Stati Generali sull’esecuzione delle pene: lavoriamo per non disperdere il lavoro fatto di Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 23 novembre 2015 Faccio parte del Tavolo 2 degli Stati Generali (Vita detentiva. Responsabilizzazione, circuiti e sicurezza) e ora che stiamo arrivando alla fine dei lavori voglio provare a fare un bilancio, a partire dalla mia esperienza personale per arrivare poi a una riflessione sul ruolo che ha avuto e potrà avere il Volontariato. Gli inizi di questa complessa avventura sono stati difficili, e alcune scelte organizzative discutibili. Quindi vorrei partire da quello che secondo me non ha funzionato, per poi analizzare anche tutto quello, ed è molto, che è stato utile e arricchente. E pensare a produrre delle idee perché il lavoro fatto non resti sulla carta, come succede spesso nel nostro Paese, che ha visto lavorare, spesso egregiamente, tante commissioni di studio (pensiamo anche solo alla riforma del Codice penale) che poi hanno prodotto proposte rimaste del tutto inutilizzate. Quello che, a mio avviso, non ha funzionato - Una assistente sociale dell’Uepe di Roma, Michela Boazzelli, in una garbata e intelligente critica agli Stati Generali, ha affermato: "Ma a parlare di misure alternative e carcere agli Stati Generali non devono essere solo magistrati, direttori di istituti penitenziari, dirigenti e volontari: gli assistenti sociali sono esperti professionisti del settore e ritengono che non si possa organizzare il nuovo senza tenere conto della base". È una semplice verità, questa: la scelta dei componenti dei Tavoli non ha sempre tenuto conto della necessità di coinvolgere persone competenti, ma anche rappresentative di professionalità e di ruoli precisi. Questo vale per gli assistenti sociali, e vale però anche per il Volontariato, che ha vari operatori all’interno dei Tavoli, che partecipano ai lavori "in ordine sparso" rappresentando solo se stessi e l’associazione a cui appartengono. E questo è stato per noi volontari un po’ un ritorno al passato, a prima che si costituisse la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, nata proprio per dare spazi di confronto e obiettivi chiari a tutte quelle migliaia di volontari che ogni giorno entrano nelle carceri e si occupano sul territorio del reinserimento delle persone detenute. Ci sarebbe piaciuto allora essere coinvolti come Conferenza, e poter decidere noi le persone in grado di dare un contributo ai diversi Tavoli, ma così non è andata. - Le persone detenute sono state ascoltate in "ordine sparso", su iniziativa dei singoli Tavoli. Eppure, ci sono realtà dove le persone detenute sono direttamente protagoniste di un profondo lavoro di studio e di elaborazione sui temi delle pene e del carcere, e avrebbero potuto avere un ruolo più attivo e più significativo, visto che l’esecuzione delle pene è materia "incandescente" che riguarda prima di tutto le loro vite. Ma è anche vero che non esistono forme di rappresentanza significative, e questo è diventato, su mia sollecitazione, un tema importante del Tavolo 2 sulla vita detentiva e la responsabilizzazione. - Non è chiaro che ne sarà di quello che i Tavoli hanno prodotto, e come avverrà il confronto nella società. Per ora la diffusione dei materiali è limitata e riguarda a fatica gli addetti ai lavori, e il confronto appare difficile anche con loro. Pensare allora di "parlare alla società", nel clima di diffusa paura di questi ultimi mesi, senza coinvolgere il Volontariato, le persone detenute, gli operatori penitenziari sarebbe un errore davvero imperdonabile, ma speriamo che questo non avverrà, e siamo pronti a dare il nostro contributo perché non avvenga. Quello che potrebbe fare il Volontariato Sono abituata, anche nel mio lavoro a Ristretti Orizzonti, e in particolare proprio nelle iniziative che hanno successo, ad analizzare spietatamente gli aspetti critici, e ad andare a fondo di quello che non ha funzionato, quindi ho fatto lo stesso per gli Stati generali, ma dopo le critiche voglio anche aggiungere che il lavoro nei Tavoli è stato importante e in certi casi appassionante, e ha permesso di ragionare finalmente sui temi che riguardano l’esecuzione delle pene con il respiro ampio del cambiamento culturale, che oggi è più che mai necessario. Se vogliamo davvero che il dibattito sulle pene e sul carcere si sposti però dagli "esperti" alla società, tutte le associazioni che fanno parte della CNVG devono farsi carico di discutere, e se necessario fare formazione (da parte mia mi rendo disponibile a partecipare a percorsi di formazione organizzati su questi temi), sui contenuti che emergeranno dai lavori dei tavoli, e di essere presenti soprattutto negli ambiti che segnalo: - ci sono temi cruciali per la vita dei detenuti e delle loro famiglie, sui quali i Tavoli hanno lavorato ed elaborato proposte, in particolare il tema della qualità della vita detentiva e della responsabilizzazione dei detenuti, gli affetti, il diritto alla salute, i percorsi di reinserimento con le misure alternative, la mediazione penale, la "pena di morte nascosta" dell’ergastolo (con la speranza che l’articolo 4 bis venga modificato, e non ci sia più nessuno escluso a priori da un possibile reinserimento nella società). Le associazioni che fanno parte della CNVG devono portare la loro esperienza in materia e rafforzare le nostre battaglie (per esempio a tutela degli affetti) analizzando le proposte emerse dagli Stati Generali e, se condivise, dando loro, quando possibile, le "gambe" delle migliaia di volontari coinvolti nell’esecuzione delle pene; - il Ministro Orlando ha dichiarato "La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati generali su questi temi si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la società italiana nel suo complesso". Ma il dibattito non può aprirsi semplicemente mandando gli esperti a parlare "in giro per la società". Anche su questo terreno il Volontariato può dire delle parole nuove, dal momento che tante associazioni ogni anno, nel progetto "A scuola di libertà", incontrano in carcere e nelle scuole migliaia di studenti, e organizzano un lavoro di sensibilizzazione sulle pene e sul carcere nelle università, nei quartieri, nelle parrocchie. E attraverso queste esperienze hanno imparato a parlare "alla testa e al cuore" dei cittadini anche in tempi in cui la paura rende tutto più drammaticamente complicato; - come presidente della CNVG, che proviene da un’esperienza consolidata di attività di informazione dal carcere e sul carcere, tra i miei obiettivi c’è un’attenzione nuova all’informazione anche da parte del Volontariato, con l’idea di diventare fonte di informazione privilegiata per i giornalisti, di organizzare per loro iniziative del tipo di seminari di formazione sull’esecuzione della pena e di scardinare tanti luoghi comuni come la creazione del "mostro", l’idea della custodia cautelare intesa come carcerazione preventiva, i presunti automatismi nella concessione delle misure alternative, gli slogan come "buttare la chiave" e "lasciarli marcire in galera" in nome di una presunta sicurezza. Sono obiettivi complessi (e del resto siamo abituati a lavorare nella complessità, nulla di ciò che riguarda le pene e il carcere è semplice), che richiedono prima di tutto una crescita culturale del Volontariato stesso, e soprattutto un superamento della logica della "competizione sul mercato del bene", ma voglio sperare che gli Stati Generali siano per tutti noi uno stimolo a imparare a lavorare insieme, valorizzando il confronto e accettando i nostri limiti e le nostre diversità. Per questo chiedo per prima cosa alle Associazioni di analizzare attentamente le conclusioni dei 18 Tavoli, che saranno presto disponibili, e di mandare riflessioni e domande all’indirizzo della CNVG, per cominciare a contribuire costruttivamente al dibattito sulle pene e sul carcere, che deve aprirsi nella società. Antonio e la libertà Il Mattino di Padova, 23 novembre 2015 Il pensiero più bello dedicato ad Antonio, il detenuto ucciso barbaramente nei giorni scorsi, è quello di Giovanna, una delle sorelle: "Vorrei che fosse cremato, e poi disperdere le sue ceneri sul Gennargentu, perché dopo che è stato privato per tanti anni della libertà non me la sento di rinchiuderlo ancora". Abbiamo deciso allora di pubblicare quello che Giovanna ci aveva scritto in passato, in occasione dei primi permessi di Antonio, e poi ancora il ricordo di un suo compagno detenuto, perché non vogliamo che una persona così ricca di umanità, nonostante i suoi disastri, resti inchiodata alla cronaca nera, spesso così lontana dalla realtà. La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere, mio fratello aveva 29 anni. Una vita normale da studente universitario, il sogno di diventare veterinario, lo sport sua grande ragione di vita, la montagna, la pesca, gli amici di chiassose serate a ridere di se stessi. Una famiglia semplice come tante. Poi ad un certo punto la strada sbagliata, dalla quale è impossibile tornare indietro e nella quale quell’intelligenza mostrata fin da bambino, diventa il peggior nemico. Ricordo sempre la frase che un poliziotto disse un giorno, o forse era notte, non so, durante una delle infinite perquisizioni domiciliari: "La sua intelligenza ci fa paura, è contro di lui " La nostra prima esperienza col carcere è avvenuta a Badu e Carros a Nuoro. L’agente di custodia aveva un’aria imponente: come se volesse dirci che era lui il tutore della legge e noi i fuorilegge. Aprendo e chiudendo quei cancelli, il grosso mazzo di chiavi che ostentava come un trofeo, faceva un gran baccano. Odio le chiavi e pure i cancelli. Le settimane passavano lente e tutti in famiglia si faceva a turno per andare ai colloqui. Dopo Nuoro, fu la volta di Oristano e poi di Cagliari. Stagione dopo stagione passano gli anni e pure gli eventi; tutto diventa più difficile, le condanne cominciano a sommarsi e nessuno ci può far nulla neanche i numerosi "azzeccagarbugli " che si sono susseguiti nel tempo. Tutto è inutile e la matassa si fa sempre più complicata. Gli amici e i parenti si arrendono e poi, in silenzio, scompaiono. Ma il peggio deve ancora avvenire: il trasferimento al continente (così noi sardi chiamiamo il resto d’Italia) fu la disperazione per tutti noi. Era già difficile alzarsi all’alba per raggiungere le località della terraferma, figuriamoci varcare il mare! Il nostro paese si trova all’interno e per raggiungere qualsiasi porto si devono fare 200 Km circa, il che significa tre ore di viaggio. E si è solo al porto di partenza. Tutta la notte su una nave di linea e poi l’intera mattina su un treno che puzza di fumo e sudore, alla fine la corsa in taxi fino al parcheggio del carcere di turno. Una lunghissima attesa, forse più lunga anche del viaggio stesso, prima che da un posto di guardia leggano il nostro cognome, tutto ciò che sanno di noi. Dimentichi di aver fame e sete, freddo d’inverno e caldo d’estate, ma conta solo essere arrivati in tempo per il colloquio. Mentre i cancelli si chiudono dietro di noi, tutto diventa reale: le perquisizioni con i metal detector e i guanti usa e getta, le stupide discussioni per quel pane tipico che nessuno conosce, il formaggio che puzza di capra e poi c’è qualche etto in più che non si sa proprio da dove si deve togliere. Finalmente quei viveri che hanno varcato mari e monti vengono accettati con un nostro grande sospiro di sollievo. L’ultimo cancello che ci separa dal resto del mondo si apre, e come in un film appaiono i primi detenuti, pallidi ed in fila indiana, e tra essi noti finalmente il viso caro che ti sorride. Il muro che ci separa è alto un metro circa, e non ci permette di scambiarci un vero abbraccio. Sembra quasi normale trovarsi a parlare del più e del meno, a portare i saluti degli amici che sono rimasti, notizie sulla salute dei genitori che invecchiano e dei bambini che crescono. "E gai passad sa vida trista e lanza", (così trascorre la vita, triste e vuota) recita un’antica poesia dialettale. La voce stridula di un agente, ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto. Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggio, è terminato. Quante volte avrei voluto piangere e urlare che non costava niente stare lì a chiacchierare ancora; ma quel tempo non era più nostro. Bisognava alzarsi e andare via senza voltarsi indietro per nascondere la sofferenza. Il viaggio di ritorno è il più doloroso. Le valige vuote, leggere; il cuore pesante. E così viaggio dopo viaggio il tempo passa e alle volte mi ritrovo a pensare se quella vita l’ho vissuta realmente o me l’hanno solo raccontata. Poi finalmente una mattina di primavera, una telefonata, e quella voce allegra che avevi dimenticato "Sono fuori… ci hanno portato in gita scolastica…". La speranza mai perduta torna a galla. Ora potrebbero esserci i primi permessi premio, le prime uscite dal carcere. Prego Dio che qualche persona di buona volontà si interessi a quella vita dimenticata. Quella persona esiste… è caparbia e convincente, tanto da permettere la realizzazione di un diritto, che a me però, piace chiamare "sogno". La prima volta che ho abbracciato Antonio all’aria aperta, è stato all’OASI dei Padri Mercedari di Padova, un posto splendido, accogliente e pulito proprio come le persone straordinarie che lo gestiscono. Percorrendo il viale alberato, per la prima volta dopo tanto tempo, mi sono sentita una sorella normale come tutte le sorelle del mondo, sarà forse per il fatto che lì dentro le persone vengono chiamate per nome e nessuno giudica nessuno. Le cose semplici, alle quali nella vita quotidiana non dai valore, diventano speciali: rivedere Antonio fare il fuoco, cucinare, preparare tutto per gli amici che vengono a pranzo, mi ha emozionato. Antonio ha sette anni più di me. Per tutti questi anni però io sono stata più vecchia di lui per il solo fatto che la mia vita ha continuato a scorrere e la sua ha rallentato la corsa. Sarà stupido, lo so, ma per me lui ha sempre 29 anni. Mi piace pensare che non sia mai invecchiato. Sarà perché spero si possa tornare a vivere anche a 58 anni. Sono pronta a dimenticare tutto il dolore, tutto il tempo inutile passato aspettando una svolta e ora che questo tempo è dietro la porta, lo voglio vivere tutto. Giovanna Floris Un ricordo di Antonio Quante battute di caccia "a parole", Antonio, ci siamo raccontati negli anni della redazione di Ristretti, nei momenti di pausa dai lavori quotidiani. Ci univa il piacere della vita nei boschi, nella natura e la passione della caccia, per te la caccia era un valore fondante la civiltà della tua terra d’origine, la Sardegna, un vivere con le stagioni della natura, non distruggere per passatempo… una forma di saggezza antica, forse un po’ incomprensibile per la società dei nostri giorni. È vero, tu come tanti di noi avevi fatto del male (su questo certo non ti erano stati fatti sconti), ma quando hai avuto la possibilità di confrontarti in modo autentico con le tue responsabilità, quando hai capito, tanta vita "sana" è rinata dal tuo cuore e dalla tua volontà! Il diploma di ragioneria con il massimo dei voti, l’iscrizione all’università, l’aiutare gli altri detenuti che ti consideravano "l’avvocato", l’incontro con padre Eraclio e l’impegno a dare una mano a creare, nel centro "OASI", qualcosa di buono per aiutare chi è ai margini a rientrare nella società. Ecco Antonio, quando i giornali e la televisione hanno divulgato le prime notizie su di te, hanno proprio creato un bel "pacchetto preconfezionato" con inutili e crudeli semplificazioni, prima ancora di sapere, prima ancora di capire. Inutili, perché nulla hanno aggiunto alla tua storia passata, per altro già abbondantemente giudicata. Crudeli, perché non si sono minimamente preoccupati di tener conto del percorso che, con grande fatica ma con forte determinazione, avevi fatto negli ultimi anni. Motivo per cui chi ti è stato vicino, i tuoi famigliari, i tuoi amici, sapevano bene che non saresti mai potuto evadere, che per te, ormai, sarebbe stato impossibile sottrarti alle tue responsabilità. I titoloni in prima pagina urlavano il cliché del bandito sardo, evaso, pericoloso, capace di chissà quale nefandezza e tu invece giacevi privo di vita sotto una catasta di legna. Oggi sono trascorsi 7 giorni, è cambiato, certo, "l’urlo" dei titoloni, anzi, no, diciamo, Antonio, che non sei più neanche in prima pagina… eri più interessante come latitante che come banale detenuto ammazzato a bastonate forse solo per qualche centinaio di euro. Beh, per noi che ti abbiamo conosciuto, e voluto bene, non sei stato e non eri affatto "banale"! Anche se il finale della tua storia è per noi, oggi, così amaro, può lasciare lo spazio per un ulteriore pensiero importante. Puoi fare nella vita scelte sbagliate, sì, e crederti furbo nel prendere "scorciatoie", causare dolore ai tuoi famigliari e ad altre persone, commettere reati e cadere in una spirale di male che ti porta sempre più in basso. Ma riuscire ad avere la forza e la determinazione per rimettersi in discussione e riprogettare, a quasi 60 anni, la propria vita, con pazienza ed umiltà, come hai fatto tu, su basi completamente nuove, merita solo un silenzioso rispetto. Gianluca Giustizia: la violenza e noi europei smarriti di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 23 novembre 2015 Ci sono molti modi con i quali una società può consolarsi dei mali che le piombano addosso. Uno dei più ovvi è la mistificazione: cambiare il segno di ciò che le è capitato, piegarne il significato specialmente idealizzandone alcuni tratti, accentuandone altri, sorvolando su altri ancora. Un’operazione nella quale, come si capisce, una parte decisiva oggi l’hanno i media. I quali diventano specchio ma anche fabbricanti della coscienza sociale. È quanto è accaduto a proposito della strage di Parigi. Il senso del lutto è stato sublimato in un autocompiacimento al limite di un’insulsa arroganza culturale. L’obiettivo dei terroristi - uccidere il maggior numero possibile di persone: pertanto colpire nei luoghi pubblici (e dove se no?) - è stato trasformato in un attacco "al nostro modo di vivere", alla "nostra possibilità di uscire la sera per andare a un concerto, a un ristorante, a divertirci": come se queste medesime cose non facciano parte della vita quotidiana di quasi tutto il mondo, Paesi islamici inclusi (e infatti in tutto il mondo, dall’Iraq alle Filippine, il terrorismo predilige esattamente gli stessi bersagli che ha colpito a Parigi). È seguito l’impegno roboante a base di "non ci farete cambiare le nostre abitudini": nel momento stesso in cui nelle comunicazioni, per esempio, si restauravano barriere e controlli abbandonati da anni; in cui perfino un viaggio in treno stava diventando come attraversare un tempo la Cortina di ferro. Nel momento stesso in cui ritornava all’ordine del giorno delle società europee una quisquilia come lo "stato d’emergenza". E poi i giovani, i giovani... Anche qui una trasfigurazione idealizzante del tutto irreale e autoconsolatoria. Una società di vegliardi, la quale vede la natalità cadere a picco, e che è di fatto organizzata tutta per sfavorire in ogni modo le classi giovanili, si è d’improvviso riconosciuta simbolicamente proprio nei giovani - vittime ovvie, ma certo casuali di sparatorie avvenute all’interno di locali pubblici in una sera di weekend -. Un’enfatizzazione simbolica che forse è servita a nascondere qualcos’altro da tenere nascosto: e cioè il nostro oscuro senso di colpa per il modo in cui trattiamo i giovani, da rovesciare nell’attribuzione di una responsabilità ben maggiore all’efferatezza jihadista; o forse, chissà, la consapevolezza angosciosa che ogni giovane vita sottrattaci costituisce una perdita irreparabile. E ancora le parole di quel poveretto a cui hanno ucciso la moglie ed è rimasto solo con una figlia in tenerissima età, che i media ci additano mielosamente come esemplari, quasi il prototipo obbligatorio della reazione politicamente corretta: "Non vi farò il dono di odiarvi", "rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete". Se s’intende che non bisogna scendere in strada a organizzare pogrom antislamici, non mi pare proprio che siano cose di cui fortunatamente (ripeto per chi non voglia capire: fortunatamente) esista la minima avvisaglia. Ma di fronte a certi crimini non esiste, non deve esistere, non è moralmente degna, una collera della giustizia? Non era forse giusto odiare i kapo’ dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina? E non si parla forse nella Bibbia di una collera di Dio contro i malvagi? In realtà l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza - non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori - è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla "pace". Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’islamofobia. Siamo, vogliamo sentirci, così "buoni", che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci "cattivi". Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola "guerra", come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni? Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto. Giustizia: Alfano "in Italia si può stare tranquilli, ma la nostra privacy sarà ridotta" di Ilario Lombardo La Stampa, 23 novembre 2015 Il ministro degli Interni: "L’intelligence funziona bene, nessuno a rischio zero". Hanno i nomi e li stanno seguendo passo dopo passo, per ricostruire le tappe della loro educazione fondamentalista. Si tratta dì una decina di persone, secondo fonti investigative, che hanno una frequentazione con la propaganda islamica estremista e che sono monitorate da intelligence e antiterrorismo. Non che ci siano allarmi concreti: è la semplice conseguenza dell’intensificarsi del lavoro degli investigatori che setacciano carceri e siti internet alla ricerca delle tracce di potenziali terroristi o seguaci del Califfo. Meno privacy. I servizi segreti dei diversi Paesi stanno seguendo gli spostamenti dei foreign fighters per capire complicità e collegamenti. Ogni informazione è fondamentale e andrà condivisa in quella che assomiglia alla prima rudimentale architettura di una intelligence sovranazionale. Non siamo ancora alla piena convergenza ma se ne intravedono i primi segnali. Come ha spiegato ieri in un’intervista a SkyTg24 il ministro dell’Interno Angelino Alfano, auspicando una revisione di Schengen per le esterne "quando si entrerà in Europa ci saranno controlli fatti dalla Polizia, saranno visti i precedenti, non solo il passaporto, e sarà inviato tutto a una banca dati centrale che consulterà quelle dei singoli Paesi". Le informazioni (profilo del passeggero, posto occupato sull’aereo) saranno in chiaro per un anno e consultabili dalle polizie europee per altri quattro anni. In una situazione di "guerra asimmetrica" la prima vittima potrebbe essere la privacy. Il cuore dell’Europa sventrato dall’Isis riprende a battere con un controllo maggiore nelle nostre vite. La caccia alla rete del Terrore non ha tregua, dunque "una compressione della privacy potrà essere giustificata dalla necessità di maggior sicurezza" ha detto Alfano che pure ha provato a spendere qualche parola rassicurante: "In Italia si può stare tranquilli, il nostro sistema di intelligence funziona". Ma "nessun Paese è a rischio zero". Il piano per il Giubileo. Lo stravolgimento della quotidianità degli europei è comunque già sotto gli occhi di tutti. I Five Finger Death Punch ieri avrebbero dovuto suonare all’Alcatraz di Milano. Avrebbero, perché il concerto è stato annullato. Voci incontrollate sul web li davano come possibile obiettivo di attacchi terroristici. È questo il clima in cui è sprofondata anche l’Italia. Non c’è stato il tempo per verificare se si trattasse di un’ennesima bufala, e si è preferito rinviare l’esibizione della band che forse, per assonanza, qualcuno ha paragonato agli Eagles of Death Metal, il gruppo che stava suonando al Bataclain quando è scoppiato l’inferno di Parigi. Anche le suggestioni, in queste ore, sembrano avere il loro peso nella sicurezza sospesa degli italiani. La psicosi non si placa. I falsi allarmi si susseguono a Milano e a Roma. Gli investigatori sono convinti che tra le segnalazioni molte siano il frutto della mente malata di qualche mitomane che si diverte a far raggelare il sangue ai propri concittadini, ma non possono escludere nulla. Oggi a Roma entrerà in funzione il piano sicurezza per il Giubileo. Ma già ieri il Vaticano appariva super blindato. Allo stadio Olimpico, dove sono entrati in funzione i metal detector, è bastato il solito zainetto abbandonato a regalare qualche minuto dì paura. Per qualunque sospetto, ì controlli vanno fatti, e la questura non può permettersi sottovalutazioni. Le prigioni della mente che non chiudono mai di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015 Nel marzo del 2015 una legge ha stabilito la fine legale degli ospedali per i detenuti malati dì mente. Ma le sei strutture esistenti in Italia sono ancora regolarmente aperte (e in condizioni pessime). Un’ombra appare all’improvviso da un luogo buio, con le finestre coperte alla bell’e meglio da un panno arancione. Dall’oscurità, poco alla volta, affiora il volto di un uomo: anziano, diresti, con quelle rughe indefinibili che regala la sofferenza. Guarda negli occhi, non abbassa mai lo sguardo. Con compostezza, senza voglia dì sfide, con grande dignità. Anche se la sua bocca è impastata, anche se non riesce ad articolare la lingua e la voce esce flebile, "sono 36 anni che le mie gambe sembrano pietre - sussurra. Non ho perso la speranza finora, ma ci vorrebbero motivazioni forti per continuare a sperare. E io non ne ho più. Ho una figlia, fuori di qui, fa parte di Libera, va in giro a fare comizi contro la mafia. Sono orgoglioso di lei". Fa una pausa, per un secondo interminabile abbassa lo sguardo. "No, non viene a trovarmi: lei la farebbe venire una figlia qui?". Quest’uomo era un fiancheggiatore della mafia, ha alcuni omicidi sulla fedina penale, ma il posto in cui è recluso dal 2013 (dopo aver già scontato una lunga pena) non è un carcere. È un Ospedale psichiatrico giudiziario, quello di Reggio Emilia per la precisione. E questo non è un vecchio reportage rispolverato, è la cronaca di quanto accade oggi, nel mese di novembre 2015, in un Paese che ha chiuso gli Opg in fretta e furia alla fine di marzo, condannato dall’Europa e dall’opinione pubblica, salvo poi dimenticarsi di aprire le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) ove spostare gli internati. Con un paradosso maggiore: dei sei Opg presenti sul territorio nazionale (Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto), l’unico a essere stato chiuso (in realtà banalmente trasformato in Rems, è bastato sostituire una targa) è quello di Castiglione, nel Mantovano. L’unico che al posto delle celle aveva già camere ospedaliere, al posto delle sbarre aveva locali per le attività ricreative e, al posto dell’isolamento, i colloqui quotidiani con le famiglie. Così, di fatto, dopo la tanto sbandierata norma che ha reso gli Opg fuorilegge, nessuno di questi inferni dimenticati ha mai chiuso davvero i battenti, A distanza di otto mesi, ci vivono ancora 234 persone per le quali il giudice ha deciso di applicare l’articolo 222 del Codice Penale: ricovero in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Sono stati riconosciuti malati di mente nel momento in cui hanno commesso un reato, anche grave. Li chiamano "internati", perché chiamarli persone darebbe loro una dignità che lo Stato non può garantire. Come un uomo di 50 anni, il "ragazzino" è il suo nome qui, che è entrato 25 anni fa: non ha spacciato, non ha rubato, non ha ucciso, ma non è mai uscito di galera. La sua storia ha fatto il giro d’Italia nel 2011, quando l’allora commissione parlamentare guidata dall’ex senatore Ignazio Marino denunciò la vergogna italiana degli Opg. Avrebbe dovuto scontare cinque anni, ma l’atteggiamento aggressivo nei confronti della polizia penitenziaria ha fatto sì che il giudice prorogasse il suo "soggiorno". Perché è così che funziona, è così che si annulla la vita delle persone. Anzi, degli internati. Un giudice ne valuta la salute psichica, verifica se le cure hanno fatto effetto e, poiché quasi mai questo accade, ne proroga la detenzione. Adesso a Reggio Emilia quest’uomo si comporta bene, non aggredisce più nessuno e comincia a sperare di poter uscire. "Siamo diventati amici - sorride il comandante della penitenziaria, l’ispettore capo Vito Bonfiglio. Ho passato tutta la vita negli Opg e se tornassi indietro lo rifarei. Perché qui si crea un rapporto speciale con le persone, non è come con i detenuti normali. Questi sono soggetti che hanno bisogno di aiuto". Il reparto Centauro è un reparto chiuso: vuole dire che le celle si aprono dalle 9 alle 11 e dalle 13,30 alle 18. Ma non per tutti. Un ragazzo di 20 anni, reo di aver tentato più volte di aggredire la famiglia, non vede il corridoio, Giace sul suo letto avvolto in una coperta di lana, di quelle che si vedono nei peggiori film sulle carceri. Quando è necessario pulire la sua cella, lo devono tenere fermo in tre e i pasti gli vengono serviti attraverso le sbarre. La coperta è indispensabile, perché - a differenza di quanto accade negli uffici della direzione -qui fa un freddo cane. "Tengono i termosifoni al minimo, per risparmiare" ci confida una voce interna. In un’altra cella chiusa c’è un uomo sulla cinquantina, i baffi lunghi come andavano di moda negli anni Settanta, Sono sei mesi che è recluso a Reggio Emilia. "Vengo da Castiglione - ci racconta - ho già scontato 10 anni. Ma almeno prima vedevo tutti i giorni la mia famiglia. Ero riuscito a ricucire i rapporti con la mia compagna e con mia figlia adolescente. Venivano sempre, potevo mangiare con loro e partecipare a tutte le attività rieducative. Godevo di licenze e permessi premio. Da quando sono Stato trasferito non ho più visto nessuno, né sono mai uscito. Dicono che il magistrato di sorveglianza abbia troppo lavoro per occuparsi di noi". In questo inferno dimenticato nessuno ha il tempo di rispondere alle istanze dei detenuti, Sulle scrivanie dei giudici giacciono inevase montagne di istanze, A Reggio hanno fatto uno sciopero della fame di sei giorni, ma non se li è filati nessuno. E siccome è gente che non ha soldi sufficienti per pagare un buon avvocato, l’unica figura che tiene i rapporti con l’esterno rimane il parroco, don Daniele, un uomo di Dio che la settimana scorsa si è fatto carico di andare a parlare col magistrato di sorveglianza. Nell’Opg non c’è nessun emiliano, perché almeno l’Emilia Romagna ha attivato alcune Rems provvisorie, a Bologna e a Parma. Gli internati, 21 in tutto, provengono dalla Lombardia (5) e soprattutto dal Veneto (16), la Regione che sembra più indietro d’Italia nel realizzare le nuove strutture. "È da aprile che ci chiediamo che fine faremo -racconta uno di loro - ci hanno parlato di giugno dell’anno prossimo". Che, se mai fosse vero, significherebbe tredici mesi dopo l’entrata in vigore della legge. "Se ci sentiamo di serie B? Magari - commenta un altro internato. Sarebbe un onore". La partita è nelle mani delle Asl, non più del ministero della Giustizia. Due settimane fa il sottosegretario alla Sanità, Vito De Filippo, incontrando il comitato Sto-pOpg ha annunciato l’invio di lettere di diffida alle otto Regioni (oltre il Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Puglia) che non hanno ottemperato al proprio dovere. "Si tratta - ha spiegato - di un atto preliminare al commissariamento". Come se non bastasse, negli Opg esiste un problema nel problema. Li chiamano 148, come l’articolo del Codice Penale: sono coloro ai quali l’infermità psichica è sopraggiunta durante la detenzione. Sono stati dichiarati incompatibili col regime carcerario, ma per loro le porte delle Rems non si apriranno mai. Non è previsto. Quindi rimangono nell’Opg, per ora, e torneranno probabilmente in casa circondariale se e quando l’Ospedale verrà chiuso davvero. A Reggio sono 47, e già adesso lamentano la carenza del personale sanitario, che - con i primi trasferimenti degli internati - è stato ridotto. E come se ci fossero, dunque, i dimenticati più dimenticati degli altri. Quale sarà il futuro di tutte queste persone è difficile dirlo. Il Fatto Quotidiano ha provato a farsi aprire le porte della Rems di Bologna, ma senza esito. Troppe visite disturbano i pazienti e gli operatori, ci è stato detto. Sarà vero. Avremmo voluto, però, rispondere alla domanda che si pone il Direttore della Casa circondariale e dell’Opg di Reggio, Paolo Madonna: "Se è vero che nessuno può essere realmente curato in una struttura carceraria, nei casi di soggetti pericolosi come è possibile garantire la sicurezza in una Rems che può contare solo su due guardie giurate all’ingresso?". Prima di uscire raggiungiamo un gruppo di internati che sta giocando a carte: "Ci giochiamo la nostra libertà, Tu quanti punti hai fatto?". Giustizia: Epatite C, nelle carceri deve essere fermato il contagio tra i detenuti di Adriana Bazzi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2015 Ci sono almeno 5mila detenuti con l’infezione candidabili alla terapia con i nuovi farmaci, ma a oggi non hanno nemmeno accesso alle medicine di prima generazione. Nelle carceri italiane ci sono almeno 5mila detenuti con epatite C candidabili alla terapia con i nuovi farmaci, ma a oggi non hanno nemmeno accesso alle medicine di prima generazione (interferone e ribavirina). "Sono pazienti difficili da gestire - spiega Gloria Taliani, professore di Malattie Infettive, Università La Sapienza, di Roma. Spesso sono soggetti a detenzioni corte e ciò non consente di seguirli nel tempo". In una certa percentuale di casi sono anche portatori del virus Hiv. Andrebbero trattati per interrompere il contagio: molti detenuti si infettano attraverso rapporti omosessuali (maschili) e uso di droghe iniettabili. Il problema è quello delle risorse economiche. Non solo: la percentuale di detenuti, curati per un’epatite cronica C che rimangono in carcere, si reinfettano nel 22% dei casi. "Però - precisa Gloria Taliani - si reinfettano meno quelli curati". Giustizia: la confisca dei beni? sarà cosa pubblica di Isidoro Trovato Corriere Economia, 23 novembre 2015 La proposta: i beni sequestrati alla criminalità gestiti da Invitalìa. La protesta dei commercialisti. È scontro su tutta la linea tra ministero della Giustizia e mondo dei dottori commercialisti sul tema della confisca dei beni alla criminalità organizzata. Il primo punto del contende-re riguarda il varo della norma che prevede l’affidamento dell’incarico di amministratore giudiziario di aziende "di straordinario interesse socio-economico" ai dipendenti della società Invitalia. Una novità assoluta, quasi una rivoluzione copernicana per un settore finora affidato a professionisti iscritti all’Ordine. Il malcontento. A completare il quadro di insoddisfazione si aggiunge la norma che prevede un tetto massimo di tre incarichi per i professionisti chiamati a gestire i beni sequestrati e confiscati. "Riteniamo queste norme assurde, oltre che inapplicabili - attacca Gerardo Longobardi, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili. Forse qualcuno dimentica che siamo al cospetto di una materia molto tecnica e complessa. Riteniamo che la figura dell’amministratore giudiziario debba essere riservata a un professionista qualificato (commercialista o avvocato) e non possa coincidere con un dipendente di un’azienda pubblica o di una società partecipata, ancorché competente. Si tratta di situazioni esplosive anche per i possibili conflitti di interesse che potrebbero in concreto configurarsi in questa commistione tra pubblico e privato". Affari e tutele. Una "battaglia" sul filo delle competenze, dei potenziali rischi, della formazione professionale ma anche del giro d’affari (corposo) che verrebbe meno alla categoria. "Non si può ridurre tutto solo a una questione di business - protesta Maria Luisa Campise, consigliere nazionale delegato alle funzioni giudiziarie. È utile ricordare che la gestione di un’impresa sequestrata, oltre agli inevitabili profili di pericolosità che l’incarico implica, richiede un impegno costante e continuo che va oltre le mansioni e gli orari lavorativi di un dipendente pubblico o para-pubblico. Per questo motivo il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, pur ritenendo utile creare una "rete" di rapporti tra l’amministratore giudiziario e gli enti istituzionali preposti, aveva ritenuto opportuno proporre che il dipendente della società Invitalia, una volta dimostrato di essere in possesso dei medesimi requisiti richiesti ai liberi professionisti per l’iscrizione all’Albo degli amministratori giudiziari, potesse eventualmente assumere soltanto l’incarico di coadiutore, ruolo questo di minore impegno e portata". Il cumulo. Probabilmente in queste scelte gioca un peso importante anche lo scandalo emerso a Palermo con gravi accuse di connivenze tra magistratura e amministratori giudiziari. Un grave precedente che ha accelerato l’approvazione dell’articolo 13 del testo che, in materia di incarichi di amministratore giudiziario di aziende, pone un divieto di cumulo "non superiori a tre incarichi". Una disposizione che, se fosse approvata definitivamente, sarebbe, secondo il Consiglio nazionale dei commercialisti, viziata da legittimità costituzionale. Motivo? Si tratta di una mansione che spetterebbe soltanto ai professionisti abilitati (avvocati e commercialisti) che svolgono l’attività di amministratore giudiziario. "Avremmo preferito, così come proposto nel corso delle tante audizioni effettuate - continua Campise, un criterio qualitativo e non quantitativo nelle dimensioni per non creare discrezionalità e disparità di trattamenti". Giustizia: "Mafia Capitale" e la maledizione dell’Ufficio Nomadi del Comune di Roma di Carlo Stasolla Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015 Il maxi-processo di Mafia Capitale si è aperto nelle scorse settimane e il primo colletto bianco ad essere condannato è stata Emanuela Salvatori, ex direttrice dell’Ufficio Nomadi di Roma accusata di corruzione. Quattro anni è la condanna per l’ex dipendente del Campidoglio colpevole di aver favorito un finanziamento a una cooperativa della galassia di Buzzi in cambio dell’assunzione della figlia. Non è la prima volta che un funzionario a capo dell’Ufficio Nomadi di Roma finisce dietro le sbarre. Il primo a dirigere quindici anni fa l’Ufficio Nomadi di Roma fu Luigi Lusi, condannato per essersi appropriato di 25 milioni di euro. Poi, sotto l’amministrazione Veltroni fu la volta del suo capo-gabinetto Luca Odevaine a condizionare fortemente le scelte dell’Ufficio con la decisione di costruire il nuovo "villaggio" di Castel Romano nel 2005. Anche lui si trova da qualche giorno agli arresti domiciliari dopo una detenzione per corruzione nell’inchiesta denominata "Mondo di Mezzo". Quando il governo della città passò al sindaco Alemanno fu la volta del soggetto attuatore del Piano Nomadi, Angelo Scozzafava a commissariare l’Ufficio prendendolo nelle sue mani. Sul suo capo pende l’accusa di associazione mafiosa e corruzione aggravata. Nei giorni scorsi è stata la volta di Emanuela Salvatori, condannata per corruzione. Il suo posto era stato preso nel gennaio 2015 dalla dirigente Ivana Bigari nominata più volte all’interno della Relazione desecretata della Commissione di Accesso presso Roma Capitale e poi trasferita presso il Dipartimento Politiche Scolastiche di Roma Capitale. Nella Relazione la Commissione rileva la "assoluta incapacità (della Bigari ndr) di deviare da quei percorsi già delineati che, grazie all’attività pervasiva del sistema realizzato da Buzzi e dalla connivenza di altri funzionari, vicini alla stessa Bigari, continuano anche con l’avvento della nuova Giunta". E così, mentre a colpi di proclami inneggianti alla legalità i sindaci che si sono succeduti in Campidoglio, chiedevano alle comunità rom il rispetto delle regole, l’Ufficio della porta accanto, diventato nel frattempo "Ufficio Rom, Sinti e Camminanti", ha rappresentato per vent’anni la massa tumorale che ha paralizzato ogni azione, schiacciato i diritti e distribuito risorse a pioggia. Secondo la puntuale legge del contrappasso, "chi di legalità ferisce, per la legalità perisce". A Roma l’illegalità non è una questione che riguarda primariamente i rom. Da vent’anni l’illegalità romana ha preso forma in amministratori incapaci, in dirigenti corrotti, in "rappresentanti" kapò e in quella parte di associazionismo autoreferenziale e incompetente che non ha provato vergogna nel sottoscrivere convenzioni illegittime. Una massa di cialtroni, distruttori di speranza e ideatori di un assistenzialismo sfrenato che ha umiliato la comunità rom affossando i suoi diritti, deriso la restante comunità cittadina distraendo denaro pubblico e promosso una "guerra tra poveri". Eppure l’Ufficio Nomadi ancora sopravvive con la sua "maledizione" e la probabile preoccupazione del prossimo dirigente che sarà chiamato a guidarlo. Visitando il sito del Comune di Roma, in sostituzione del suo nome e cognome, per adesso c’è solo uno spazio bianco. Subito applicabili i nuovi termini di decisione da parte del "riesame" di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 7 ottobre 2015 n. 40342. Con la sentenza del 7 ottobre 2015 n. 40342, la Corte torna a soffermarsi sulla applicabilità delle modifiche normative introdotte in materia cautelare dalla legge n. 47 del 2015. I termini per la decisione del giudice del riesame - Stavolta il tema è quello dell’applicabilità del novum concernente i termini per la decisione del giudice del riesame: se e in che limiti la nuova disciplina dell’articolo 309, comma 10, del Cpp, introdotta appunto dalla legge n. 47 del 2015 (ed entrata in vigore l’8 maggio 2015), in forza della quale diviene inefficace la misura cautelare nel caso in cui l’ordinanza, che abbia deciso sulla richiesta di riesame, non sia depositata entro il termine di trenta giorni dalla decisione (prevedendosi, peraltro, che detto termine possa essere prolungato dal giudice fino alla durata massima di quarantacinque giorni, laddove la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli indagati sottoposti alla misura o per la gravità dei fatti in ordine i quali si procede) trovi immediata applicazione. La decisione della Corte - La Corte ha risposto positivamente: la norma è immediatamente applicabile, e lo è anzi senza neppure che debba evocarsi la questione della retroattività o no delle norme processuali la cui applicazione abbia in concreto effetti sostanziali favorevoli all’indagato, nell’ipotesi di decisioni adottate dal tribunale del riesame prima dell’entrata in vigore del novum normativo ma non ancora depositate al momento dell’intervenuta vigenza della modifica normativa: in tale evenienza, infatti, ha osservato il giudice di legittimità, essendo pendenti i termini per la stesura della motivazione, tale attività rimane regolamentata dal nuovo testo dell’articolo 309, comma 10, del Cpp, con riguardo sia alla durata dei termini per il deposito della motivazione che alla sanzione di inefficacia della misura, prevista per il mancato rispetto degli stessi. Conclusioni - Da queste premesse, la Corte ha dichiarato l’inefficacia della misura cautelare, per intempestività del deposito della decisione del tribunale del riesame, in una vicenda in cui l’udienza di decisione si era svolta il 7 maggio 2015, e il tribunale si era riservata la decisione, depositata infine quando era trascorso non solo l’ordinario termine di trenta giorni, ma anche quello di quarantacinque giorni che, secondo la sopravvenuta normativa, avrebbe potuto essere indicato nella massima proroga consentita. Il delitto passionale esclude che ci sia infortunio in itinere di Carla De Lellis Italia Oggi, 23 novembre 2015 Il delitto passionale esclude l’infortunio in itinere: è un "rischio che riguarda la vita personale" e, dunque, non tocca la sfera professionale. Come tale, pertanto, è un reato sufficiente da sé a rompere il nesso con l’attività di lavoro e far venir meno l’occasione di lavoro, presupposto per l’indennizzo di ogni infortunio. È quanto stabilisce la sentenza n. 17685/2015 della Corte di cassazione, sezioni unite, chiamata a risolvere il contrasto giurisprudenziale sul concetto di infortunio "occasionato" dal lavoro sviluppatosi all’indomani della riforma del 2000 (dlgs n. 38/2000). La vicenda. L’occasione d’intervento delle sezioni unite della Cassazione deriva dal dover decidere sul ricorso di un marito superstite (anche per conto delle figlie minorenni) contro una sentenza di un giudice del lavoro (Tribunale di Milano), confermata in Appello. In particolare, la sentenza, della quale si chiede la cancellazione, non ha riconosciuto la natura d’infortunio sul lavoro all’evento mortale ("delitto passionale" occorso alla lavoratrice, moglie del ricorrente) mentre percorreva a piedi la strada per raggiungere l’Istituto geriatrico presso cui lavorava. Il giudice, infatti, ha ritenuto che l’infortunio è avvenuto in orario diverso da quello previsto per il turno e che, comunque, la causa violenta determinante l’infortunio era connessa a un evento reato (appunto l’omicidio) idoneo come tale a interrompere il nesso causale fra occasione di lavoro ed evento dannoso. Il contrasto giurisprudenziale. Il ricorso, invece, sostiene la sussistenza sia della causa violenta sia dell’occasione di lavoro in base alle previsioni dal Tu Inail (dpr n. 1124/1965) e dell’art. 12 del dlgs n. 38/2000, per tre ragioni: 1) perché la lavoratrice percorreva il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro; 2) perché il caso non rientrava in nessuna delle esclusioni previste dalla disciplina; 3) perché non rilevava lo spostamento dell’orario d’inizio lavoro, considerata la ratio della tutela ed essendo comunque il lavoratore tenuto a recuperare il ritardo. Di qui la necessità dell’intervento delle sezioni unite, cioè al fine di superare il contrasto sulla questione "attinente all’individuazione delle regole sull’indennizzabilità dell’infortunio e del rapporto anche in termini di nesso eziologico tra attività lavorativa e infortunio subito". In particolare, il contrasto riguarda l’interpretazione da attribuirsi all’art. 2 del Tu Inail dopo il comma aggiunto dall’art. 12 del dlgs n. 38/2000 per cui "l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni salvo il caso dì interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. L’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, a esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Restano, in questo caso, esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti e allucinogeni; l’assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida". Le due interpretazioni. Con riguardo all’infortunio in itinere riconducibile a fatto doloso di terzo, esistono due diversi visioni. Una prima opzione interpretativa tende a estendere il concetto d’infortunio assicurato affermando il principio secondo cui "in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, pur nel regime precedente l’entrata in vigore del dlgs n. 38/2000, è indennizzabile l’infortunio occorso al lavoratore in itinere, ove sia derivato da eventi dannosi, anche imprevedibili e atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell’assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell’attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo" (così Cassazione n. 11545/2012 e Cassazione n. 3776/2008, nonché con qualche differenza Cassazione n. 2942/2002 e Cassazione n. 15691/2000). L’opposto indirizzo ritiene, invece, che non sia possibile ignorare il preciso elemento normativo dell’occasione di lavoro, sicché per la configurazione dell’infortunio indennizzabile è necessario che la causa violenta sia connessa all’attività lavorativa, nel senso che inerisca alla predetta attività o che sia almeno occasionata dal suo esercizio (così Cassazione n. 13599/2009 che richiama Cassazione n. 1017/1989, Cassazione n. 447/1998 e Cassazione n. 10815/1998). In particolare, la Cassazione (sentenza n. 13599/2009) ha avuto modo di affermare che "in tema d’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si sottrae a censure la decisione di merito che, a fronte dell’omicidio del lavoratore, a opera di ignoti, nel tragitto percorso per recarsi al lavoro, ha ravvisato tra prestazione lavorativa ed evento una mera coincidenza cronologica e topografica, un indizio del nesso di occasionalità…. escludendo qualsiasi collegamento oggettivo tra evento, esecuzione del lavoro e itinerario seguito per raggiungere il luogo di lavoro a bordo della propria autovettura". In quest’ultima via s’inserisce, infine, un terzo indirizzo (da ultimo Cassazione n. 13733/2014) in base al quale, in materia d’infortunio sul lavoro, l’art. 12 del dlgs n. 38/2000, che ha espressamente ricompreso nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio in itinere, disciplinandolo nell’ambito della nozione di "occasione di lavoro" di cui all’art. 2 del Tu Inail, esprime criteri normativi (come quelli di "interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate") che delimitano l’operatività della garanzia assicurativa, condizionando l’indennizzabilità alla sussistenza di un vincolo "obiettivamente e intrinsecamente apprezzabile con la prestazione dell’attività lavorativa" e all’accertamento di "una relazione tra l’attività lavorativa e il rischio al quale il lavoratore è esposto", indispensabile a concretizzare quel "rischio specifico improprio" o "generico aggravato" che rientra nella ratio del citato art. 2 del Tu Inail. Il delitto passionale. In conclusione la vicenda finisce con un nulla di fatto per il marito ricorrente. Il giudice, infatti, rileva che nella fattispecie la lavoratrice, "nonostante si trovasse sul percorso casa-azienda in orario prossimo all’inizio del lavoro, ha subito un rischio che riguarda la sua vita personale, del tutto scollegato all’adempimento dell’obbligazione lavorativa o dal percorso per recarsi in azienda", essendo stata "aggredita e accoltellata dal proprio convivente" (come da accertamenti dell’Inail). Questo evento, secondo il giudice, "ha spezzato ogni nesso" con la prestazione lavorativa. La condizione cosiddetta di quasi flagranza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2015 Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Quasi flagranza - Nozione. Lo stato di quasi flagranza sussiste anche nel caso in cui l’inseguimento non sia iniziato per una diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria, bensì per le informazioni acquisite da terzi purché sussista soluzione di continuità fra il fatto criminoso e la successiva reazione diretta ad arrestare il responsabile del reato. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 27 maggio 2015 n. 22136. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Informazione da parte di terzi - Inseguimento solo successivo - Stato di "quasi flagranza" - Sussistenza - Esclusione. Non ricorre lo stato di quasi flagranza qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia iniziato, non già a seguito e a causa della diretta percezione dei fatti, ma per effetto - e solo dopo - l’acquisizione di informazioni da parte di terzi. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 16 ottobre 2014 n. 43394. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Informazione da parte di terzi - Inseguimento solo successivo - Sussistenza dello stato di "quasi flagranza" - Esclusione. Non sussiste la condizione di cosiddetta "quasi flagranza" qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della P.G. sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte di terzi. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 5 aprile 2013 n. 15912. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Quasi flagranza - Nozione. Lo stato di quasi flagranza ricorre quando la polizia giudiziaria abbia proceduto all’arresto in esito a ricerche immediatamente poste in essere non appena avuta notizia del reato (anche se non subito concluse ma protratte senza soluzione di continuità). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 22 febbraio 2012 n. 6916. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Quasi flagranza - Presupposti - Continuità del controllo - Necessità. La quasi flagranza presuppone una correlazione tra l’azione illecita e l’attività di limitazione della libertà che pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento, siano le parti lese o gli agenti della sicurezza. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 17 maggio 2012 n. 19002. Indagini preliminari - Arresto in flagranza - Stato di flagranza - Mancato immediato inseguimento subito dopo il reato senza soluzione di continuità con la diretta percezione dei fatti - Stato di quasi flagranza - Esclusione. Non sussiste lo stato di quasi flagranza se l’inseguimento da parte della polizia giudiziaria (che poi culmina con l’arresto) si fonda non nella diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria bensì nella denuncia della persona offesa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 19 maggio 2010 n. 19078. Gli obblighi del conducente in caso di investimento. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2015 Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Obbligo di fermarsi - Inottemperanza - Arresto avvenuto oltre le ventiquattro ore - Legittimità - Ragioni. In caso di incidente stradale con danno alle persone, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto facoltativo fuori flagranza del conducente che non ha ottemperato all’obbligo di fermarsi, in relazione al reato previsto dall’art. 189, comma sesto, cod. strada, anche dopo il decorso di oltre ventiquattro ore dal sinistro, avendo il legislatore configurato per detta fattispecie incriminatrice uno stato di quasi flagranza temporalmente dilatato ed esteso. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 10 agosto 2015 n. 34712. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Inottemperanza all’obbligo di fermarsi - Fuga - Sanzione penale - Arresto in flagranza. Il nuovo codice della strada all’articolo 189 descrive in maniera dettagliata il comportamento che l’utente della strada deve tenere in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, stabilendo un "crescendo" di obblighi in relazione alla maggiore delicatezza delle situazioni che si possono presentare. È previsto l’obbligo di fermarsi in ogni caso, cui si aggiunge, allorché vi siano persone ferite, quello di prestare loro assistenza. L’inottemperanza all’obbligo di fermarsi è punita con la sanzione amministrativa in caso di incidente con danno alle sole cose (comma 5) e con quella penale della reclusione fino a quattro mesi in caso di incidente con danno alle persone (comma 6). In tale seconda ipotesi se il conducente si è dato alla fuga la norma contempla la possibilità dell’arresto in flagranza nonché la sanzione accessoria della sospensione della patente; la sanzione penale è più grave (reclusione fino a un anno e multa) per chi non ottempera all’obbligo di prestare assistenza. Si tratta di comportamenti diversi, lesivi di beni giuridici diversi e attinenti, nel caso dell’inosservanza dell’obbligo di fermarsi, alla necessità di accertare le modalità dell’incidente e di identificare coloro che rimangono coinvolti in incidenti stradali e nel caso di omissione di soccorso, a principi di comune solidarietà. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 28 luglio 2015 n. 33335. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Inottemperanza all’obbligo di fermarsi in caso di investimento di persona - Natura di reato omissivo di pericolo - Elemento materiale - Sosta momentanea - Insufficienza a garantire l’adempimento dell’obbligo di fermarsi. Il reato di cui all’articolo 189 Cds, comma 6 è un reato omissivo di pericolo, il cui elemento materiale consiste nell’allontanarsi dell’agente dal luogo dell’investimento così da impedire o comunque, ostacolare l’accertamento della propria identità personale, l’individuazione del veicolo investitore e la ricostruzione delle modalità dell’incidente in tema di circolazione stradale, risponde del reato previsto dall’articolo 189 del Cds, comma 6 (in relazione al comma 1), il soggetto che, coinvolto in un sinistro con danni alle persone, effettui soltanto una sosta momentanea, insufficiente a garantire l’adempimento degli obblighi di fermarsi e di fornire le proprie generalità ai fini del risarcimento. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 28 luglio 2015 n. 33335. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Inottemperanza all’obbligo di fermarsi in caso di investimento di persona - Natura di reato omissivo di pericolo - Momento consumativo - Individuazione - Successiva presentazione del conducente alla polizia - Irrilevanza. Il reato di fuga in caso di investimento di persona ha natura di reato omissivo di pericolo e si perfeziona istantaneamente nel momento in cui il conducente del veicolo investitore viola l’obbligo di fermarsi, ponendo in essere, con il semplice allontanamento, una condotta contraria al precetto di legge, di talché il reato è configurabile anche se il conducente, allontanandosi, abbia agito in modo da rendere possibile la sua identificazione presentandosi successivamente al più vicino posto di polizia, dato che la finalità della norma è anche quella di rendere possibile l’accertamento immediato delle modalità e circostanze dell’incidente. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 17 marzo 2015 n. 11195. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Obbligo di fermarsi - Inottemperanza - Dolo - Sussistenza - Accertamento. In tema di circolazione stradale, l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 189, comma 6°, cod. strada (punito solo a titolo di dolo) ricorre quando l’utente della strada, al verificarsi di un incidente - idoneo a recar danno alle persone e riconducibile al proprio comportamento ometta di fermarsi per prestare eventuale soccorso, non essendo necessario per contro che il soggetto agente abbia in concreto constatato il danno provocato alla vittima. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 28 marzo 2014 n. 14616. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - Inottemperanza all’obbligo di fermarsi - Dolo - Tipologia - Irrilevanza - Accertamento - Criteri. Nel reato di fuga previsto dall’articolo 189, comma sesto, cod. strad. l’accertamento del dolo, necessario anche se esso sia di tipo eventuale, va compiuto in relazione alle circostanze concretamente rappresentate e percepite dall’agente al momento della condotta, laddove esse siano univocamente indicative del verificarsi di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 12 aprile 2013 n. 16982. Circolazione stradale - Norme di comportamento - Obblighi del conducente in caso di investimento - - Inottemperanza all’obbligo di fermarsi - Dolo - Necessità - Accertamento - Criteri. Nel reato di fuga previsto dall’art. 189, comma sesto, C.d.s., punito solo a titolo di dolo, l’accertamento dell’elemento psicologico va compiuto in relazione al momento in cui l’agente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze dal medesimo concretamente rappresentate e percepite in quel momento, le quali devono essere univocamente indicative della sua consapevolezza di aver causato un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone, rilevando solo in un successivo momento il definitivo accertamento delle effettive conseguenze del sinistro. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 4 febbraio 2013 n. 5510. Friuli Venezia Giulia: monitorati sermoni e preghiere, giro di vite anche nelle carceri di Lodovica Bulian Messaggero Veneto, 23 novembre 2015 La denuncia del Sindacato di polizia penitenziaria Sappe: in cella si annida il pericolo della propaganda. A Udine sono reclusi una sessantina di detenuti musulmani, 50 a Trieste e una ventina a Pordenone. Controlli serrati e costanti sui detenuti di fede musulmana a caccia di possibili fiancheggiatori dell’Is nelle carceri del Friuli Venezia Giulia. Anche in regione è arrivata la circolare che all’indomani delle stragi di Parigi è stata diramata a tutti gli istituti penitenziari disponendo un rafforzamento della vigilanza sui detenuti islamici. Perché il proselitismo viaggia anche attraverso le celle, non solo nelle moschee e su web. Basti pensare ai numerosi i casi di arruolamento di jihadisti avvenuti all’interno delle case circondariali, o di contatti tra terroristi sfociati nella pianificazione di attentati. Sorvegliati speciali i momenti di preghiera, spesso autogestiti e guidati da un detenuto qualsiasi che si improvvisa imam. È qui che si annida il pericolo della propaganda e del reclutamento di combattenti per la Guerra Santa. Tanto che d’ora in poi ad amministrare il culto, come per le altre religioni, nelle carceri dovranno entrare gli imam dell’Unione delle comunità islamiche in Italia. Il caso più critico in regione è a Trieste, dove, a differenza di via Spalato, non c’è un imam autorizzato, e a condurre la preghiera sono gli stessi detenuti. È una piccola comunità impenetrabile quella che si è formata tra una cinquantina di musulmani che il venerdì si riunisce in una stanza improvvisata in moschea per recitare i versetti del Corano in arabo. Non ci sono mediatori, né interpreti, riferisce il segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Giovanni Altomare, il che rende difficile un monitoraggio efficace sui contenuti dei sermoni. "Abbiamo chiesto che come per gli altri ministri di culto, vi sia un imam ufficiale a gestire la preghiera del venerdì, altrimenti i controlli sono inefficaci". Non ci sono stati episodi di esultanza come quelli avvenuti in altre carceri italiane, alla vista degli attentati del venerdì 13 di Parigi. Ma nemmeno prese di distanza. In regione i detenuti stranieri, secondo i dati del ministero della giustizia aggiornati al 31 ottobre, sono 221 su un totale di 620 reclusi, di cui oltre un centinaio di religione islamica. Tra loro ci sono soggetti fragili, che magari non manifestano alcuna inclinazione sospetta al loro ingresso in carcere, ma che poi diventano facili obiettivi di indottrinamento da parte di detenuti fondamentalisti. A Trieste, ci sono 91 detenuti stranieri di cui una cinquantina di fede musulmana, su un totale di 176 detenuti. A Udine gli stranieri sono 69, quasi tutti sono musulmani, su un totale di 153. Numeri inferiori a Pordenone, dove gli stranieri sono 23 su 60 e a Gorizia, 11 su 34, mentre nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo i detenuti stranieri sono 27 su 197, ma per il regime duro fa caso a sé stante. La disposizione arrivata anche in Friuli Venezia Giulia dal dipartimento di amministrazione penitenziaria è di tenere sotto controllo i comportamenti di ogni singolo detenuto, per verificarne i rapporti con gli altri compagni e con le famiglie. La gran parte di loro, però, è sola, spiega Altomare, e non ha legami con l’esterno. Ed è così che si avviano alla radicalizzazione, precisa il sindacato: "Un determinato individuo entra in carcere per reati comuni e ne esce radicale, senza che il sistema di sicurezza esterno si renda conto di cosa è accaduto in carcere, quali rapporti abbia costruito". Ecco che per evitare derive estremiste, l’imperativo è aprire le porte agli Imam esterni. Il rischio è l’isolamento e l’impossibilità di riconoscere in tempo i germi della pericolosa metamorfosi fondamentalista. Isernia: morì in carcere, non fu incidente. Due ex detenuti arrestati per omicidio volontario primonumero.it, 23 novembre 2015 La Squadra Mobile di Campobasso ha arrestato questa mattina 23 novembre due pluripregiudicati campani ritenuti responsabili della morte di Fabio De Luca, 45enne morto un anno fa nel carcere di Isernia. Le indagini hanno chiarito che non si trattò di una caduta accidentale ma di un pestaggio brutale. L’ipotesi di reato è omicidio volontario premeditato. Non è stato un incidente la morte di Fabio De Luca, il detenuto 45enne deceduto nel penitenziario di Ponte San Leonardo, a Isernia, nel novembre del 2014. Gli agenti della Sezione Criminalità Organizzata della Questura di Campobasso, dopo complesse indagini avviate su delega del Procuratore di Isernia Paolo Albano, hanno dato esecuzione a due misure di custodia cautelare in carcere nei confronti di due pluripregiudicati: si tratta di Aniello Sequino, 25 anni e Francesco Formigli, 45 anni. L’accusa, per loro, è omicidio volontario aggravato. Fabio De Luca, romano di 45 anni, era stato trovato senza vita nella cella numero 110 - dove stava scontando una condanna per furto - esattamente un anno fa. L’autopsia aveva da subito chiarito che la causa del decesso andava ricercata nel cranio sfondato in più punti e nella conseguente emorragia cerebrale. La caduta accidentale dal letto fu ritenuta una ipotesi poco credibile fin dall’inizio. Le indagini hanno ricostruito che non si è trattato di incidente ma di un pestaggio brutale, un’aggressione in piena regola da parte dei due ex detenuti che con De Luca, però, non dividevano la stanza. Le cause non si conoscono, sebbene dai racconti e dalle testimonianze raccolte dagli agenti dietro le sbarre pare che De Luca non avesse buoni rapporti con più di un compagno della struttura carceraria. Monza: corso di informatica ai detenuti, bella storia in aiuto del prossimo di Gianni Nanino affaritaliani.it, 23 novembre 2015 Manageritalia Milano è l’associazione lombarda dirigenti, quadri e professionali del commercio trasporti, turismo e terziario avanzato che, insieme ad altre 12 Associazioni dislocate sul territorio nazionale fa capo a Manageritalia, Federazione Nazionale. Manageritalia Milano è l’associazione lombarda dirigenti, quadri e professional del commercio trasporti, turismo e terziario avanzato che, insieme ad altre 12 Associazioni dislocate sul territorio nazionale fa capo a Manageritalia, Federazione Nazionale. Il Gruppo Volontariato Professionale di Manageritalia Milano è nato nel 1999 per mettere a disposizione delle Organizzazioni no profit che operano nel sociale le competenze degli associati. Attualmente oltre 200 manager sono impegnati in diverse Organizzazioni di volontariato fornendo assistenza totalmente gratuita su argomenti quali Amministrazione e Bilancio Sociale, Marketing e Comunicazione, Qualità Privacy Sicurezza, Sistemi Informatici, Fundraising, Risorse Umane e Formazione. Nell’ambito delle varie attività svolte e dopo un proficuo percorso di preparazione, si è riusciti a realizzare un corso di Informatica ai detenuti della Casa Circondariale di Monza con l’obbiettivo di aiutarli nel percorso di formazione per un loro più facile reinserimento nella società. L’idea del corso è venuta al Team Informatico del Gruppo Volontariato che ha pensato di estendere ai carcerati una analoga positiva esperienza di formazione informatica fatta con l’Università della Terza Età di Auser. A maggio di quest’anno sono iniziati i primi contatti incontrando subito la disponibilità della Direttrice del Carcere Dott.ssa Maria Grazia Pittaniello; Filippo Mancini, coordinatore del Team Sistemi Informatici, ha predisposto dei questionari per valutare la preparazione degli interessati; finalmente all’inizio di Ottobre, per merito della Responsabile del Carcere dell’Area Giuridico Pedagogica Dott.ssa Federica Marroni, si sono effettuati i colloqui di verifica delle conoscenze. Nel corso sono coinvolti e si alterneranno come docenti/tutor Carlo Bruschieri, Gianni Nanino e Antonio Piroso, associati di Manageritalia Milano. Il corso è iniziato il 9 novembre, con 10 detenuti e si articolerà sull’approccio all’uso del pc e sullo studio dei programmi Office, Word e Excel; il corso prevede 20 ore, in sessioni bisettimanali di 2 ore. Le impressioni delle prime lezioni sono oltremodo positive, sia per l’attenzione dimostrata dagli utenti ma anche per l’esperienza non comune che si prova ad aiutare chi ha bisogno e, come sempre accade in queste occasioni, è probabile che sia più importante quello che si riceve di quello che si può dare e certamente questo aspetto umano resterà come ricordo indelebile. Il Team Informatico del Gruppo Volontariato si augura di ottenere un buon risultato e di collaborare alla formazione dei detenuti per un loro migliore reinserimento nella società, magari anche con altri corsi in futuro. Il Gruppo Volontariato di Manageritalia Milano è pronto ad accogliere le Associazioni di Volontariato/Onlus che desiderassero approfondire le possibilità di collaborazione. Per contatti: Manageritalia Milano Gruppo Volontariato tel. 0262535045 ogni mercoledì mattina o scrivendo a milano.volontariato@manageritalia.it. Napoli: torna la rassegna teatrale de "Il carcere possibile" irpinia24.it, 23 novembre 2015 Promossa da "Il Carcere Possibile Onlus" e dal "Garante dei Diritti dei detenuti" della Regione Campania, in collaborazione con Teatro Stabile di Napoli e Provveditorato della Campania Amministrazione Penitenziaria, al via il 2 4 Novembre, al Centro Europeo di studi (CEuS) di Nisida e 25, 2 6 e 2 7 al Teatro San Ferdinando la rassegna teatrale "Il carcere possibile", giunta alla sua undicesima edizione ad ingresso gratuito. L’edizione 2015 accoglie come assoluta novità, la proiezione del cortometraggio diretto da Maria Raffaella Faggiano, Antonio Cossia e Salvatore Cantalupo con le ragazze e i ragazzi di Nisida - "Doppio Specchio" che sarà proiettato, Martedì 24 Novembre alle ore 16,30 presso il Centro Europeo di studi (CEuS) di Nisida. Ingresso libero. In scena cinque compagnie da Mercoledì 25 a Venerdì 27 Novembre al Teatro San Ferdinando di Napoli per l’edizione 2015 della rassegna di teatro de Il Carcere Possibile Onlus. Tra i più consolidati progetti nazionali di Teatro e Carcere, l’undicesima edizione della rassegna propone cinque allestimenti teatrali, frutto delle residenze laboratoriali con i detenuti/attori curate da registi impegnati da anni nel settore, all’interno degli Istituti penitenziari della Regione Campania. Mercoledì 25 Novembre alle ore 21,00 la C asa Circondariale di Poggioreale presenta lo spettacolo "Becketton Air", regia di Gesualdi/Trono. Mercoledi 26 Novembre alle ore 18,30, seconda giornata di Rassegna, sarà la volta dei detenuti /attori della Casa Circondariale di Arienzo, con C’era una volta il Rione Sanità di Teresa Papa e Gaetano Ippolito. A seguire, alle ore 21,00, i ragazzi dell’I stituto Minorile Nisida in L’Aneme Pezzentelle regia di Veria Ponticiello, ispirato a un testo di Fortunato Calvino. Chiuderanno l’edizione 2015 della Rassegna Venerdì 27 Novembre, alle ore 18,30 i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Airola con I n Piazza di Vincenzo Di Caprio / Associazione i Refrattari, e alle ore 21,30 i detenuti/attori dell’Istituto Penale di Secondigliano in "Corporeo" di Giorgia Palombi per Maniphesta Teatro in collaborazione con Vincenzo Del Prete. Firenze: attori-detenuti alle prese con "Ubu Re" al Teatro del Carcere di Sollicciano met.provincia.fi.it, 23 novembre 2015 Giovedì 17 Dicembre, alle ore 21.00, presso il Teatro del Carcere di Sollicciano, in Via Girolamo Minervini n. 2/r, a Firenze, la Compagnia di Sollicciano, compagine teatrale formata da attori-detenuti nata nel 2004 all’interno dell’omonima Casa Circondariale, terrà lo spettacolo "Ubu Re", ripresa del celebre dramma teatrale di Alfred Jarry, per la regia di Elisa Taddei dell’Associazione Krill Teatro, con la collaborazione di Murmuris Teatro. Per assistere allo spettacolo è necessario acquistare il biglietto (dal costo di 8,00 Euro) entro lunedì 30 novembre presso il Teatro Cantiere Florida in Via Pisana n. 111/r, a Firenze, consegnando una fotocopia del documento di identità (carta d’identità o patente di guida), nei giorni di martedì, mercoledì, giovedì o venerdì dalle ore 10.00 alle ore 15.00 oppure in altri orari su appuntamento. Per informazioni: telefono: 329 9160071, mail: organizzazione@murmuris.it, facebook: facebook.com/196945177137002. Catanzaro: portare la lirica oltre le sbarre, una scommessa vinta di Francesco Vallone catanzaroinforma.it, 23 novembre 2015 Coinvolgente l’iniziativa lanciata da Mario Sei, assistente volontario alla casa circondariale di Catanzaro e autore di commedie scritte per i detenuti. Portare la lirica oltre le sbarre è una scommessa che Mario Sei, assistente volontario presso il carcere di Catanzaro, nonché autore di commedie scritte anche per i detenuti, ha voluto lanciare. Dall’entusiasmo e dal successo riscontrato la scommessa è stata vinta, vista la partecipazione e l’attenzione che i detenuti del circuito di Alta Sicurezza hanno inteso dimostrare e soprattutto apprezzare. Musiche e parole - la musica oltre le sbarre - il titolo che è stato dato al concerto, e che, oltre alla musica, ha visto anche la partecipazione di D., un detenuto attore che attraverso la narrazione ha consentito ai suoi tanti compagni presenti all’evento di poter seguire un racconto che precedeva l’esecuzione di brani di alto profilo musicale. Il concerto organizzato d’intesa con il Direttore della Casa Circondariale "Ugo Caridi", Angela Paravati, ha anche in questo caso ottenuto un doppio scopo, portare la musica, anche quella più "elevata" e offrire spunti di riflessione a chi è privato della propria libertà. Un filo rosso quindi che ha regalato emozioni sia attraverso brani magistralmente eseguiti ed interpretati dai bravi Fernanda Iiritano (soprano), Daniele Tommaso Mellace (Baritono), accompagnati alla chitarra da Diego Smiraglio e sia attraverso un racconto che in qualche modo evoca un richiamo alla storia di ogni persona che vive in uno stato di lontananza dai propri affetti. Un uomo, ricco, potente, che viveva nella convinzione che quel mondo dorato, ovattato non venisse mai scalfito da niente, convinto che il mondo lo potesse in qualche modo manipolare a proprio piacimento. Champagne, feste, gioielli per la propria avvenente consorte erano gli ingredienti su cui si basava tutta la sua vita. Il conto prima o poi arriva ed anche questo "potente" signore d’altri tempi viene portato in esilio ed improvvisamente perde tutto ciò che ha, tra cui anche la moglie ed un figlio in arrivo, oltre a tutti quei beni materiali che egoisticamente aveva accumulato. L’isola su cui viene portato (evoca lo stato di detenzione) gli appare sinistra, triste, disprezza tutto ciò che gli offre, perché è proprio la natura che a seconda di come la si guarda può apparirci talvolta benigna, talaltra malvagia, ma piano piano, il suo percorso interiore lo porta ad osservare le cose con maggiore attenzione, il sole, il mare, gli alberi, semplicemente la natura. Sente che qualcosa nella sua vita sta cambiando, si rende piano piano che la sua vita, quella che finora ha vissuto forse non gli ha consentito di poter apprezzare le cose semplici, le cose "banali" ed a portata di mano… forse si sta semplicemente ravvedendo. La bella voce narrante di D. uno dei detenuti-attori che da tempo partecipano ad uno dei laboratori teatrali che lo stesso Mario Sei tiene all’interno della struttura, porta quindi gli spettatori in questa dimensione e naturalmente arie come Tace il labro, tratto dalla vedova allegra, Introduzione e capriccio di G. Regondi, brani di Schubert, alternati a melodie napoletane come Quando spunta la luna a mare chiaro, Torna a Surriento, I Te vurrìa vasà, Summertime, fanno da cornice a questa narrazione. Tanto l’entusiasmo dei detenuti che hanno avuto modo di apprezzare le qualità artistiche dei protagonisti ed i brani da loro eseguiti ed interpretati. Brani che hanno segnato la storia della musica lirica mondiale, insolita per quei contesti certamente ma non per questo non capace di procurare emozioni ed essere apprezzata comunque anche in un contesto in cui la musica di questo tipo difficilmente arriva. Un viaggio quindi attraverso la musica, un viaggio a tratti chiaro-scuri, fatto ora di speranze, ora di sconforto, fatto di luci ed ombre, di tristezza e di gioia, un viaggio interiore, un percorso che chi vive in carcere conosce molto bene, ma la musica finale vince su tutto "O sole mio" appunto a rappresentare idealmente la luce, la speranza, la vita, la libertà. Cinema: "Dustur", di Marco Santarelli, ovvero la libertà secondo detenuti musulmani Ansa, 23 novembre 2015 Cosa è la felicità, qual è la forma di società ideale, più vicina alle proprie esigenze, qual la costituzione che il paese ideale dovrebbe avere per un cittadino musulmano che ha conosciuto l’occidente? Prova a rispondere a questa domanda il coraggioso documentario "Dustur" di Marco Santarelli, passato ieri al 33/o Torino Film Festival, nel concorso italiana.doc e girato all’interno del carcere Dozza di Bologna. Prodotto da Istituto Luce-Cineccità. Quello che emerge a sorpresa è che tutti, pur se in misura diversa, mettono tra i primi valori la libertà di pensiero, informazione e lavoro. Il film riporta i dialoghi tra un gruppo di giovani detenuti islamici, un ex detenuto di 25 anni attualmente studente universitario di giurisprudenza Samad, un frate della Piccola famiglia dell’Annunziata, Ignazio, dal quale è partito il progetto del carcere ed esperti di politica e costituzione. La discussione talvolta assumere anche toni accesi perché tutti i ragazzi tendono a difendere la natura intima della propria fede, taluni dicono anche che non riuscirebbero neppure a dividere la cella con un musulmano "traditore" passato al cristianesimo, però emerge dai loro ragionamenti collettivi, che durano mesi e mesi, che la libertà, una volta conosciuta fino in fondo e capita, diventa un valore. Il corso tenuto da frate Ignazio non ha certo alcuno scopo religioso, non vuole arrivare a convincere nessuno a cambiare credo, quanto invece ad arrivare all’essenza dell’agire e al senso di giustizia. E far riflettere sul fatto che la nostra Costituzione non contiene Dio, a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei paesi arabi. I partecipanti, alla fine, devono scrivere insieme una "Dustur" (in arabo Costituzione) ideale, con i valori condivisi da tutti. Qualcuno, e non per scherzo, cita anche tra i diritti, il "diritto alla moglie". "Ma è un po’ come dire il diritto all’amore", spiega il regista, che ha cominciato a pensare al film nel 2011. "Mentre stavo girando il mio precedente documentario sul carcere "Milleunanotte" - spiega - ho conosciuto Ignazio e Samad, il volontario religioso e il giovane ex detenuto. Il cristiano e il musulmano: due mondi solo apparentemente distanti. Mi ha catturato la loro passione nel costruire un’idea per un mondo migliore". Siria: Muhammad Dibo, uno scrittore nelle carceri di Assad di Shady Hamadi Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015 Mi sono preparato molto prima di incontrare Muhammad Dibo. Ho letto diverse sue interviste rilasciate alla stampa araba. Raccontava cose terribili riguardo al carcere in Siria. Nei giorni precedenti al nostro incontro, mi sono domandato come avesse fatto a sopravvivere alle torture e come fosse la sua vita fuori dal carcere. Mi ero immaginato un uomo forte, alto e ripiegato su se stesso perché assediato dal dolore: nella mia mente, Dibo non poteva essere diverso da quell’immagine. Avevo fissato l’appuntamento con Dibo alla caffetteria Laziz, a Hamra, Beirut. Arrivo mezz’ora prima dell’incontro e rileggo una sua lunga intervista rilasciata al quotidiano Al Arab. Intanto preparo le domande e guardo la foto nell’articolo. Alle 19 precise lo riconosco. Cammina spedito, mi cerca fra la gente seduta ai tavoli fuori. Io sono seduto dentro il locale. Alzo la mano. Lo fisso mentre si avvicina a me e mi chiedo "come ha fatto a sopravvivere?". Dibo è minuto e ha un corpo esile che deve aver sopportato torture orribili. Mi soprende il suo sorriso, la sua gioia di incontrare gli altri. Saluta i camerieri per nome. "Vengo sempre qui. I ragazzi che lavorano da Laziz sono tutti siriani. Mi siedo, mangio e fumo il narghilè". Gli confesso subito che sono contento dell’uscita del suo libro "E se fossi morto?", edito da Il Sirente e tradotto da Federica Pistono. Penso che il suo libro possa aiutare la comprensione di quello che avviene in Siria, attraverso la sua storia personale. Non è questo il ruolo dello scrittore?. "Lo scrittore siriano ha un posto molto debole ed è consapevole di non poter cambiare le cose nell’immediato, nel presente. È invece consapevole che ha un impatto nel futuro e aiuta gli altri a trovare la speranza. Guida la gente, nonostante le difficoltà, verso la strada giusta. In più, lotta per preservare l’umanità delle persone". Come si preserva l’umanità delle persone in carcere? "Prima di risponderle devo dirle che quando mi hanno arrestato, perché ho partecipato a una manifestazione pacifica nel marzo 2011 a Damasco, pensavo di sapere a cosa andavo incontro. Avevo letto molti libri di scrittori siriani che raccontavano le loro esperienze in carcere. Quando sono entrato, appena ho messo piede in quel pozzo oscuro, ho capito che tutto quello che avevo letto non era nulla. Non è la questione della tortura, il supplizio del corpo, ma è la rottura dell’anima che rende difficile descrivere quello che si prova. Nel mio libro mi sono concentrato su questo: il rapporto fra il carcere e l’anima. Ed è proprio il tentativo di salvare l’anima, l’umanità, che mi spingeva ad alleviare le sofferenze delle persone in cella con me attraverso la poesia". Dibo si ferma un attimo. Temo di essere entrato troppo nella sua intimità. Se vuole non continuiamo. Non voglio forzarla… "No. Non si preoccupi. Ne ho fatto un libro. Sa che i miei compagni di cella mi avevano soprannominato il "poeta perfido" - ride. Recitavo molte poesie di Nizar Qabbani perché parlano dell’amore e delle donne. Sentivamo una gran mancanza della figura femminile. Non intendo necessariamente di una fidanzata ma anche delle nostre mamme. Il mio interesse, recitando Qabbani e al Hallaj, era quello di creare una resistenza culturale. Cercavo un modo di farli uscire dalla cella, per un istante, attraverso la bellezza delle storie che raccontavo". Dibo si sofferma spesso sui contrasti del carcere, nel suo libro scrive "quel tale - riferendosi al secondino - picchiava con tutto l’odio immaginabile, trasformando il momento del passaggio in bagno in un inferno, che ci induceva, quando era possibile, a rinunciare, per scampare a quei colpi e a quegli attacchi di follia. Quella guardia arrivava al punto, a volte, di inseguire i reclusi per pestarli in cella (…) la cosa sconcertante era il fatto che quel secondino fosse un uomo bellissimo, al punto che qualsiasi ragazza, come tua sorella o tua nipote, si sarebbe potuta innamorare di lui". Ho letto in una sua intervista che lei ha provato a cercare i suoi compagni di prigionia. È riuscito a rintracciarne qualcuno? "Sono riuscito a rintracciarne uno. Ora vive come rifugiato in Turchia. Anche se ci sentiamo poche volte, la nostra amicizia è granitica. L’esperienza del carcere, della tortura, ci ha avvicinati. Siamo uniti per sempre". Possiamo dire che la prigione è rimasta dentro di lei? "Sì, perché ti insegna la paura. Quando bussano alla porta ho paura e quando una persona chiede di me, senza che io la conosca, ho paura perché penso che voglia farmi qualcosa. La scrittura mi aiuta a curarmi, è tutto per me". Una volta, qualcuno mi disse che la vera rivoluzione sarebbe arrivata quando ogni siriano avesse eliminato il piccolo dittatore dentro di lui e il piccolo uomo dei servizi segreti. Che ne pensa? "Ha ragione chi le ha detto questa frase. È l’insieme dele norme culturali e morali costruite dal regime ad aver prodotto la società che vediamo oggi. Il giorno in cui riusciremo, noi della società civile, a fare una rivoluzione culturale nella società quel piccolo dittatore, copia di quello in Siria, e l’uomo dei servizi segreti cesseranno di esistere. Per questo avremo bisogno di un minimo di dieci anni, dopo la caduta del regime, per compiere questa rivoluzione culturale che dovrà coinvolgere anche la questione della laicità". Perché non va all’estero, intendo in Europa, per cominciare una nuova vita? "Devo rimanere in un posto vicino al mio Paese. È questo quello che sento. Quando leggevo riguardo all’esilio credevo che fosse una cosa bella. Oggi dico che è la cosa peggiore. Quando non puoi stare insieme a tua mamma mentre è in ospedale, in sala operatoria; quando tua sorella si sposa e tu non ci sei, non sei con lei, è doloroso".