Giustizia: no a un regime di "semi-libertà" in nome della sicurezza di Massimo Villone Il Manifesto, 24 novembre 2015 Dopo Parigi, le strade deserte di Bruxelles ci pongono con drammatica evidenza la domanda se la libertà sia un giusto prezzo per la sicurezza. La Francia ha affrontato la questione con la legge 2015-1501 del 20 novembre, che ha approvato la proroga dello stato di emergenza dichiarato dal governo il 14 novembre, con modifiche e integrazioni ("renforçant l’efficacité") della legge 55-385 del 1955 che disciplina lo stato di emergenza. Per tre mesi si applicano pesanti limitazioni ai diritti e alle libertà, con provvedimenti adottati dalle autorità amministrative e senza intervento del giudice. Fa impressione che in forza di generici richiami all’ordine pubblico e alla sicurezza ministro dell’interno e prefetti possano disporre domicili coatti, arresti domiciliari, accompagnamenti, divieti di contatto con persone individuate, ritiro del passaporto, divieti di circolazione, di assemblea, di riunione, scioglimenti di associazioni (misura che sopravvive alla cessazione dell’emergenza). Si può dubitare che un arsenale così imponente sia conforme alla Costituzione. Ma era già presente nella originaria legge del 1955, e nel 1985 fu portato al vaglio del Conseil constitutionnel dai parlamentari dell’opposizione, con la legge di proroga dello stato di emergenza dichiarato per la Nuova Caledonia. Si eccepiva la mancanza di un fondamento costituzionale, richiamando la Costituzione solo lo stato d’assedio. Con la decisione 85-187 DC del 25.01.1985 il Conseil diede disco verde con ampia formula. Oggi si aggiunge la possibilità di perquisizioni a qualunque ora del giorno o della notte in ogni luogo, incluso il domicilio, quando esistono "ragioni serie di pensare che il luogo sia frequentato da persona il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico" (art. 11, come modificato). Per vedersi invasi, potrebbe bastare un amico di famiglia in contatto epistolare o sui social con persona sospetta. Rimangono esclusi solo i luoghi "affecté à l’exercice" di un mandato parlamentare, o dell’attività professionale di avvocati, magistrati e giornalisti. La perquisizione consente la copia integrale delle memorie di cellulari, computer e apparecchi connessi, anche in remoto. È una previsione da grande fratello. Ma è improbabile che ne venga rovesciato il giudizio di conformità dato dal Conseil nel 1985, se vi si giungerà. In apparente controtendenza è la soppressione dei controlli sulla stampa e l’informazione previsti nella legge 55-385. Ma si cancella uno strumento perché non serve. La voce dei terroristi passa oggi non per i tradizionali mezzi di comunicazione ma per i più sofisticati strumenti tecnologici e del mondo virtuale. E la Francia del dopo Charlie Hebdo ha già adottato sull’informazione la legge 912 del 24 luglio 2015, fortemente restrittiva. Si va dai dispositivi di ascolto, alla vigilanza e chiusura di siti Internet, alla installazione presso i gestori di "scatole nere" che filtrano ogni comunicazione. Anche qui, senza intervento del giudice. Una legge volta non solo a combattere il terrorismo, ma a tutelare un ampio spettro di interessi strategici (v. art. 2). Solo per pochi limitati profili il Conseil constitutionnel ne ha dichiarato l’incostituzionalità (dec. 2015-713 Dc del 23.07.2015). Mentre sono risuonate dure accuse di spionaggio di massa sul modello "Patriot Act" e NSA, e di radicale incostituzionalità. Deve far riflettere che invece la legge sull’emergenza passi oggi nel sostanziale silenzio di critiche e dissensi e con ampio favore dell’opinione pubblica. Su tutto vince la domanda di sicurezza. Un vento analogo soffia in Italia. Nei sondaggi cresce il numero di chi accetterebbe uno scambio tra diritti e sicurezza. È una tendenza comprensibile, ma pericolosa. Tutti affermano di voler mantenere il nostro modello di vita. Ma la garanzia di diritti e libertà è la rete invisibile che rende quel modello possibile e vitale. Sappiamo che nessuno è a rischio zero. Ma dobbiamo dire con forza che in Italia una legge come quella francese sull’emergenza sarebbe incostituzionale. Ne verrebbero violate la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Garanzie essenziali per cui i poteri del governo e delle autorità amministrative rimangono in ogni caso precisamente limitati, sia nel formulare le regole, sia nell’applicarle. Deve essere l’assemblea elettiva a consentire alle limitazioni di libertà e diritti; dev’essere il giudice - autonomo, indipendente, imparziale - a valutare i concreti provvedimenti limitativi. Questo discrimine costituzionale tra legalità e arbitrio va mantenuto. Si può - e dunque si deve - rispettarlo senza affatto sminuire l’efficacia dell’intelligence. La storia del nostro paese ha già conosciuto tensioni su diritti e libertà. Per le leggi sul terrorismo interno, sulle misure di prevenzione, sulla violenza negli stadi. La Corte costituzionale ha complessivamente assolto la legislazione, e si può dire che ha tenuto ferma la barra del timone. Dobbiamo rimanere in rotta. Per tre mesi la Francia è un paese sotto tutela. Un paese di sospettati. Poi si vedrà. In Assemblea Nazionale è stato suggerito che il régime d’exception diventi un droit commun: un diritto ordinario dell’emergenza, perché la minaccia durerà oltre il termine della proroga concessa. È molto probabile. Ma non dimentichiamo che può essere facile assuefarsi a un regime di semilibertà. Giustizia: "not in my name", le limpide parole di sabato e la sordità della politica di Luigi Manconi Il Manifesto, 24 novembre 2015 Erano tanti o pochi i musulmani che, sabato scorso, hanno manifestato contro Daesh e il terrorismo islamista? Certo, un numero ridotto di persone se ci limitiamo a considerare cifre e percentuali (i musulmani in Italia sono circa 1,5 milioni): ma in realtà moltissime, se osserviamo i processi sociali e culturali che sottostanno a scelte sempre ardue, come quella di prendere posizione e dichiarare da quale parte si sta. Oggi un musulmano, anche in Italia, non gode di uno stato di piena libertà e di autonomia. È, infatti, profondamente condizionato da due sistemi di controllo che ne limitano i movimenti e ne rallentano l’emancipazione da una situazione di sudditanza psicologica e di disagio culturale, prima ancora che sociale. Uno dei due sistemi di controllo è rappresentato dalla vischiosità delle comunità musulmane di appartenenza, dalle reti familiari e amicali e dalla forza intimidatrice di un certo numero di moschee e di Imam. Tutto ciò esercita un peso assai gravoso che ritarda la maturazione di opinioni e scelte indipendenti e che induce a una sorta di conformismo difensivo. A questo va aggiunto che esiste una diffusa presenza fondamentalista, minoritaria e tuttavia capace di esercitare una vera e propria minaccia e di ottenere connivenza, quando non assoggettamento. Poi c’è un secondo sistema di controllo che passa attraverso una legislazione non inclusiva, e attraverso il condizionamento di un senso comune diffidente se non ostile. Quel controllo si esprime attraverso le regole sociali della maggioranza. La minoranza, in questo caso, è costituita dal musulmano medio, già sufficientemente integrato e partecipe dei valori dello stato democratico, ma costantemente sottoposto a pressione. Ovvero, strattonato, spintonato e incalzato perché dichiari, infine, se sia favorevole o no alla poligamia, all’infibulazione delle bambine e, magari, all’uso delle cinture esplosive. Insomma, sottoposto a un test quotidiano di affidabilità e a una verifica assillante della sua non pericolosità. Inevitabile che questo susciti imbarazzo e ritrosia e varie forme di reticenza. Si pensi all’esempio più delicato: per chi ha tutt’ora forti legami con la propria etnia e con la propria terra, può risultare estremamente difficile manifestare solidarietà con le vittime del terrorismo islamista in Europa senza ricordare le altre vittime, quelle che appartengono al proprio popolo e che hanno trovato la morte nei paesi che si è stati costretti ad abbandonare. Un’ipocrita equidistanza oppure un sentimento di condivisione di una condizione tragica? Ecco, se proviamo a tener conto di tutti questi fattori, il giudizio sulle manifestazioni di sabato è assai positivo. Un certo numero di musulmani è sceso in piazza e - dato fondamentale - numerose erano le donne e numerosissime le ragazze. Non solo: la quantità di associazioni e comunità che hanno aderito alle manifestazioni è stata davvero imponente, rappresenta una rete fittissima di musulmani presenti in Italia e costituisce la premessa per processi di elaborazione collettiva destinati a svilupparsi ulteriormente. Infine, il punto essenziale, quello da cui non si può prescindere: le parole dette sabato scorso sono state di assoluta limpidezza. Dunque, se volessimo trarre un bilancio, dovremmo dire che è stato fatto un primo e importantissimo passo. Certo, moltissimi altri devono essere ancora compiuti: ma senza questo preliminare atto, ora tutto sarebbe molto più complicato e lento. Quella di sabato resta, pertanto, una data estremamente significativa per i musulmani d’Italia e per la stessa società italiana, che ne dovrà fare tesoro. Per la verità, non sembra che questa consapevolezza sia così diffusa. Colpiva, infatti, in quelle piazze l’assenza pressoché totale della classe politica: sia di quella non pregiudizialmente ostile sia di quella che, quotidianamente, chiede ai musulmani di "prendere le distanze". Questa volta, i musulmani lo hanno fatto: forse non così in tanti come potevano e dovevano essere, forse con un ritardo che ancora va recuperato, e tuttavia lo hanno fatto. Peccato che la classe politica - quella vecchia e quella nuova di zecca, con pochissime eccezioni - non era lì ad ascoltare. Giustizia: carceri italiane luogo per reclutare terroristi e Rossano è la nostra Guantánamo di Tino Oldani Italia Oggi, 24 novembre 2015 Le carceri italiane, senza volerlo, stanno diventando un luogo di reclutamento dei terroristi islamici. Lo dicono le grida di esultanza registrate in alcune prigioni dopo la strage di Parigi. E lo conferma il Sappe (sindacato autonomo degli agenti penitenziari), che proprio nelle ultime settimane, sul suo sito, ha lanciato ripetuti allarmi sul "rischio fondamentalismo islamico nelle carceri". In uno di questi, il segretario del Sappe, Domenico Capece, precisa di avere segnalato il problema al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e fa il punto della situazione. Al 31 ottobre scorso, su 52.400 carcerati, 17.342 risultavano stranieri, dei quali 13.500 extracomunitari e 8 mila provenienti dal Maghreb e dall’Africa. L’indottrinamento e il reclutamento dei terroristi sembra più diffuso tra questi ultimi. Scrive Capece: "Il carcere è un terreno fertile, nel quale fanatici estremisti, in particolare ex combattenti, possono far leva sugli elementi più deboli e in crisi con la società, per selezionare volontari mujaheddin da inviare nelle aree di conflitto, grazie a un meticoloso indottrinamento ideologico. Non è un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, ma poi si sono trasformati gradualmente in estremisti". I detenuti che, all’ingresso in carcere, si sono dichiarati musulmani sono circa 5.700, e negli ultimi dieci anni hanno ricevuto un trattamento alquanto generoso. Su 202 istituti penitenziari esistenti, in 52 è stato riservato uno spazio adibito a moschea, e in nove prigioni è consentito l’accesso di un imam, accreditato dal ministero dell’Interno. Il terreno per il proselitismo, sembra dunque abbastanza vasto. Per limitare i danni, da 2009 l’amministrazione penitenziaria ha deciso di concentrare i detenuti condannati per terrorismo in un solo istituto di pena, quello di Rossano, città di 36 mila abitanti, ubicata sulla costa ionica della Calabria. Attualmente questo carcere, costruito nel Duemila, su 231 detenuti (rispetto a una capienza di 215), ne conta 70 di fede musulmana, dei quali 21 sono condannati per terrorismo internazionale. Una brava giornalista di origine calabrese, Lidia Baratta, ha appurato su Linkiesta che di questi 21, uno è un terrorista dell’Eta basca, uno è ritenuto vicino all’Isis, mentre gli altri 19 sarebbero militanti di Al Qaeda. Tutti con pena definitiva nel 2026. Tra le figure di spicco, l’ex imam di Zingonia (Bergamo), il pakistano Hafiz Muhammad Zulkifal, arrestato l’aprile scorso come capo di una cellula di Al Qaeda con base operativa in Sardegna, dopo essere stato complice nel 2010 di attentati a Stoccolma, in Svezia. A lui, secondo le indagini della Dda di Cagliari, era indirizzata una telefonata in cui si sosteneva di "pensare al loro Papa". Il carcere di Rossano, è diviso in due sezioni, una di media e l’altra di alta sicurezza. In quest’ultima sono reclusi i terroristi islamici. Il militante radicale Emilio Quintieri, che sul suo blog si occupa in modo sistematico delle condizioni di vita nelle prigioni, ha definito quella di Rossano "la Guantánamo italiana, dove basta uno sguardo o una parola sbagliata per fare scattare il pestaggio". Vero o no che sia, l’appellativo di "Guantánamo italiana" è rimasto, proprio per la concentrazione di terroristi islamici detenuti. Non solo. Dopo la strage di Parigi, questo carcere è considerato un "obiettivo sensibile". In un vertice tenuto il 18 novembre, cinque giorni dopo il Bataclan, il prefetto di Cosenza, i capi delle forze dell’ordine, il procuratore di Catanzaro e il direttore del carcere hanno deciso di alzare il livello di sicurezza, con maggiori controlli sui visitatori e con un pattugliamento armato 24 ore su 24. Ma il segretario del Sappe, Capece, dopo una visita al carcere, facendosi interprete delle guardie carcerarie, ha detto chiaro e tondo che "il livello di sicurezza è pari a zero. Il personale che ci lavora è specializzato, ma carente. Ogni giorno nella sezione speciale dovrebbero esserci quattro agenti di polizia penitenziaria, ma purtroppo ne abbiamo uno solo, e i turni sono estenuanti". Colpa della legge di stabilità, sostiene, che taglia 36 milioni alla polizia penitenziaria (stipendi e straordinari) e 70 milioni all’amministrazione delle carceri. "Per impedire il proselitismo", sostiene Capece, "è necessario sospendere il sistema della vigilanza dinamica, introdotta nelle carceri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici e occasionali della polizia penitenziaria. Ora a Rossano sono stati finalmente adottati dei limiti più severi. Ma non capisco perché i terroristi islamici debbano essere ristretti a Rossano, e non all’Asinara o a Pianosa. Questi soggetti devono essere reclusi in posti isolati, e non nelle carceri dei centri abitati". Difficile dargli torto: per i terroristi, come per i mafiosi, servono carceri di massima sicurezza. Altrimenti, l’indottrinamento e il reclutamento di tagliagole Isis continuerà senza ostacoli. Giustizia: ministro Alfano "intelligence italiana al top, serve maggior coordinamento Ue" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 24 novembre 2015 Il ministro dell’Interno Angelino Alfano sostiene che l’intelligence italiana sia all’avanguardia e che i media non dovrebbero enfatizzare un clima di paura e di insicurezza in vista del Giubileo. Il responsabile del Viminale dice che ciò che è ancora carente è però lo scambio di informazioni e dati tra i diversi servizi segreti nazionali a livello europeo. E propone, per ovviare al problema, un coordinamento simile a quello adottato tra le varie armi e agenzie italiane con riunioni settimanali al vertice al Viminale per fare il punto e scambiarsi informazioni. Ciò che ha in mente Alfano - e che ha proposto come modello nel summit di venerdì scorso a Bruxelles, a una settimana dagli attentati di Parigi - è ciò che al Viminale chiamano "Casa", acronimo di Comitato di analisi strategica antiterrorismo. L’idea di condividere obiettivi strategici e informazioni anche molto riservate su dossier specifici, senza che carabinieri, polizia, guardia di finanza o le varie sigle degli 007 Dis, Aise, Aisi perdano di "sovranità" in ognuno dei relativi campi, all’interno o all’esterno dei confini italiani. La proposta in qualche modo alternativa a quella di Alfano, al vertice dei ministri della Giustizia e degli Interni a Bruxelles, è venuta dal commissario Ue Dimitri Avranopoulos ed è quella di creare una agenzia d’intelligence europea sovranazionale. In realtà, al di là delle parole con le quali i colleghi del francese Bernard Cazeneuve e del belga Jan Jambon cercano di toglierli dall’imbarazzo delle falle che l’intelligence ha evidenziato in queste ultime settimane - ieri gli 007 francesi hanno lanciato pubblicamente un’allarme per il viaggio di Bergoglio in Africa a ridosso della sua partenza, programmata per mercoledì - già esiste in nuce un sistema europeo di coordinamento delle intelligence nazionali: si chiama, in sigla Eas, ha il suo quartier generale proprio a Bruxelles, alle dirette dipendenze dell’Alto rappresentante della politica estera Federica Mogherini, e si occupa di diplomazia e sicurezza coadiuvato dall’agenzia di intelligence Sitcen attualmente diretta dal finlandese Ikka Salmi con un bilancio annuo di decine di milioni di euro e 160 super agenti, per la maggior parte dislocati nelle varie capitali con contatti permanenti con i locali vertici dell’intelligence e accesso a documenti classificati. Il Sitcen ha accesso anche ai dati raccolti attraverso la costellazione europea di satelliti Sentinel nel centro di comando Satcen, situato vicino Madrid. La tecnologia utilizzata rende questi sistemi capaci di intercettare conversazioni e dati sui vari device, dai tablet agli smarthphone, monitorare i social network e effettuare controlli fotografici e radar. Da questo punto di vista, forse non casualmente, il paese più monitorato da questo sistema, una sorta di esperimento pilota, è proprio la Repubblica centroafricana dove papa Francesco va a aprire la porta santa del Giubileo per la prima volta nella storia fuori da San Pietro. Se l’enfasi continua sulla scarsità di coordinamenti dei servizi d’intelligence a livello europeo non è dunque perché nessuno abbia messo mano alla materia. Al di là della automatica resistenza delle intelligence nazionali a proteggere le proprie fonti, esistono però diversità di approcci e di legislazione tra i 28 stati membri, a garanzia della privacy dei propri cittadini. Anche a livello comunitario, ad esempio, la tracciabilità dei passeggeri negli aeroporti attraverso il Pnr (passager name record), già in vigore in Italia e in un’altra quindicina di stati, è stato approvato come direttiva solo lo scorso 15 luglio dopo essere stato bloccato per quattro anni dal Parlamento europeo e dalla Commissione per le libertà civili, mentre gli Usa reclamavano dalla Ue questa implementazione di monitoraggio dei voli contro i crimini transnazionali dal 2003 (negli Usa, in Australia e Canada esiste da dopo l’11 settembre). Tramite la Pnr si attua una sorveglianza non solo dei nomi e delle destinazioni dei passeggeri ma dei loro vicini di posto, metodi di pagamento, stato di salute, religione. Dati che vengono conservati 5 anni, su una metodica e una strumentazione uguale a quella della Nsa americana, l’agenzia di spionaggio di massa finita nel mirino di Edward Snowden. Giustizia: tra Difesa, Ordine pubblico e Sicurezza lo Stato ha speso 24 miliardi in 10 mesi La Repubblica, 24 novembre 2015 La voce più pesante sono gli stipendi, ma conta molto l’acquisto di aerei per l’aviazione. E spuntano 60mila euro per la fornitura di strumenti musicali. Navi, aerei, software, divise, personale e qualche decina di migliaia di euro per strumenti musicali. Da inizio anno lo Stato ha speso quasi 24,6 miliardi di euro per le voci di bilancio "Difesa e sicurezza del territorio" e "Ordine pubblico e sicurezza". Risorse destinate a crescere ancora dopo gli attacchi di Parigi e le pressioni della Francia sull’Unione europea per allargare le maglie della flessibilità in modo da porte destinare più risorse agli investimenti in chiave difensiva verso il terrorismo. Di questi 24 miliardi, oltre tre quarti se ne vanno per gli stipendi del personale, ovvero 18,7 miliardi. Nelle pieghe dei conti italiani però - resi pubblici dalla Ragioneria di Stato e aggiornati al 31 ottobre - ci sono molte voci interessanti per capire come lo Stato spende i suoi fondi per la sicurezza, interna ed estera. Un capitolo che va diviso in due parti, ovvero le voci che fanno capo ai ministeri di Difesa (titolare anche dell’operazione militari all’estero) e di Interni. Con l’informatizzazione degli acquisti è possibile tracciare voce per voce buona parte delle uscite. Non tutte, perché il processo non passa ancora completamente attraverso gli ordini di pagamento con mandato elettronico. Ma i dati sono sufficienti per ricostruire uno spaccato interessante e tutto sommato indicativo delle spese. Nel bilancio della Difesa, dopo le spese per il personale, la voce più rilevante è l’acquisto di mezzi aerei: quasi 750 milioni di euro. Dal cielo al mare: per l’acquisto di mezzi navali per la difesa in 10 mesi si sono spesi 165 milioni di euro. A seguire fabbricati militari (63 milioni), hardware (21 milioni) e vestiario per altri 20 milioni. Sedici milioni di euro vanno in combustibili. Buona parte della spesa è quindi destinata ai nuovi mezzi e strutture, mentre per le armi leggere sono stati pagati 6 milioni di euro, la metà di quanto andato agli armamenti pesanti. L’Interno invece ha voci di bilancio molto più contenute: spende 15 milioni per mezzi di trasporto leggeri e - escludendo la voce altri investimenti e le spese per il personale - questa è la sua voce di pagamento maggiore. Tredici milioni vanno agli investimenti su materiale tecnico e specialistico, 10 milioni all’acquisto di mezzi di trasporto stradale pesanti per il soccorso civile. Ovviamente il ministero di Alfano ha anche molte altre voci non relative alla sicurezza, ma anche tra quelle per l’ordine pubblico c’è qualcosa che stona: alla voce "Sicurezza", 60mila euro sono spesi nell’acquisto di strumenti musicali, 1.600 per la pubblicità e 12mila per la pubblicazione di bandi. La Difesa posta inoltre quasi 78 milioni sotto la voce "Trasporti, traslochi e facchinaggio", sicuramente riferiti in larga parte agli spostamenti per le missioni all’estero, tanto che l’Interno per la stessa voce spende solo 300mila euro. Allargando l’orizzonte della sicurezza anche agli altri ministeri, fanno sorridere i 2,41 euro di spese di rappresentanza per il ministero dell’Economia e i 5,83 euro per l’addestramento del personale. Ma la difesa non è solo armi e pattugliamento, si sa. Un ruolo importante è anche quello dell’intelligence, attività collegata alle spese in software: 4 milioni di euro al mese circa nei primi 10 mesi dell’anno. Voci destinate a crescere. D’altra parte guerre e terrorismo si combattono in rete grazie alla tecnologia. Giustizia: pm e magistrati onorari in sciopero per 5 giorni, lo stop dal 7 all’11 dicembre di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 24 novembre 2015 "Niente aggiornamento dei compensi e taglio di 14 milioni". Scioperano dal 7 all’11 dicembre pubblici ministeri e giudici onorari dei tribunali civili e penali. Rallenta inesorabilmente, per cinque giorni, la macchina della giustizia senza il contributo essenziale di questa categoria: "Solo il lavoro svolto dai pm onorari - spiega Raimondo Orrù, vicepresidente di Feder. m. o. t (Federazione magistrati onorari di tribunale) - rappresenta il 72% di tutta l’attività definita dalle procure della Repubblica e pressoché il 100% delle udienze monocratiche". I magistrati onorari incrociano le braccia perché ritengono di essere vittime, da 12 anni, di un mancato aggiornamento dei loro compensi e addirittura - spiega la Feder.m.o.t - in una nota inviata alla presidenza del consiglio dei ministri e al Guardasigilli - di un taglio di 14 milioni dai relativi capitoli di bilancio. Il che, accusa Feder. m. o. t, significherebbe una diminuzione drastica del numero dei magistrati onorari con una conseguente diminuzione del numero dei processi. Inoltre la riforma presentata dal governo non riconosce la continuità dei mandati, sostiene Feder. m. o. t, per questo ogni anno chi lavora nella magistratura onoraria deve ricevere la proroga per poter lavorare per altri 12 mesi. Pesa poi la mancanza di ogni tutela relativa alla maternità, alla malattia e alla previdenza pensionistica: "Siamo di fronte ad un lavoro nero di stato", accusa Orrù. Il Guardasigilli, Andrea Orlando, ha convocato per il primo dicembre una riunione con i vertici della Feder.m.o.t. Intanto la magistratura onoraria incassa un primo punto a suo favore perché come spiegano Paolo Valerio e Raimondo Orrù, rispettivamente presidente e vicepresidente di Feder.m.o.t : "La Commissione europea in sede di prima valutazione ha ritenute fondate le lamentele presentate da diversi magistrati onorari italiani, volte a sollecitare l’adeguamento dell’Italia al Diritto dell’Unione europea, riconoscendo la violazione dei diritti conseguenti ad ogni attività lavorativa e ancora di più a chi svolge la delicata attività di magistrato onorario. Giustizia: accordo Pd-M5S sulla Consulta, domani l’elezione dei giudici mancanti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 novembre 2015 Mercoledì la fumata bianca più attesa per l’elezione dei giudici costituzionali. I grillini offrono ai democratici il candidato più gradito, Modugno, e voteranno Barbera. Forza Italia indica Sisto, ma potrebbe non farcela. Non è andato in galera, come gli augurò (paradossalmente) D’Alema che lo riteneva responsabile di aver portato in Italia il maggioritario uninominale. Al massimo Augusto Barbera è stato brevemente coinvolto in un’indagine a Bari sui concorsi universitari pilotati - episodio fastidioso perché all’epoca Barbera e altri quattro professori coinvolti erano alla ribalta come "saggi" per le riforme del governo Letta. Normale prassi tra accademici, fu la spiegazione dei saggi; avrebbe però meritato attenzione il fatto che Barbera - ex parlamentare Pci - si interessasse alla cattedra dell’università fondata dalla Congregazione dei legionari di Cristo. Pioniere del maggioritario Barbera lo è stato davvero, avendo accompagnato Mariotto Segni sin dal referendum elettorale del 1992. La patente di riformatore spinto, sostenitore del semi presidenzialismo o del premierato forte, l’ha guadagnata vent’anni fa. E la difende ancora, sostenendo in ogni sede la riforma elettorale e costituzionale di Renzi. Per questo non è andato in galera e andrà alla Corte costituzionale. Si vota domani pomeriggio per sostituire tre giudici costituzionali che hanno terminato il mandato, il più lontano manca da 17 mesi (quasi un record) e 26 votazioni (un record). Il professor Barbera è stato indicato dal Pd. Forza Italia ha designato l’avvocato Francesco Paolo Sisto, che è anche professore (di sicurezza sul lavoro al politecnico di Bari), ma è assai improbabile che la pattuglia residua di senatori e deputati berlusconiani resti unita sul suo nome (Sisto è stato a lungo con la fronda di Raffaele Fitto). Ed è difficile che questo candidato di Forza Italia venga votato dal Movimento 5 Stelle, che ieri ha scelto il suo nome nella terna dei tre giuristi selezionata da tempo. Ha scelto Franco Modugno, costituzionalista "finissimo" secondo il giudizio di molti suoi colleghi, ma anche costituzionalista silente sulla riforma costituzionale in via di approvazione. I grillini non hanno fatto scegliere gli iscritti online, ma hanno eliminato gli altri due in lizza in un’assemblea dei parlamentari, dove Modugno ha prevalso su Felice Besostri (assai sgradito al Pd in quanto promotore della battaglia contro l’Italicum) e Silvia Niccolai (che le sue critiche alla legge elettorale e alla riforma costituzionale le ha fatte sentire). Se il Movimento 5 Stelle nel voto segreto non sosterrà Sisto, e se Forza Italia si dividerà, potrebbero risultare eletti solo due dei tre giudici mancanti, una situazione assai favorevole per il Pd. Che punterebbe così a prendere anche un secondo giudice, in una successiva tornata quando potrebbe presentarsi la necessità di sostituire ancora un altro giudice, eletto anche questo in quota Forza Italia che dunque, alla fine, dovrebbe accontentarsi di una sola casella delle tre che aveva. I 5 stelle voteranno Modugno e Barbera, due professori "emeriti" il primo a Roma e il secondo a Bologna, malgrado abbiano ripetutamente bocciato il precedente candidato del Pd Luciano Violante perché giudicato privo dei requisiti necessari, essendo un professore non più in ruolo ma in pensione. La Costituzione, quando elenca i requisiti per l’eleggibilità alla consulta, parla di "professori ordinari in materie giuridiche". La distinzione tra "emerito" e "a riposo" è assai sottile, perché fa riferimento non a una condizione formale - si è "emeriti" solo se si è "a riposo" - ma alla prassi che alcune università hanno di offrire un incarico ai "pensionati illustri". Anche se il testo unico delle leggi sull’istruzione superiore scandisce chiaramente che "ai professori emeriti non competono particolari prerogative accademiche". Sono a tutti gli effetti in pensione. Come lo era Giuliano Amato quando è stato nominato alla Consulta da Napolitano. A Modugno e a Barbera il M5S concederà il voto che ha negato a Violante. Il fatto che il costituzionalista bolognese sia stato vent’anni in parlamento e due in consiglio regionale non fa di lui quel "politico di professione" che non avrebbero potuto votare. Perché lo è stato tanto tempo fa. E perché l’accordo con il Pd era necessario. Giustizia: processo troppo lungo, lo Stato restituisce un milione di € a banda di ricettatori di Massimo Coppero La Stampa, 24 novembre 2015 Nel gran calderone della Giustizia, può succedere come è successo ad Asti che una banda di sinti condannati per associazione a delinquere si veda restituire con tante scuse il frutto delle loro malefatte - un milione di euro - solo perché i meccanismi dei processi si inceppano in rivoli e ritardi che noi umani non possiamo capire, fino alla prescrizione. Albert Einstein diceva che "il mondo è quel disastro che vedete non tanto per i guai combinati dai delinquenti, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare". Se Einstein pensava al mondo, noi possiamo più prosaicamente guardare inorriditi a questo magma incomprensibile in cui si disperde la nostra Giustizia, fra cavilli, leggi e leggine che si sommano crudelmente ai suoi ritardi endemici. La storia di Asti è il riassunto di tutto questo. Alla banda di sinti hanno restituito conti correnti bancari e postali, polizze assicurative, terreni, gioielli, camper di lusso e auto sportive. Denaro e beni sequestrati nel marzo 2006 e ora tornati ai legittimi proprietari causa prescrizione. Nei giorni scorsi il giudice Federico Belli ha firmato il decreto: il processo per ricettazione non è mai giunto a sentenza. La vicenda. Nel 2006 la banda era da tempo sotto osservazione da parte dei carabinieri che avevano pedinato per mesi con microspie e gps le loro scorribande dall’Astigiano alle case violate forzando porte e finestre o raggirando gli anziani proprietari con mille scuse. Tra le zone più colpite l’Alessandrino, la città di Genova e i paesini dell’Appennino Tosco-Emiliano. Nel bottino finivano contanti e oggetti preziosi, ma anche forme di Parmigiano trovate in frigo. Razziatori di professione. Il gip di Asti Aldo Tirone, applicando una legge speciale del 1992 aveva approvato le richieste del pm Luciano Tarditi di sottoporre a sequestro preventivo i beni dei presunti ricettatori e dei loro familiari. Si riteneva che si trattasse di "provento di attività criminale". Ma poi il fascicolo della maxi inchiesta dei carabinieri si è disperso in decine di rivoli, letteralmente spezzettato dall’astuzia di un pool di avvocati specializzati da anni nella difesa dei sinti piemontesi. All’udienza preliminare nell’autunno 2007 il giudice Cesare Proto, ora in Cassazione, accogliendo le tesi della difesa aveva suddiviso l’inchiesta: il processo per l’accusa di associazione per delinquere era stato affidato al tribunale di Asti, i casi singoli di furto erano stati spediti ad una miriade di uffici giudiziari competenti per territorio e la ricettazione era stata rimandata al pm Tarditi per la "citazione diretta" come previsto per i reati precedentemente gestiti dalle vecchie preture. Le sentenze. Il guaio è che i sequestri erano basati sull’accusa di ricettazione, l’unico tra i reati contestati per i quali è prevista l’applicazione della norma su sequestri e confische. Se il processo per associazione per delinquere è giunto nel 2010 a pesanti condanne in primo grado (oltre 25 anni complessivi per i 12 imputati, con pene che arrivavano fino 5 anni di reclusione), esito diverso hanno avuto le altre accuse. Dei furti non si sa più nulla, sparpagliati tra una decina di tribunali di città della pianura Padana. Sulla ricettazione i movimenti del fascicolo sono incerti. Assente per malattia il pm Tarditi, ieri in procura e in tribunale nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni. Pare che il faldone abbia sonnecchiato per un pò di anni sulla scrivania del pm, che poi ha proceduto alla citazione diretta davanti al giudice onorario Massimo Martinelli. Il quale è stato sommerso di eccezioni formali da parte dei difensori dei circa 30 imputati delle famiglie di sinti, trovandosi costretto a fissare numerose udienze solo per dirimere gli aspetti procedurali. Così si è arrivati al 2015, quando Martinelli ha dovuto prosciogliere tutti per "intervenuta prescrizione". Proprio quanto volevano gli avvocati, che avevano cercato in tutti i modi di far perdere tempo. Restava da compiere, per i sinti, il passo finale. Riavere soldi, gioielli e macchinoni. Gli avvocati Ferruccio Rattazzi, Davide Gatti e Marco Calosso hanno sollecitato un "incidente di esecuzione" davanti ad un altro giudice, Federico Belli. Il quale, lette le carte. ha convenuto sul fatto che gli ex imputati prescritti avessero ragione. Ha dissequestrato tutto. Con un’ulteriore beffa: le spese del deposito dove sono stati custoditi caravan e auto sono a carico del Ministero della Giustizia. Giustizia: il ministro Orlando "a gennaio riforma dei fallimenti incardinata alle Camere" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 "Non è nostra intenzione lasciare nulla nei cassetti. La riforma della Legge fallimentare verrà presentata e il mio parere è che debba essere incardinata come provvedimento autonomo a partire da gennaio". In questi termini si è espresso ieri pomeriggio il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervenendo al convegno organizzato dal gruppo del Pd alla Camera sulle riforma in materia concorsuale e penale. Per Orlando "le procedure fallimentari devono essere considerate anche in una prospettiva di sostegno alle imprese in condizione di proseguire l’attività, non certo come un’occasione di business". Il convegno, nella sua parte civilistica, si è diviso tra le norme già in vigore dall’estate, ennesimo ritocco alla Legge fallimentare, e il progetto di legge delega ormai messo a punto dalla commissione presieduta da Renato Rordorf. Sulle prime, il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci ha sottolineato come non ci deve essere tutela giuridica per concordati che pagano ai creditori, soprattutto a quelli chirografari, percentuali assolutamente irrisorie "nell’ordine dello zero virgola qualcosa". Concordati che vedono la connivenza di imprenditori spregiudicati e professionisti poco scrupolosi. Ben venga allora il tetto del 20% di pagamento dei chirografari, se serve a dare spazio ai soli concordati con presupposti di serietà. E, se il timore è quello di una morte del concordato questa paura, per Alida Paluchowski, presidente della sezione fallimentare del tribunale di Milano, potrebbe essere almeno avventata: "in queste settimane non abbiamo visto contrazioni significative. Più o meno continua a essere presentata una proposta al giorno; certo si tratta ancora di preconcordati. Una valutazione sull’esito sarà possibile solo tra qualche tempo". Tra gli elementi più innovativi dello schema di legge delega ci sono le procedure di allerta, per le quali la proposta prevede un connubio di incentivi (da precisare) per l’imprenditore e deterrenti (si ammette per chi resta inerte malgrado i segnali di allarme una nuova figura di bancarotta semplice). Sul punto il sostituto procuratore di Piacenza Roberto Fontana ha messo l’accento per sottolineare l’assenza di una norma di chiusura che, al termine della procedura di allerta permetta una segnalazione all’autorità giudiziaria nel caso di mancato accordo tra debitore e creditori o, ancor più, di mancata collaborazione del debitore. Rordorf ha invece messo l’accento anche su altri elementi di novità. Tra questi, la disciplina del fallimento dei gruppi, una possibilità di anticipo della richiesta di esdebitazione, la specializzazione della magistratura in coerenza con la sostenibilità degli organici. E Stefano Ambrosini, docente di Diritto commerciale componente della commissione, ha ricordato l’apertura fatta nel concordato preventivo alla proposta del terzo. Sulla parte penale, il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, ha da una parte rivendicato l’efficacia "indiretta" dell’auto-riciclaggio che, a fronte di poche o nulle (almeno sinora) applicazioni, ha tuttavia evitato la movimentazione dei depositi da parte delle banche svizzere; dall’altra Greco ha sottolineato come tutta l’operazione di voluntary disclosure ha permesso a 100mila italiani di siglare un patto con lo Stato nel segno di un’amministrazione finanziaria collaborativa. La Cassazione promuove la sentenza elettronica di Paola Cosmai e Stefano Di Falco Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Non ci sono precedenti della sentenza 22871/2015 con cui la Corte di Cassazione, facendo luce sulla compatibilità di alcuni effetti del processo telematico con i principi formalistici del codice di rito, esclude che la sentenza non sottoscritta di pugno dal giudice, ma da questi formata e firmata digitalmente, sia affetta da inesistenza o nullità. La questione. L’inesistenza della pronuncia era stata dedotta dalla parte ricorrente in base all’articolo 132, comma 2, n.5 del Codice di procedura civile perché, recando essa soltanto la firma digitale e non pure la sottoscrizione del giudice, non sarebbe possibile l’identificazione del suo autore; andrebbe escluso, secondo il ricorso, che le nuove disposizioni sulla firma digitale siano applicabili alle sentenze, perché si basano su uno scambio telematico di atti non esistente nel caso di specie in cui, peraltro, trattandosi di decisione adottata in udienza (articolo 281-sexies del Codice di procedura civile) non vi sarebbero nemmeno la certificazione ed il deposito in cancelleria. Le argomentazioni della Corte. Secondo l’articolo 161 del Codice di procedura civile la sentenza che difetta di sottoscrizione non incorre nei limiti di ricorso in Cassazione applicabile alle sentenze nulle; da ciò discende, secondo alcune interpretazioni, che essa sia del tutto inesistente giuridicamente per mancanza di un requisito essenziale e, per altri, affetta da nullità sanabile qualora, trattandosi di provvedimento collegiale, vi sia la firma del Presidente o del relatore perché non sarebbe dubitabile la sua provenienza (Cassazione, sezioni unite n. 11021/2014). Questo orientamento incline alla conservazione degli atti è applicato anche in caso di sottoscrizione illeggibile (Cassazione, n. 28281/2011). Se questo, dunque, è lo scopo dell’articolo 132, comma 2, n. 5 del Codice di procedura civile, il vizio radicale si verifica solo quando risulta assolutamente mancante qualsiasi segno grafico che renda possibile ricondurre la sentenza alla persona del suo autore. Dopo l’introduzione del processo telematico (legge 24/2010), tuttavia, il segno grafico è stato ormai sostituito dalla sottoscrizione digitale prevista dal Dlgs 82/2005, e dal deposito telematico consentito solo previo accreditamento e verifica dei dati identificativi dell’assegnatario al fornitore dell’apparecchio prima del rilascio e, di volta in volta, tramite l’inserimento di un codice segreto di accesso che ne abiliti all’uso. Accreditamento e password garantiscono la sicura corrispondenza della firma digitale al singolo magistrato e la provenienza dell’atto dal giudice stesso che ne ha l’uso esclusivo. Questi elementi, peraltro, sono visibili sulla copia stampabile della sentenza che a margine del lato destro riportano gli estremi identificativi del magistrato che l’ha sottoscritta e che ha provveduto a depositarla telematicamente, richiamando il riferimento numerico dello specifico software fornito in dotazione dal ministero della Giustizia a ciascuno di essi. Le garanzie. L’articolo 4 del Dlgs 193/2009 ha esteso al processo civile i principi previsti dal Codice dell’amministrazione digitale, per cui è a quest’ultimo ed ai decreti ministeriali attuativi (n. 44/2011 e n. 209/2012 e Dpcm 22 febbraio 2013) che occorre far riferimento per verificare l’integrità formale degli atti giudiziari formati con modalità informatiche La firma digitale è definita dall’articolo 1, lettera s) del Codice come "un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici"; la firma digitale manca di autografia, e non è nemmeno riproducibile su un supporto analogico. Essa è costituita da una serie di informazioni digitali unite al documento, ed è apposta dal giudice mediante l’inserimento della sua personale "smart-card" e digitazione del "pin". L’apposizione della firma digitale ad opera del giudice è desumibile grazie alla coccarda e alla stringa grafica che compaiono su ciascuna delle pagine del file di copia della sentenza (il cui originale è archiviato all’interno del sistema). La coccarda e la stringa sono automaticamente inserite nella copia del documento informatico dal software in dotazione all’ufficio giudiziario al fine di dare la rappresentazione dell’apposizione della firma digitale. Da queste specifiche tecniche si desume, inoltre, che l’atto del processo redatto in formato elettronico dal magistrato può essere depositato telematicamente nel fascicolo informatico in quanto prima sottoscritto con firma digitale, considerato che il sistema, in difetto, ne impedisce l’operazione. Queste garanzie consentono di equiparare la firma digitale e il deposito telematico della sentenza, rispettivamente, alla sua sottoscrizione grafica e al suo deposito materiale in cancelleria, soddisfacendo i requisiti di validità richiesti dall’articolo 132, comma 2, n. 5, del Codice di procedura civile. Antiriciclaggio senza scorciatoie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 23 novembre 2015 n. 46415. Viola la normativa antiriciclaggio l’impiegata delle Poste che non identifica il diretto beneficiario del prestito, fidandosi della professionista che lo chiede in suo nome. La Cassazione, con la sentenza 46415, accoglie il ricorso del pm contro da decisione della Corte d’appello di assolvere, perché il fatto non costituisce reato, due impiegate delle Poste Italiane Spa che, nella loro funzione di intermediari finanziari, non avevano rispettato gli obblighi di identificazione della clientela previsti dalla normativa antiriciclaggio (articolo 18 del Dlgs 231/07). Alla base della "clemenza" della Corte, l’assenza del dolo. Secondo i giudici di merito, mancava la prova dell’elemento soggettivo del reato: le due imputate si erano fidate della professionista che chiedeva il finanziamento per i propri clienti, perché era accreditata nella zona ed aveva presentato tutta la documentazione compresi i documenti identificativi dei beneficiari. In realtà, la consulente, condannata per truffa, batteva cassa, all’insaputa dei diretti interessati. Secondo la Cassazione, per l’intermediario che omette intenzionalmente di procedere all’identificazione del titolare effettivo della prestazione scatta il reato. A meno che non ci sia una valida causa di giustificazione, che non può essere la fiducia. I giudici di appello avevano ammesso che le due addette della Posta, pur consapevoli del loro dovere, lo avevano disatteso. Ma avevano considerato l’omissione una "irregolarità". Per la Cassazione, l’obbligo di identificazione è invece proprio il "cuore" della normativa antiriciclaggio il cui mancato rispetto è "punito" con pene pecuniarie (articolo 55). Scopo del decreto legislativo è, infatti, proprio quello di conoscere i soggetti che muovono i capitali e, al tempo stesso, di impedire, creando un ostacolo da parte di chi riceve denaro, comportamenti fraudolenti in cui si spenda il nome altrui, proprio come avvenuto nel caso esaminato. Va ricordato che proprio l’articolo 55 del Dlgs 231/2007 rientra in uno dei due decreti depenalizzazione approvato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri (si veda il sole 24 ore del 17 novembre). Il reato non resterà impunito ma la sanzione sarà amministrativa e non più penale. Rischia anche l’omicidio colposo il sindaco che emette l’ordinanza di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Cassazione, sentenza 46400 del 23 novembre 2015. Il sindaco che non firma un’ordinanza urgente per chiudere ai cittadini una zona interessata da lavori pubblici può essere condannato per omicidio colposo, oltre che per lesioni e omissione di atti d’ufficio, se capita un incidente. E se l’incidente si rivela mortale per più persone, la pena può arrivare a 15 anni di carcere, come prevede l’articolo 589 del Codice penale. Lo ha stabilito la Cassazione, che nella sentenza 46400/2015 depositata ieri ha scritto un altro capitolo nella complicata vicenda giudiziaria nata dalla "tragedia del 1° maggio", quando otto anni fa a Sorrento due donne furono uccise dalla caduta del cestello di una gru, mentre alcuni operai addobbavano con le luminarie la chiesa di Sant’Antonino. La lunga storia giudiziaria ha fatto scattare la prescrizione per le lesioni e l’omissione di atti d’ufficio, mentre la Corte d’appello di Napoli dovrà tornare a occuparsi del caso per rideterminare alla luce di questi sviluppi la pena applicata all’omicidio colposo. Al di là del caso sorrentino, sono i princìpi generali indicati dalla Cassazione a fissare il perimetro per l’attività dei sindaci. Anche se la ditta incaricata dei lavori non presenta una richiesta di intervento, resta il fatto che il sindaco "non poteva non essere consapevole" del pericolo creato dal cantiere. In questo caso, il principio è rafforzato dal fatto che l’ufficio del sindaco si trova nella stessa piazza del cantiere. Con questa premessa, scatta l’obbligo di adottare in modo tempestivo tutti gli atti necessari "a tutelare l’incolumità dei cittadini", come prevede l’articolo 54 del Testo unico degli enti locali. Questo contesto di urgenza, aggiunge la Corte, fa sì che per la legittimità dell’atto occorra solo "l’effettiva esistenza di una situazione di pericolo" e non servono "formule o formalità o procedure sacramentali". Ma non è solo l’ordinanza urgente a tradurre in pratica il dovere del sindaco, che può manifestarsi con qualsiasi "atto idoneo" a evitare il pericolo, allertando la polizia o i vigili del fuoco oppure imponendo misure di sicurezza alla ditta. È l’inerzia, invece, a condannarlo. Sequestro all’ente anche se c’è solo il reato associativo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Cassazione, sentenza 46162 del 23 novembre 2015. Il solo reato associativo transnazionale basta per giustificare un decreto di sequestro preventivo per equivalente ai danni della società commerciale, anche se i reati-scopo fiscali non sono previsti dal decreto legislativo 231/2001 sulla responsabilità degli enti. La Terza penale della Cassazione (sentenza 46162/15, depositata ieri) evita un rinvio alle Sezioni Unite sul tema, sollevato da una società napoletana indagata con tre suoi amministratori per una maxi truffa ed evasione fiscale per un importo stimato - e sequestrato - di oltre 96 milioni di euro. Gli illeciti, stando alla ricostruzione della Procura avallata dal Gip locale, sarebbero stati commessi utilizzando le solite società cartiere per scaricare l’Iva su un giro simulato di esportazione di supporti informatici (cd e dvd), in realtà venduti in patria scaricando il debito fiscale sulle cartiere basate in paesi white e black list mediante emissione di fatture per operazioni inesistenti. Al sequestro per equivalente la società considerata beneficiaria del carosello si è opposta in Cassazione, dopo che anche il riesame aveva confermato il gigantesco blocco dei beni. La Terza, per annullando il provvedimento per questioni contingenti - il giudice non aveva adeguatamente e autonomamente motivato l’esistenza dell’associazione per delinquere transnazionale - ha ribadito l’orientamento maggioritario, secondo cui il reato associativo è indipendente rispetto ai reati/scopo ai fini dell’applicazione della misura cautelare sulla società. A giudizio della Corte, infatti "il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare un profitto (...) in via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati/fine, e che è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme di questi ultimi, siano essi attribuibili a uno o più associati (...) posto che l’istituzione della societas sceleris è funzionale nella ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso". Questa impostazione soffre però due limiti. Il primo, ovviamente, è che l’autonoma considerazione delle fonti di reddito da illecito (associazione da un lato, reati scopo dall’altro) non porti alla duplicazione del profitto da sottoporre a vincolo cautelare. Il secondo "avviso" della Corte riguarda la motivazione del provvedimento di sequestro cautelare societario, nel caso che i reati scopo non siano "catalogati" dalla legge: il giudice che lo applica deve aver cura di dimostrare l’esistenza di una vera associazione per delinquere, e non invece di un semplice concorso occasionale per la commissione di reati "pianificati". Amministratore condannato per lesioni colpose se non segnala il pericolo per i passanti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Cassazione, sentenza 46385 del 23 novembre 2015. L’amministratore è "garante" per il condominio. E risponde di lesioni colpose se non si è attivato per prevenire un pericolo anche se non ha il via libera dell’assemblea e non dispone di fondi. La Corte di cassazione, con la sentenza 46385 depositata ieri, ricorda che l’amministratore riveste una posizione di garanzia in virtù della quale risponde anche penalmente per le conseguenze delle sue omissioni. Partendo da questo principio la Suprema corte, respinge il ricorso di un amministratore condannato per lesioni colpose (articolo 590 del Codice penale) a causa delle ferite riportate da un bambino colpito dai calcinacci. Una responsabilità che il ricorrente ritiene di non avere perché non era mai stato messo al corrente di un concreto pericolo di crollo, le assemblee da lui convocate andavano regolarmente deserte e, per finire, le casse erano vuote perché la maggior parte dei condomini era morosa. Nessuna giustificazione è però utile a salvarlo dalla condanna. La Cassazione si allinea alle conclusioni della Corte di merito e ricorda che l’amministratore ha l’obbligo di rimuovere le situazioni che mettono a rischio l’incolumità di terzi, eventualità che, nel caso esaminato, era insita nello stato del rivestimento dell’edificio. Un dovere di controllo sulla parti comuni dell’edificio che esiste anche al di fuori degli atti cautelativi e urgenti e che è non subordinato a un preventivo ok dell’assemblea o all’esistenza di una segnalazione di pericolo (articolo 1130 n.4 del Codice civile). Per quanto riguarda invece le opere di manutenzione straordinaria, che rivestono il carattere d’urgenza, l’amministratore ha la facoltà di intervenire informando l’assemblea in un secondo momento (articolo 1135 del Codice civile ultimo comma). Nel caso esaminato l’intervento di manutenzione doveva essere considerato urgente anche a tutela dell’incolumità dei passanti. I giudici sottolineano che non impedire un evento, per chi ha l’obbligo giuridico di farlo, equivale a cagionarlo (articolo 40, comma 2 del Codice penale). È la situazione in cui si è venuto a trovare l’amministratore condannato, titolare dell’obbligo di garanzia attribuito dalle norme civilistiche e gli obblighi di compiere atti di manutenzione e gestione sulle cose comuni e di atti di amministrazione straordinaria anche senza il sì dell’assemblea. Né la cassa vuota e la morosità dei condòmini può essere considerata una scusante per l’inerzia. Eliminare il pericolo, precisano i giudici, non vuol dire necessariamente far eseguire interventi di manutenzione, ma anche semplicemente seguire la strada della prevenzione adottando delle cautele. L’amministratore avrebbe, infatti, evitato la condanna se avesse provveduto a far transennare la zona o a far rimuovere le mattonelle che rischiavano di cadere. Parma: tutele alla salute dei detenuti, accordo tra Ausl, Garante Regionale e Comunale parmatoday.it, 24 novembre 2015 In programma, collaborazioni finalizzate al miglioramento della presa in carico delle segnalazioni da parte dei detenuti, dei loro familiari e dei legali sulle criticità nell’accesso ai percorsi di cura. "Miglioramento della presa in carico delle segnalazioni da parte dei detenuti, dei loro familiari e dei legali, circa presunte criticità nell’accesso ai percorsi di cura e, più in generale, di tutela della salute"; "maggiore e tempestivo scambio di informazioni sia sulla casistica segnalata sia sulla comunicazione dell’accessibilità alle prestazioni sanitarie" e "maggiore collaborazione nello scambio di informazioni sulla normativa penitenziaria e sull’erogazione dei servizi sanitari, che vanno comunque assicurati alla popolazione detenuta al pari dei liberi cittadini": sono le tre linee guida su cui si basa l’intesa di collaborazione raggiunta tra la Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia Romagna, Desi Bruno, il Garante del Comune di Parma, Roberto Cavalieri, e l’Azienda sanitaria locale di Parma per garantire più tutele alla salute dei detenuti della casa circondariale della città ducale. Nel corso degli ultimi anni, e a più riprese, ricorda Bruno, i Garanti hanno segnalato il disagio dei detenuti legato alla percezione di non ricevere cure mediche adeguate, e una dotazione di posti letto del Centro diagnostico terapeutico che risulta insufficiente in relazione al numero eccessivo di detenuti affetti da gravi patologie. I Garanti riconoscono sì all’Ausl il "notevole sforzo organizzativo realizzato negli anni", che ha portato nel 2015 a raggiungere l’erogazione di 13.726 visite mediche, proprio in ragione della presenza di una popolazione detenuta affetta da patologie croniche e con maggiore anzianità, ma al contempo auspicano che l’organizzazione e le linee di intervento presentate "possano incrementare l’efficacia tanto degli aspetti clinici quanto relazionali con le persone detenute". All’incontro, per l’Ausl di Parma erano presenti la direttrice generale, Elena Saccenti, il direttore sanitario, Ettore Brianti, il direttore delle attività socio-sanitarie, Paolo Volta, la direttrice del Distretto di Parma, Giuseppina Ciotti, e il direttore dell’unità operativa Sanità penitenziaria, Faissal Choroma. Quest’ultimo ha presentato ai Garanti la situazione sanitaria degli istituti penitenziari di Parma, caratterizzata da un’alta concentrazione di casi di grande complessità e da una popolazione detenuta con lunghe pene da scontare, oltre a un’importante presenza di reclusi con età oltre i 65 anni. Il responsabile ha illustrato anche le linee di programmazione degli interventi a tutela e promozione della salute per le persone detenute negli Istituti di Parma. Ferrara: detenuti al lavoro in mensa e in corsia, l’accordo fra Tribunale e cinque Onlus di Marzia Paolucci Italia Oggi, 24 novembre 2015 Distribuzione pasti, movimentazione pazienti, assistenza disabili, cura del verde, pulizia e manutenzione ordinaria: gli interessati da queste attività di recupero sociale saranno quei detenuti del ferrarese che hanno ottenuto dal giudice il provvedimento di sospensione del processo e la messa alla prova. È tutto nella convenzione quinquennale che il tribunale di Ferrara ha sottoscritto il 12 novembre scorso con cinque onlus per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Un pacchetto sociale diversificato e strutturato, degno di una fattispecie penale che se portata a buon fine, arriva dritta all’estinzione del reato. I riferimenti normativi sono l’ art. 168-bis c.p. che descrive la fattispecie penale di sospensione del processo e messa alla prova per pene pecuniarie e detentive non superiori ai quattro anni. C’è poi l’art. 464-bis c.p.p. che disciplina le modalità di presentazione della richiesta da parte dell’imputato e l’articolo 2, comma 1 del dm 8 giugno 2015, n. 88 del ministro della Giustizia. In quest’ultimo caso, si tratta del decreto contenente il regolamento ex lege 28 aprile 2014 n. 67 che ne aveva previsto l’adozione entro tre mesi dalla sua entrata in vigore. Il testo disciplina le convenzioni in materia di pubblica utilità per la messa alla prova dell’imputato stipulate tra il Ministero della giustizia o, su sua delega, il Presidente del tribunale di riferimento e gli enti non profit di assegnazione ai lavori di pubblica utilità. Gli ambiti di attività delle convenzioni sono fissati dal decreto ministeriale in quantità consistente: si può lavorare per il recupero sociale di alcolisti e tossicodipendenti, diversamente abili, malati, anziani, minori, stranieri, per la protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, tutela del patrimonio ambientale intesa come prevenzione incendi, salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale, recupero del demanio marittimo, protezione della flora e della fauna con particolare riguardo alle aree protette, incluse le attività connesse al randagismo degli animali. Previste anche la custodia di biblioteche, musei, gallerie o pinacoteche assieme alla manutenzione e fruizione di immobili e servizi pubblici, inclusi ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico, compresi giardini, ville e parchi con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia. È inoltre previsto che le prestazioni di lavoro siano inerenti a specifiche competenze o professionalità delle persone. Nel caso di Ferrara si tratta di più convenzioni riguardanti vari ambiti del sociale: a cominciare dalla Caritas con la preparazione dei pasti per le persone che mangiano alla mensa, alla pulizia degli ambienti, lo scarico mezzi, la selezione e sistemazione dei vestiti e l’attività di segreteria. Gli imputati che ne faranno richiesta, potranno essere inseriti uno alla volta all’interno della struttura. La convenzione prevede ancora l’inserimento di tre persone presso la Cooperativa sociale "Ente Serena" e di ben dieci presso la Cooperativa "Il Germoglio" che potranno impegnare il loro tempo a favore di svantaggiati, disabili e minori, manutenzione e fruizione di immobili e servizi pubblici, compresi giardini e lavoro rientrante nelle specifiche competenze o professionalità del soggetto. Presso la Casa di cura Santa Chiara di Ferrara e non solo, l’Onlus "C’è vita e vita" prenderà invece in carico settanta imputati per movimentare i pazienti, aiutare l’animatrice, dare assistenza durante il vitto, farli deambulare, assistenza fisioterapica in palestra, uscite in giardino, sorveglianza attiva e altri servizi che verranno individuati dal personale medico o infermieristico. Presso il Consorzio "Sì" ci saranno invece venti persone impegnate in lavori di manutenzione varia e del verde e in attività educative di minori a rischio nella segreteria. Ferrara: continuano a migliorare le condizioni del carcere, 300 detenuti un terzo stranieri estense.com, 24 novembre 2015 C’è del lavoro ancora da fare ma piano piano le condizioni del carcere di Ferrara sembrano essere avviate verso un miglioramento, sia in termini di popolazione detenuta che di attività svolte e qualità degli ambienti. È quello che emerge dalla relazione annuale che il garante per i diritti del detenuto, Marcello Marighelli, ha presentato al Consiglio comunale di Ferrara nella seduta di lunedì pomeriggio. In particolare, è ormai finita l’emergenza del sovraffollamento. Secondo i numeri riportati da Marighelli e riferiti al 30 settembre scorso, sono presenti 300 detenuti su una capienza regolamentare di 228 e una massima tollerabile di 446. Di questi, poco più di un terzo sono stranieri (122). I detenuti condannati sono in totale 205, quelli in attesa di primo giudizio sono 34, gli appellanti 25 e i ricorrenti 15. Sono invece 75 i tossicodipendenti, 20 i collaboratori di giustizia ospitati e 25 i detenuti classificati AS2 protetti (gli AS2 semplici sono 4). Nell’ultima relazione era stata segnalata l’esigenza di effettuare alcuni lavori nelle cucine che nel frattempo hanno trovato in parte compimento, anche se rimangono infiltrazioni d’umidità "dovuti a inefficienze nella copertura degli edifici". Gli spazi dichiarati non utilizzabili dopo il sisma 2012 sono tornati agibili e "le sezioni presentano una buona condizione degli ambienti per quanto riguarda l’ordine e la pulizia, mentre i locali per le docce richiederebbero una significativa manutenzione". Riorganizzati e migliorati anche gli spazi per i colloqui. "La positiva esperienza della tinteggiatura delle celle con acquisto del materiale necessario con il piccolo fondo messo a disposizione dell’Ufficio del Garante - fa notare Marighelli - è stata per quest’anno sospesa, avendo individuata come prioritaria l’esigenza di acquistare materiale per la pulizia personale dei detenuti, come doccia schiuma e detersivo per il lavaggio degli indumenti, al fine di migliorarne la disponibilità nel periodo estivo". Ma vengono segnalate difficoltà amministrative per realizzare la fornitura. Sul versante sanitario, "le visite effettuate agli ambulatori e ai locali dell’infermeria del carcere sono state caratterizzate da facilità e libertà di accesso, disponibilità immediata a fornire esaurienti risposte ai quesiti e a valutare la segnalazione di casi e di richieste dei detenuti. Bene anche le attività all’interno della Casa circondariale: proseguono quelle sportive, quella teatrale. Nel 2015 è stata avviata una collaborazione con l’Istituto comprensivo "De Pisis" per attivare i corsi di alfabetizzazione, secondaria di primo grado, biennio di secondaria di secondo grado per detenuti comuni e collaboratori. Due detenuti risultano iscritti ai corsi di laurea dell’Università di Ferrara. Da ottobre ha preso avvio anche un corso a indirizzo alberghiero in collaborazione con il Vergani-Navarra. Favoriti anche i progetti legati alla genitorialità con incontri specifici e "I sabati delle famiglie": due ore speciali di colloquio, circa due volte al mese, che padri e figli possono trascorrere assieme al resto della famiglia, con proposte di gioco e di animazione delle educatrici del centro "Isola del tesoro" e di giovani volontari scout. Per quanto riguarda le istanze dei detenuti, non ci sono discostamenti rispetto agli anni precedenti, ma "va comunque evidenziato che le questioni inerenti le misure alternative ed i permessi premio non sono determinate da difficoltà di comunicazione con la Magistratura di Sorveglianza di Bologna, ma da difficoltà oggettive inerenti al reperimento di occasioni di lavoro e accoglienza". Tra le note positive - oltre all’esibizione dei buskers - anche gli "incontri con la città", in particolare per le iniziative del Coni e dei fratelli Duran per la promozione della boxe e "delle sue regole di lealtà e umana solidarietà". Firenze: chiusura Opg. Fns-Cisl scrive a Mattarella "confusione totale, riporti chiarezza" gonews.it, 24 novembre 2015 "Preg.mo Presidente Mattarella, come ben noto alla S.V. il Parlamento ha decretato il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e dopo varie proroghe di legge, concesse nel tempo per i ritardi utili all’attuazione di questa importante scelta politica, lo scorso 31 marzo 2015 è risultato essere l’ultimo termine consentito per ritardare ulteriormente la soppressione di dette Strutture Penitenziarie. Purtroppo, come avvenuto tanti anni prima per il superamento dei Manicomi (Legge Basaglia), le Istituzioni non si sono fatte trovare pronte ed ancora oggi la maggioranza delle Regioni non dispone di una o più adeguate Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Questo ha portato - tra l’altro - ad ignorare alcuni aspetti fondamentali della Riforma degli OO.PP.GG. che indica chiaramente non dover dare alle nuove R.E.M.S. un aspetto né di struttura penitenziaria, né manicomiale. Inoltre le stesse R.E.M.S. non devono superare una capienza superiore a 20 posti letto. Invece - ne è un chiaro esempio - la Struttura ex OPG di Castiglion delle Stiviere si è trasformata in un "contenitore" di almeno n. 8 REMS da 20 posti ciascuna, per un totale di 160 posti, che equivale alla precedente capienza dell’ex OPG. Non bastasse questo gli Internati ospitati oggi a Castiglion delle Stiviere hanno superato di gran lunga le 220 presenze. In Toscana la vicenda è ancor più controversa. L’OPG di Montelupo Fiorentino sviluppa la propria funzione nel plesso monumentale della Villa Medicea dell’Ambrogiana, motivo intorno al quale ruotano una moltitudine d’interessi politici ed economici del Territorio, circa la eventuale futura destinazione d’uso dell’immobile, un interesse tanto forte da far passare in secondo piano il vero senso della Riforma che riguardava una diversa gestione delle Persone, autori di reato ma non imputabili per il codice penale in presenza di una incapacità totale e/o ridotta d’intendere e volere al momento della commissione di reati. In Toscana la REMS (ma probabilmente almeno 2, per effetto dei numeri di casi clinici da trattare) non è ancora stata realizzata. È individuata la località dove realizzarla (Volterra) ma non sono ancora certi né i tempi di completamento delle opere, né di dotazione delle Professionalità che necessitano per la futura presa in carico degli Internati. Nel frattempo all’OPG di Montelupo Fiorentino permangono le attività con circa 60 Internati effettivamente presenti nella Struttura (ce ne sono poi altri che sono inseriti in programmi esterni ma che restano giuridicamente in carico fino alla loro futura completa dismissione dall’Esecuzione Penale). Questi Internati sono ospitati in un padiglione con caratteristiche penitenziarie, pur con spiccata predisposizione alle attività di natura sanitaria e riabilitativa delle Persone, in ambienti recentemente ristrutturati totalmente e che ha visto il Ministero della Giustizia sostenere una spesa di almeno 8 milioni di euro, edifici recentemente visitati dai Vertici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e che potrebbero tranquillamente essere destinati (ove la Rems fosse inaugurata) ad altra destinazione d’uso penitenziaria, magari per detenuti a basso indice di pericolosità (ad esempio casa circondariale con regime di custodia attenuata). Questo contribuirebbe ulteriormente a proseguire nella difficile azione di deflazione al sovraffollamento penitenziario che gli Istituti in genere continuano a soffrire. Nonostante questo assistiamo però all’avanzare di ipotesi che lasciano nella "confusione totale" gli stessi Operatori Penitenziari, ed in particolare gli Appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che operano in questa Struttura. Nessuna certezza sul loro futuro professionale viene indicata, circa il permanere a Montelupo Fiorentino in caso di cambio della destinazione d’uso dell’OPG (la maggioranza di questi Colleghi e Colleghe vivono sul Territorio, hanno acquistato abitazioni per le loro Famiglie ed hanno inserito gli stessi Familiari in ogni contesto lavorativo e/o di studio). Nei giorni scorsi, ad aumentare i dubbi e le preoccupazioni, si sono verificati alcuni fatti contrastanti tra loro dove - ad esempio - il Capo del D.A.P. ha siglato un verbale di una riunione con il Sindaco del Comune di Montelupo Fiorentino, per iniziare a cedere porzioni del Plesso monumentale che ospita l’OPG, nonostante ad oggi permangono le stesse identiche attività antecedenti alla Riforma. Non bastasse questo, successivamente, il 6 novembre 2015 la Direzione dell’OPG con la Dirigenza dell’Agenzia del Demanio, hanno stilato un ulteriore verbale di riunione per chiarire che, fino a quando proseguono le attività con gli Internati, non è possibile procedere ad attuare quanto indicato nei giorni precedenti dal Capo del DAP e dal Sindaco di Montelupo Fiorentino. Infine arriva in questi giorni una ulteriore comunicazione dalla Direzione dell’OPG che informa della pronuncia della Magistratura di Sorveglianza che, in presenza del ricorso di un cospicuo numero di Internati, disporrebbe di estromettere la presenza del Personale del Corpo di Polizia Penitenziaria dal Reparto che ospita gli Internati - non ancora dismessi dall’OPG per le future REMS - con motivazioni di difficoltosa comprensione ("stride" al comune sentire che si possa risultare non imputabili a causa d’incapacità d’intendere e volere, magari per un omicidio, ma altrettanto capacissimi però di non gradire il controllo del Personale di Polizia Penitenziaria in una Struttura che fino alla propria eventuale chiusura resta invece una di quelle che il Codice Penale riconosce tra i vari generi di penitenziario). Preg.mo Pres. Mattarella, dopo aver informato ogni livello Istituzionale possibile di quanto accade, affidiamo anche alla S.V. questa nostra lettera, auspicando che possa esprimere un Suo Autorevole parere per riportare chiarezza in una vicenda dove - purtroppo - non riusciamo più a comprendere quale siano i confini del buon senso e della responsabilità, oltre che quelli di natura giuridica ed amministrativa". Teramo: carcere di Castrogno, inaugurata sezione per detenuti madri primadanoi.it, 24 novembre 2015 È la prima sezione femminile a trattamento avanzato destinata ad ospitare le detenute madri inaugurata in Abruzzo, nel carcere teramano di Castrogno, e la terza in Italia. Ha quattro camere da letto, una sala per i giochi dei bimbi e una saletta pranzo con cucina, tutte ispirate al libro di Sepulveda "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare". I disegni sulle pareti sono stati realizzati da un detenuto che oggi ha avuto un encomio per la creatività, il tratto artistico e la disponibilità a collaborare al progetto. "Oggi inauguriamo un progetto partito un anno e mezzo fa - ha commentato il direttore del carcere Stefano Liberatore - che mira al recupero di spazi essenziali per la dignità all’interno del carcere e alla tutela dei diritti primari dei minori e del recupero della genitorialità. Oggi Castrogno conta una sezione femminile con due detenute madri, che da oggi saranno ospitate con i loro bambini nella nuova sezione. "Ho seguito questo progetto fin dall’inizio - ha sottolineato la dottoressa Francesca Del Villano, magistrato di sorveglianza di Pescara - progetto che ho condiviso con entusiasmo e che ha visto anche il coinvolgimento di detenuti in riabilitazione operosa". A tagliare il nastro, in una cerimonia a cui hanno partecipato, oltre al sindaco Maurizio Brucchi, e al Vescovo Michele Seccia, rappresentanti istituzionali della provincia. Firenze: Giornata dei Braccialetti, diamo effettività agli art. 275 bis cpp e 58 quiquies op camerepenali.it, 24 novembre 2015 L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia la parziale e minima applicazione del braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari. Il 30 novembre 2015, nel 1° giorno di Astensione dalle udienze, iniziative in tutti i Palazzi di Giustizia e manifestazione nazionale a Firenze. La parziale e minima applicazione dell’ art. 275 bis del codice di procedura penale e dell’art. 58 quinques O. P., per quest’ultimo possiamo dire inesistente, è in palese violazione dei diritti dei detenuti e in contrasto con l’esigenza di superare e prevenire il sovraffollamento nelle carceri italiane. Saranno distribuiti braccialetti con la scritta "+ Braccialetti - Carcere", da portare al polso per chi riterrà di sostenere l’iniziativa Torino: teatro e carcere, i detenuti improvvisano e rispondono agli spettatori di Daniele Biella Vita, 24 novembre 2015 Da martedì 24 a venerdì 27 novembre alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno va in scena "Le altre facce della medaglia": chi assiste potrà rivolgere domande agli attori su ogni aspetto della vita dietro le sbarre, con occhio particolare alla legge di riforma penitenziaria che quest’anno compie 40 anni. Intervista al regista Claudio Montagna: "Questo tipo di rappresentazione facilita l’incontro tra dento e fuori, anche perché è supportato in prima linea dall’amministrazione penitenziaria". Cos’è e cosa dovrebbe essere il carcere? Quali sono le sue regole? Come lo vive chi è ogni giorno a contatto con questa realtà e cosa ne pensa chi la guarda da lontano? A Torino, presso il teatro della Casa Circondariale Lorusso Cutugno, dal 24 al 27 novembre 2015 queste domande troveranno una o più risposte: verrà infatti messo in scena "Le altre facce della medaglia", spettacolo teatrale che mette a confronto i punti di vista sulle trasformazioni e sulle innovazioni introdotte dalla legge di riforma penitenziaria del 1975, sul suo stato di attuazione oggi, sulle sue modifiche che, a quarant’anni dalla sua approvazione, sono state discusse in questi mesi dagli Stati generali sull’esecuzione penale promossi dal Ministero della Giustizia. A rappresentarlo la compagnia Teatro e Società, con la regia di Claudio Montagna e in collaborazione con la Cattedra di Sociologia del Diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. "Ogni rappresentazione sarà diversa dall’altra, perché si basa sull’improvvisazione e soprattutto gli attori risponderanno alle sollecitazioni del pubblico"; sottolinea proprio Montagna, che si occupa di teatro fin dal 1971 e promuove spettacoli in carcere con Teatro e Società da 23 anni con un laboratorio settimanale, anche grazie al contributo di Comune di Torino e Compagnia di San Paolo. Le quattro serate di "Le altre facce della medaglia" hanno già 750 prenotazioni. Da dove nasce secondo lei l’interesse verso un’opera così non convenzionale dato che sarà il pubblico a decidere i temi portanti che andranno in scena? "Le persone esterne vogliono conoscere com’è la vita dietro le sbarre, chi sono i "detenuti". Il nostro è un tipo di teatro che facilita questo incontro, perché è vincente il fatto che non siano previste parti a memoria ma risposte e ragionamenti che nascono al momento, a seconda di quello che un attore sta provando e di quello che la sua testa gli propone di dire. Gli spettatori formulano una domanda, anche sulla scorta di esempio che diamo loro al momento della prenotazione, e una volta che l’attore-detenuto ha detto la propria, arriva a sua volta la risposta di un educatore o di un agente della polizia penitenziaria, sempre sullo stesso tema. È fondamentale, per il buon esito della rappresentazione, che la direzione penitenziaria appoggi completamente questo tipo di azione culturale: è ciò che avviene a Torino e questo crea un’unione d’intenti molto efficace tra pubblico e mondo carcerario". Perché l’enfasi sull’anniversario dei 40 anni della legge di riforma penitenziaria? "Da tre anni, grazie a docenti e studenti della Cattedra di Sociologia del Diritto del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ci occupiamo di legge nei nostri spettacoli. L’enfasi è dovuta al fatto che la percezione della pena, con il passare del tempo, sta pian piano mutando in positivo: da una visione restrittiva si sta passando a termini più riparativi, con l’aumento dell’esecuzione penale esterna e in generale un maggiore ingresso del mondo esterno nel carcere. C’è da fare ancora molto, ma la strada è quella giusta e per questo è importante che gli spettatori conoscano quello che un detenuto può fare o meno". Chi sono gli attori? "Sono persone detenute che variano da 22 a 70 anni, con una media di 15 presenze annue. Se il pubblico, con questi spettacoli "interattivi", scopre un modo nuovo di avvicinarsi al carcere conoscendo direttamente come funzionano le cose sotto ogni aspetto e acquisendo una maturità nuova, anche il singolo detenuto può fare un percorso personale importante grazie all’esperienza teatrale. Sottolineo questo perché non capita di rado che un attore venga da me dicendomi: "Se sapevo dell’esistenza del teatro prima di delinquere, non sarei finito dentro". È chiaro che si tratta di un ragionamento a posteriori, ma il concetto che passa è più che significativo". Alla luce della sua esperienza ventennale nel teatro dietro le sbarre, qual è la priorità assoluta per migliorare le condizioni generali del mondo carcerario? "I detenuti vogliono lavorare, o comunque avere una formazione che permetta loro di gettare la basi per un futuro socialmente positivo che faccia evitare loro la recidiva. Trovi ancora la persona che ti dice: "faticare per mille euro al mese? Meglio una rapina", ma è l’assoluta minoranza. È importante sottolineare invece come la quasi totalità voglia mettersi in gioco in vari settori, dalla cucina a qualsiasi altra mansione. Ogni detenuto che oggi fa lavori in carcere versa un rimborso spese che viene decurtato dalla paga, rimborso che tra l’altro negli ultimi mesi è aumentato di molto lasciando interdette molte persone. In generale, c’è comunque da sottolineare che in varie strutture l’impulso a maggiori possibilità lavorative sta migliorando la vita carceraria e le prospettive. Ora però è arrivato il tempo di una visione d’insieme valida per tutto il circuito detentivo italiano". Giornata contro la violenza sulle donne "La trilogia dell’amorte" va in scena nelle carceri 9Colonne, 24 novembre 2015 In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, domani vanno in scena - in contemporanea in penitenziari, centri antiviolenza e teatri di una ventina di città italiane - tre monologhi contro il femminicidio di Francesco Olivieri dal titolo "La Trilogia dell’AmorTe", con il sostegno di NoiNo.org, uomini contro la violenza sulle donne, BeFree, cooperativa contro la tratta, le violenze e le discriminazioni e della fondatrice della rete Centri Antiviolenza in Sicilia Raffaella Mauceri. "Combattere contro ogni forma di violenza è un nostro dovere - afferma l’autore, e farlo laddove ci sono persone che scontano una pena per questo, e laddove ci sono donne che hanno subito violenza e hanno paura di affrontare una vita normale, credo che siano i luoghi migliori dove poter far nascere un germoglio. Quel germoglio che abbatte i muri delle colpe e dei buoni e cattivi, ma che attraverso l’ascolto, il dialogo e appunto progetti come la Triologia dell’AmorTe, può smuovere la coscienza di molti uomini". Ecco i luoghi che accolgono la rappresentazione: Trieste, Casa Internazionale delle Donne; Milano, Opera carcere, Operaliquida teatro; San Giovanni in Marignano, Teatro Massari; Cassino, carcere, associazione Tutto un altro genere; Roma, Befree Casa Internazionale delle Donne; Roma, Befree Centro Antiviolenza Comune di Roma via di Torrespaccata; Roma, Befree Servizio Sos Donna Comune di Roma via Grottaperfetta; Frosinone, carcere; Napoli, teatro; Bari, teatro; Marsala, teatro; Senigallia, Teatro Nuovo Melograno; Vasto, Centro Antiviolenza; Perugia, carcere; Agrigento, Openspacetheatre; Siracusa, carcere; Ragusa, compagnia Godot; Biancavilla (Catania), Centro antiviolenza Calipso; Palermo, carcere e teatro; Volterra, carcere. Povertà, deprivazione, esclusione: ritratto sgomento dell’Italia nel 2014 di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 24 novembre 2015 Istat. Uno su quattro a rischio povertà: il 28% dei residenti. Il presidente dell’Inps Boeri: "Se trovassimo le risorse guarderei con favore a un reddito minimo senza alcun requisito anagrafico". Non c’è tregua per chi vive di annunci sulla crescita, mentre l’ottimismo non riduce le diseguaglianze galoppanti. In Italia la povertà non cala, oltre una persona su quattro, il 28,3% della popolazione, era a rischio povertà o esclusione sociale nel 2014. Il report dell’Istat sul reddito e le condizioni di vita degli italiani conferma un dato stabile nella crisi: il 19,4% è a rischio povertà, l’11,6% vive in famiglie gravemente deprivate e il 12,1% in famiglie a bassa intensità lavorativa. Il dato complessivo (28,3%) è superiore di quattro punti percentuali rispetto alla media dell’Unione Europea: il 24,4%. La povertà in Italia è inferiore solo alla Romania (40,2%), alla Bulgaria (40,1%), alla Grecia (36,0%), alla Lettonia (32,7%) e all’Ungheria (31,1%) ed è superato di poco da Spagna (29,2%), Croazia e Portogallo. Rispetto al 2013 l’indicatore del rischio povertà o esclusione sociale è rimasto stabile. Per il secondo anno consecutivo diminuiscono le persone gravemente deprivate (dal 12,3% del 2013 all’11,6% del 2014, il minimo dal 2011), ma l’istituto nazionale di statistica sostiene che la diminuzione è stata compensata dall’aumento della quota di chi vive in famiglie a bassa intensità lavorativa (dall’11,3% al 12,1%). In altre parole di chi non può permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 13,9% al 12,6%), una settimana di ferie all’anno lontano da casa (dal 51,0% al 49,5%), una spesa imprevista da 800 euro (dal 40,2% al 38,8%) e aumenta la quota di chi vive di lavoro povero. Il lavoro - quando esiste - è scarsamente produttivo e, soprattutto, non migliora affatto la condizione sociale ed economica dei nuovi poveri. Le famiglie dove componenti tra i 18 e i 59 anni hanno lavorato meno di un quinto del tempo salgono infatti dall’11,3% del 2013 al 12,1% nel 2014. L’aumento del lavoro povero a bassa intensità produttiva è una realtà che ha interessato nel 2013-4 le famiglie meridionali: l’Istat stima l’aumento dal 18,9% al 20,9%. Si tratta di famiglie numerose, coppie con figli (dall’8,3% al 9,7%) e figli minori (dal 7,5% all’8,9%); famiglie con membri aggregati (dal 17,8% al 20,5%). Il Mezzogiorno è un paese a parte. Al Sud, infatti, il rischio "povertà-esclusione sociale" è calato leggermente al 46,4% del 2014 dal 48% del 2013. Ma la distanza con il Nord e il Centro è abissale. Qui il rischio cala al 17,3% e al 22,8%. I valori sono praticamente doppi Inoltre il reddito mediano al Sud si attesta a un livello inferiore del 17% al dato nazionale: 20.188 euro l’anno (circa 1.682 euro al mese), mentre esiste una maggiore disuguaglianza perché l’indice di Gini si è attesta a 0,305. I dati Istat sul rischio di povertà ed esclusione mostrano una situazione "estremamente allarmante", secondo Federconsumatori e Adusbef, che chiedono un piano straordinario per il lavoro. "Peggiora il dato di chi ha arretrati per il mutuo, l’affitto e le bollette, salendo al 14,3%, un record - afferma il segretario dell’Unione nazionale dei consumatori Massimiliano Dona - Il 49,5% non può permettersi di andare in ferie per una settimana, per quanto nel 2013 la percentuale fosse al 51%, vuol dire, comunque, che stiamo peggio rispetto al Dopoguerra, quando anche le famiglie di operai, in agosto, con la chiusura delle fabbriche, potevano tornare nel loro paese d’origine e passare le vacanze con i parenti". "È necessario - ha sostenuto il capigruppo di Sinistra Italiana Arturo Scotto - introdurre la misura del reddito minimo. Una misura contro la povertà e contro la precarietà è oramai indispensabile per garantire una vita dignitosa a oltre 10 milioni di poveri". Il governo Renzi sta lavorando all’ipotesi, riduttiva, di un sussidio contro le povertà assolute, non un reddito di inclusione sociale o un vero reddito minimo - cioè una misura universalistica rivolta sia ai poveri che non lavorano sia ai lavoratori poveri. Questo dibattito si svolge in un’estrema penuria di risorse, spostate sul taglio delle tasse sulla prima casa, gli 80 euro per i dipendenti e altre misure per i consumi che non ripartono. "Se esistessero - ha riconosciuto ieri il presidente dell’Inps Tito Boeri - guarderei con favore alla possibilità che il reddito minimo". Per il momento c’è solo la proposta di un sussidio per gli over 55 che hanno perso il lavoro da finanziare con il taglio delle pensioni medio-alte e i vitalizi. Proposta respinta dal governo. Un passo avanti sulla flessibilità per immigrati e terrorismo di Dino Pesole Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Eventi eccezionali. Con questa allocuzione il Patto di stabilità, declinato e reinterpretato sia dal Fiscal compact che dalla comunicazione sulla flessibilità del gennaio scorso, di fatto già contempla la possibilità di derogare alla disciplina di bilancio in presenza di gravi circostanze che coinvolgano i paesi membri, a partire da una prolungata fase recessiva. Tra gli "eventi inconsueti che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria di un paese", va certamente inserita l’emergenza terrorismo, al pari dell’ondata migratoria. E dunque parrebbe scontato che le spese cui i singoli Stati devono far fronte per incrementare la sicurezza e la difesa dovrebbero essere momentaneamente escluse dal calcolo del deficit. Ieri a Bruxelles, con la riunione straordinaria dell’Eurogruppo, si è cominciato a istruire la pratica. Si attende una valutazione ufficiale della Commissione, dopo le aperture espresse nei giorni scorsi dal presidente Jean Claude Juncker. Poi la parola tornerà ai ministri dell’Eurogruppo. In tempi di emergenza, la velocità delle decisioni è un elemento fondamentale. "Non è urgente decidere oggi", ha osservato ieri al contrario il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. Eppure serve un rapido cambio di rotta, peraltro già avviato dall’attuale Commissione. D’accordo sulla necessità di mantenere alta la guardia sul controllo dei conti pubblici per evitare altri shock, dopo la crisi frontale che ha colpito l’eurozona tra il 2009 e il 2012. In questo caso non si tratta di riscrivere le regole, ma di interpretarle e adeguarle a un contesto in cui le emergenze si susseguono, con il rischio che si blocchi sul nascere la fragile ripresa che ha cominciato a manifestarsi nel corso dell’anno. Più margini di bilancio per quei paesi che si trovano costretti a fronteggiare la doppia emergenza del terrorismo e dell’immigrazione paiono dunque doverosi. Soprattutto se si tratta di Paesi che rientrano nel "braccio preventivo" del Patto di stabilità non essendo sottoposti a procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo. Sulla "clausola migranti", esplicitamente richiesta dall’Italia e che dovrebbe tradursi in 3,3 miliardi di margine in più, la Commissione ha di fatto rinviato il giudizio alla prossima primavera. Ora si apre anche il capitolo delle spese per la difesa e la sicurezza che nel nostro caso andrebbero ad aggiungersi alle altre due clausole di flessibilità: riforme e investimenti, per un totale complessivo di oltre 17 miliardi. I rigidi esegeti della disciplina di bilancio obietteranno che in questo modo il Patto di stabilità, con annesse le sue successive declinazioni (dal Fiscal compact al Two Pack e al Six Pack) è di fatto depotenziato. Varrebbe la pena di chiedersi se non sia il caso di cominciare a rivedere in toto un’impalcatura costruita solo attorno alla moneta unica, e di accelerare anche sull’onda dell’attacco terroristico l’integrazione politica partendo proprio da una vera politica economica e fiscale comune. Spese per la sicurezza, la Ue frena sullo sconto di David Carretta Il Messaggero, 24 novembre 2015 Mentre rischia di aprirsi un nuovo braccio di ferro tra l’Italia e l’Unione Europea sulle spese per sicurezza e difesa, l’Eurogruppo ieri ha confermato che il giudizio sulla Legge di Stabilità è sostanzialmente sospeso, anche se il governo di Matteo Renzi dovrebbe adottare "misure aggiuntive" per essere certo di rientrare nei limiti del Patto di Stabilità e Crescita nel 2016. "Concordiamo con la valutazione della Commissione che il bilancio (dell’Italia) è a rischio di inadempienza", hanno detto i ministri delle Finanze della zona euro, invitando il governo a prendere "misure aggiuntive" per "permettere un miglioramento dello sforzo strutturale" di bilancio. In teoria servirebbe uno sforzo dello 0,4% di Pil. Ma l’Eurogruppo ha anche preso nota del fatto che l’Italia riempie tutti i criteri necessari ad ottenere una "deviazione temporanea addizionale" grazie alla flessibilità prevista per riforme e investimenti. L’esecutivo comunitario farà una valutazione nella primavera 2016. Anche la flessibilità sui migranti potrebbe contribuire a fare in modo che l’Italia eviti una deviazione significativa, hanno spiegato i ministri della zona euro. Se effettivamente verranno concesse dalla Commissione le due clausole su riforme e investimenti, l’Italia passerebbe nella categoria dei paesi "globalmente conformi" al Patto di Stabilità. Le misure necessarie di cui parla l’Eurogruppo serviranno "se le clausole (di flessibilità, ndr) non vengono accettate", ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Ma "di fatto la Legge di stabilità è rite-nuta accettabile dall’Eurogruppo", ha detto Padoan. Fonti del Tesoro parlano di questioni "procedurali", che hanno portato il rinvio alla primavera. Ma il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, ha chiesto che il governo adotti "altre riforme strutturali" in cambio di flessibilità aggiuntiva. "Per quanto riguarda le riforme aggiuntive sono riforme che di fatto il paese ha già implementato, perché sono aggiuntive rispetto a quelle che avevano portato alla concessione del primo set di clausole per le riforme ad aprile", ha risposto Padoan: "Da allora il paese ha fatto altre riforme, come quella del sistema bancario, e ne farà altre da qui alla primavera". Sulla flessibilità per le spese destinate a sicurezza e difesa, Padoan ha detto che è un tema che il governo sta valutando. Secondo il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è una "ovvietà" scomputare dal Patto le risorse destinate alla sicurezza. Ma l’Eurogruppo frena. L’impatto sui bilanci "verrà valutato con lo stesso approccio della crisi dei migranti, caso per caso ed ex post, anche se non credo faranno deragliare i bilanci", ha detto Dijsselbloem. Durante la discussione di ieri, solo Francia e Belgio hanno sollevato la questione. Ma anche il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, ha minimizzato: i 600 milioni annunciati per il 2016 per rafforzare la sicurezza sono "una cifra molto piccola, che non rimette in discussione gli impegni della Francia". Parigi "non chiede flessibilità particolare su sicurezza o difesa", ha detto Sapin, confermando l’obiettivo di deficit del 3,3% per il prossimo anno. Abbandonati nella terra di nessuno di Sara Prestianni Il Manifesto, 24 novembre 2015 Frontiera greco-macedone. Più di 2.000 migranti bloccati al freddo dalle autorità di Skopje. Sono più di 2.000 i migranti in attesa alla frontiera greco-macedone, in una terra di nessuno, perduta nelle lande sconfinate del nord della Grecia, di fianco al villaggio di Idomeni. È uno dei tanti snodi del "corridoio balcanico" che ha visto passare da inizio gennaio 600.000 uomini, donne e bambini. Sbarcati sulle isole i migranti sono obbligati a registrarsi nei centri di identificazione che si stanno trasformando in "hotspot", per poter comprare un biglietto per la nave che li porterà ad Atene. Dalla capitale greca, in autobus, raggiungono Idomeni, per poi continuare verso la Macedonia, in Serbia, Croazia ed Austria. Negli ultimi mesi quello di Idomeni era un posto di frontiera come gli altri sulla rotta balcanica, dove i migranti sostavano qualche ora, per rifocillarsi e poi ripartire. Ma il 17 novembre il meccanismo è cambiato e le porte del corridoio balcanico hanno cominciato a chiudersi. Per un effetto domino, Serbia, Croazia e quindi Macedonia hanno annunciato che dalle loro frontiere sarebbero passati solo iracheni, afghani e siriani. Gli altri - iraniani, bengalesi, marocchini, subshariani, algerini ma anche somali ed eritrei - sulla base discriminante della nazionalità, sono bloccati, senza una reale spiegazione se non il fatto di non essere iracheni, siriani o afgani. Nessuno dice loro il motivo di questo cambio né per quanto la frontiera resterà chiusa e se mai riaprirà. Chi prova a passare per altri punti del confine, comunque impervio tra foreste e fiumi, viene respinto se trovato senza il timbro di ingresso della Macedonia. L’ingiustizia e la discriminazione si materializzano fisicamente in due file: da un lato quelli che possono passare, dall’altro quelli indesiderati, in mezzo la polizia. Un gruppo può vedere l’altro ed il senso di ingiustizia e l’incomprensione diventa ancora più forte. A chiudere la frontiera, un cordone di polizia greco e uno, molto più massiccio, dell’esercito macedone. Sullo sfondo una fila di carri armati ed una barriera. In cielo si aggira un drone che filma tutto ciò che succede. Ad ogni passaggio di siriani, afgani ed iracheni, i migranti bloccati gridano all’ingiustizia. Tutti dovrebbero passare. Ripetendo "fateci passare non siamo dei terroristi", sventolano cartelli che inneggiano all’apertura delle frontiere e al diritto di circolare liberamente. Negli ultimi due giorni le manifestazioni sono state tranquille, ma i volontari ci avvisano che basta poco perché partano tiri di lacrimogeni. La rabbia è palpabile, causata dal senso di ingiustizia di una discriminazione arbitraria su base nazionale che si produce proprio davanti ai loro occhi. Il professore. A.R é iraniano, in perfetto inglese mi dice di essere professore universitario, di avere una casa e uno status di vita agiato a Teheran "Se sono partito un motivo ci sarà. Se ho rischiato la vita in un gommone nel mare Egeo portando con me mia moglie incinta ed i miei figli non è perché voglio venire a lavorare in Europa. Non posso tornare in Iran, là rischio la vita". Difficile spiegare loro che la Macedonia ha deciso di violare la Convenzione di Ginevra, che prevede un’analisi personale delle storie di asilo, per applicare il principio discriminante della nazionalità basandosi su un documento fornito su un’isola greca. Nessuno chiede a A.R. di raccontare perché è in pericolo. La polizia si limita a considerarlo un migrante economico e a farlo attendere in un limbo di freddo ed ignoranza, aspettando di conoscere quale sarà la sua sorte. A.R. continua arrabbiato "mi hanno detto che o decido di aspettare o torno ad Atene. Ma indietro non posso tornare". Da sabato mattina un gruppo d’iraniani ha cominciato uno sciopero della fame per chiedere che le frontiere siano aperte. Le condizioni di vita, nonostante lo sforzo di vari volontari, restano difficili. Dormono in tende o in tendoni in totale promiscuità. Dentro una si sono riuniti tutti gli africani, di varia nazionalità, camerunensi, maliani, togolesi. In fondo scorgo un gruppo di eritrei. Hanno deciso di non prendere la via della Libia perché avevano troppa paura del mare. Hanno saputo di troppi loro connazionali che sono stati inghiottiti dal Mediterraneo. Poco importa se, essendo eritrei, c’è una fortissima probabilità che fuggano persecuzioni e abbiano diritto di chiedere l’asilo, ai macedoni basta sapere che non sono né siriani, né afghani né iracheni per bloccarli. Sembra che comincino ad essere anche a rischio gli afghani: saranno i prossimi ad essere bloccati, entrando anche loro a far parte della lista degli indesiderati. Durante il giorno, se non sono a manifestare di fronte alla frontiera, i migranti si aggirano - avvolti da coperte - tra i binari del treno ed i fuochi che hanno acceso per resistere ad un clima che diventa sempre più rigido. Chiedono a chiunque quando la frontiera si aprirà, come una litania, anche se sanno che nessuno può dare loro una risposta sicura. Un nutrito gruppo di giovani del Bangladesh si riscalda attorno ad un fuoco, che serve anche ad illuminare l’oscurità che cala su Idomeni di notte. Mi raccontano di come hanno rischiato di morire nel mare Egeo. Il loro gommone si è sgonfiato e sono finiti in acqua. I trafficanti avevano dato loro un gommone difettoso. Hanno venduto tutto per partire. Più di 2000 euro per andare dall’India all’Iran, poi in Turchia, ed ora sono bloccati. Uno di loro, con voce concitata mi dice che se lo rimandano indietro si ucciderà. Ha perso tutto, non può tornare indietro. E come una litania mi continua a chiedere "Quando la frontiera aprirà? I miei amici del Bangladesh il mese scorso sono passati senza problemi". Difficile spiegare i meccanismi geopolitici dello scacchiere europeo, dove i migranti sono pedine su un tavolo del risiko, dove le frontiere si aprono e chiudono senza preavviso, dove la vita di centinaia di persone può essere messa in sospeso il tempo di una trattativa o rispedita al mittente, in violazione delle Convenzioni Internazionali. Stop agli arrivi. Il numero dei migranti bloccati alla frontiera resta pero costante. Stranamente nessuna barca è arrivata nell’ultimo giorno da Atene. È la prima volta da mesi. Nessun barcone né gommone ha raggiunto le isole dalle coste turche. Se il numero degli arrivi era leggermente diminuito nelle ultime due settimane, non si era mai registrata questa assenza di partenze. Questa "calma" può essere legata al clima, vista la tempesta che sta invadendo la regione, ed in quel caso appena il vento smetterà di soffiare altre barche arriveranno ed il numero dei migranti bloccati nel limbo di Idomeni sarà destinato ad aumentare. Ma può essere anche la conseguenza della decisione della Turchia di collaborare a fermare i migranti, come richiestogli dall’Ue. Le recenti denunce di Human rights watch che parlavano di retate lungo le coste turche potrebbero essere strettamente legate a questa calma nel mare. Se fosse così la situazione sarebbe ancora più tragica, migliaia di persone sarebbero costrette in un paese, la Turchia, già al collasso dell’accoglienza, dove lo stato non riconosce diritti ai rifugiati e la sopravvivenza - considerando i due milioni di rifugiati già presenti - è quasi impossibile. Intanto ad Idomeni si preparano a che il numero di migranti aumenti e l’Unhcr ha costruito un altro campo, vicino a quello già esistente. Le tende si espandono attorno alla frontiera. Passando tra le tende si sentono i canti in decine di lingue diverse. La frustrazione e l’attesa. Mostrano il documento che è stato rilasciato loro sull’isola greca in cui sta scritto che hanno 30 giorni per lasciare il paese. Scaduto quel tempo possono essere detenuti ed espulsi ad ogni momento. Contano i giorni e sperano che l’indomani sia quello in cui gli stati decidano di aprire la frontiera e di lasciarli passare. Gli strateghi della guerra inutile di Marco Bascetta Il Manifesto, 24 novembre 2015 Muoviamo da una ipotesi non nuova e piuttosto diffusa: Daesh è uno stato e non lo è. Potremmo definirlo un centro di irradiazione, piuttosto o, per così dire, una Mecca ideologico-militare del Jihad. Lo stato islamico interpreta a suo modo, e cioè in una forma violenta e totalitaria, la vocazione antinazionalista dell’Islam, quella che si rivolge alla comunità dei credenti aldilà da qualsiasi frontiera nazionale. Per questa ragione il suo insediamento a macchia di leopardo, dal Medio oriente all’Africa settentrionale e sub sahariana, fino alle periferie delle grandi metropoli europee non costituisce una debolezza, ma una forza. Una realtà del tutto coerente con i principi a cui si ispira, un elemento di coesione e non di frammentazione. Del resto l’islamismo radicale contemporaneo, quello in armi, nasce nella fase conclusiva della guerra fredda come un’arma rivolta contro i nazionalismi "progressisti" e laici, cresciuti nella stagione delle lotte anticoloniali e presto degenerati in sistemi autoritari e corrotti di governo. Su questo terreno convergeranno, ma per poco, la strategia antisovietica americana e diffusi sentimenti popolari contro le caste burocratico-militari subentrate al dominio coloniale. Per principio, dunque, Daesh non può scendere a patti con nessuno stato nazionale, e nemmeno, fino in fondo, con quelli ideologicamente affini da cui riceve aiuto e sostegno, che può al massimo considerare come utili assetti di potere transitori nell’inarrestabile espansione della comunità islamica combattente. Anche l’Arabia saudita gioca dunque con il fuoco nel momento in cui si illude di poter ridurre l’entità jihadista a uno strumento docilmente asservito ai propri interessi nazionali e dinastici di egemonia regionale. Questi brevi cenni, che non rendono certo giustizia alla estrema complessità della questione, solo allo scopo di chiarire come in nessun modo, per via diretta o indiretta, Daesh possa rappresentare un soggetto di interlocuzione diplomatica, neanche sul piano elementare dello scambio di prigionieri (fatta salva la vendita di ostaggi). La stessa ideologia e pratica del martirio lo impedirebbero. Solo ai bordi dell’Is, in un contesto allargato, la pressione delle cancellerie potrebbe forse conseguire qualche risultato, a patto di rinunciare però a voler salvare capra e cavoli, affari e diritti umani. Dunque, la guerra. Che questa sia in atto è una circostanza innegabile, che non sia semplicemente interpretabile in termini teologici è altrettanto evidente, ma anche che senza il richiamo allo spazio potenzialmente illimitato della comunità dei credenti, intesa come esercito potenziale, non potrebbe mai raggiungere l’intensità e le ramificazioni che la contraddistinguono. Resta il fatto che la Mecca jihadista di Raqqa e Mosul, dove i giovani musulmani radicalizzati d’Occidente si recano in una sorta di pellegrinaggio, qualcosa di più di un semplice addestramento militare, prima di tornare ad agire nei rispettivi paesi, non si sgretolerà più senza un’azione di forza. C’è un punto oltre il quale la dimensione della guerra non è più revocabile. Così le sue retoriche risuonano da ogni parte. Chi invoca la "guerra totale", come Goebbels nel celebre discorso del febbraio 1943, chi la civiltà contro la barbarie, chi la guerra identitaria, chi la guerra globale di lunga durata contro il terrorismo sulla scia della dottrina Bush. Converrà, tuttavia, mettere da parte proclami e rullar di tamburi, ma anche, per vederci un poco più chiaro, disertare il terreno dell’etica, le dispute su quanto valgono i "valori" e cioè il tema scivoloso della "guerra giusta", per rivolgere l’attenzione a quello, assai più banale, della "guerra utile". Una "guerra giusta" la si può anche perdere, ma una "guerra utile", va da sé, non può che essere vincente, pena trasformarsi nel suo contrario. Ma che cosa significa esattamente vincente? Un tempo le cose erano molto più chiare: vincere significava annettere o assoggettare un territorio imponendo alla sua popolazione le leggi (e le imposte) dei vincitori. Poi è venuto il tempo dei "governi fantoccio" e delle forme sempre più indirette, ma non per questo poco efficaci, di dominio. Oggi, per semplificare all’estremo, significa stabilizzare un’area attraversata da conflitti e turbolenze, imponendo un compromesso tra gli interessi che vi insistono (compresi naturalmente i propri), garantito da strutture politiche il più possibile solide e affidabili. E a questo scopo è necessario cancellare senza residui e con ogni mezzo necessario, i fattori irriducibili a una qualsiasi condizione di equilibrio. Nel nostro caso Daesh. Se ci atteniamo a questo banale schema, nessuna delle guerre condotte in Medio oriente o in Africa dagli Stati uniti e dalle diverse coalizioni internazionali che si sono succedute nel tempo regge alla prova della "guerra utile". Né la guerra in Afghanistan, né le due guerre irachene, per non parlare degli interventi in Somalia e Mali o dell’impresa di Libia possono definirsi in alcun modo vincenti. E il conflitto in Siria è ben avviato su questa stessa strada. Le innumerevoli vittime che hanno mietuto e i molteplici, incontrollati focolai di conflitto che hanno alimentato rappresentano il risvolto sanguinoso di questa inutilità. Gli strateghi geopolitici, imperversano da decenni come dilettanti allo sbaraglio, incassando una sequela interminabile di scommesse perse. Resta il fatto che lo Stato islamico con le sue mostruose manifestazioni deve essere spazzato via in tutte le sue articolazioni, al centro come alla periferia. Non si può certo attendere che la sua forza propulsiva si esaurisca e i suoi adepti si convincano col tempo ad abbandonarne i costumi e le insostenibili forme di vita. Le vittime non possono essere lasciate al loro destino. La "guerra giusta" contro questa forma di fascismo confessionale deve però dimostrarsi anche utile. Alla qual cosa non gioveranno né spirito di vendetta, né esibizioni patriottiche ad uso interno dei governanti europei, né il revanscismo russo. Quale sia la strada, giunti a questo punto, è difficile a dirsi, se non che non sarà in nessun modo pacifica. Di certo, la situazione non consente più di manovrare le popolazioni della regione come marionette secondo logiche di potenza peraltro disorientate e governate dall’improvvisazione. Sarà una Yalta tra Iran e Arabia saudita e una guerra fredda tra sciiti e sunniti, l’esito del conflitto? Con i kurdi nella parte dei non allineati? Non abbiamo che fantasie e vecchi parametri, in fondo, saperi storici recenti o remoti, per leggere gli eventi. Saremo anche in guerra, ma certo è che non sappiamo come combatterla. Un criterio però si dovrebbe adottare. Se Daesh punta a stringere il legame tra il fascismo islamista con la sua Mecca mesopotamica e l’emarginazione metropolitana in Europa, noi dovremmo puntare a reciderlo. Non in chiave nazionalpatriottica, ma sul terreno dei desideri di libertà e di benessere che attraversano le periferie metropolitane e non solo i frequentatori del Bataclan. L’ennesima "guerra inutile" e perdente sarebbe quella contro le cosiddette "classi pericolose". Possiamo solo sperare che i ragazzi di Saint Denis e dei grandi ghetti della cintura metropolitana parigina gettino via le cinture esplosive per tornare a incendiare le banlieues contro i loro colonizzatori, islamisti o repubblicani che siano. Poliziotti razzisti o predicatori barbuti. Ogni sovversivo in più sarà un terrorista di meno. Il terrorismo jihadista e la strategia del rospo Zen di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 Ci sono, in natura, tre strategie fondamentali per reagire a un pericolo: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, il rospo - come molti altri animali, sia vertebrati sia invertebrati - finge di essere morto. Forse non sarebbe inutile, per capire quel che ci sta succedendo, guardare a noi stessi con occhio più disincantato, come un etologo fa con gli animali, o un marziano farebbe se sbarcasse su questo nostro dilaniato pianeta. Leggendo il fiume di parole che è seguito alle stragi di Parigi, troveremmo difficile non accorgerci che la nostra reazione dominante, almeno in Italia, è quella del rospo. C’è chi lo dice in modo sofisticato e indiretto, e c’è chi lo afferma esplicitamente, ma i capisaldi della nostra reazione si condensano in un unico messaggio di fondo. Non perdiamo la calma, non spaventiamoci, non rinunciamo al nostro modo di vita, non imbarchiamoci in una guerra, non cambiamo i nostri (buoni) rapporti con i musulmani, non chiudiamo le nostre frontiere, non sottraiamoci al dialogo con l’Islam, non crediamo che quella in atto sia una guerra di religione. Una sorta di versione occidentale della imperturbabilità Zen. È giustificata una simile reazione ai fatti di Parigi? In un certo senso sì, perché essa non fa che registrare uno stato di impotenza. Sappiamo benissimo che i cittadini delle nostre società opulente sono, da parecchi decenni (dalla fine della guerra del Vietnam, più o meno), indisponibili a sostenere i costi umani, economici e filosofici di una vera guerra. E capiamo perfettamente che l’unica reazione alla nostra portata è quella solita: varare qualche sanzione economica, colpire i pozzi di petrolio dei terroristi, rafforzare l’intelligence, mandare sul campo tecnologie e specialisti, formare una coalizione anti-terrorismo sotto l’egida dell’Onu, sperare che altri popoli meno civilizzati di noi ci levino le castagne dal fuoco mandando i loro soldati a morire contro i guerriglieri dello stato islamico. Da questo punto di vista la strategia del rospo è perfettamente comprensibile. Se non puoi fuggire, se non puoi permetterti una vera guerra, quel che ti resta è la simulazione della morte. Che infatti, al di là dei proclami bellicosi, è la sostanza della nostra reazione. Non c’è niente di strano, né di sbagliato, in tutto questo. Quello che è meno comprensibile, invece, è il racconto con cui accompagniamo questa reazione. Un racconto fatto di molte oneste verità, prima fra tutte la ricostruzione della catena di errori che le grandi potenze hanno commesso negli ultimi decenni, ma anche costellato di clamorose omissioni e di pericolosi fraintendimenti. Cose che un etologo o un marziano vedrebbero a occhio nudo, ma che sembrano sfuggire alla nostra sofisticata consapevolezza di interpreti di noi stessi. Se i terroristi entrano con passaporti falsi di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015 La caccia ai trafficanti di immigrati e a chi si spaccia o esibisce documenti falsi ormai non conosce più sosta, anzi sta diventando febbrile. L’equazione immigrazione=terrorismo non trova riscontri, certo. Finora, però: nessuno nelle forze dell’ordine sta più tranquillo. Ci sono i foreign fighter in agguato. I movimenti di insospettabili. Arrivano segnali più o meno significativi, dalle indagini sugli attentatori nella capitale francese, che potrebbero far presupporre altro. Nulla, insomma, può essere lasciato al caso o rimanere intentato: è la linea operativa al ministero dell’Interno, guidato da Angelino Alfano. Ma c’è una massa enorme di variabili da controllare e riscontrare. Una fatica immane. I dati dell’attività di polizia in Italia, del resto, parlano da soli e forse neanche rappresentano tutti gli sforzi in atto. Solo i passaporti falsi o artefatti scovati, da gennaio a ottobre di quest’anno, sono stati 1.178. L’anno scorso sono stati circa 1.900 in tutto, il calo attuale si spiega con la riduzione degli sbarchi. Al 20 novembre 2015, infatti, sono giunti sulle nostre coste 143.706 migranti, con un decremento del 10,8% rispetto all’anno scorso. La spiegazione è nota: l’instabilità elevata della Libia, la scelta della rotta balcanica soprattutto da parte dei cittadini siriani in fuga da Damasco. La tendenza attuale, però, cambia poco in termini di tensione operativa. Salita, semmai, a livelli mai visti prima. Sempre quest’anno, infatti, sono stati arrestati circa 500 trafficanti di esseri umani, tra scafisti e trafficanti veri e propri. In maggioranza di nazionalità egiziana, seguiti dai tunisini. L’anno scorso, stesso ordine di grandezza. Nulla fa immaginare, al momento, che il fenomeno possa ridursi: è troppo redditizio per gli organizzatori criminali, sfida persino i numerosi attacchi di risposta dell’autorità giudiziaria. Ma il punto vero, sul piano delle indagini, è ora uno, soprattutto: quali destinazioni prendono le masse monetarie criminali ricavate dalla vendita dei viaggi della speranza e spesso della morte. Un fronte ancora da approfondire. Con il timore, che si vorrebbe tanto smentire, di uno sbocco di quei fondi ad alimentare l’azione terroristica dell’Is. Ipotesi, per ora. Certo è che il livello di attenzione è già ai massimi da un pezzo: quantomeno dopo il raid al Museo Il Bardo a Tunisi il 18 marzo scorso, consolidato a seguito dell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. Oltre all’attività di antiterrorismo sul territorio, dunque, la sorveglianza dei flussi di stranieri impegna almeno tre direzioni centrali del dipartimento di Pubblica sicurezza, guidato da Alessandro Pansa. La Criminalpol e, in particolare, lo Sco (servizio centrale operativo), che coordinale le squadre mobili e, dunque, l’attività di polizia giudiziaria presso le procure. Fa capo sempre alla Criminalpol lo Scip, il servizio di cooperazione internazionale che svolge reciproco scambio di informazioni, strategie operative, collabora con gli organi collaterali degli altri Paesi e rappresenta l’ufficio nazionale di Interpol. Ruolo differente è quello della direzione centrale polizia Immigrazione e frontiere: in prima linea davanti a sbarchi e ogni altro genere di flusso di stranieri, svolge un’attività più strettamente informativa, di ricognizione e intelligence. Non appena scattano gli elementi per aprire il fascicolo di un’attività giudiziaria, la palla passa ai colleghi dello Sco. Non tutti sanno, però, che in quei casi le stesse informazioni sono inviate anche all’Antiterrorismo. Digos e l’ufficio centrale dell’Ucigos, infatti, hanno sensibilità e competenze differenti dagli agenti dello Sco. Ognuno fa la sua parte. Ciascuno deve essere coinvolto. Terreno di grande sfida, per esempio, quello dei documenti contraffatti. Mercato fiorente, strumento utilizzato a più non posso nonostante la stretta operativa a livello internazionale. Perché già dopo l’11 settembre 2001 è stata costituita la banca dati dei documenti di viaggio rubati o smarriti denominata Sltd (Stolen and Lost Travel Documents). Tra i 190 Paesi associati ad Interpol, 170 contribuiscono ad alimentarla. Così ogni operatore di polizia, su richiesta, può verificare se un titolo di viaggio - passaporti e documenti validi per l’espatrio - è stato rubato o smarrito. Nei dati relativi ai controlli di frontiera - restano fuori quelli svolti sul territorio - da gennaio a ottobre 2015 sono state rintracciate 1.057 carte di identità e 383 permessi di soggiorno falsi o contraffatti. In testa ci sono i nigeriani, poi greci, italiani, giapponesi, inglesi, indiani, romeni, francesi e marocchini. La stretta sui controlli alle frontiere ipotizzata da Bruxelles venerdì scorso moltiplicherà queste attività. Ma le capacità dei falsari di documenti raggiungono vette impensabili, a volte occorrono fino a 15mila euro per fare un lavoro come si deve. Forse non è affare per terroristi in fuga. Ma il dubbio non consente alcun genere di esitazione.