Giustizia: la Francia, l’Italia, l’Europa e la grazia di Francesco di Eugenio Scalfari La Repubblica, 22 novembre 2015 È l’Europa l’obiettivo prescelto dal Califfato. E con essa la civiltà occidentale, le sue religioni, la sua economia, i comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti. La Francia ha assunto il ruolo di guida del continente. E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà? IN questi giorni terremotati tutti ci poniamo molte domande: perché accadono fatti così orribili, eccidi di innocenti, decapitazioni trasmesse in televisione, paura della gente, servizi segreti mobilitati, bombardamenti a tappeto, sorveglianze inutilmente rafforzate, in Europa, in Belgio, in Iraq, in Siria, in Turchia, in Egitto, in Libano, nel Mali, in Bangladesh, in mezzo mondo, con previsioni di altrettanti orrori nell’Italia del Giubileo? Anche io sono profondamente colpito e preoccupato, ma non sorpreso e la ragione è questa: so da tempo che la storia dell’umanità da quando esiste è dominata dal potere e dalla guerra. L’amore e la pace sono due sentimenti alternativi che di tanto in tanto interrompono i primi due, ma sono interruzioni brevi, pause di riposo presto travolte. Dentro molti di noi l’amore e la pace sono sentimenti permanenti, ma il potere e la guerra hanno sempre la meglio dovunque, in qualsiasi epoca, in qualunque paese e in qualsiasi tempo. E il motivo è semplice: noi, a differenza di altri essere viventi, abbiamo un Io. E quell’Io non appena ci nasce dentro ha bisogno assoluto di avere un suo territorio, conquistarselo, difenderlo, ampliarlo. Ha bisogno di emergere a tutti i livelli sociali e cerca di farlo come può, che sia povero o ricco, di pelle nera o bianca o mulatta, uomo o donna. Anche gli animali per soddisfare i loro bisogni primari devono combattere per conquistare la preda, preda anch’essi di altri animali. Potere e guerra sono anche per loro istinti dominanti, ma non ne sono consapevoli. Noi sì, noi siamo Io in ogni istante della nostra esistenza ed è quello il motore che ci anima e determina il nostro destino. Il Fato. Ricordate? Gli dei olimpici della cultura greca avevano la meglio non soltanto sugli uomini ma perfino su altri dei. Zeus sapeva di dover rispettare il Fato che era molto più di un dio: era la legge che domina il Cosmo e quindi potere e guerra, la legge di natura è quella. L’antidoto non è l’amore e la pace che come ho già detto sono intervalli brevi, pause di riposo; ma è la libertà, la libertà consapevole. E la bellezza, non come ideale romantico ma lirico e profondamente evocativo: la musica, la danza, la conoscenza. Libertà e bellezza, questi sono i valori, dove l’Io non viene affatto spento ma anzi potenziato e allontanato dalla ricerca del potere, riscattato dalla turpitudine della guerra e guidato verso quell’oltreuomo che nello Zarathustra di Nietzsche è l’ultimo e più eccelso livello che la nostra specie può raggiungere e che dovrebbe mettere insieme tutti gli uomini di buona volontà. L’Europa è oggi l’obiettivo del terrorismo guidato dall’Is che d’ora in poi chiameremo Califfato. Noi siamo soltanto il suo bersaglio, attaccano dovunque possono, ma è l’Europa il terreno prescelto e con essa gli Stati Uniti d’America. Insomma l’Occidente, la civiltà occidentale in tutte le modalità che quella civiltà esprime, nelle sue religioni, nella sua economia, nei comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti. Il Califfato è a sua volta una classe dirigente composta da poche persone, non più di un centinaio, in gran parte provenienti dall’esercito iracheno di Saddam Hussein, dai muezzin afghani, dai talebani indottrinati da Bin Laden e da Al Qaeda; arabi soprattutto ma anche pachistani e sauditi. Bin Laden, a quanto si sa, era profondamente religioso ma i dirigenti che compongono il Califfato non lo sono affatto anche se fanno finta di esserlo. Le cellule che il Califfato dirige hanno forse una vernice di religiosità fondamentalista. Il loro grido di guerra è “ Allah Akbar” e molti di loro arrivano fino al punto di farsi esplodere sognando un Aldilà dove le vergini li aspettano come premio. Ma la gran parte di quei terroristi disseminati in Europa non hanno alcuna vocazione religiosa. Sono i giovani delle periferie, la seconda o terza generazione delle banlieue che non hanno potuto o non hanno voluto integrarsi con la società con cui vivono. Alcuni hanno studiato, altri no, ma tutti si sentono defraudati, molti ricorrono alla droga e/o all’avventura, alla rabbia, alle armi e più sono questi i loro modi di sopravvivenza, più l’esclusione aumenta, più la polizia diventa il loro nemico, più è facile reclutarli per i messaggeri del Califfato. Le banlieue sono il terreno di coltura dei terroristi e l’Io gioca qui la sua più segreta e perversa partita. L’Io degli esclusi reclama una sua soddisfazione, un suo territorio psicologico, la speranza di non aver paura ma di incuterla negli altri. Che gli altri siano cristiani o atei o islamici, ma integrati e non esclusi: questi sono i loro bersagli. Bersagli anonimi, non li conoscono ma sono comunque altri e diversi da loro e quindi da uccidere. Per diffondere la paura e soddisfare così il loro orribile Io. Questa è la guerra in corso: terrore e paura sono gli obiettivi delle cellule che obbediscono al Califfato la cui classe dirigente è posizionata nel triangolo che include le zone confinarie tra Siria, Turchia e Iraq, con un distaccamento libico-tunisino che fronteggia direttamente l’Europa mediterranea. Il Califfato ha i suoi soldati, sono qualche migliaio e bene armati. Il Califfato è ricco, ha petrolio, ha l’appoggio di uomini di affari degli Emirati e finanziamenti mascherati ma evidenti che garantiscono la tranquillità saudita e degli Emirati. A guardar bene anche l’Io del Califfo e dei suoi compagni è assai sviluppato, vuole potere, ricchezza, piaceri. Deriva da Al Qaeda ma è tutt’altra cosa rispetto a Bin Laden. Crudele quanto lui e più di lui, ma estremamente più sofisticato. Non è escluso che divenga un vero e proprio Stato arabo sunnita. In fondo Ibn Saud cominciò così la sua carriera e trasformò una tribù in un Regno tra i più potenti del Medio Oriente. La sua famiglia conta ormai circa trecento persone, possiede molte banche, imprese, alleanze d’affari in tutto l’Occidente, in Francia, in Inghilterra, in Italia, in America, in Germania, ovunque. Detesta gli sciiti ma si distingue anche dai sunniti. Tra i capi del Califfato è un esempio da imitare e magari da conquistare. Senza sangue, possibilmente. Il sangue scorre altrove. Poiché la Francia è il principale terreno di battaglia del Califfato e delle sue migliaia di cellule europee, quella Nazione, oltre a contare il maggior numero di vittime innocenti, ha assunto la guida dell’Europa. Il presidente Hollande ha capito subito che, purtroppo per i francesi, il ruolo di leader dell’Europa era l’aspetto politicamente ed anche economicamente positivo e lui ha dimostrato di saperlo perfettamente assolvere, a partire dai simboli fino alla concreta azione politica. Tra i simboli ce n’è uno che personalmente mi commuove non da ora ma da sempre, ogni volta che mi accade di ascoltarla: la Marsigliese, inno nazionale finora, ma europeo ai tempi delle guerre contro le monarchie assolute d’Europa, quando la grande Rivoluzione guidata dai girondini e da D’Anton arrestò l’invasione dei monarchi europei e l’esercito repubblicano guidato da Kellerman vinse la battaglia di Valmy. Ogni volta che in Francia c’è un attentato il popolo si raduna nelle piazze e intona la Marsigliese mentre contemporaneamente la canta l’Assemblea nazionale. Così avvenne dopo l’attentato a Charlie Hebdo ma ora è cantata dai giocatori di calcio prima dell’inizio delle partite in molti paesi europei, è stata intonata a Londra alla Camera dei Comuni nel salone di Westminster, in Italia in una sorta di plenum delle Camere, insomma si è trasformato in un inno europeo in luogo dell’Inno alla Gioia della sinfonia beethoveniana. Ma accanto al simbolo - del quale tuttavia sarebbe sbagliato trascurare l’importanza - c’è la politica vera e propria. Hollande aveva già deciso di affiancarsi agli Usa bombardando per un paio di volte Raqqa, scelta dal Califfato come propria capitale. Ma dopo gli attentati recenti a Parigi dei terroristi provenienti dal Belgio, i bombardamenti con Raqqa si sono moltiplicati e ancor più lo saranno quando la portaerei francese che è già partita da Tolone incrocerà nel Mediterraneo orientale i bombardamenti diverranno perciò continui. Questo per quanto riguarda la guerra guerreggiata, ma poi c’è la politica vera e propria. Il primo intervento di Hollande è stato di appellarsi al Trattato di Lisbona che prevede la collaborazione di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. I ventotto paesi hanno approvato all’unanimità ciò che il Trattato dispone: una collaborazione tra tutti i firmatari di quel trattato senza però indicarne né la procedura esecutiva né i vari ruoli di ogni Paese. Hollande avrebbe potuto appellarsi all’articolo 5 della Nato che prevede la collaborazione immediata con quel Paese che abbia subito una grave aggressione, ma non l’ha fatto perché la Nato ha un suo proprio comitato di cui la Francia ovviamente fa parte ma non ne è il capo. Hollande ha anche previsto che, sulla base del Trattato di Lisbona, consulterà gli Stati membri dell’Ue bilateralmente, per stabilire con ciascuno di essi il tipo di collaborazione che la Francia gli chiede. Tale consultazione avrà inizio ai primi del prossimo dicembre. Nel frattempo la Francia avrà incontri con Obama e soprattutto con Putin per considerare i comuni interventi contro il Califfato. Nel frattempo c’è stato l’attentato compiuto in un grande albergo nella capitale del Mali, un paese ex colonia dell’impero francese dove Parigi ha dislocato da tempo 37 mila soldati che sono intervenuti con alcuni corpi specializzati insieme ad analoghe forze del Mali e a un reparto di militari americani. Il blitz è stato condotto a termine dopo ventiquattr’ore di aspra battaglia, gli attentatori hanno ucciso e sono stati a loro volta uccisi. E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà? Che cosa ha in mente il nostro presidente del Consiglio, leader del più importante partito italiano e capo della maggioranza parlamentare, che ormai governa e comanda da solo, come del resto avviene da tempo in tutti i Paesi d’Europa e di Occidente? La risposta a questa domanda è abbastanza facile perché è già stata anticipata dal nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, dal ministro della Difesa e dallo stesso Renzi: appoggeranno la Francia in tutto ciò che è possibile, ma non hanno alcuna intenzione di compiere interventi militari né con aerei né con truppe di terra. È giusta questa posizione? Personalmente credo di sì, ma quello che non si vede è in che cosa può consistere la collaborazione con la Francia. Forse con risorse economiche? Non ci verranno chieste e comunque non ne abbiamo. Di fatto avremo una posizione neutrale. Con quali contraccolpi? Un Paese neutrale non avrà alcun peso sulla politica e sull’economia europea. Se è lecito dare un suggerimento, Renzi dovrebbe riservarsi un ruolo in Libia. Non per partecipare alla guerra contro il distaccamento dei seguaci del Califfato né alla guerra tra il governo e le tribù di Bengasi e Tobruk contro il governo di Tripoli, ma per allestire campi di accoglienza dei migranti che provengono dai Paesi subsahariani, in fuga verso le coste mediterranee e in particolare verso l’Italia. Campi d’accoglienza che li trattengano in Libia in modo decente e confortevole, ne controllino l’identità e la provenienza, esaminino le loro eventuali richieste di asilo politico e li aiutino a partire verso l’Europa su navi italiane e di altri Paesi europei o ne favoriscano il rientro opportunamente negoziato con i loro Paesi di origine. È un ruolo molto importante che richiede non solo risorse economiche e competenze diplomatiche ma anche di truppe, navi da guerra e aerei di ispezione affinché quei campi d’accoglienza siano opportunamente difesi da tribù e/o da terroristi presenti in quelle zone. L’Egitto dovrebbe appoggiare questo “ sistema” e sarebbe anche suo interesse farlo. Ancor più evidente sarebbe l’interesse francese. Hollande guida ormai l’Ue nel tandem con la Germania, regredita ormai in un ruolo minore rispetto al tradizionale tandem franco-tedesco. Col tempo forse la situazione cambierà, ma oggi è questa ed è la Marsigliese che predomina in Europa. Ho già scritto più volte che l’esplosione di terrorismo dovrebbe affrettare l’avvio verso gli Stati Uniti d’Europa, ma si tratta comunque di un percorso che richiede a dir poco un decennio purché cominci subito. E il modo per farlo cominciare subito è la cessione immediata di sovranità dei Paesi europei, almeno quelli dell’Eurozona, della politica estera e di quella militare alle Istituzioni europee. Hollande sarebbe contrario, ma la Merkel? Non sarebbe proprio questo il modo per riconquistare la posizione prioritaria nell’Ue o almeno nell’Eurozona? Ma Renzi, il nostro Renzi, sarebbe d’accordo e si batterebbe affinché questa cessione di sovranità avvenisse? Acquisterebbe un ruolo essenziale in Europa, ma lo capirà? Temo proprio di no, ma spero d’essere smentito. Se è politicamente intelligente dovrebbe accollarsi questi due ruoli, in Libia e in Europa. Spero di non essere il solo a suggerire questa posizione. C’è infine un altro personaggio che è fondamentale per superare questa tragica situazione: papa Francesco. Non c’è mai stato un Papa come lui. Dico di più: un Pastore, un Profeta, un rivoluzionario: in nome della sua fede e in circa due miliardi di cristiani che abitano il pianeta, dislocati in quasi tutti i continenti. Francesco si appella al Dio unico. Tutte le religioni monoteistiche si debbono affratellare in nome dell’unico Dio che non è e non può essere un Dio vendicativo ma è un Dio misericordioso e come tale va adorato dai credenti di quelle religioni a cominciare ovviamente dai cristiani, dai musulmani, dagli ebrei. Il Corano parla di “morte degli infedeli” e offre ai fondamentalisti un pretesto per coprire le loro azioni delittuose con alcuni passi coranici. Ma dimenticano che il loro profeta Maometto, costruttore della religione islamica, mise come primo punto di riferimento Abramo. Al vertice dell’islam c’è dunque Abramo che ascoltò dalla voce del Signore l’ordine di sacrificare suo figlio Isacco. Quell’ordine sconvolse il cuore di Abramo nel profondo, ma la sua fede lo costrinse all’obbedienza: portò il figlio con sé su una collina e lì, guardando il cielo sopra di lui, estrasse dalle sue vesti un coltello per uccidere il figlio come gli era stato ordinato da Dio. Ma a quel punto la voce di Dio lo fermò: “Volevo vedere la forza della tua fede, ma io voglio che Isacco viva felice, come me e con te. Accarezzalo, educalo, e tutti e due sarete da me amati e illuminati”. Questo è il Dio di Abramo e di Isacco ed è un Dio misericordioso. Perciò sono blasfemi e condannevoli i terroristi del Califfato che invocano Allah e nel suo nome uccidono centinaia di Isacco, figlio di Abramo e amato da Allah Akbar. L’unico Dio, che gli ebrei chiamano Jahvé o Elohim e i cristiani chiamano Padre. Questo predica Francesco e questo è il tema del Giubileo della misericordia. La sua parola, in un momento come questo, è diretta soprattutto agli islamici affinché riconoscano il loro Dio misericordioso che è il medesimo che tutte le religioni monoteistiche dovrebbero venerare. Spero che Francesco riesca ad affratellarle in un unico slancio di misericordia alla quale anche i non credenti si associano. Giustizia: via libera del Consiglio di sicurezza dell’Onu “qualsiasi misura contro l’Isis” di Paolo Mastroilli La Stampa, 22 novembre 2015 Approvata all’unanimità una risoluzione che invita tutti gli stati membri a unirsi nella lotta contro i terroristi che rappresentano “una minaccia inedita e globale”. Tutti gli stati che possono, con tutte le misure necessarie. Suona come una vera chiamata alle armi globale, la risoluzione che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato ieri sera all’unanimità, per combattere l’Isis. Il testo non è stato scritto in base al Chapter 7 della Carta delle Nazioni Unite, che autorizza legalmente l’uso della forza, ma rappresenta comunque una copertura per i governi che vorranno incrementare le loro operazioni contro i terroristi. La risoluzione è stata scritta dalla Francia, membro permanente del Consiglio con potere di veto, dopo gli attentati di Parigi. “Attraverso la sua ideologia estremistica e violenta - dice il testo - i suoi atti terroristici, i suoi attacchi continui, sistematici e diffusi contro i civili, i suoi abusi dei diritti umani e le violazioni delle leggi umanitarie internazionali, inclusi quelli perpetrati su base religiosa e etnica, la barbarica distruzione dell’eredità culturale e il traffico di beni culturali, lo Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil, noto anche come Daesh) costituisce una minaccia globale senza precedenti alla pace internazionale e alla sicurezza”. Anche per la sua capacità di “reclutare e addestrare terroristi combattenti stranieri, la cui minaccia ha effetti su tutte le regioni e i paesi membri dell’Onu, anche quelli lontani dalle zone di guerra”. Il documento ricorda i recenti “orribili attacchi” in Tunisia, Turchia, nel Sinai con l’abbattmento dell’aereo russo, a Beirut e a Parigi, e avverte che Daesh “ha la capacità e l’intenzione di condurre altri attentati”. Perciò sollecita tutti “gli stati membri che hanno la capacità di farlo, di prendere tutte le misure necessarie, nel rispetto delle leggi internazionali, quelle umanitarie e relative ai rifugiati, e dei diritti umani, per sradicare i “santuari” che l’Isis ha creato in parti significative dell’Iraq e della Siria”. Il linguaggio è molto duro, ma è stato frutto di una battaglia diplomatica. La Russia, infatti, aveva fatto circolare una risoluzione concorrente, che chiedeva di coordinare qualunque intervento militare in Siria con il governo di Assad. Parigi, appoggiata dagli Stati Uniti, ha minacciato di bloccare questo testo con il veto, perché Mosca voleva usarlo come una polizza di assicurazione della sopravvivenza del leader di Damasco. Poi però, alla luce delle stragi delle ultime settimane, incluso l’abbattimento dell’aereo russo, il Cremlino non si è potuto spingere fino al punto di usare il proprio potere di veto per deragliare l’iniziativa francese. Lo stesso ambasciatore siriano all’Onu, Bashar Jaafari, ha finito per fare buon viso a cattivo gioco, dando il suo “benvenuto a tutti nel club di chi combatte il terrorismo”. Il regime infatti ha sempre usato la presenza di gruppi come l’Isis e al Nusra, e secondo alcuni analisti li ha sostenuti o quanto meno non combattuti, proprio per giustificare le proprie azioni militari contro tutti gli oppositori che chiedono un cambio del governo. La risoluzione non è stata approvata in base al Capitolo 7 della Carta dell’Onu, e quindi non fornisce un’autorizzazione legale esplicita ad intervenire in Siria, e non delinea una precisa campagna da condurre. Tutti i governi intenzionati ad incrementare i loro interventi, però, potranno usarla come copertura. Lo ha sottolineato lo stesso premier britannico Cameron, che ne aveva bisogno per ottenere il via libera del suo Parlamento. Proprio ieri il presidente americano Obama ha chiamato il premier italiano Renzi per coordinare gli sforzi contro l’Isis, ma all’Italia si chiede soprattutto di combattere Daesh in Libia. Giustizia: attentati di Parigi, la rete del terrore dalla Turchia all’Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 22 novembre 2015 Catturato uno dei basisti: ad agosto accompagnò Salah in Puglia e insieme a lui si imbarcò per la Grecia. Dagli inquirenti francesi indicazioni per arrivare ai fiancheggiatori. Si era nascosto in un lussuoso albergo di Antalya, sulla costa della Turchia, ed era pronto a ripartire. I poliziotti lo hanno fermato insieme a due siriani ritenuti emissari dell’Isis venuti a prelevarlo per portarlo al sicuro, probabilmente proprio nelle terre del Califfato. L’arresto di Ahmed Dahmani, 26 anni, belga di origine marocchina ritenuto uno dei principali fiancheggiatori degli otto componenti del commando del massacro di Parigi, coinvolge direttamente l’Italia. Perché proprio lui, nell’agosto scorso, accompagnò Salah Abdeslam, il terrorista tuttora ricercato per la strage di venerdì scorso, nel viaggio da Bari a Bruxelles. E adesso è sospettato di aver “coperto” almeno la prima fase della sua fuga. È una caccia che non conosce tregua e si estende in tutta Europa, quella avviata poche ore dopo il massacro del 13 novembre. Due giorni fa gli apparati di sicurezza francesi hanno consegnato ai colleghi italiani e ai servizi di altri Paesi la lista di 15 utenze da controllare specificando che si tratta di “dati direttamente collegati ai noti fatti”. Perché la convinzione degli investigatori parigini è che numerosi complici possano essere sfuggiti alla cattura e dunque alto è il timore che possano entrare nuovamente in azione. Nell’elenco dei ricercati c’è Baptiste Burgy, 32 anni, francese sospettato di aver avuto un ruolo negli attacchi simultanei che hanno coinvolto, oltre a un bar e un ristorante, lo Stade de France e il teatro Bataclan. La “rete” è estesa, secondo i dati finora raccolti potrebbe contare in queste ultime ore pure su fondamentalisti residenti in Europa chiamati a fornire supporto ai fuggiaschi. Proprio come sarebbe accaduto due giorni fa in Turchia. Ahmed Damani viene ritenuto un “fedelissimo” di Abdeslam. Il 1° agosto scorso i due arrivano a Bari in macchina e si imbarcano per Patrasso. Restano fuori 4 giorni, il sospetto è che possano aver incontrato qualcuno per prendere ordini, pianificare azioni. Il 5 agosto sono di nuovo a Bari, il giorno successivo partono alla volta del Nord. Negli archivi di polizia rimane traccia di un controllo casuale effettuato in provincia di Padova. Poi più nulla fino a venerdì 13 dicembre quando si scopre che sarebbe stato uno dei jihadisti incaricati di effettuare i sopralluoghi sui luoghi della strage. Il suo nome compare tra i contatti più assidui di Abdeslam, l’avviso di ricerca viene diramato via Interpol. E in Turchia scatta l’arresto. Il materiale trovato nella stanza dell’hotel e l’identità dei due uomini che erano con lui forniscono nuovi preziosi elementi per ricostruire la mappa delle complicità e afferrare altre tracce utili alle indagini. I 15 numeri di telefono resi noti dagli investigatori parigini appartengono certamente a persone che erano in contatto con i terroristi ma che attualmente non dovrebbero trovarsi in Francia. Sono stati individuati grazie all’esame dei cellulari recuperati dopo la strage, soprattutto analizzando il traffico telefonico di tutti i componenti del commando e dei loro fiancheggiatori. Ma è soltanto un primo passo, la strada per ricostruire l’intera struttura è ancora lunga. E proprio questo spaventa gli apparati di sicurezza e prevenzione di tutta Europa perché fornisce la conferma che il pericolo non arriva soltanto dai “lupi solitari”, ma anche da gruppi pronti a scatenare l’inferno con azioni che non necessitano di una pianificazione troppo sofisticata perché contano sulla determinazione di chi è pronto a morire in nome di Allah. Giustizia: ora parole chiare dall’Islam di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 22 novembre 2015 Scalda il cuore l’immagine dei musulmani delle comunità italiane che scendono in piazza per gridare “no al terrorismo” e per contrastare apertamente chi uccide in nome dell’Islam. Ed è ammirevole il coraggio degli imam francesi che si sono spinti a dirsi disgustati per gli “attentati criminali commessi in nome della nostra religione”. Sono passi importanti, il risveglio di una battaglia culturale nel mondo islamico che vive in Europa e in Occidente in cui finalmente si pronunciano parole chiare e non ambigue sullo stragismo jihadista. Ma con altrettanta chiarezza bisogna aggiungere che sono solo i primi passi. Che ce ne vogliono altri in cui si riconosca senza riserve l’accettazione di valori per noi imprescindibili come la tolleranza religiosa, la libertà dell’arte e della cultura, il pluralismo delle idee, la laicità dello Stato, l’eguaglianza tra uomo e donna e dunque il rifiuto netto, intransigente, assoluto di ogni consuetudine e di ogni comportamento sociale e familiare in cui la donna sia discriminata, minacciata, privata dei suoi diritti fondamentali. Non è solo il terrorismo che deve essere isolato, ma ogni attacco alla libertà condotto nel nome della religione. Ognuno preghi e onori senza limitazioni il suo Dio. Ma tutti, senza eccezioni, rispettino la stessa cornice di valori che è l’ossigeno di una società aperta e tollerante. Ancora una volta: senza eccezioni. Quindi le comunità musulmane inglesi non devono sentirsi offese se finalmente in Gran Bretagna il governo di David Cameron mette fine all’eccezione scandalosa dei tribunali islamici che pretendono di applicare un loro diritto ispirato alla Sharia su matrimoni, divorzi ed eredità, compreso il “talaq” ossia il ripudio della donna che è prerogativa esclusiva dell’uomo. Non devono pretendere che la diseguaglianza radicale tra i generi sia formalizzata in una forma di diritto parallelo a quello comune a tutti gli altri cittadini e cittadine. Non devono sentirsi offese perché in uno Stato libero e aconfessionale i diritti sono di tutti, l’eguaglianza di fronte alla legge non è un principio negoziabile e le donne non sono considerate proprietà degli uomini. C’è un luogo comune molto diffuso secondo cui le forme di intolleranza e di integralismo religioso, e anche una pratica consuetudinaria in cui alla donna viene assegnato un rango inferiore, hanno caratterizzato in passato anche le società ispirate ai valori giudaico-cristiani. E che dunque bisogna aspettare fiduciosamente il futuro, quando le ombre del Medioevo saranno dissipate anche nel mondo islamico. Purtroppo non è così. L’intolleranza, la violenza, l’integralismo, l’illibertà non sono nel mondo musulmano il residuo del passato, ma sono la novità, catturano i giovani, promettono una radicalizzazione fanatica come rimedio alla fede tiepida della tradizione. La predicazione violenta e fanatica, il bacino ideologico e culturale da cui trae alimento il terrorismo apocalittico di chi vede nello sterminio degli infedeli santificato dal proprio martirio l’unica via che porta al Paradiso, fa breccia principalmente tra i giovani, gli islamici dell’oggi e del domani. A Istanbul, basta leggere i romanzi di Orhan Pamuk per capirlo, si infittisce la schiera delle donne giovani che indossano il velo e provano disprezzo per gli abiti “occidentali”, considerati abominevoli e perversi, come la musica “satanica” suonata nel Bataclan di Parigi. Le fotografie dell’epoca raccontano come a Teheran, al Cairo e persino a Kabul, negli anni Sessanta e Settanta le donne non si distinguessero nel modo di vestire da una donna di Roma o di Parigi. Il radicalismo jihadista è il frutto del risveglio islamista, non di un Medioevo non ancora smaltito. Le comunità islamiche dell’Occidente devono dire all’Europa laica e tollerante se considerano giusto, degno di esempio, il tumulto cruento, l’assalto alle ambasciate, le violenze, le bandiere bruciate che infiammarono le piazze musulmane quando papa Ratzinger tenne la sua lezione a Ratisbona contestatissima dall’Islam radicale, ma anche da quello moderato. Devono dire se sono preoccupate per la violenza antisemita che colpisce gli ebrei d’Europa con la scusa di un antisionismo amplificato anche nei Paesi islamici “moderati” da serie tv tratte dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion , un testo classico dell’antisemitismo idolatrato da Hitler e dai nazisti di ogni tempo e di ogni luogo. E che cosa pensano della persecuzione anticristiana nel mondo islamico (anche nell’Afghanistan “liberato” dai talebani, purtroppo): quella che in Arabia Saudita, non nei territori dell’Isis, comporta la condanna a morte se un cristiano viene scoperto in possesso di un crocefisso o di un rosario nascosti nel cassetto. Cosa pensano dei blogger che da Teheran a Riad, nell’islamismo sciita come in quello sunnita, vengono frustati se in dissenso con i loro governi. E se pensano che sia giusto che Ayaan Hirsi Ali, l’apostata, l’autrice di un libro bellissimo come Eretica , debba vivere blindata, bersaglio dell’odio dei fanatici jihadisti. Passi necessari, che segnino una lunga durata della dissociazione dalla violenza omicida, e l’avvio di una battaglia culturale che prosciughi il campo dell’intolleranza e del fanatismo. Giustizia: tra i detenuti con l’imam “i terroristi una vergogna, ma il Profeta non va offeso” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 novembre 2015 Carcere di Verona, Mulay, 29 anni: “Voi italiani sapete distinguere tra islamici e terroristi”. Subito dopo il pranzo, la voce del muezzin richiama i fedeli alla preghiera. Solo che qui i fedeli sono già quasi tutti arrivati, pronti a inginocchiarsi sui loro tappetini davanti all’imam; e la voce non risuona da un minareto, ma rimbomba nel chiuso di una palestra dove normalmente si gioca a basket o a calcetto. La palestra di una prigione, che il venerdì si trasforma in luogo di culto. Il detenuto che intona la cantilena, con tanto di tunica e copricapo, sta in galera da due anni, fine pena tra un mese. Appena finisce, la parola passa all’imam che comincia il suo sermone; prima in arabo, poi m italiano, a beneficio di qualche africano. “Oggi non possiamo non parlare dei tragici fatti accaduti in Francia - dice - che hanno provocato grande afflizione e dolore nella nostra comunità. Come musulmani condanniamo questi attentati senza se e senza ma; non per interessi politici, ma perché ci distinguiamo dalle menti distorte che li hanno organizzati ed eseguiti. Come recita un versetto del Corano, chi uccide un’anima innocente uccide tutta l’umanità”. E cosi via. Ad ascoltare sono in cinquanta, seduti a terra o sulle ginocchia, senza scarpe. Siamo nel carcere di Verona-Montorio, uno di quelli a più alta densità di reclusi stranieri; forse la più alta, sebbene le cifre cambino ogni giorno. Oggi gli uomini sono 432, di cui solo 143 italiani; gli altri 289, due terzi del totale, si dividono fra 38 nazionalità. Di questi, 126 hanno dichiarato la loro religione islamica: in grande maggioranza marocchini (80), poi tunisini, algerini e di altri Paesi. E il venerdì si radunano non solo quelli che vogliono pregare, ma anche chi approfitta dell’occasione per incontrare i detenuti di altre sezioni “e magari combinare qualche piccolo traffico”, confida un agente penitenziario. Scambi di sigarette o altro. Si appartano in un angolo, divisi in piccoli gruppi, chiacchierano a bassa voce per non disturbare. “Caino che uccise il fratello Abele porta su di sé la responsabilità di aver insegnato la pratica dell’omicidio all’intera umanità”, prosegue l’imam Mohsen Khochtali, responsabile del dialogo interreligioso del Consiglio islamico di Verona. I rapporti con la comunità musulmana, l’accesso garantito ai ministri del culto “certificati” dall’Unione delle comunità che ha siglato un protocollo con l’Amministrazione penitenziaria, è uno degli strumenti di controllo attivati dalla direttrice di questa prigione multietnica, Maria Grazia Bregoli. Il proselitismo e la radicalizzazione dei detenuti è un pericolo in più ai tempi del terrorismo di matrice musulmana, e il monitoraggio all’interno delle galere è continuo. Anche da qui, in passato, è arrivata la segnalazione di un recluso che m una lettera aveva fatto riferimento alle minacce dell’Isis, e dopo gli attentati di Parigi l’attenzione è cresciuta ulteriormente. Pur senza registrare cenni di consenso o adesione. Tuttavia la prevenzione nei confronti di condannati e inquisiti per reati comuni (qui prevalgono droga, furti e rapine) passa soprattutto per la garanzia dei loro diritti. Tra cui quello di poter esercitare le pratiche religiose. Nei limiti del possibile, È un’indicazione arrivata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dalla Direzione dell’amministrazione penitenziaria, di cui la direttrice, gli educatori (oggi si chiamano funzionari giuridici pedagogici) e i responsabili della polizia penitenziaria sono fermamente convinti: il rispetto dei diritti è il miglior antidoto contro le derive estremiste. Chi finisce in carcere è di per sé un soggetto debole, a “rischio arruolamento” da parte di chi predica odio e contrapposizione; se vede che le istituzioni si prendono cura delle sue esigenze, anche religiose, sarà meno soggetto al richiamo del radicalismo. Quando l’imam smette di parlare, altre preghiere e invocazioni chiudono la cerimonia, i fedeli-detenuti invocano a più riprese “Allah akbar”. Poi ognuno toma nella sua sezione, dove le diverse etnie si rimescolano (a volte con qualche problema di convivenza), uno alla chiusura delle celle fissata alle 17.45. Poco dopo passerà la cena con il menu specifico per gli islamici, anche se oggi si serve il pesce che va bene per tutti. Al mattino c’è chi frequenta la scuola, chi lavora in falegnameria o negli altri impieghi: un tunisino fa i turni nel forno che ogni giorno manda fuori 3 quintali di pane per le 70 scuole materne della città. fatti del Venerdì 13 continuano a far discutere i galeotti islamici. Prima del rito Anis, un tunisino di 38 anni rinchiuso da cinque, fine pena 2019, dice che lui i terroristi non li sopporta: “Con la religione non c’entrano, si nutrono di pasticche e droghe. Ci fanno vergognare di essere musulmani. L’altro giorno è venuta a colloquio mia figlia di 15 anni, che frequenta la scuola alberghiera, mi ha raccontato che ha partecipato al minuto di silenzio per le vittime, e io sono stato contento”. Anche Abdui, marocchino diciannovenne che deve scontare un anno e io mesi di galera e parla con spiccato accento veneto, ha ritrovato nell’ultimo video di propaganda dell’Isis, il quinto che rivendica gli attentati di Parigi. Gli jihadisti hanno usato la sequenza di un suo intervento tv di settembre, nel quale Onfray diceva “dovremmo smetterla, noi francesi, di bombardare le popolazioni musulmane in tutto il Pianeta”. voluto celebrare le vittime degli attentati: “Con gli altri fratelli abbiamo acceso una candela perché mi voglio distinguere dai terroristi. Io sono credente sebbene non praticante, orgoglioso della mia religione, mentre quelli mettono in pericolo il mio futuro, perché la gente all’estemo non fa tante differenze”. Un altro marocchino - Mulay, 29 anni e recluso da otto, una condanna a 14 anni - si mostra più fiducioso sulla capacità dell’opinione pubblica italiana di distinguere tra islamici e terroristi. “Un mio conoscente che ha studiato, un filosofo, mi ha spiegato che qui voi ci dividete in tre categorie, come nel titolo di un film di Sergio Leone II buono, il brutto e il cattivo: il buono è il musulmano onesto, il brutto è quello che commette reati e il cattivo è il terrorista. Sapete vedere le differenze”. Anche Mulay sostiene che i kamikaze dello stadio parigino e i fucilatori del Bataclan sono dei pazzi sanguinari, usurpatori della fede islamica. Mentre sulla strage nella redazione di Charlie Hebdo, consumata a gennaio, la vede in maniera diversa: “Quel giornale aveva attaccato il Profeta, e se tu mi attacchi è normale che io attacchi te; punire chi ha fatto quelle caricature blasfeme non è come uccidere chi sta mangiando al ristorante e non sai nemmeno chi è”. Quindi un omicidio non vale l’altro? “No, secondo me no; se qualcuno ha responsabilità deve pagare”. Poi sul viso segaligno del marocchino si stampa un mezzo sorriso: “Comunque io sono brutto, ho sbagliato e infatti sto qui, ma non sono cattivo”. Il muezzin intona il suo canto, e Mulay va a inginocchiarsi per la preghiera. Giustizia: Parigi, una settimana di bufale… WhatsApp, i politici, i complottismi di Simone Cosimi La Repubblica, 22 novembre 2015 Dall’allarmante messaggio su cui è intervenuto il premier Matteo Renzi alle più assurde teorie sugli attentati passando per le montagne di immagini frutto di fotomontaggi o riciclate dopo molto tempo e spacciate per altro nei giorni successivi agli attacchi. Non solo una settimana di dolore, di indagini serrate ai quattro angoli d’Europa, di allarmi più o meno fondati. Anche una settimana, quella trascorsa dagli attacchi di venerdì 13 novembre a Parigi, piena di bufale (notizie, storie e tesi totalmente inventate) e mezze bufale (fatti veri riaccomodati fuori tempo massimo o in contesti diversi). Tanto che, almeno per quanto riguarda una di queste, perfino il premier Matteo Renzi si è visto costretto a intervenire: ieri mattina, mentre inaugurava il nuovo pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito di Roma, si è scagliato contro l’audiomessaggio circolato da giovedì su WhatsApp nel quale si sente una presunta madre allertare la figlia rispetto a un imminente attentato a Roma, spiegandole di aver scoperto la minaccia dopo aver parlato con “la mamma di Anastasia che lavora al ministero degli Interni”. A quanto risulta, sarà aperta un’indagine probabilmente pe procurato allarme. Una bufala totale - nella tarda serata di ieri la responsabile si è spontaneamente presentata alla Polizia, ma alcuni aspetti sono ancora da chiarire - smentita appunto del presidente del Consiglio, che ha anche registrato un contro-messaggio fatto girare nella giornata di venerdì: “Qualcuno crede di essere simpatico, forse divertente - si sente nella clip del premier - ma non si rende conto che suscita e crea un clima di ulteriore paura, talvolta persino di panico. Io vorrei invitare tutti a non cascarci, a non farvi fregare da questo clima che qualcuno vorrebbe creare”. Le bufale, infatti, lavorano proprio in questo modo: anche se poco o nulla credibili, come la ruggine indeboliscono i nervi e inquinano (a volte ingannandola) la corretta informazione, contribuendo a costruire un clima d’incertezza e sfiducia. Esattamente l’opposto di ciò che occorre in situazioni come quelle che stiamo vivendo. Nel complesso, da una rassegna delle bufale circolate fin dalla nottata di venerdì 13 fino a oggi, escono quattro macro-categorie colpite: WhatsApp e i social network, le immaginifiche dichiarazioni dei politici di mezzo mondo, tutto il sottobosco di immagini taroccate o recuperate dal passato più o meno recente e spacciate come attuali e, infine, le teorie complottiste (alcune delle quali ai limiti dell’irriferibile). La maggior parte di questi contenuti risulta palesemente priva di fondamento anche a una lettura o a un ascolto superficiale. Eppure in molti sembrano ancora (voler) abboccare. WhatsApp e i social network - Non solo l’audio-messaggio della mamma allarmata per i luoghi della movida e per i giovani della capitale. L’app di messaggistica è sempre più la piattaforma ideale di catene di Sant’Antonio e panzane micidiali. Fra le altre, relativamente a Parigi, è circolato in questi giorni un messaggio battezzato “On est tous Paris”, Siamo tutti Parigi, con la foto di un bebè che, se cliccata, sarebbe in grado di infettare i dispositivi. Detto che, in generale, è sempre bene non aprire né salvare allegati multimediali di dubbia provenienza (ma le falle più gravi WhatsApp sembra averle mostrate con le vCard, i contatti condivisi) non c’è alcuna segnalazione in merito. E il testo è, al solito, un pastiche di fonti campate per aria. Quanto ai social network, la bufala che - se non fosse riferita a fatti di una gravità inaudita - sarebbe da definire esilarante è quella legata alla foto del profilo Facebook filtrata dalla bandiera francese. La piattaforma di Mark Zuckerberg ha infatti dato ai suoi membri questa opportunità. Un post, condiviso sullo stesso social, su blog e su altri siti, sosterrebbe che i raffinati hacker dell’Isis (a proposito, un manuale di crittografia scoperto da alcuni ricercatori del Combating Terrorism Center dell’accademia militare West Point non sembra esattamente lusinghiero nei confronti delle loro competenze informatiche) sarebbero in grado di rintracciare tutti gli utenti che hanno modificato in questo modo la foto-profilo. Non serviva ma se ce ne fosse bisogno, la pagina Una vita da social realizzata dalla Polizia di Stato insieme al ministero dell’Istruzione è ovviamente intervenuta sulla questione, così come sullo sconsiderato audio-messaggio WhatsApp. Anche la notizia che i terroristi avrebbero comunicato tramite la chat della PlayStation 4 è tecnicamente una bufala: alla console Sony il ministro dell’Interno belga aveva alluso giorni prima, il 10 novembre. Le dichiarazioni dei politici - Una delle prime dichiarazioni (vera, ma risalente a mesi fa) finita nel tritacarne di Twitter è stata quella del candidato repubblicano alla presidenza e multimiliardario Donald Trump rispetto alla necessità di armare la popolazione per difendersi da fatti del genere. Twittata il 7 gennaio scorso, è tornata d’attualità tanto da trarre in inganno, nella concitazione delle prime ore, perfino Gérard Araud, ambasciatore transalpino negli Usa, che ha riservato al magnate una risposta al vetriolo. Fra le altre invenzioni, la proposta di Barack Obama di decretare il prossimo dicembre “Mese nazionale dell’apprezzamento dei musulmani” oppure le frasi attribuite al presidente russo Vladimir Putin, che - fedele alla sua immagine coriacea e risoluta - vorrebbe utilizzare armi atomiche contro i terroristi del sedicente Stato islamico. “Perdonare i terroristi spetta a Dio, a me spetta mandarceli”, avrebbe detto come neanche in una puntata di House of Cards avrebbe fatto il suo alter-ego televisivo Viktor Petrov. Nulla di tutto ciò è stato ovviamente pronunciato né al Cremlino né alla Casa Bianca. Immagini e fotomontaggi - Sotto questo fronte hanno tenuto banco le bombe sganciate dagli aerei francesi su Raqqa, in Siria, due giorni dopo gli attentati nella Ville lumière, sulle quali non era ovviamente scritto “From Paris with Love”. Lo hanno certificato Le Monde e Libération. Così come il fotomontaggio del povero Verendeer Jubbal, il sikh canadese subdolamente trasformato in terrorista. Col Corano al posto dell’iPad e una cintura esplosiva in realtà inesistente. Lo scatto, così sofisticato, è stato pubblicato dal sito Khilafah News, molto vicino alle farneticazioni dei terroristi di Abu Bakr al-Baghdadi. Nelle ore successive agli attacchi si sono moltiplicate sui social immagini dei monumenti di mezzo mondo illuminati con il tricolore: molti di questi si sono in effetti accesi di blu, bianco e rosso nei giorni seguenti. Ma nell’immediatezza né l’Empire State Building (ma la Freedom Tower) di New York, né il monumento ai caduti della guerra d’Algeria di Algeri né tantomeno le piramidi di Giza, in Egitto, presentavano quell’illuminazione. Non basta: dalle storie confezionate ad arte (come quella della donna scampata a tre attacchi simili o del musulmano Zouheir allo Stade de France) agli scatti di altre manifestazioni (come un evento anti-immigrazione a Dresda, in Germania, del 2014 o una manifestazione palestinese per un cessate il fuoco del 2012) e riciclate nell’immediatezza come prove da una parte della solidarietà tedesca e dall’altra del giubilo di Gaza per i morti parigini. Stesso discorso per un’immagine della band statunitense Eagles of Death Metal: il teatro in cui erano ripresi in una foto rilanciata sui social era l’Olympia di Dublino e non, ovviamente, il Bataclan. Perfino un progetto artistico del 2008 intitolato “Silent Witness”, firmato dal duo Lucie & Simon e dedicato al futuro delle città senza l’uomo è stato spacciato come l’immagine di una Parigi deserta la mattina seguente gli attentati. Altra bufala circolata nelle prime ore è stata quella sull’origine di un incendio al campo profughi di Calais (accidentale e non dolosa, la foto circolata era fra l’altro di un altro rogo del 2 novembre). Di simili scatti - riciclati o artefatti - ne sono stati rilanciati a decine. Complotti e dietrologie - A parte le solite teorie numerologiche - gli attentati sarebbero avvenuti 11 mesi e 9 giorni dopo l’attacco alla redazione del giornale Charlie Hebdo, un evidente rimando all’11 settembre, peccato che il periodo trascorso, lo si capisce anche a occhio senza far calcoli, era in realtà di 10 mesi e 6 giorni - ne sono sbocciate anche delle altre a dir poco biasimevoli. Su tutte quella di un complottista italiano di professione che sul suo profilo Facebook ha messo in dubbio la presenza di vittime nonché, fra di esse, quella della giovane italiana uccisa alla sala per concerti, Valeria Solesin. La tesi? Non sarebbero esistiti profili Facebook a lei riconducibili. Altre teorie vorrebbero in azione i servizi segreti russi, rei di aver messo in piedi un fatto del genere, insieme agli omologhi transalpini, per spingere i francesi ad aumentare la propria presenza nei raid sui territori occupati dall’Isis. Altri esperti dell’intrigo hanno invece scomodato le solite sigle statunitensi. Qualcuno perfino Papa Francesco. Infine, purtroppo nessuno - se non, forse, i servizi segreti francesi, quelli veri - sarebbe stato in grado di prevedere un attacco simile: certo non l’intervento sul forum di un sito dedicato ai videogiochi (Jeuxvideo. com) finito sulla piattaforma Reddit in cui si annunciavano esplosioni, granate e kamikaze. Quel messaggio, pur con la coincidenza dei giorni novembrini, era del settembre 2014. Giustizia: propaganda via internet e cyber attacchi, è la guerra 3.0, ma l’Italia è in ritardo Ebe Pierini Il Mattino, 22 novembre 2015 Una nuova guerra 3.0. È quella in cui si stanno specializzando i jihadisti dell’Isis. Il califfato non si fa strada solo a colpi di kalashnikov ma anche via web, su Twitter e Facebook, L’uso di mezzi informatici per portare attacchi sìa dì tipo distruttivo, attraverso la cancellazione di dati, sia dì tipo propagandistico assume ì connotati di un vero e proprio terrorismo cibernetico. Le idee dello Stato Islamico corrono in rete. Un modo più semplice e immediato. A cui va aggiunta la capacità dei jihadisti di mettere le mani su dati sensibili da veicolare successivamente. “I sostenitori dell’Isis sono abili in quanto a propaganda, un po’ meno negli attacchi informatici - spiega Luca Mainoldi, collaboratore di Limes. Ciò non toglie che dobbiamo mantenere sempre alta la guardia perché potrebbero affinare anche questo settore. Sono bravissimi a sfruttare a livello mediatico sistemi come Twitter e a caricare video sulla rete. Sono persino riusciti inserirsi nel sistema informatico del Centcom, il comando centrale americano che si occupa dì Medio oriente e a rubare dati sui militari”, “Se pubblichiamo in rete i vostri dati significa che sappiamo chi siete”: questo il messaggio che vogliono lanciare ì membri del Califfato. “Quando, nel marzo del 2015, fu sferrato un attacco informatico contro la tv francese TV5, vennero colpiti ì server, fu scollegato tutto il sistema dì programmazione televisiva e per 24 ore la messa in onda dei programmi venne interrotta si pensò ad un attacco del cyber califfato - prosegue Mainoldi - Poi si comprese che erano stati altri”. Ed è grazie ad internet che sono state reclutate le ultime leve dell’Isis. “Se prima il reclutamento avveniva essenzialmente nelle moschee e attraverso la predicazione nelle carceri, ora, sebbene queste modalità non siano scomparse, si sono fatti strada il cyber califfato e la propaganda in rete - sottolinea il collaboratore di Limes - Occorrerebbe oppone una questione identitaria. I giovani che si radicalizzano nelle banlieues francesi lo fanno perché non si sentono accolti, integrati e cercano un’identità”. Nel reclutamento e nella propaganda telematica l’Isis ha raggiunto davvero livelli elevatissimi. “Quando è stato abbattuto l’Airbus russo sul Sinai e i jihadisti hanno pubblicato il video dell’esplosione in volo nessuno ha pensato fosse un falso - prosegue - Sono stati così abili a cogliere le immagini e rilanciarle in rete. Dietro ci sono delle menti esperte e danno vita a forme sofisticate di guerra psicologica. Tra loro c’è evidentemente gente che ha fatto studi specifici. Tra le loro file hanno hacker informatici e persone in grado di avere una visione strategica”. Anche l’Italia ha messo in campo delle misure per difendersi dai possibili cyber attacchi. “La polizia postale è specializzata nei crimini informatici ma sono stata create strutture anche a livello di ministero della Difesa e di servizi segreti - spiega Mainoldi. Ovviamente la necessità di attuare una cyber defense riguarda anche le grandi industrie nazionali. Finmeccanica per esempio ha creato una sua struttura di difesa informatica. Lo stesso ha fatto negli Stati Uniti Lockeed Martin. Paesi all’avanguardia nell’ambito della cyber defense sono oltre agli Usa anche Israele, Russia e Cina. In Europa eccellono Francia e Inghilterra. Anche in Italia vi sono persone competenti. È fondamentale creare strutture di difesa sia militari che civili come avviene negli Stati Uniti e in Israele”. Insomma stare sulla difensiva non paga anche perché un attacco informatico potrebbe bloccare centrali elettriche ed energetiche con ripercussioni non indifferenti sul Paese colpito ma anche in ambito Difesa. “Occorre dare la caccia agli hacker. Gli americani hanno iniziato a farlo e infatti ne hanno anche uccisi un paio tramite droni”, sottolinea il giornalista di Limes. Purtroppo però in Italia, nel momento in cui ci sarebbe bisogno di incentivare il lavoro di prevenzione del cyber terrorismo, vengono tagliati i fondi alla polizia postale. Giustizia: Consulta, sciolta l’impasse, arrivano i tre giudici mancanti di Ugo Magri La Stampa, 22 novembre 2015 L’elezione possibile già mercoledì, ma per farcela servono 570 voti. Il governo ha bisogno del M5S, che apre ma pretende trasparenza. Mercoledì è possibile che vengano eletti dalle Camere, in seduta comune, i tre giudici costituzionali mancanti. La Consulta può funzionare anche senza, ma se a un paio dei 12 membri in carica venisse una banale influenza, ecco che il baluardo supremo della legalità, l’organo chiamato a vigilare sulla Carta repubblicana si troverebbe in panne per mancanza di numero legale. Una situazione inaccettabile. Non a caso Mattarella il 2 ottobre aveva lanciato un appello al Parlamento perché procedesse con le nomine nella “massima urgenza”. Da allora l’atteggiamento dei partiti è cambiato. Un po’ per effetto del pressing quirinalizio. I dossier difficili. Un altro po’ perché ai piani alti del governo si sono accorti di quanto la Corte possa risultare decisiva. Per esempio, verrà chiamata a pronunciarsi sulla legge che per Renzi rappresenta la madre di tutte le riforme, vale a dire l’Italicum. E non serve la sfera di cristallo per scommettere che sul tavolo della Consulta arriveranno altre materie esplosive, tipo il “jobs act”. Nell’ottica renziana, la composizione attuale della Corte non dà garanzie. Vista la prevalenza di professori e “togati”, potrebbero derivarne decisioni diametralmente opposte ai calcoli del premier. Si è visto in primavera, quando il ministro Padoan dovette provvedere di corsa a una (parzialissima) perequazione delle pensioni dopo la sentenza che, senza farsi condizionare dal governo, aveva dichiarato inammissibile il blocco. Forte dunque è la tentazione di sfruttare le tre nomine parlamentari per una “iniezione” di politica nella Corte. Improbabile che si colga l’occasione per colmare certe lacune nella composizione “tecnica”, specie su diritto tributario e internazionale. Però il quorum dei due terzi, pari a 570 voti, non consentirà a Renzi di fare da solo. Nemmeno basterebbe l’apporto del centrodestra. Per cui decisivi saranno i grillini. I quali si mostrano realisti e aperti a una trattativa con Renzi purché “tutto avvenga alla luce del sole, con lo stesso metodo trasparente che un anno fa aveva permesso di convergere su Silvana Sciarra”, mette i puntini sulle “i” Danilo Toninelli, il quale nel M5S è colui che più da dentro se ne occupa. In altre parole, i nomi che Renzi indicherà lunedì dovranno ricevere un placet dei Cinque stelle. E per piacere ai grillini non potranno essere dei “pasdaran” governativi, perché altrimenti riceverebbero un no. Vale anche l’opposto: il candidato grillino dovrà convincere i parlamentari Pd, per cui la partita è intricata. A complicarla può contribuire la coincidenza temporale con le votazioni alla Camera sulla riforma del Senato. Circolano i nomi di Augusto Barbera, di Stefano Ceccanti, di Massimo Luciani (tutti costituzionalisti) e di Guido Raimondi, il quale avrebbe un altissimo profilo, forse addirittura troppo perché è stato da poco nominato presidente della Corte europea, davanti alla quale pendono tra l’altro i ricorsi di Berlusconi: difficile che vi rinunci. Consultazioni online. I grillini metteranno martedì in votazione on-line tutti i nomi, compresi quelli del Pd, però “cum grano salis” e senza impiccarsi al risultato di classifica. Difficilmente passerà Barbera, qualora lo candidassero, perché i Cinque Stelle temono che magari un domani possa venire indagato per un concorso accademico di cui parlarono i giornali anni fa, e mai più se ne seppe. A loro volta i grillini punteranno su Felice Besostri o, più facilmente, su Franco Modugno, professore emerito. Il centrodestra al momento ha un solo nome, Francesco Paolo Sisto. Che però fa gli scongiuri, perché da quelle parti ultimamente non ne passa uno. Altrimenti è pronto il referendario Giovanni Guzzetta. Giustizia: Unione delle Camere penali “solidali con Alfano, ma no inasprimento 41-bis” Ansa, 22 novembre 2015 L’Unione delle Camere penali esprime “solidarietà” al Ministro dell’Interno che, sarebbe stato indicato nel corso di conversazioni intercettate tra presunti appartenenti a Cosa Nostra come obbiettivo da colpire con un futuro attentato, ma ritiene “inappropriati i richiami da qualcuno espressi a forme di ulteriore inasprimento del regime del carcere duro dettato dal 41 bis, fino ad auspicare la riapertura delle strutture carcerarie di Pianosa e dell’Asinara”. “Quale che sia la minaccia che attenta l’ordine e la sicurezza pubblica, sia essa di natura mafiosa o con finalità di terrorismo internazionale, lo Stato deve rispondere al sentimento di insicurezza dei cittadini rimanendo se stesso, nel rispetto della propria natura democratica e dei diritti e delle libertà che sono garantiti dalla Costituzione”, sostengono i penalisti. “Non è tempo di abbandonarsi a facili populismi, ma semmai di riaffermare la nostra identità di Stato di diritto, sia che si tratti di lotta alle mafie, che di contrasto a fenomeni eversivi di matrice internazionale” aggiungono. E invitano a rispettare l’autonomia della magistratura, “anche e soprattutto quando, come accaduto a Trento, magistrati della Procura ritengono di non reiterare, per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, sette delle diciassette richieste di custodia cautelare in carcere già emesse dal Gip di Roma a carico di altrettante persone sospettate di appartenere ad una associazione con finalità di terrorismo internazionale”. Giustizia: dialogo tra vittime e detenuti, l’iniziativa di Prison Fellowship Radio Vaticana, 22 novembre 2015 Sostenere le vittime del crimine attraverso il dialogo riparativo. È stato questo il tema del forum tenutosi nei giorni scorsi a Roma e promosso da Prison Fellowship Italia. L’iniziativa rientra nel programma Building Bridges che punta alla riabilitazione dei detenuti anche attraverso la “giustizia restitutiva” in favore delle vittime. Generalmente il crimine viene inteso come devianza che necessita di una risposta sociale. Le vittime patiscono conseguenze fisiche, psicologiche e finanziarie, ma questo percorso di dolore può essere alleviato attraverso un dialogo riparativo tra vittime e autori del reato. Ne sono convinti i rappresentanti europei di Prison Fellowship, l’organizzazione statunitense attiva in 125 Paesi che opera da oltre trent’anni nelle carceri, che si sono confrontati a Roma nei giorni scorsi per rilanciare il progetto Building Bridges che ha come obiettivo proprio quello di avvicinare vittime e detenuti e contribuire ad una comunità socialmente giusta nel Vecchio Continente. Ma una vittima può realmente trarre vantaggi dall’incontro con chi ha l’ha offesa? La risposta di Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia. R. - Sì, e lo abbiamo sperimentato. Lo dico per esperienza e non solo per teoria o accademia; abbiamo sperimentato che le persone offese da un reato, a determinate condizioni, possono avere non soltanto una riparazione laddove sia possibile, ma proprio una “restaurazione”, una rinascita interiore e riacquistare serenità. Ne abbiamo fatto esperienza in cinque anni in parecchie carceri e non soltanto con detenuti per reati “banali”, oserei dire, anche se non si può mai etichettare un reato come banale, o di lieve entità o contro il patrimonio. L’abbiamo sperimentato con reati di sangue. D. - Come e dove si possono inserire le vittime per realizzare tale Progetto? R. - Questa è la parte più difficile del progetto, perché le vittime in genere non soltanto provano diffidenza, ma anche paura, soprattutto perché i nostri progetti si svolgono all’interno del carcere. Quindi già l’idea di entrare in un carcere ed incontrare anche se non le stesse persone che hanno causato il loro danno, ma persone che comunque hanno causato un danno analogo, spaventa soprattutto e molte volte c’è, oltre alla diffidenza, l’idea che devono rimanere lì e devono stare lontane. Una volta che si supera questa barriera, illustrando soprattutto non solo le finalità del progetto ma le modalità - e quindi l’ambiente protetto, sicuro, che dà tutte le garanzie non solo di sicurezza ma che anche di riservatezza, di discrezione - le vittime sono poi le prime ambasciatrici del progetto presso altri e anche presso le stesse associazioni. In Italia, in verità, non esiste un sistema radicato ed uniforme sul territorio di vittime. Ci sono varie esperienze: le vittime di mafia, del terrorismo, quelle tra la polizia o le forze dell’ordine, ma non c’è un’associazione di vittime che le raggruppi a livello nazionale. Quindi facciamo un po’ fatica ed i nostri canali privilegiati sono le parrocchie, il porta a porta, la conoscenza personale, il passaparola. Oggi devo dire che molte delle vittime che hanno partecipato ai nostri progetti sono le stesse che “reclutano” non soltanto le altre vittime, ma ne abbiamo alcune che addirittura sono diventate benefattrici dell’associazione proprio per “reclutare” altre vittime facendo piccoli lavoretti che poi noi diamo in beneficenza o regaliamo per ottenere in cambio piccola offerta per mantenere l’associazione. D. - Come vengono formati i facilitatori? R. - In Italia i primi sono stati formati da un team venuto da Washington in due diversi incontri realizzati nel 2009. Da quel momento una squadra di noi, cinque o sei persone, annualmente segue dei corsi di formazione sulla base dei documenti scientificamente testati che sono venuti dall’America - che è quella che ha formato il progetto - che poi vengono adattati alla nostra cultura italiana, cioè ad una formazione ben precisa, molto puntuale e profonda. Una volta fatta questa formazione teorica i nostri facilitatori rientrano con un facilitatore esperto e a la sua prima formazione sul campo dando sussidio ad un facilitatore principale. Da quel momento in poi può anche fare la facilitazione, la mediazione indiretta da solo. Firenze: Opg, il collegio Ipasvi interviene sui ritardi nella chiusura della struttura gonews.it, 22 novembre 2015 Sarebbe dovuto chiudere lo scorso 31 marzo, dopo numerose proroghe, l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. L’Opg, però, è ancora aperto tanto che gli stessi internati hanno presentato reclamo. Un reclamo accolto dalla magistratura di sorveglianza per la quale gli ospiti di Villa Ambrogiana potranno restare nella struttura per altri tre mesi, fino al superamento definitivo degli opg. Dunque la Toscana ha 90 giorni di tempo per chiudere l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e passare al sistema delle rems. La residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza provvisoria di Volterra, da 22 posti, dovrebbe essere pronta dal prossimo dicembre (in attesa della realizzazione di quella definitiva, da 40 posti, sempre a Volterra). Intanto, come denuncia il Presidente del Collegio Ipasvi di Grosseto, Nicola Draoli, a causa del ritardo nell’apertura delle rems in Toscana, gli ex ospiti dell’opg trovano adeguata collocazione (a spese delle asl) in residenze attrezzate fuori regione. Un cambiamento difficile da gestire, a causa delle numerose incertezze, per gli infermieri che si trovano a lavorare non soltanto in strutture inadeguate, ma si vedono costretti a far fronte ad un aumento delle aggressioni ai danni degli operatori. “Gli opg non erano e non sono - spiega Cecilia Pollini, vice presidente del Collegio Ipasvi di Firenze - strutture adatte alla detenzione di persone con problemi psicologici importanti, quindi il loro superamento era ed è necessario. Naturalmente i soggetti coinvolti in questo processo dovrebbero dialogare e collaborare per definire un percorso terapeutico e riabilitativo degli internati”. Per questi detenuti e per il loro recupero, infatti, l’aspetto socio-sanitario è determinante. “C’è anche un altro aspetto da sottolineare - continua Pollini - che riguarda l’idoneità strutturale delle rems, nelle quali deve essere garantita la sicurezza degli infermieri che vi lavorano, contrariamente a quanto accaduto fino ad oggi”. I Collegi Ipasvi di Firenze e Grosseto, pertanto, chiedono alla Regione Toscana di farsi carico, in vista del superamento dell’opg, dell’adeguamento della residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza di Volterra affinché gli infermieri possano svolgere il loro lavoro in tranquillità e sicurezza. Ipasvi - Ufficio Stampa Trani: Pupo in visita alla Casa Circondariale di per un concerto-testimonianza andriaviva.it, 22 novembre 2015 Martedì 24 novembre 2015, dalle ore 9.30, il cantautore Pupo sarà presente all’interno della Casa Circondariale di Trani per un concerto-testimonianza ai detenuti. Il cantautore nello stesso pomeriggio, dopo aver fatto visita ai detenuti, verso le 17.30, presenzierà nell’Oratorio Sant’Annibale Maria Di Francia alla cerimonia di consegna del nuovo pulmino destinato ai ragazzi diversamente abili, frutto della generosità di alcuni imprenditori e del ricavato della “Partita della Solidarietà”, svoltasi il 20 giugno scorso ad Andria, e alla quale lo stesso Pupo aveva preso parte. “All’evento ci prepariamo con un senso di grande responsabilità - affermano don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, portiamo un artista, di grande spessore nazionale, con un vissuto molto forte, in un luogo e in un contesto particolare quale la casa circondariale di Trani ove ci sono dei nostri fratelli che vivono l’attesa della libertà piena, dopo che avranno estinto la loro pena”. I due sacerdoti sono co-fondatori del progetto “Senza sbarre”, nato nel 2007: “È da allora che andiamo in carcere, siamo volontari per la Legge, andiamo nel nome e per la chiesa di Andria. Solitamente siamo a far visita ai detenuti ogni giovedì, ma, se ci sono altre esigenze, o c’è bisogno di celebrare la Santa Messa, non ci risparmiamo”. Questa giornata ricreativa vedrà il cantante esibirsi in un mini-concerto per i detenuti definitivi e un altro per quelli in attesa di giudizio. È bene sottolineare una differenza sostanziale e legale tra i due gruppi: infatti telecamere e giornalisti potranno partecipare esclusivamente all’esibizione tra i detenuti cosiddetti “definitivi”. “In realtà non ci sono servizi tali da permettere ai detenuti, una volta usciti dalla casa circondariale, di potersi reintegrare socialmente e “dignitosamente” nella comunità - affermano i due sacerdoti - noi vogliamo creare un ponte tra carcere e mondo esterno o comunità parrocchiali. Insistiamo sul fatto che, oltre ad essere uno strumento complementare all’interno della vita carceraria, la pena possa essere benissimo espiata attraverso servizi socialmente utili alla comunità e alla collettività, così come anche quello che noi vorremmo proporre: il Progetto Senza Sbarre. Non più sbarre e celle in cui l’ozio prevale sulla possibilità di servizio e lavoro: noi vogliamo offrire questa occasione perché i detenuti abbiano i mezzi per potersi riscattare nella società. Questo lo possiamo fare solo attraverso istituzioni forti quali il Comune, la Parrocchia o altri enti. Per l’attuazione del progetto “Senza Sbarre”, tante sono le idee e i piani di lavoro che pian piano stanno prendendo forma. Per fortuna, dopo 10 anni di lavoro instancabile, stiamo riuscendo a far capire alle persone che uscire dai propri contesti è fondamentale: bisogna accogliere quelle pecorelle smarrite che sono uscite dal proprio percorso. Le comunità parrocchiali devono far rete, cercando di accogliere tutti, bisogna capire che favorire l’integrazione dei soggetti deboli è doveroso”. Pakistan: condannato a morte paraplegico, madre chiede grazia Ansa, 22 novembre 2015 La madre di Abdul Basit, un detenuto paraplegico in sedia a rotelle che le autorità carcerarie di Faisdalabad vogliono impiccare mercoledì prossimo in Pakistan, ha chiesto a presidente ed a premier pachistani di intervenire concedendo una grazia che si basi su presupposti medici ed umanitari. In dichiarazioni ai media la donna, Nusrat Perveen, ha detto di “essere sconvolta” da una comunicazione ricevuta oggi dai responsabili del carcere che le hanno annunciato che martedì potrà incontrare per l’ultima volta il figlio che sarà portato sul patibolo ed impiccato il giorno successivo. “In settembre - ha ricordato - la data dell’impiccagione di mio figlio era stata già decisa ma poi è giunto un ordine di sospensione da parte di un magistrato dell’esecuzione per ragioni mediche”. In effetti il 22 settembre il giudice Dilshak Malak ha comunicato che “l’esecuzione è stata rinviata perchè Basit non ha potuto mettersi in piedi sul patibolo come prescrive il regolamento carcerario. E per questo non ha potuto essere impiccato”. Apparentemente il problema ora pare risolto e le autorità carcerarie hanno fissato la data di una nuova impiccagione per il 25 novembre. Basit, ex amministratore di una università medica, è stato condannato a morte nel 2009 per omicidio. L’anno successivo, mentre era nel braccio della morte del carcere di Faisalabad, ha contratto una meningite tubercolare che ne ha provocato la paralisi della parte inferiore del suo corpo. In suo favore hanno lanciato appelli Human Rights Watch (Hrw), Amnesty International e la ong Reprieve. “Piuttosto che interrogarsi sulla crudeltà connaturata con la pena capitale - hanno rilevato le organizzazioni umanitarie - i funzionari pachistani stanno scervellandosi su come impiccare un uomo su una sedia a rotelle. Il Pakistan dovrebbe urgentemente commutare la sentenza di Basit”. Medio Oriente: 400 minori palestinesi nelle carceri israeliane infopal.it, 22 novembre 2015 La Società del Prigioniero palestinese ha reso noto venerdì che circa 400 bambini palestinesi tra gli 11 e i 17 anni sono attualmente imprigionati nelle carceri israeliane. 11 sono detenuti senza imputazioni e processo, cioè, sono prigionieri amministrativi. La Società ha aggiunto che diversi minorenni, incarcerati dall’inizio del mese di ottobre, erano stati colpiti da proiettili letali dalle forze israeliane mentre erano in stato di fermo. Circa 700 bambini sono stati arrestati dall’inizio di ottobre - soprattutto a Hebron e nel distretto di Gerusalemme - molti dei quali sono stati poi rilasciati a condizioni particolari, come il pagamento di una cauzione o gli arresti domiciliari. I minorenni palestinesi in Cisgiordania sono processati con il sistema giudiziario militare, un sistema che, secondo i gruppi per i diritti umani, non garantisce un equo trattamento processuale e maltratta i Palestinesi. Il numero di minorenni palestinesi detenuti è quasi raddoppiato tra settembre e ottobre di quest’anno, secondo una ricerca condotta da Addameer. I minorenni nelle carceri israeliane sotto soggetti ad abusi, maltrattamenti e torture fisiche e psicologiche.