a proposito del suoi rapporti coi parlamentari statunitensi, la risposta è un silenzio assordante. (Documentazione su heraldscotland?.com e su fuoriluogo?.it) Medio Oriente, se ogni Paese sceglie di fare la propria guerra di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2015 È ora di gettare la maschera. Se nel Levante ognuno fa la sua guerra Al Baghdadi potrebbe persino dire la sua nella spartizione dell’Iraq e della Siria, un’ipotesi improponibile adombrata dalla Bbc ma non così remota se ciascuno vuole portarsi a casa un pezzo di Medio Oriente. Non sarebbe la prima volta: gli inglesi con Lawrence fomentarono una celebre rivolta araba per poi spartirsi la regione con i francesi. Ma questa volta né gli arabi anti-Isis né gli iraniani sono disposti a fare la fanteria dell’Occidente. Tutto per un semplice e tragico motivo. Nel 2011, anno delle primavere arabe, la rivolta in Siria si è trasformata quasi subito in una guerra per procura che partiva da un calcolo sbagliato delle potenze sunnite e dell’Occidente: che Bashar Assad sarebbe stato sbalzato dal potere in pochi mesi con una spinta esterna. Seguito da un altro non meno grave: che potesse restare in sella con un sostegno limitato dei suoi alleati, Russia e Iran, ora impegnati a combattere una battaglia a tutto campo. Hanno investito in Assad e non lo vogliono mollare. Sarà interessante vedere cosa si diranno domani Hollande a Putin: la Francia era d’accordo per buttarlo a mare, oltre Latakia. Da questi errori di calcolo ne è derivato un altro: che le milizie islamiche sarebbero ricadute sotto il controllo di chi le sponsorizzava, Turchia e monarchie del Golfo. Ma i jihadisti sono confluiti nell’Isis, la cui intuizione strategica è stata quella di unire il campo di battaglia iracheno a quello siriano. Non bastava ancora: si è pensato che il Califfato potesse essere manovrato nella guerra tra sunniti e sciiti per disegnare nuovi confini ed equilibri. E ora che i jihadisti hanno portato il terrorismo in Europa, Turchia compresa, i leader protagonisti di questo disastro geopolitico e umanitario, con implicazioni travolgenti per la nostra sicurezza, reagiscono in maniera sconcertante per difendere dei calcoli sbagliati. La Francia è alla ricerca di alleati per una coalizione che non si trova. In realtà esisterebbe già: è quella guidata dagli Stati Uniti. Ma non ha combinato granché. Al punto che quando Putin è sceso in campo sembrava fosse il dio della guerra: eppure le esangui truppe del regime, ormai guidate da Pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, non fanno passi avanti. Tanto però è bastato a fare perdere la testa a Erdogan, punto sul vivo da Putin nel cortile di casa, e ai suoi alleati del Golfo, che comunque qualche cosa da rimproverare agli Stati Uniti e agli europei ce l’hanno. Si sentono traditi. La Siria, a maggioranza sunnita, doveva essere l’ambito premio per avere perso l’Iraq nel 2003 con l’intervento americano contro Saddam. Allora la Turchia rifiutò il passaggio delle truppe Usa, applaudita dalla stessa Russia. Prima l’accordo sul nucleare con l’Iran, poi l’alleanza tra Mosca e Teheran e ora l’ipotesi che la Francia e gli europei concordino con Putin e gli ayatollah la strategia anti-Califfato: è troppo da sopportare per un fronte sunnita passato da una sconfitta all’altra. E che non ha mai perdonato agli Stati Uniti di avere consegnato l’Iraq all’influenza dell’Iran. Gli americani sono così coscienti dell’errore di Bush junior che nel giugno dell’anno scorso hanno guardato senza fare una piega il Califfato conquistare Mosul, città di due milioni di abitanti, e arrivare a una trentina di chilometri da Baghdad. Come dire ai sunniti: accomodatevi pure e vendicatevi. Si chiama politica Usa del "doppio contenimento" e ha già portato a diversi disastri: negli annì80 alla guerra Iran-Iraq (un milione di morti) e a uno degli equivoci storici più sconcertanti, quando nell’estate del 1990 l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glaspie, incontrando Saddam diede un implicito via libera all’occupazione del Kuwait. "Non potevamo sapere che gli iracheni si prendessero "tutto" il Kuwait", fu la sua giustificazione. Sostituite Kuwait con Siria e avete l’equazione con il Califfato. Per evitare nuovi equivoci l’Europa dovrebbe far sentire la sua flebile voce per combattere l’Isis a una Turchia che, tenuta fuori dalla Ue, ama i ricatti, a una Russia sempre più vorace, a un mondo sunnita cui è legata da affari miliardari, a un’America che ci chiede di pagare i conti della Nato. Ma forse è sperare troppo che si getti la maschera: vorremmo che fossero gli altri a combattere per i nostri valori e interessi. Jet russo abbattutto, tensione alle stelle tra Putin ed Erdogan di Alberto Negri e Morya Longo Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2015 Tensione altissima tra Turchia e Russia al confine con la Siria. Tutto è cominciato ieri mattina, quando un aereo militare russo impegnato nei bombardamenti in Siria è stato abbattuto dagli F-16 turchi dopo che - secondo Ankara - aveva sconfinato nello spazio aereo turco. Entrambi i piloti del jet sarebbero morti. Nella serata di ieri inoltre il ministero della Difesa russo ha annunciato che un suo elicottero Mi-8 impegnato nella ricerca dei due piloti è stato distrutto in territorio siriano dopo essere stato colpito dal fuoco dei ribelli: uno dei piloti a bordo è morto. Il governo russo ha subito convocato l’incaricato militare turco per colloqui. Il governo turco ha invece convocato gli ambasciatori di Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina per chiarimenti in merito alla vicenda. "Un atto ostile": così il ministero della Difesa russa ha definito l’abbattimento del jet. Immediate le contromisure:?l’incrociatore russo Moskva sta avanzando verso la costa di Latakia, dove si trova la base aerea russa. "Saranno adottate misure per rinforzare la difesa contraerea: a tale scopo l’incrociatore Moskva, dotato del sistema contraereo Fort, analogo agli S-300, occuperà una postazione nella zona costiera di Latakia. Avvisiamo che tutti i bersagli che rappresentano per noi un pericolo potenziale saranno distrutti", ha ammonito Serghiei Rudski, capo dipartimento operativo dello Stato maggiore russo. Putin furioso: "Pugnalata alla schiena dei complici del terrorismo". L’aereo militare russo abbattuto vicino al confine con la Siria "ha violato lo spazio aereo turco per 17 secondi": lo si afferma nella lettera immediatamente inviata da Ankara al Consiglio di Sicurezza Onu e al segretario generale Ban Ki-moon. Mosca dal canto suo nega lo sconfinamento. Il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov ha affermato che "il velivolo Sukhoi Su-24 stava sorvolando i cieli siriani e il territorio siriano prima di essere abbattuto dall’aviazione turca, lo sappiamo con certezza". Il presidente russo, Vladimir Putin, ha usato parole molto dure, parlando senza mezzi termini di una "pugnalata alle spalle da parte dei complici del terrorismo" ed evidenziando che l’abbattimento è un "evento che va oltre i limiti dell’ordinaria lotta contro il terrorismo" e che ci saranno "gravi conseguenze nei rapporti tra Russia e Turchia". Il leader russo ha poi chiesto polemicamente:?"La Turchia vuole mettere la Nato al servizio dell’Isis?". Il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov, ha subito cancellato la sua visita in Turchia, che era prevista per mercoledì. Mosca sconsiglia viaggi in Turchia. "La minaccia del terrorismo (in Turchia, ndr) non è inferiore a quella esistente in Egitto", ha spiegato Serghiei Lavrov. Perciò il ministero degli esteri russo sconsiglia ai propri cittadini di visitare la Turchia per motivi turistici o altri scopi. Anche il vicepresidente della Duma, Nikolai Levicev, del partito Russia Giust, dichiara che è "consigliabile sospendere i voli" in Turchia "ed evacuare i russi presenti lì", dato che che "adesso è evidente il legame di Ankara con l’Isis". L’abbattimento del jet militare russo è "un atto di aggressione paragonabile all’attacco all’altro aereo russo nei cieli sopra il Sinai". Il numero due della Duma ha inoltre suggerito di ritirare l’ambasciatore russo in Turchia per consultazioni. Mosca-Ankara: le ragioni della crisi di Marta Ottaviani La Stampa, 25 novembre 2015 La Turchia di Recep Tayyip Erdogan è così decisa a voler risolvere la crisi siriana, che rischia di compromettere i rapporti con uno dei suoi alleati più forti e strategici, ossia la Russia. Un rapporto che va a fasi alterne e dove Ankara ha molto da perdere. Equilibri energetici. Mosca rappresenta il primo Paese fornitore di gas per la Mezzaluna, costretta a importare oltre il 90% del fabbisogno. Ogni anno la Russia fornisce dal 28 ai 30 miliardi di metri cubi di gas. Proprio la Russia dovrebbe costruire la centrale nucleare di Akkuyu, vitale per la diversificazione delle fonti energetiche e ridurre la dipendenza della Mezzaluna. Sempre con Mosca, sono in corso accordi per fare passare sotto le acque territoriali turche il Turkish Stream, la grande condotta che dovrebbe sostituire il South Stream, la cui costruzione è stata cancellata. Gli effetti sul turismo. Non solo. In Turchia vivono due milioni di russi e proprio le coste del Paese sono, o meglio erano, una delle mete preferite dei turisti che arrivavano dalle fredde terre oltre il Mar Nero. Utilizzare il passato, al momento, è pressoché d’obbligo perché già a causa della crisi economica le presenze sono diminuite e il complicarsi dei rapporti diplomatici certo non rende le prospettive più rosee. Gli avvertimenti di Ankara. L’abbattimento del jet di oggi è stato preceduto da giorni di polemiche, nemmeno tanto nascoste, fra Ankara e Mosca, con la prima profondamente indispettita dal fatto che l’alleato abbia assunto una linea così dura rispetto alla questione siriana. Del resto, il presidente russo Vladimir Putin, era da tempo che faceva capire al premier (prima) e al presidente (oggi) Recep Tayyip Erdogan che dal capitolo siriano doveva rimanere il più lontano possibile. Adesso, per complicare le cose, oltre alla diversità di vedute sugli assetti del Paese e sulla sorte del dittatore Bashar al-Assad, la Turchia ha messo sul piatto anche la tutela delle comunità turkmene che vivono oltre il confine siriano e che sarebbero minacciate dai bombardamenti di Mosca. Il caso delle minoranze. Lo scorso 19 novembre, l’Ambasciatore russo ad Ankara, Andri Karlov, è stato convocato al ministero degli Esteri proprio per parlare di questa questione. I villaggi dove vivono i turkmeni si trovano molto vicino alla frontiera e quindi la Mezzaluna ha fatto capire che dove non arriva la tutela per le minoranze, si attiva una vera e propria questione di sicurezza nazionale. Non solo. La Mezzaluna avrebbe fatto presente che nelle aree colpite non si trovano obiettivi sensibili di Isis e che quindi a rimetterci sarebbero solo i civili. Dialogo serrato. Stando a quanto scrivono i quotidiani turchi in questi giorni, quello passato non è stato affatto un fine settimane tranquillo. Il ministro degli Esteri uscente, Feridun Sinirlioglu, ha detto di essere in stretto contatto non solo con le autorità russe, ma anche con quelle americane. Intanto tutti gli occhi sono rivolti in prima battuta al probabile incontro di domani fra il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov e il capo della diplomazia turca. Ma il pensiero di molti va anche alla conferenza del prossimo 10 dicembre, durante la quale dovrebbero essere siglati protocolli per nuove cooperazioni bilaterali in campo economico ed energetico e che rischiano di essere compromessi dalla questione siriana, ormai una vera e propria ossessione per il Presidente Erdogan, tanto da fare passare in secondo piano persino le relazioni con Mosca. Attacco in Siria su quattro fronti (ma divisi) di Maurizio Molinari La Stampa, 25 novembre 2015 Un’eterogenea coalizione sta prendendo forma per l’offensiva terrestre, dopo un anno e mezzo di raid poco incisivi. Truppe e mezzi vengono ammassati. Solo che le potenze rivali hanno fini diversi: riusciranno a mettersi d’accordo? Stati Uniti. Forze speciali per blitz più efficaci. "A giorni arriveranno in Siria le truppe speciali americane". È l’inviato Usa per la coalizione anti-Isis, Brett McGurk, ad anticipare quanto sta per avvenire: i soldati Usa affiancheranno i reparti curdo-arabi nell’offensiva per prendere Raqqa. Si tratta di un contingente ridotto ma affiancato da droni, satelliti, jet ed intelligence elettronica. È un intervento che evoca, in dimensioni più ridotte, quello a sostegno dell’Alleanza del Nord che strappò Kabul ai Taleban a fine ottobre 2001. Ciò che più conta è che con i propri militari sul terreno, i raid Usa sono destinati ad essere più efficaci nell’identificazione degli obiettivi. Il Pentagono si è convinto della necessità di strappare Raqqa al Califfo al-Baghdadi e sta posizionando tutte le pedine sul terreno: più raid degli alleati - Gran Bretagna inclusa - più unità di terra curdo-arabe sostenute da elementi tribali e propri contingenti in prima linea. John Allen, l’ex ufficiale dei Marines predecessore di McGurk, non esclude che anche altri Paesi occidentali possano inviare truppe speciali, per compiere "operazioni congiunte". Russia. Con la fanteria per riprendere subito Aleppo. I raid del Cremlino si concentrano nelle aree della Siria del Nord-Ovest con l’intento di consentire ai reparti siriani di Assad di riprendere il completo controllo di Aleppo. Riuscendoci, verrebbero tagliate le linee di rifornimento per i ribelli islamici che partono dalla Turchia del Sud. I comandi russi sono convinti che dal territorio della Turchia arrivano i maggiori aiuti per tutti i gruppi islamici, inclusi i missili antitank Tow. Nella provincia di Latakia ed Iblib i russi bersagliano pesantemente i ribelli islamici non Isis e ora, secondo fonti del Kuwait, fanno avanzare propri contingenti di terra con tank T-90. Puntano a travolgere le roccaforti dei ribelli a Sud di Aleppo adoperando anche missili lanciati dalle navi nel Mar Caspio e dai bombardieri strategici. Nelle province di Homs e Hama i raid russi colpiscono invece le linee di comunicazione dell’Isis. È grazie ai raid che i soldati siriani hanno riconquistato le città di Mahin e Hawwarin, a Sud di Homs, finora in mano allo Stato Islamico. Infine, Damasco: qui i russi colpiscono nella periferia i quartieri in mano ai ribelli ma finora hanno ottenuto risultati limitati. Ribelli Curdi-Arabi. Puntare a Raqqa per tagliare i collegamenti con il nord Iraq. La coalizione delle "Forze democratiche siriane" è stata creata a metà ottobre con la partecipazione di unità curde ed arabe. Non include gruppi islamici ed è sostenuta dalla coalizione occidentale con armi ed istruttori. Opera nel Nord-Est del Paese ed ha come obiettivo Raqqa, la capitale del Califfato. Negli ultimi quattordici giorni ha strappato allo Stato Islamico 1100 kmq di territorio. Le aree liberate dai jihadisti sono a Est di Raqqa e coincidono con le linee di comunicazione terrestre verso Mosul, in Iraq. Si tratta dell’operazione gemella rispetto a quella riuscita ai peshmerga curdi iracheni a Sinjar. Tagliare i collegamenti fra Raqqa e Mosul significa dividere in due il Califfato, obbligandolo a disperdere le forze. Il primo passo verso due offensive separate: contro Raqqa da parte dei curdo-arabi e contro Mosul da parte delle forze governative irachene. L’offensiva di terra su Raqqa è sostenuta dai raid della coalizione. Quando Parigi e Washington parlano di "intensificazione dei raid" le unità curdo-arabe comprendono che la battaglia per Raqqa sta per iniziare. Per vincerla contano sulla cooperazione delle tribù locali. Iran. Duemila soldati già al fronte a sostegno di Bashar Al Assad. Teheran ha portato a duemila uomini il proprio contingente in Siria. Si tratta di truppe scelte, arrivate con un ponte aereo a Damasco e impiegate su due teatri diversi. Il grosso è a Sud di Aleppo, per affiancare le offensive di terra siriane, ed è qui che nell’ultimo mese hanno subito - secondo fonti ribelli - almeno 55 perdite. Ciò significa che hanno compiti di sfondamento, in prima linea, in maniera analoga agli Hezbollah libanesi presenti in Siria con almeno 5.000 uomini. L’altra parte del contingente iraniano è dispiegata attorno a Damasco, nelle zone della periferia dove sono attestati i ribelli. Qui, a fianco degli iraniani, ci sono almeno 15 mila miliziani sciiti: volontari soprattutto iracheni e afghani a cui è affidato il pattugliamento delle zone urbane di confine. Fonti dell’opposizione a Damasco affermano che molti di questi volontari sciiti hanno una doppia missione: non solo combattere i ribelli ma anche insediarsi in città, in appartamenti messi a disposizione del regime, creando delle famiglie. Con l’intento di modificare la demografia cittadina: trasformando Damasco in una sorta di cantone sciita. Bahrein: la denuncia di Human Rights Watch "è il regno della tortura in carcere" di Sonia Grieco nena-news.it, 25 novembre 2015 Abusi e violazioni dei diritti umani sono pratica comune nelle carceri del regno, stretto alleato dell’Occidente, nonostante Manama sostenga il contrario. A denunciarlo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch. Il ricorso alla tortura nelle carceri e nelle caserme del Bahrein è sistematico. Lo ribadisce un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) che è tornata a chiedere alle autorità del piccolo regno del Golfo di porre fine a queste pratiche e di portare davanti alla giustizia gli aguzzini. Nel febbraio del 2011 anche il Bahrein è stato toccato dal vento delle cosiddette primavere arabe. Migliaia di bahreniti si radunarono in Piazza della Perla, a Manama, per chiedere maggiori aperture democratiche al re Hamad. Tra i manifestanti c’erano tanti sciiti, la maggioranza della popolazione dell’arcipelago governato da una dinastia sunnita, che invocavano una maggiore partecipazione politica e lamentavano discriminazioni. Ma le loro istanze furono duramente represse da Manama con l’aiuto (marzo 2011) delle forze militari e di polizia del Consiglio di Cooperazione del Golfo, dominato dall’Arabia Saudita. Una repressione architettata con Riad, che non fece scalpore, ma che ha inaugurato anni di persecuzione delle opposizioni. Centinaia di attivisti, esponenti di movimenti politici, religiosi, manifestanti sono finiti nelle prigioni del regno e tanti altri sono i "desaparecidos" di cui si sono completamente perse le tracce. E tra i detenuti ci sono tanti minorenni. HRW e altre Ong hanno acceso spesso i riflettori sulle violazioni nelle carceri e nelle caserme del Paese, ma il Bahrein è uno stretto alleato dell’Occidente, anzi, è un suo avamposto militare, in chiave anti-iraniana. Ospita la V flotta degli Stati Uniti e di recente ha dato il via ai lavori di costruzione della prima base militare permanente del Regno Unito nell’area del Golfo Persico, dopo più di 40 anni dalla cessione dell’ultima base britannica agli Stati Uniti. Tranne qualche richiamo al rispetto dei diritti umani, il Bahrein non è mai stato al centro di forti critiche per le violazioni compiute contro i suoi cittadini o per le leggi liberticide approvate con il solito pretesto della sicurezza. Lo scorso settembre una dichiarazione congiunta esposta alla Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite ha evidenziato le mancanze del governo di Manama nella tutela dei diritti umani, ma per il regno non sono state ipotizzate azioni di pressione per fargli cambiar rotta. Al contrario, in occasione dell’annuncio dell’inizio dei lavori della base militare britannica, il parlamentare conservatore del Regno Unito, Alan Duncan, ha elogiato Manama per il suo impegno a favore della stabilità regionale e dello sviluppo interno. Ma le testimonianze raccolte da Hrw parlano di abusi sistematici, nei confronti dei detenuti, alcuni finiti in carcere senza neanche il processo. I tribunali del regno comminano sentenze durissime contro chi è accusato di voler rovesciare lo status quo manifestando il proprio dissenso. Persino l’ergastolo e la revoca della cittadinanza, in alcuni casi. Molte confessioni sono estorte con la tortura: privazione del sonno, costrizione fisica, elettroshock, abusi sessuali e questo nonostante le diverse commissioni incaricate dalla casa reale di monitorare la situazione. All’indomani della "primavera" bahreinita, re Hamad ha istituito la Commissione indipendente d’inchiesta (Bici) che in effetti ha denunciato un "uso eccessivo della forza" da parte della polizia nei confronti dei detenuti. Ma questo accadeva già nel 2011. In seguito Manama ha istituito altre commissioni per porre fine alla pratica della tortura in carcere, ma ad oggi, dice Hrw, le cose non sono affatto cambiate. "Il Bahrein non può rivendicare di aver fatto alcun progresso sulla tortura mentre le sue istituzioni anti-tortura mancano di indipendenza e trasparenza", ha detto Joe Stoke, vice direttore di Hrw per il Medio oriente e il Nord Africa. "Tutte le prove sostengono la tesi che queste nuove istituzioni non hanno affatto contrastato quella che la commissione Bici ha descritto come una ‘cultura dell’impunità tra le forze di sicurezza". Al contrario, conclude Stoke, "le affermazioni del Bahrein e dei suoi alleati che le autorità hanno messo fine alla pratica della tortura in carcere sono semplicemente non credibili". Pakistan: Amnesty; esecuzione condannato disabile, 299 le esecuzioni da revoca moratoria Aki, 25 novembre 2015 È prevista per oggi in Pakistan l’esecuzione di un detenuto disabile, il 43enne pakistano Abdul Basit, paralizzato dalla vita in giù e condannato nel 2009 alla pena di morte per impiccagione aver ucciso un uomo. Lo rende noto Amnesty International, che accusa Islamabad di stare per entrare "vergognosamente tra i peggiori giustizieri al mondo". L’esecuzione di Basit è già stata rinviata molte volte. L’uomo si trova nel carcere centrale di Faisalabad, nella provincia orientale del Punjab. La Commissione del Pakistan per i diritti umani ha scritto al primo ministro Nawaz Sharif per chiedere che l’esecuzione venga evitata. Amnesty ha documentato 299 esecuzioni in Pakistan da quando è stata revocato la moratoria sulla pena di morte dopo la strage condotta dai Talebani in una scuola di Peshawar nel dicembre dello scorso anno. Quarantacinque persone sono state giustiziare solo a ottobre, ha reso noto Amnesty.