Giustizia: le porte girevoli della libertà di Alessandro Campi Il Mattino, 21 novembre 2015 Dalle frontiere incondizionatamente aperte nel segno della fratellanza trai popoli alla loro chiusura sulla spinta della paura il passo è stato decisamente breve. Spirito di Schengen, addio. Ieri si ragionava su come accogliere tutti i profughi dalle guerre mediorientali ed africane, senza badare alla loro nazionalità o fedina penale e senza sottoporli a umilianti ispezioni, oggi si discute su come ripristinare severi controlli. Controlli negli spostamenti da un Paese all’altro anche all’interno dell’Unione Europea, facendo attenzione al passaporto e alla fede dichiarata. Si temono le infiltrazioni degli jihadisti stranieri, ma forse non ci si fida più nemmeno dei cittadini europei. Si è confermata, dopo la tragedia che ha colpito la Francia, una regola antica della vita sociale: un qualunque eccesso produce prima o poi il suo esatto contrario, spesso nelle stesse persone. Come la troppa libertà nei costumi scatena alla lunga irrigidimenti moralistici (i peggiori censori sono stati libertini), così il pietismo umanitario versi i migranti visti co -me l’avanguardia della nuova umanità non poteva che sfociare nel diffuso sentimento di sospetto e avversione che oggi si respira nei confronti di chiunque porti anche soltanto una barba troppo lunga. Ieri tutti pronti ad ospitare i rifugiati nelle proprie abitazioni, adesso quelle stesse case hanno la porta ben sbarrata. Quante stranezze, quali improvvise giravolte, difficili da spiegare. Quelli che oggi invocano lo spirito di vendetta, annunciano di voler essere spietati contro i nemici, denunciano il fanatismo religioso e si ergono a difensori della loro comunità nazionale minacciata nei suoi valori, insomma i socialisti francesi, sono gli stessi che per anni hanno predicato la politica delle braccia aperte, inneggiato alla pace universale, detto di non voler confondere la religione con la politica e considerato il richiamo alle proprie radici nazionali l’anticamera della xenofobia. Che dire poi di quegli idealisti e fautori dei diritti umani che sino all’altro ieri davano del criminale a Putin e che adesso, convertitisi alla più cinica Realpolitik, lo vogliono alleato nella lotta contro il terrorismo? O nella loro ipocrita doppiezza sperano solo che faccia il lavoro sporco (e sanguinoso) che repelle alla nostra coscienza? La Francia che oggi chiede aiuto e solidarietà per essere stata attaccata direttamente è lo stesso Paese che per anni - poco importa se al potere era la destra o la sinistra - si è mossa sulla scena internazionale in modo solitario, secondo una logica da potenza post-coloniale interessata solo al proprio tornaconto, come nel caso degli interventi militari in Mali, in Libia e in Siria. Il problema è che le alleanze o amicizie politiche non funzionano in questo modo. Averlo scoperto in modo così doloroso non riduce le responsabilità per ciò che si è fatto nel passato. Si deve solo sperare che la lezione sia servita a qualcosa. Ma le contraddizioni, sulle quali bisogna interrogarsi anche se il momento può sembrare quello poco appropriato, non si fermano qui. Prendiamo il caso del Belgio. Colpisce, in primis simbolicamente, scoprire che il terrorismo si è di fatto insediato a pochi metri dai palazzi del potere europeo. Ma colpisce ancora di più il fatto che un Paese possa essere burocraticamente ordinato, all’apparenza avanzato e civile, persino un modello di convivenza, pur risultando, alla prova dei fatti, socialmente e culturalmente disarticolato, istituzionalmente fragile. Lassista, più che tollerante. Quando, nel recente passato, il Belgio marciava economicamente non avendo neppure un governo qualcuno lo ha additato ad esempio di come nel futuro si potrà tranquillamente fare a meno dello Stato e della politica. Ma poi è proprio allo Stato, ai suoi apparati e ai suoi simboli (la bandiera, l’inno nazionale) che ci si aggrappa quando si scopre di abitare in quartieri dove non vige alcuna legge e dove i bravi ragazzi della porta accanto organizzano attentanti e si fanno esplodere. Risolvere queste contraddizioni non sarà facile. Ma che almeno si provi, nella concitazione del momento, a non commettere errori grossolani. Tipo fare proprio il punto di vista degli islamisti senza nemmeno rendersene conto. Prendiamo ad esempio la tendenza, che ormai si fa sempre più strada nell’opinione pubblica euro-occidentale e nel modo di ragionare dei nostri governanti, a definire l’identità pubblico-civile di chiunque abbia radici in un Paese classificato in senso lato come musulmano (si tratti dell’Algeria o della Malesia) a partire dalla sua supposta identità religiosa, trascurando ogni altra dimensione, culturale o sociale. È una semplificazione che se applicata a noi stessi - nel senso di essere definiti genericamente o prioritariamente cristiani - riterremmo arbitraria e infondata. Che il modo di essere e di vivere di una persona debba essere interamente plasmato dal suo credo religioso è esattamente ciò che pensano gli integralisti, convinti anche che questo stesso mondo si divida in "fedeli" e "infedeli". Se dietro ogni marocchino o siriano o iracheno o maliano non vediamo altro che un islamico, per di più osservante e fanatico, ecco un modo involontario per aderire al pensiero dei radicali. Così come è un errore pensare che il mondo islamico sia un blocco unitario, senza differenze o particolarità al suo interno solo perché c’è un credo religioso che fa da collante. L’idea di una comunità di fedeli tendenzialmente universalistica, che un giorno verrà unificata sotto la formula politica del Califfato, abolendo Stati, appartenenza nazionali e varietà di costumi, è ancora una volta tipica dell’ideologia islamista. L’Italia, per storia e cultura, non è il Messico, sebbene entrambi Paesi in senso lato cattolici. Perché si deve pensare che Egitto e Indonesia, con i secoli di storia che hanno alle spalle, le loro abissali differenze di cultura e mentalità, la complessa e difforme articolazione sociale che presentano, non siano altro che paesi islamici, come tali assimilabili l’uno all’altro? Forse prima di agire in modo solo apparentemente nerboruto (ma davvero qualcuno crede che in Siria sia rimasto qualcosa da bombardare?) bisognerebbe fermarsi e riflettere, nella consapevolezza che sia la politica fondata sulla paura sia quella basata sull’amalgama, gli stereotipi e le semplificazioni sono fatalmente destinate a generare decisioni improvvide e inefficaci. Giustizia: l’Unione si blinda, verrà schedato ogni cittadino che rientra in Europa di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 21 novembre 2015 Alfano: serve un approccio comune tra Stati in modo che si sia sempre interconnessi. Il ministro francese Cazeneuve: dobbiamo uscire dagli indugi o l’Europa si perderà. Al momento di annunciare l’accordo raggiunto il ministro dell’Interno francese Bernard Cazeneuve lancia la sfida: "Dobbiamo essere in grado di uscire dagli indugi, altrimenti l’Europa si perderà". Parigi non torna indietro, conferma di voler tenere chiuse le frontiere e costringe l’Unione Europea a fare altrettanto. Non c’è alcuna dichiarazione ufficiale, ma il trattato di Schengen è sospeso di fatto. Controlli ai valichi già attivi e nel prossimo mese molto altro si farà. Perché saranno schedati tutti i cittadini che rientreranno negli Stati europei - anche se sono comunitari - e saranno inseriti in banca dati tutte le informazioni su chi viaggia in aereo, con l’archiviazione del Pnr (il codice passeggeri) per almeno un anno. Controlli "sistematici". Finora le verifiche venivano fatte a campione, soltanto in casi sporadici. Il consiglio dei ministri europei ha invece chiesto alla commissione di modificare l’articolo 7 e questo vuol dire, come conferma il vice premier e ministro dell’Interno del Lussemburgo Etienne Schneide, che "ai confini esterni dell’Unione devono essere effettuati immediatamente controlli sistematici e coordinati, anche su cittadini europei che godono della libertà di movimento". Vuol dire che sarà registrato il passaporto di chi va all’estero e poi rientra, come finora avveniva solo per gli extracomunitari. Una misura restrittiva, ancor più drastica nei confronti dei migranti "che dovranno essere tutti registrati e foto-segnalati". Il progetto è a lungo termine, ma non è stato escluso di poter creare squadre di polizia di intervento rapido che si occupino esclusivamente di questo. Banca dati per un anno. Entro la fine dell’anno dovrebbe essere invece operativa la registrazione del Pnr che consente l’accesso anche ai dati sensibili: stato di salute, religione e poi notizie personali sui compagni di viaggio, sui luoghi frequentati a destinazione, sui metodi di pagamento. La novità riguarda sia la durata del periodo di archiviazione delle informazioni che passa da un mese a un anno e soprattutto il fatto che l’accesso sarà possibile anche per i voli interni all’Unione consentendo la creazione di una vera e propria "banca" per le forze di polizia e intelligence che potranno così avere ogni notizia in tempo reale. Finora la direttiva era stata bloccata dalle resistenze di numerosi europarlamentari preoccupati per la violazione della privacy. Adesso, come ribadisce il capogruppo dei socialisti Gianni Pittella "l’impegno è di votare i provvedimenti nel più breve tempo possibile, per rispondere a esigenze non più rinviabili". Scambio d’informazioni. L’Europa si "blinda" e cerca di mettere a punto la strategia di prevenzione sui traffici illeciti, primo fra tutti quello delle armi. Nel Sis, il sistema informativo di Schengen, saranno inseriti tutti gli esiti delle investigazioni effettuate e i dati relativi ai "foreign fighters", cittadini che vanno a combattere oppure ad addestrarsi in Medio Oriente e poi rientrano in patria. Per il traffico di armi e sul tema del controllo del commercio di armi da fuoco il Consiglio accoglie positivamente le proposte presentate mercoledì dalla Commissione Ue e invita Frontex ed Europol ad assistere gli Stati membri che confinano con i Balcani occidentali "nei maggiori controlli per individuare il traffico illegale di armi". Sulla necessità di avere un continuo scambio informativo insiste il ministro dell’Interno Angelino Alfano ribadendo che "gli Stati Ue daranno istruzioni alle autorità nazionali di condividere le informazioni e definire un approccio comune in modo che si sia sempre interconnessi, come impone la gravità della situazione". Le premesse ci sono, il rischio è che passata l’emozione per il massacro di Parigi, l’intero "pacchetto" venga rinviato a data da destinarsi. Proprio come accadde dopo gli attacchi a Charlie Hebdo e al supermercato Kosher. Giustizia: Renzi frena sulla guerra, summit europeo sulla sicurezza di Marco Conti Il Messaggero, 21 novembre 2015 Telefonata con Obama: il presidente Usa lascia che sia l’Europa a risolvere la matassa siriana. Parigi non trova sponde sui raid anti Isis ma rifiuta di mettere in comune le intelligence. "We don’t have a strategy yet". A distanza di più di un anno dalle parole pronunciate da Barack Obama, è ormai chiaro che quel non abbiamo ancora una strategy per combattere lo stato islamico è diventata la strategia di Washington. La conferma dell’interesse americano per ciò che accade in Medio Oriente si è avuta ieri. Mentre i paesi europei inzeppano le strade delle loro capitali di polizia ed esercito, Obama è a Kuala Lumpur, in Malesia, per l’ennesimo viaggio "utile" a contrastare la decisa politica cinese nelle regioni dell’Asia e del Pacifico. Invito. Un vorticoso andirivieni tra Giappone, Filippine, Corea del Sud e Malesia che conferma ancora una volta come Obama consideri mutati gli interessi strategici degli Stati Uniti che, "in cambio" di un sostanziale disinteresse per ciò che accade in Medio Oriente, sembrano usciti dal mirino della jihad che invece si sta accanendo contro l’Europa e la Russia. Il no a truppe di terra e l’invito ai paesi europei a provvedere da soli, rendono evidente le permanenti difficoltà dell’Europa che procede in ordine sparso. Un problema, quello del incessante indebolimento del progetto europeo, che potrebbe dispiacere poco a Washington. Subito dopo gli attentati di Parigi, Hollande si è appellato all’articolo 42 dei trattati che obbliga i paesi degli stati membri ad aiutare l’alleato. Una richiesta che sembra contenere più un tasso di protagonismo che di europeismo visto che, come sottolineava ieri Romano Prodi, "è inconcepibile che la Francia non voglia partecipare ad un rafforzamento dell’intelligence comune". Un "no" - invocato dai francesi trattato di Lisbona alla mano - che può sembrare ancor più paradossale se è vero, come afferma Emma Bonino, che ciò che è accaduto a Parigi rappresenta "il drammatico fallimento dell’intelligenze europea". Resta il fatto che in Europa nessuno vuole mettersi dietro la Francia nella "guerra" e le risposte all’appello ex articolo 42 sono state sinora tiepide. In attesa dell’avvio degli incontri bilaterali durante i quali i francesi dovrebbero precisare le lo richieste, domenica 29 potrebbe tenersi a Bruxelles un consiglio europeo straordinario, condizionato però dalle resistenze francesi a mettere in comune le informazioni. Un summit, quindi, sulla sicurezza e non più, come emerso durante il recente vertice di Malta, sull’immigrazione e con la Turchia. Dopo il massacro al Bataclan Istanbul viene guardata da Parigi con sempre maggiore sospetto al punto da spingere Hollande a non appellarsi all’articolo 5 della Nato (alleanza che include Istanbul ed esclude Mosca) ma ai trattati europei. All’intelligence francese non servivano i fischi allo stadio di Istanbul, al momento del munito di silenzio per la strage di Parigi, o l’infelice sortita di Ahmet Davutoglu - premier ad interim e candidato dell’Akp di Erdogan - o la tempestività con la quale ieri l’agenzia turca Anadolu informava sull’assalto in Mali, per comprendere quanto sia intrecciata la questione siriana e quanto complessi gli interessi turchi. Ovviamente, in virtù di un’alleanza atlantica mai messa in discussione, Obama non si sottrae alle invocazioni dei singoli paesi europei. Ieri il presidente americano ha chiamato le principali cancellerie contattando anche Matteo Renzi. Raccontano che nessuna pressione particolare sia stata fatta dal presidente americano sulla posizione molto cauta del presidente del Consiglio italiano che ancora ieri si è mostrato prudente rispetto alla posizione francese. L’Italia, assicura il premier, "farà la sua parte" insieme agli alleati internazionali. Proprio l’altro ieri il governo, nel decreto missioni, ha aumentato il contingente italiano sia in Iraq che in Afghanistan. "Niente psicosi ed isterie. Non bisogna lasciare che la paura domini le nostre vite", sostiene Renzi. "Noi siamo nell’alleanza anti Daesh sostenendo gli sforzi dei peshmerga curdi", ricorda Germano Dottori, docente di studi strategici della Luiss. Oltre questo impegno, sostenuto anche da Istanbul, deciso dal Parlamento e chiesto dal governo iracheno, Renzi non intende andare. Anche perché, secondo un sondaggio, il 90% degli italiani è contrario ad un intervento militare. Percentuali che danno ragione alla prudenza del presidente del consiglio e leader del Pd, e che penalizzano i pentastellati calati più di un punto nell’ultima settimana. Sanzioni. Polemiche interne a parte, Renzi - al pari della Germania - continua a non esporre l’Italia nel dibattito su una presunta "guerra" da condurre contro il nascente stato islamico. Al protagonismo francese la Merkel ha subito risposto offrendo pieno sostegno all’alleato ed è probabile che a fine mese, in occasione della conferenza sul clima che si terrà a Parigi, il presidente francese e la Cancelliera tornino a parlare a quattr’occhi anche del contributo che sta dando ed intende dare Vladimir Putin. Nella difficoltà della Francia e della stessa Italia a mettere insieme il ben accetto contributo di Mosca nella lotta al Daesh con le persistenti sanzioni nei confronti della Russia, decretate in occasione dell’annessione della Crimea, contribuiscono a spiegare quali siano in questo momento gli interessi strategici di Washington e quanta acqua sotto i ponti sia passata dai proclami di Al Qaeda contro i cittadini americani. Giustizia: a Roma e Milano tra sicurezza e paura, la percezione è tutto di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 novembre 2015 Terrorismo. Renzi al telefono con Obama: "L’Italia farà la sua parte" nella coalizione contro Daesh. Un’altra giornata di falsi allarmi ed evacuazioni a Roma e Milano. Appello alla calma: "Non credete alle bufale". Da lunedì nella capitale scatta il nuovo piano per il Giubileo: 2 mila uomini in più sulle strade, no fly zone, varchi e videosorveglianza. Una scatola di tonno, un sacco di spazzatura, una valigia abbandonata, una busta della spesa, uno zaino "sospetto". E poi: visioni di "un uomo apparentemente imbottito di esplosivo" e di un altro "con un fucile in braccio". E ancora: un messaggio virale su WhatsApp che gioca con l’horror e il paranoico e getta nel panico numerose famiglie. Di nuovo una giornata di falsi allarmi, di metropolitane fermate, di stazioni evacuate, di aree di servizio autostradali temporaneamente chiuse, di squadre antiterrorismo a setacciare ospedali (il San Giovanni a Roma, dove un medico avrebbe visto entrare l’uomo col fucile, e la Mangiagalli di Milano per il fantasma del kamikaze) e consolati (Usa, a Milano). Fortunatamente, al momento, l’Italia alle prese con "il terrorismo ai tempi dell’Isis", come lo ha chiamato il questore di Roma Nicolò D’Angelo presentando il nuovo piano organizzativo della sicurezza valido per tutto l’anno del Giubileo che si aprirà l’8 dicembre prossimo, è soprattutto questo. Ma costringe il premier Renzi, dopo un colloquio telefonico con Barack Obama per assicurare al presidente Usa che "l’Italia farà la sua parte" nella coalizione di guerra contro l’Is (d’altronde nel decreto missioni appena approvato è stato rafforzato il contingente italiano in Iraq e in Afghanistan), a registrare un messaggio vocale per invitare la popolazione a non credere alle "bufale che girano", "a non farvi fregare da questo clima che qualcuno vorrebbe creare" e a non cadere "nella trappola di chi vorrebbe chiuderci a chiave in casa e di lasciarci vivere nella paura, senza uscire, senza fare la nostra vita normale". Il presidente del consiglio si riferisce soprattutto al finto messaggio vocale, dilagato su WApp, di una donna a sua figlia che lancia l’allarme di imminenti attacchi a Roma, e sul quale la procura ha aperto un’indagine ipotizzando il reato di procurato allarme. "Stare attenti è una cosa, è giusto - aggiunge Renzi - non bisogna sottovalutare niente ma contemporaneamente anche non lasciare all’isteria il compito di non dominare la nostra vita. Nessuno ci porterà via la nostra esistenza quotidiana, l’Italia e gli italiani sono molto più forti della paura". La psicosi infatti è il vero obiettivo dei terroristi di Daesh. Per questo anche il titolare del Viminale Angelino Alfano, da Bruxelles dove ieri ha partecipato al vertice dei ministri dell’Interno dell’Ue, ribatte all’allarme lanciato dal premier francese Manuel Valls sul "rischio attentati batteriologici" annunciando di aver predisposto "dispositivi di protezione del nostro Paese anche nei confronti di minacce batteriologiche, chimiche, le cosiddette Nbcr", ma sottolinea "che neanche su questo c’è un indizio concreto. Un conto è predisporre le misure per l’emergenza ed un altro è sapere che c’è un rischio attuale ed immediato". Intanto a Roma da lunedì prossimo entrerà in funzione il nuovo piano straordinario predisposto dal questore e dal prefetto Gabrielli che impegnerà "oltre 2 mila uomini" sulle strade della Capitale, con pattuglie anche in borghese sugli autobus e sui mezzi pubblici. "Abbiamo potenziato il sistema di comunicazioni della sala operativa e altre dotazioni tecnologiche. Non abbiamo e non ci servono né carri armati Leopard né missili Patriot - afferma il questore D’Angelo - non ci servono. Abbiamo i Nocs, i Gis". Cosa preveda esattamente il corposo faldone da 200 pagine messo a punto per l’Anno della Misericordia è top secret. Ma le autorità spiegano che saranno predisposti controlli elettronici per accedere nei principali luoghi considerati a rischio: San Pietro, la Sinagoga, il ghetto ebraico e lo stadio Olimpico, in particolare, ma anche il Colosseo e altri siti monumentali. Vigilanza più serrata anche nei teatri, nelle sale concerto e perfino nei quartieri della movida notturna, da Trastevere a Ponte Milvio, da San Lorenzo al Pigneto, dove non si escludono attività di perquisizione "qualora fosse necessario". Potenziata anche la videosorveglianza (84 telecamere nella zona di Fiumicino e 27 in più negli edifici pubblici) e messo su un "sistema radar per intercettare i droni" essendo il cielo di Roma diventato no-fly zone, il controllo del territorio dell’area metropolitana sarà differenziato: "Sono state identificate tre aree importanti: da quella esterna a quella di massima sicurezza", spiega ancora il questore, in modo da "aumentare la percezione della nostra presenza". Soprattutto nelle periferie, che seppure, a detta del questore, non sono né "bidonville né le banlieue francesi", sono pur sempre territori fragili. Ed è la "percezione", la parola chiave, su cui si gioca l’equilibrio tra sicurezza e paura. Per questo D’Angelo chiede anche ai giornalisti di entrare nel "gioco di squadra" per fermare la psicosi. E Gabrielli esorta: "Un accertamento in più e uno scoop in meno". Giustizia: Renzi contro i pm "l’avviso di garanzia non è una condanna" di Giuseppe Alberto Falci La Repubblica, 21 novembre 2015 "Basta con le condanne per un avviso di garanzia perché solo così la politica smetterà di essere succube del populismo". Si toglie più di un sassolino dalle scarpe il premier Matteo Renzi dopo la decisione della Cassazione di annullare con rinvio l’ordine di arresto del senatore del Nuovo Centrodestra, Antonio Azzollini. E presidente del Consiglio si serve della Enews, consueto appuntamento con i supporter, per rivendicare la scelta dell’aula del Senato di respingere la richiesta di arresti domiciliari per il senatore di Area Popolare. Ha prevalso la linea garantista - è la sintesi del ragionamento di Palazzo Chigi - e abbiamo avuto ragione. "Ricordate le polemiche - è l’incipit del "pensierino della sera" - ricevute sulla questione di un senatore, per il quale la Procura di Traili aveva richiesto l’arresto, arresto negato dai senatori semplicemente perché dai documenti era chiara la infondatezza della richiesta?". Quando l’aula di Palazzo Madama si pronunciò sul caso Azzollini, esprimendo un voto contrario sull’arresto, le polemiche non mancarono. Sollevate dai Cinque Stelle e dai leghisti, ma anche dai una fetta di Pd che contestò aspramente la decisione della maggioranza del Nazareno. Spiega Renzi: "Allora io dicevo: il Parlamento non è il passacarte della procura di Trani. Ci furono reazioni spigolose e qualcuno disse che noi difendevamo la casta. Ieri abbiamo scoperto che la Cassazione ha addirittura annullato quell’arresto. Quando si parla di libertà delle persone, si può perdere consenso, per carità. Ma si deve procedere sempre con i piedi di piombo". Da oggi, continua il premier, la musica cambia e ci vorrà "più rispetto per la presunzione di innocenza". In sintesi, "finché non ti condannano, sei innocente". La decisione della Corte di Cassazione è giunta nella serata di martedì, ed ha annullato la misura cautelare disposta dalla Procura di Trani lo scorso 10 giugno. Adesso toccherà al Tribunale del riesame di Bari ripronunciarsi sulla misura cautelare degli arresti domiciliari per Antonio Azzollini. Oggi, però, esultano i parlamentari di Area popolare. Il primo a chiamare il senatore pugliese, per esprimergli "affettuosa vicinanza", è stato il ministro dell’Interno e leader di Ncd Angelino Alfano: "Evitato un caso di ingiusta detenzione". Soddisfatto anche il capogruppo al Senato Renato Schifarli: "n Parlamento ha dimostrato la sua autonomia, senza obbedire a logiche di partito". Maurizio Sacconi, presidente della Commissione Lavoro al Senato, twitta: "Evviva, c’è un giudice a Berlino". Sulla stessa scia Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Ap, che lancia un ultimatum: "Basta richieste di arresto facili". Giustizia: l’ultima chiamata (politica) per Alfano di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2015 La notizia che la mafia progettava un attentato contro Alfano restituisce credibilità all’attività del ministro dell’Interno ma non oscura la prova che deve affrontare sull’allarme terrorismo. Che si presenta un po’ come un’ultima chiamata politica. Nel senso che sulla partita della sicurezza e difesa del territorio - e quindi controlli negli sbarchi - Angelino Alfano si gioca non solo la sua credibilità di governo ma il suo stesso futuro politico per sé e per Ncd, un partito ai minimi sul piano del consenso popolare e pure della tenuta parlamentare. E dunque il test che lo aspetta diventa cruciale per il suo destino politico ma anche per i suoi e il gruppo parlamentare già provato da micro scissioni e nuove minacce di divisioni. Insomma è chiaro che tanto meglio farà come ministro tanto più riuscirà ad arginare una fuga e a mantenere un controllo sul suo partito. Realisticamente è difficile che riesca da solo a ricreare un’attenzione intorno alla sua area ma quanto più sarà efficace la sua azione da ministro tanto più riuscirà a garantire per sé e per i suoi fedelissimi una collocazione futura nelle liste del Pd o di un qualche movimento che volesse affiancare la lista di Renzi alle prossime politiche. La notizia dell’attentato che stavano progettando contro di lui i mafiosi vicini a Provenzano e Riina restituisce un profilo di serietà alla sua azione, quella minaccia di ucciderlo come Kennedy per l’inasprimento del 41 bis gli toglie un po’ la patina di ministro senza nerbo e decisamente gaffeur ma non è sufficiente vista la sfida che adesso lo chiama in causa soprattutto a Roma, città del Giubileo. Tra l’altro, Alfano non arriva a questo esame con precedenti brillanti. Spesso è stato al centro delle polemiche per i suoi atti e per quelli dei suoi compagni di partito che si sono distinti per numero di inchieste giudiziarie più che per gesti politici. Dal caso Shalabayeva che battezzò il suo debutto da ministro fino a un tweet molto infelice in cui si diceva soddisfatto per la cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio, senza che fosse nemmeno iniziato il processo. Uno scivolone in assoluto per un ministro dell’Interno e per un uomo politico che si era sempre professato un garantista negli anni della sua militanza a fianco di Silvio Berlusconi e delle sue tante vicende giudiziarie. Ma la gestione più debole è stata quella sugli immigrati nei giorni caldi degli sbarchi della scorsa primavera-estate, proprio a ridosso delle elezioni regionali, quando le stazioni di Roma e Milano erano in balia dei profughi e senza un minimo di gestione e regia. E c’è, poi, il ricchissimo capitolo dei suoi compagni di partito a partire dal caso delle dimissioni del ministro Maurizio Lupi e l’arresto di Ercole Incalza "boss" delle Infrastrutture per le inchieste sulle grandi opere. Non finisce qui. Perché prima e dopo Lupi la magistratura si è occupata di Ncd più volte, a cominciare dal sottosegretario Giuseppe Castiglione finito nel mirino per il centro di richiedenti asilo di Cara di Mineo e c’è stato anche il senatore Azzollini ancora sotto inchiesta nonostante la Cassazione abbia ritenuto insufficienti le motivazioni per la detenzione. Un lungo elenco di scandali che fanno da zavorra alla già complicata prova di Alfano e lo lasciano un po’ solo, senza un partito a sostenerlo. Più che la sua area politica sarà il Governo a doverlo sostenere, e Renzi in particolare, il che non è rassicurante. Alla fine, questa per lui è un’ultima chiamata politica che potrà garantirgli una via d’accesso nel Pd o un progetto fuori da Pd. Ma solo se l’esame sarà superato. Giustizia: il rancore di quei mafiosi sepolti vivi verso i politici La Repubblica, 21 novembre 2015 A torto o a ragione si sentono traditi da chi non avrebbe mantenuto promesse. "Iddu pensa solo a iddu", il tam tam delle prigioni dopo che il Cavaliere aveva conquistato tutto. Se solo ne avessero la forza, li farebbero a pezzi. Tutti. Quelli della vecchia guardia e quegli altri più giovani che hanno preso il potere. A torto o a ragione si sentono traditi. Però, come si dice in Sicilia, il fatto è uno ma il discorso è un altro. Cominciamo dall’inizio che poi è anche la fine. Questa notizia che viene da Corleone, capitale di una Cosa Nostra ormai abbattuta con i suoi boss storici rinchiusi nelle segrete del 41 bis, descrive attraverso uno sfogo intercettato come è cambiato irrimediabilmente il rapporto fra mafia e politica. Scomodando perfino il mitico presidente Kennedy - proprio domani cade il 52esimo anniversario dell’attentato a Dallas - e paragonandolo con dilatazione all’agrigentino Angelino Alfano, una mezza dozzina di allevatori malavitosi cresciuti sotto la Rocca Busambra ci raccontano come ribolle il loro sangue e cosa passa per le loro teste malate. È sempre la stessa musica: il voltafaccia degli uomini politici, quelli che li hanno abbandonati nelle carceri speciali dopo che loro che li avevano sostenuti in campagne elettorali, dopo che li avevano votati e fatti votare, dopo che li avevano " portati" in alto e sempre più in alto. I nomi contano e non contano. Oggi se la sono presa con il ministro dell’Interno, siciliano che l’elettorato ce l’ha sparso fra la sua isola e la Calabria. Ma poco importa un nome o un personaggio per quella Cosa Nostra che è al macero, è tutta una " classe politica" sott’accusa perché ha voltato alle spalle, perché non ha mantenuto le promesse e in qualche caso - come Salvo Lima per esempio - non "ha garantito il buon esito" di un processo come quello (il maxi) istruito da Giovanni Falcone. Abbiamo citato Lima e diciamo subito che lui, referente dell’aristocrazia mafiosa palermitana per tre decenni almeno, niente a che fare con Alfano che è arrivato all’Assemblea regionale siciliana tre anni dopo che il proconsole di Andreotti in Sicilia era già morto, ucciso dai sicari di Totò Riina nei vialetti di Mondello. La data di quell’omicidio - 12 marzo 1992 - però è importante perché segna il cambiamento totale del vincolo tra il potere mafioso e il potere politico. È quel giorno che un sistema che resisteva dal dopoguerra si rompe. E per sempre. Un patto non scritto con il partito - Democrazia cristiana - che aveva governato l’Italia dallo sbarco degli Alleati e che sembrava indistruttibile. Il 1992 è l’anno decisivo. Dopo Lima ci sono le minacce ad altri uomini della politica italiana come Calogero Mannino, l’ex ministro che appena un paio di settimane fa - considerato dall’accusa l’ispiratore della trattativa Stato-mafia - è stato assolto a Palermo in quel processo. Poi, poi è arrivato Silvio Berlusconi. "Iddu pensa solo a Iddu", lui pensa solo a se stesso, era il tam tam che circolava nelle carceri quasi dieci anni dopo che il Cavaliere - oltre alla Presidenza del Consiglio - aveva conquistato tutto quello che poteva conquistare. Altre promesse non mantenute, altri patti non rispettati per i boss della Cupola. Tanto che la nostra intelligence e il Servizio Centrale Operativo della Polizia, nel settembre del 2002 avvertiva che "la mafia siciliana è pronta a lanciare un’operazione di forte impatto con ricadute destabilizzanti sul piano politico e idonea, comunque, a far capire allo Stato che i capi di Cosa Nostra non intendono accettare lo status quo". Sempre il 41 bis. I capi della fazione più violenta di Corleone chiedevano conto e ragione a Berlusconi della loro permanenza in carcere. Due suoi fedelissimi, Marcello Dell’Utri e Cesare Previti, venivano indicati come bersagli "di azioni eclatanti". Minacciati dai boss che volevano vendicarsi. "Uniti contro il 41 bis, Berlusconi dimentica la Sicilia", era scritto nello striscione lungo sette metri che qualcuno srotolò dalla curva degli ultras alla Favorita di Palermo, 22 dicembre 2002. Era la penultima giornata del girone d’andata del campionato di serie B, Palermo contro Ascoli, la partita finì 2 a 2. L’ultima "parlata" dei mafiosi di Corleone è il riassunto dei risentimenti che si sono trascinati per tanto tempo dentro Cosa Nostra. Sentite cosa diceva qualche anno fa il capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro - mentre ricordava i delitti eccellenti di Palermo - al suo amico Salvatore Aragona: "Soltanto i politici si possono infilare sotto quell’ombrello, tu vedrai che nei vari processi quelli che non avranno problemi saranno solo i politici". È il rancore dei mafiosi sepolti vivi. Giustizia: il Senatore Lumia (Pd) "approvare pacchetto antimafia e inasprire il 41-bis" Dire, 21 novembre 2015 "Il 41-bis insieme all’aggressione ai patrimoni rappresentano il tallone d’Achille di Cosa nostra. La migliore risposta al tentativo dei corleonesi di colpire il ministro Alfano deve essere esemplare e unitaria: varare il pacchetto antimafia approvato dalla Camera e adesso alla valutazione del Senato. Anche sul 41-bis non bisogna mollare la presa. Anzi è necessario inasprirlo ancora di più. Sia chiaro: il carcere duro non lede i diritti umani, ma impedisce ai boss in cella di stabilire quali estorsioni fare, come riorganizzare la rete di Cosa nostra, quali collegamenti avere con la parte collusa delle istituzioni e della politica, quali appalti truccare, chi deve salire e scendere nella gerarchia mafiosa e addirittura, come è avvenuto in un colloquio in carcere tra Riina padre e Riina figlio, buttare lo sguardo su un nipotino ritenuto "sveglio" nel senso mafioso del termine". Lo dice il senatore Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione giustizia, commentando l’importante operazione della Procura di Palermo che ha portato all’arresto di 6 persone a Corleone. "Ma- aggiunge- ci sarebbe un’altra scelta che il Parlamento, il Governo, con in testa il Presidente del Consiglio ed il Ministro dell’Interno, dovrebbero valutare: riaprire le carceri di Pianosa e l’Asinara. La legge che abbiamo modificato in Parlamento nel 2009 lo consente. Bisogna avere il coraggio di farlo. Così si risponde a chi vuole rialzare la testa all’interno di Cosa nostra". "I corleonesi - conclude - non hanno mai smesso di avere un ruolo importante dentro Cosa nostra. I Lo Bue, come è risaputo, hanno avuto una funzione decisiva nella lunga latitanza di Provenzano e hanno svolto in modo abile il compito, non semplice, di tenere le fila tra le famiglie corleonesi. È un errore considerarli come degli ottusi allevatori. Sono violenti, allo stesso tempo capaci nel ricucire antichi rapporti e nel tenere Corleone in una condizione di pax mafiosa". Giustizia: intervista a Consolo (Dap), 200 "osservati speciali" tra i detenuti islamici in Italia Giornale di Sicilia, 21 novembre 2015 Il piombo a Parigi. L’eco degli applausi, come hanno riferito alcune fonti, di un gruppo di qaedisti detenuti nel carcere calabrese di Rossano. E, probabilmente, l’esultanza complice e silenziosa in centinaia di occhi dietro altre sbarre. Prima che Parigi fosse squarciata dal terrore venerdì 13 novembre, erano già "oltre duecento su 10 mila e 400 detenuti di fede islamica, gli "osservati speciali" negli istituti di pena italiani. Aumenteranno certamente nelle prossime settimane per il più imponente impegno dell’amministrazione penitenziaria e per i controlli più stringenti". Lo dice Santi Consolo, capo del Dap, a corollario delle proprie dichiarazioni a caldo sul rinnovato impegno nel disinnesco di possibili polveriere islamiste dentro le carceri. Si tratta, spiega Consolo, di "persone sottoposte a particolare vigilanza in armonia con la posizione soggettiva dei singoli condannati e il rispetto della loro dignità e, nei casi più critici, a monitoraggio costante". Insomma, gente in potenziale predicato di fiancheggiamento, adesione o proselitismo alla lotta jihadista. Con un poscritto netto: "C’è bisogno, subito, di nuove forze. Non soltanto agenti, ma pure interpreti, mediatori culturali, tecnici informatici". Dottor Consolo, non è notizia di giornata che la jihad trovi supporter nelle carceri. In concreto, come prevenire? Come soffocare proselitismo, adesione, al limite associazionismo occulto fra potenziali jihadisti? "La premessa è, appunto, d’obbligo: non scopriamo adesso un fenomeno che da mesi teniamo sotto osservazione. Agenti e personale amministrativo hanno seguito e seguono corsi di formazione specifici, tesi al riconoscimento e al trattamento di atteggiamenti capaci di denotare simpatia e, per gradi, favoreggiamento e adesione all’islamismo radicale. Giusto andare sul concreto: dalla foggia della barba che qualcuno si decida a lasciar crescere, fino al volantino eventualmente affisso in cella o corridoio. Individuato il comportamento, si agisce per gradi, dalla verifica all’osservazione, alla segnalazione, fino al monitoraggio. Forniamo costantemente i nostri dati all’organo interforze Casa, il Comitato per l’analisi della sicurezza e antiterrorismo". I detenuti osservati vengono sottoposti a regimi differenziati? Come si fa a evitare contatti e incontri? "Compatibilmente con il regime del trattamento deciso caso per caso e nel rispetto della dignità della persona, si può arrivare a un regime di alta sorveglianza che limiti la comunicazione fra i detenuti. Innanzitutto, con passeggi e "aree trattamentali" separate. Senza trascurare l’aspetto del culto: i detenuti di fede islamica sono circa 10 mila e 400, dei quali fra 7 e 8 mila praticanti. Non avrebbe senso, anzi sarebbe controproducente, limitarne la libertà religiosa. In questa direzione va il protocollo firmato con l’Unione delle comunità islamiche italiane che incentiva l’accesso di ministri di culto e mediatori culturali dentro le carceri. La pratica di culto corretta serve a mettere in luce ciò che corretto, eventualmente, non è. Chi è detenuto è già fragile, spesso, sul piano psicologico. Si può far molto per scoraggiare il condizionamento dei "male inclinati", prevenendone scelte sbagliate. Ma non basta ancora, abbiamo bisogno di forze fresche e specializzate". Vuoti di organico nell’amministrazione penitenziaria, dunque. Basta invocare più agenti? "Non si tratta soltanto di reclutare nuove risorse di polizia penitenziaria, per quanto un massiccio innesto sia ormai improrogabile. Ho inoltrato al governo una proposta di emendamento alla legge di stabilità per l’assunzione di 800 agenti. Confido nella sensibilità delle forze politiche perché non incontri ostacoli, non ho paura di riuscire retorico se affermo che i risultati nella prevenzione della formazione di sacche islamiste negli istituti di pena, sono frutto dell’impegno anche oltre le proprie forze di polizia penitenziaria e personale amministrativo. Abbiamo bisogno anche di interpreti, mediatori culturali, tecnici informatici. Ho fatto prima l’esempio della barba lunga. Che fare davanti a uno scritto in arabo appeso al muro? Benissimo, se è un passo del Corano. Molto meno bene se inneggia alla guerra santa. Ma ci vuole chi l’arabo lo legge e lo intende". Il Dap ha "aperto" all’utilizzo dei computer e del web in cella. Ci illustra criteri e modalità di prevenzione? Non dimentichiamo che a margine degli attacchi di Parigi, gli inquirenti hanno scoperto persino comunicazioni fra terroristi utilizzando le chat di play station e videogame... "L’uso del computer viene consentito in relazione a casi specifici, e nella misura richiesta dalle esigenze e dalle inclinazioni di studio del detenuto. La macchina viene tarata e resa inaccessibile a chiavette e altri dispositivi. Il detenuto vuole laurearsi o diplomarsi? Gli viene aperto l’accesso al sito dell’istituzione scolastica o universitaria. Non corriamo rischi eccessivi da questo punto di vista. Ma è vero: le maglie digitali sono spesso aperte in modo imprevedibile. Perciò insisto: c’è bisogno di tutte le professionalità, dagli agenti ai tecnici informatici specializzati". Giustizia: siglato protocollo di intesa Dap-Ucoii, gli Imam entrano in otto carceri italiane di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2015 Gli Imam entreranno in otto carceri italiane - Torino, due a Milano, Brescia, Verona, Modena, Cremona e Firenze - ma al momento non varcheranno anche la soglia della casa di reclusione di Rossano (Cosenza) nel quale il 13 novembre tre, massimo quattro terroristi islamici hanno esultato alla notizia dell’eccidio parigino. Forse a Rossano - che ospita 21 terroristi fondamentalisti di cui uno dell’Isis con fine pena al 2026 oltre ad un membro dell’Eta - ci sarebbe però bisogno di applicare subito il protocollo di intesa stipulato il 5 novembre tra Santi Consolo, capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e Izzedin Elzir, presidente dell’Ucoii (l’Unione delle comunità islamiche in Italia) per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto in via sperimentale per sei mesi negli otto istituti penitenziari. Sarebbe quantomeno un tentativo per contribuire a riportare calma tra i tre o quattro esagitati che minano i rapporti con gli altri reclusi all’interno di una casa di reclusione già minata da problemi. Al punto che la deputata Gessica Rostellato (Pd), dopo una visita in istituto di appena 10 giorni prima, il 24 giugno di quest’anno ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando (assegnata però per la risposta alla Commissione Giustizia della Camera) per sapere denunciare la "preoccupante situazione dovuta alla mancata sicurezza relativa alla sorveglianza" e per sapere se, alla luce del numero effettivo sia dei detenuti che degli agenti, "non intenda effettuare controlli sulla gestione della sicurezza e/nel contempo, appurare se il numero degli agenti sia sufficiente al fine di mantenere l’ordine all’interno della struttura". Il ministro non ha ancora risposto e quando lo farà avrà qualche motivo in più per farlo. Il procuratore aggiunto della Procura di Catanzaro, Giovanni Bombardieri, conferma infatti al Sole-24 Ore che alla notizia della strage tre o quattro terroristi islamici hanno esultato ma senza riuscire a trascinare nel delirio gli altri detenuti, a partire da quelli che condividono la loro religione. Nel frattempo Cosenza ha ospitato una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica al fine di fare il punto sulle misure di prevenzione del terrorismo islamico. Alla riunione, presieduta dal prefetto Gianfranco Tomao, hanno partecipato i vertici delle Forze dell’ordine, lo stesso procuratore aggiunto della Procura distrettuale di Catanzaro Bombardieri, e il direttore del carcere di Rossano, Giuseppe Carrà. Nel corso della riunione è stato deciso di aumentare il dispositivo di sicurezza per il carcere di Rossano, che comunque era già stato già intensificato dopo gli attentati di Parigi. Laddove non arriveranno gli agenti di polizia penitenziaria - 123 agenti per 231 detenuti - arriveranno le altre forze dell’Ordine mentre non va dimenticato che l’Esercito è già impiegato su territorio nell’ambito del piano nazionale "Strade sicure". Un modo per rispondere ai sindacati che hanno alzato la voce reclamando maggiore attenzione. "Ogni giorno in quella sezione speciale - dice Donato Capece, segretario generale del Sappe - dovrebbero esserci 4 agenti di polizia penitenziaria, ma purtroppo ne abbiamo solo uno e i turni sono estenuanti. In questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, sono stati alzati i livelli di sicurezza, con maggiore attenzione ai terroristi islamici detenuti. Ogni giorno hanno diritto a un’ora d’aria singolarmente e mai in compagnia. Dalle 18 alle 19 possono recarsi fuori dalla cella per pregare e nel periodo del Ramadan la preghiera si protrae fino alle 22, ma in questi giorni hanno avuto qualche limitazione". I contenuti del protocollo - Il Protocollo intende promuovere azioni mirate all’integrazione culturale avvalendosi dei mediatori indicati dall’Ucoii, anche attraverso la stipula di convenzioni con Università ed enti che cureranno la formazione dei volontari cui è data la possibilità di accedere con continuità negli istituti penitenziari. I momenti collettivi di preghiera saranno guidati dai ministri di Culto, in altre parole gli Imam, in sala-preghiera dedicata e in locali adeguati. La stipula del Protocollo è stata anche l’occasione per approfondire ulteriori aspetti di collaborazione tra Dap e Ucoii, quale ad esempio l’apprendimento dell’italiano per i detenuti di lingua araba, e viceversa, puntando su detenuti in grado di ricoprire il ruolo di "docenti" per i compagni di detenzione, anche attraverso l’uso dei personal computer, un utile supporto per lo studio delle lingue, il cui utilizzo è stato disciplinato dal Dap con la circolare emanata il 2 novembre. Una modalità, sottolinea il Capo del Dap Consolo, che responsabilizza i detenuti, essi stessi protagonisti dell’esigenza di una reciproca conoscenza e del rispetto delle diverse culture, con indubbi vantaggi per la sicurezza degli istituti penitenziari. Lettere: magistratura onoraria (per finta) di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015 Se il "racconto" del contenuto di un prodotto non è fedele, l’etichetta è fasulla e la magistratura deve occuparsene. Ma... nemo propheta in patria. Perché c’è un’etichetta fasulla che imperversa all’interno stesso della magistratura. Si tratta della magistratura onoraria, nel senso che sotto l’etichetta "onorarietà" non figura più nulla di quel che dovrebbe esserci. Fin dai tempi dell’Assemblea costituente si sosteneva che quella onoraria "è una funzione che si presta non come attività professionale, ma come una partecipazione spontanea che esce dalle normali occupazioni della propria vita". In altre parole, occasionalità e temporaneità dovrebbero segnare i confini del perimetro tipico della "onorarietà". Ma ormai da tempo l’emergenza, dovuta all’aumento della domanda di giustizia e alle disfunzioni croniche dell’apparato giudiziario, ha travolto questi confini. Difatti, la più parte dei magistrati onorari svolge le sue funzioni a tempo pieno o semipieno, spesso in processi di elevata tecnicità. Nello stesso tempo, il limite temporale originariamente previsto per l’incarico (tre o quattro anni, prorogabili una sola volta) è stato sempre prolungato in via d’urgenza alla scadenza, con la conseguenza che di fatto nessun magistrato onorario di tribunale è mai cessato dalle funzioni per scadenza del termine (vi sono molti magistrati onorari in carica da 10 o 15 anni e oltre). L’etichetta è taroccata e gli spazi affidati alla magistratura onoraria sono diventati sempre più estesi. Non è esagerato affermare che i palazzi di giustizia si reggono grazie anche alla gran mole di lavoro che i Vpo (nell’ufficio del pubblico ministero) e i giudici di pace quotidianamente svolgono. Si calcola che in un Tribunale come quello di Milano i Vpo sostengano mensilmente il peso di circa 400 udienze (con conseguenti maggiori possibilità per i pm di "carriera" di dedicarsi alle indagini), mentre i giudici di pace trattano annualmente due milioni di procedimenti (in particolare circa il 50% della materia civile). Cifre eloquenti , a fronte delle quali stride una situazione caratterizzata dalla mancanza di tutele per i lavoratori, privi di assistenza per malattia, previdenza, ferie e maternità. E con retribuzioni più o meno sufficienti a campare ma non oltre, destinate oltretutto a subire un taglio consistente a causa della riduzione degli stanziamenti prevista con la legge di stabilità. Ecco allora episodi da non crederci. Come quello del giudice onorario di Napoli in servizio da 18 anni, in cura oncologica da due, costretto dopo il primo intervento chirurgico a interrompere la convalescenza per poter andare in udienza, altrimenti avrebbe perso il suo ruolo. Quanto alla maternità, una circolare del Csm ha esteso ai magistrati onorari la disciplina dei lavoratori dipendenti che dispone l’astensione obbligatoria, alla quale però non corrisponde il riconoscimento di alcuna indennità. E non c’è bisogno di scomodare papa Francesco, essendo di evidente e comune buon senso le parole con le quali (nel discorso ai dipendenti dell’Inps) egli ha ricordato che il precariato è una piaga, che a ciascun lavoratore deve essere riconosciuta un’altissima dignità, che la pensione è un diritto e che occorre un’attenzione privilegiata per il lavoro femminile e l’assistenza alla maternità. Le richieste da tempo avanzate per ottenere un miglior inquadramento del settore e adeguate garanzie per il futuro sono state fin qui disattese. La Commissione giustizia del Senato ha licenziato con parere favorevole un ddl di riforma della magistratura onoraria che dovrà essere sottoposto alla votazione delle Camere. Ma questo ddl presenta notevoli criticità. In particolare nessuna forma di stabilizzazione per coloro che sono in servizio anche da vent’anni. Anzi, un ricambio con stagisti destinati a rimanere in servizio per un solo anno. Con una grave perdita del prezioso bagaglio di esperienze e professionalità acquisite in anni e anni di "precariato" onorario. Si comprende pertanto come la magistratura onoraria viva attualmente una condizione di forte disagio, che la sta spingendo verso forme di rivendicazione e protesta che potrebbero anche comprendere dichiarazioni di "indisponibilità", vale a dire astensioni dal lavoro per un congruo periodo di tempo, con conseguente rischio di una semiparalisi - di fatto - di uffici giudiziari già abbastanza "disastrati". Lettere: dagli Opg alle Rems, ma la sicurezza? di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015 Quando ero un giovane pm (anni 70) ogni tanto andavo negli Ospedali psichiatrici per le interdizioni: gli incapaci di intendere e di volere dovevano avere un tutore. Un giorno andai nell’Ospedale di Collegno. Attraversando la camerata -enorme, ci saranno stati 50 letti - notai che moltissimi ricoverati avevano vistose fasciature intorno alla testa. "Ma che è successo, un’epidemia?". "Beh, no - rispose l’infermiere che mi accompagnava - il fatto è che un ricoverato ha la mania di strappare le orecchie agli altri. Vede?, è quello lì". Un gigante, e come ti sbagli. "Cavolo, ma è una strage. Fate qualcosa". "Eh sì. Quando sarà finito il processo, andrà in un Ospedale Psichiatrico". Era ovviamente un posto terribile. Tutti strappatori di orecchie. Gestirli richiedeva strutture e risorse enormi e da sempre inesistenti. La nostra illuminata classe politica si dimostrò molto sensibile al problema e, nel 2011, intervenne. Come? Ovvio: li abolì. Siccome però restava il piccolo problema di dove mettere gli internati, l’abolizione fu lunghetta: di rinvio in rinvio si arrivò al 31 marzo 2015, quando i criminali violenti e mentalmente malati furono distribuiti nelle Rems, Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Problema risolto. Sì, come no. Le Rems sono cliniche psichiatriche. Non c’è struttura di sorveglianza, cioè non ci sono guardie carcerarie o carabinieri; solo medici e infermieri. Naturalmente, in caso di bisogno, i carabinieri possono intervenire, come avviene nella vita civile. Se un marito picchia la moglie o se un pazzo criminale strappa le orecchie a un collega, li si può chiamare. Con il tempo che ci va, intervengono, sedano, constatano, magari portano via i cadaveri. E poi se ne vanno. Sistema perfetto, per un Ospedale (pardon, una Rems) dove sono allocate persone pericolose. Questa è la storia di Massimiliano Spinelli, con una sfilza di precedenti per violenze e già un ricovero in Ospedale Psichiatrico, inviato alla Rems di Subiaco a seguito di un nuovo processo per stalking. Qui aggredisce gli altri ricoverati. Gli infermieri intervengono, sedano e aspettano la prossima aggressione. Dopo un po’ chiedono aiuto, non ce la facciamo più, portatelo da qualche altra parte. Il Gip lo manda in un Ospedale Psichiatrico civile dove lo imbottiscono di psicofarmaci e, dopo poco, lo rimandano alla Rems perché "guarito". Il tempo di arrivare e Spinelli scatena un casino mostruoso. Intervengono i Carabinieri, fanno quello che possono e poi, come previsto dalla legge, se ne vanno. E Spinelli ricomincia subito a distribuire botte da orbi. Ma, intanto, i suoi colleghi si sono organizzati. E così, quando Spinelli aggredisce uno che è in sedia a rotelle per un recente frattura, tutti insieme gli volano addosso. Si scatena un rissa mostruosa tra internati e infermieri che termina con il contenimento fisico di uno e la sedazione farmacologica di quasi tutti gli altri. Dopo di che Spinelli viene chiuso in una stanza i cui occupanti vengono sbattuti fuori e relegati, insieme agli altri, in un altro piano. Situazione insostenibile, tanto che la Rems di Subiaco segnala di "non essere in grado di garantire la sicurezza degli internati e l’incolumità fisica dello Spinelli oggetto di programmata vendetta da parte dei suoi colleghi". Attende "una cortese e sollecita risposta". Il nostro viene trasferito a Ceccano, in un’altra Rems dove ci sono stanze singole. Che subito mette in chiaro: "Per dargli da mangiare è necessario l’intervento di tutto il personale della struttura; non può entrare in contatto con altri pazienti perché violento, aggressivo e anche grosso; non può stare in una struttura come la nostra a vocazione sanitaria". Ma altre strutture idonee non ci sono più... Ma se un Marchionne qualsiasi avesse progettato e costruito una macchina totalmente incapace di funzionare, spendendo un sacco di soldi degli azionisti, secondo voi che gli sarebbe successo? Pordenone: "mio figlio è morto da più di tre mesi, chiedo di sapere la verità" veneziatoday.it, 21 novembre 2015 La madre di Stefano Borriello, 29enne di Portogruaro, vuole chiarezza. Antigone: "Non si sa ancora perché il giovane detenuto sia morto". C’è una madre che chiede chiarezza da più di tre mesi, ma per ora la morte del figlio è sempre contraddistinta da contorni poco nitidi. Aveva fatto molto rumore il decesso di Stefano Borriello, un 29enne portogruarese che il 7 agosto scorso venne trasportato dal carcere di Pordenone, in condizioni ritenute molto gravi, all’ospedale della città. Era detenuto nella casa circondariale da un paio di mesi per sospetta rapina quando verso le 20, mentre si trovava in cella assieme ad altre tre persone, avrebbe subito un malore. È stato in quel momento che è stato richiesto l’intervento dei sanitari del 118. Poco dopo il ricovero nella struttura sanitaria, però, sopravviene il decesso "per arresto cardiaco". Una tragica vicenda su cui la madre del ragazzo ha chiesto subito di far luce. Perché ha il diritto di sapere perché suo figlio non c’è più. "Secondo lei Stefano è sempre stato in ottime condizioni di salute - dichiara l’associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei carcerati - la Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo". Ora, a più di tre mesi di distanza dalla morte del 29enne, Simona Filippi, il difensore civico di Antigone sottolinea come ancora non si siano fatti passi avanti nell’indagine: "Sembra che Stefano stesse male già da qualche giorno prima della morte - dichiara Filippi - i periti nominati dalla Procura per riferire in merito alle ‘cause della mortè e a ‘eventuali lesioni interne o esternè, ancora non hanno consegnato la relazione. Questo è un dolore che si rinnova per i genitori". Secondo l’associazione, i cui osservatori avrebbero visitato la casa circondariale per un sopralluogo, "è emerso che all’interno del carcere di Pordenone il servizio medico non è garantito 24 ore su 24 ma soltanto fino alle 21, che esiste un’unica infermeria per tutto il carcere e che non ci sono defibrillatori". Una vicenda, quella di Stefano Borriello, che ancora non ha avuto una conclusione certa. E che quindi per forza di cose induce la madre del giovane a cercare ancora la verità: "Chiedo che le indagini arrivino a risultati certi rispetto a eventuali responsabilità e che da subito vengano finalmente rese note le cause cliniche che hanno portato alla morte di Stefano", conclude il difensore civico Filippi. Trento: rilasciati due dei 17 presunti jihadisti. Il Procuratore "nessun errore, è la legge" trentotoday.it, 21 novembre 2015 La Procura di Trento non ha confermato l’ordinanza emessa da Roma per sette dei 17 arrestati nel blitz dei Ros, in realtà solamente due dei presunti jihadisti meranesi escono dalle carceri di Trento e Bolzano. Uno dei due avrebbe detto, durante l’interrogatorio di garanzia, di essere finito nel "giro" per interessi puramente religiosi. Ha suscitato scalpore la decisione della Procura di Trento di non confermare le ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dalla Procura di Roma per sette dei 17 presunti terroristi arrestati nel blitz dei Ros della settimana scorsa. Le accuse rimangono e nessuno esce dall’inchiesta, ma "non sussistono i presupposti gravi, tali da richiedere esigenze cautelari" ha spiegato il Procuratore Amato in una conferenza stampa convocata oggi a Trento proprio per fare il punto della situazione dopo le reazioni di quotidiani ed opinione pubblica, "con assoluta serenità, come dev’essere svolto il lavoro di un magistrato" ha aggiunto. Va ricordato che dei sette "scarcerati" in realtà solamente due escono dal carcere, precisamente dalle case circondariali di Trento e di Bolzano. Resta in carcere il presunto capo della cellula meranese, Abul Rahman Nauroz. Tre persone per cui non è stata confermata l’ordinanza di custodia cautelare risultano, come al momento dell’esecuzione degli arresti, irreperibili; un altro membro è considerato morto in Iraq nel 2014 ed una quarta persona è già in carcere in Gran Bretagna. Uscirà dal carcere di Trento Hama Mahmoud Kaml, 31 anni, e da quello di Bolzano Mohamad Fatah Goran, 29 anni, che pare abbia dichiarato, nell’interrogatorio di garanzia, di essere finito nel "giro" di Nauroz con intenti puramente religiosi. Nessun errore di trascrizione dunque, come scritto da alcuni quotidiani per i quali il Procuratore ha già annunciato una probabile querela, ma "una valutazione caso per caso delle singole posizioni - queste le dichiarazioni di Amato raccolte dall’Ansa regionale - Voglio ricordare che la legge è uguale per tutti". Quanto ai risvolti delle indagini eseguite dai Ros nel corso di cinque anni il Procuratore capo di Trento specifica: "Non possono essere solo il contatto o la rappresentazione del pensiero a sostanziare il reato". Spetterà al gip di Trento, Francesco Forlenza, l’esame delle posizioni di altre dieci persone, per le quali la misura richiesta da Roma è stata invece confermata. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): il direttore "in carcere molti buoni, i cattivi veri fuori" di Antonello Caporale Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015 Intervista a Massimiliano Forgione, direttore della Casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi (Av): "chi lavora può essere reinserito". In questo brutto tempo c’è un’altra generazione di "cattivi" da tenere a bada, una tribù interna a ogni società. Massimiliano Forgione dirige la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av), un carcere modello per via di una strategia che fonda sul lavoro la responsabilità del detenuto e la sua rieducazione. Lei, direttore, quanti minuti ci impiega per capire se l’ospite è un cattivo vero o un povero cristo? "Basta davvero poco. Non solo perché ogni ospite è accompagnato dal fascicolo giudiziario, la sua biografia. Il suo comportamento e la sua pericolosità si misurano nel giro di poche ore". Componga un catalogo dei cattivi. "Quelli di primo livello, il più basso, sono coloro che alla vista di una cella danno in escandescenze. La vita da reclusi è sottoposta a delle regole, e non potrebbe essere diversamente. Loro sistematicamente le rifiutano. Non vogliono rifarsi il letto, rifiutano di tornare in cella, provocano liti o solo fanno baccano, disturbano i coinquilini. Sono boriosi, vivono nel mito del guappo. Ma non sono pericolosi". Il cattivo cattivo, invece? "È quello che adotta un comportamento formalmente ineccepibile ma instaura una scala gerarchica immediatamente visibile. Ha chi gli sistema il letto, chi gli cura il guardaroba, chi seleziona per lui il meglio della cena. È un capo, e lo si vede dalla biancheria che indossa, dal boxer di seta, dai pacchi alimentari che custodiscono profumi di pregio, maglioni di cachemire". Il cattivo si presenta al carcere nella sua veste di dominante. "Un giorno ero a Spoleto, visitai la cella di Pippo Calò che mi disse: in Italia ci sono solo due Pippo. Io e Pippo Baudo. Si sentiva un re, e lo dava a vedere. Se parliamo di un dirigente intermedio della catena criminale, egli rifiuterà di fare i lavori più umili (spazzare per esempio) e attenderà che gli venga affidato un incarico all’altezza della sua fama. Lo spesino, per esempio. Lo spesino è colui che raccoglie le richieste dei singoli detenuti di un sopravvitto. Ciascuno può avanzare richieste particolari su cibi e vestiario, naturalmente paga lui". E i soldi chi glieli dà? "Escludendo chi è ricco di suo, ricordo che i detenuti hanno la possibilità di lavorare. Produciamo un ottimo vino, facciamo miele, abbiamo una tipografia, una carrozzeria, una stireria". Quanto ricava dal suo lavoro? "Circa 700 euro mensili al netto di trattenute che l’amministrazione fa per il costo del vitto (3 euro al giorno) e del l’accantonamento di un quinto del salario (circa 120 euro al mese) come fondo di reinserimento. Alla sua liberazione si troverà un gruzzoletto per fare fronte alle prime necessità". Il carcere che descrive sembra un soggiorno civile. Ma le carceri sono spesso luoghi in cui la ferocia si manifesta quotidianamente. "Parlo del mio carcere, che ha dimensioni contenute e non ospita detenuti condannati per delitti di particolare pericolosità. Certo che la vita da noi è diversa da quella di Poggioreale o di San Vittore. Sappia però che negli ultimi anni la popolazione carceraria è diminuita di quasi 20 mila unità, finalmente stiamo andando verso un rapporto equilibrato tra il numero dei reclusi e i metri quadrati a loro disposizione". Negli ultimi anni i cattivi sono divenuti più buoni? "La legislazione è cambiata. Chi entrava ora non mette piede". Cattivo a piede libero. "Molti di quelli che soggiornavano nelle carceri erano persone disperate, ai margini della società. Non pericolosi gangster ma delinquenti di piccolo calibro". E i buoni? Anche i buoni frequentano le carceri? "Anche loro. È gente che non sa far di conto con la sua vita, che dimentica di impugnare una sentenza, che per disgrazia o povertà ha un avvocato approssimativo. È gente superficiale o solo piegata dalla crisi economica". I figli della crisi. "Mi sono ritrovato nella sala accettazioni un piccolo imprenditore che è finito dentro per il mancato versamento dei contributi previdenziali ai suoi dipendenti, pensi un po’. Per far fronte alla crisi per anni ha scelto di pagare il netto. È stato denunciato. E lui quasi non se ne è accorto. Ha lasciato che la condanna in primo grado, modesta nell’entità (otto mesi di reclusione), venisse confermata in appello. Non ha richiesto la misura alternativa al carcere dimenticando che aveva già usufruito della sospensione condizionale della pena intervenuta anni prima per altri reati di poco conto. Così una mattina i carabinieri hanno bussato alla porta e lo hanno portato qui. Ero disperato io per lui". La colpa di essere un debole. "Abbiamo cercato di fargli trascorrere quel tempo, per fortuna pochi mesi, nel modo più accettabile". Il carcere redime? "Se le dicessi sì sarei un bugiardo. Troppi ritornano. Ma anche se le opponessi un no farei un danno alla verità. C’è chi capisce". Il cattivo capisce? "A volte anche il cattivo capisce che gli conviene essere buono". Nuoro: il caso Badu e Carros finisce sul tavolo del ministro Orlando La Nuova Sardegna, 21 novembre 2015 Il senatore Giuseppe Luigi Cucca presenta un’interrogazione. "L’organico degli agenti è carente a Nuoro e in tutta l’isola". "Un uomo isolato culturalmente, linguisticamente, socialmente, e la struttura non è in grado garantire quei diritti inviolabili, che anche in un luogo di pena e rieducazione come il carcere, sono garantiti per Costituzione". A portare alla ribalta nazionale il caso del detenuto cinese recluso a Badu e Carros è il senatore nuorese Giuseppe Luigi Cucca. Il parlamentare del Pd ha appena presentato una interrogazione (firmata anche da altri suoi colleghi) a risposta scritta al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Oggetto: "La precaria condizione in cui versano le carceri della Sardegna". Tanto precaria che "il detenuto di nazionalità cinese ha tentato di togliersi la vita, gesto poi evitato dalla prontezza della polizia penitenziaria, che in forte carenza d’organico devono far fronte in continuazione a episodi di questo tipo" sottolinea ancora Cucca. Se da una parte è evidente il disagio patito dai detenuti (e conseguentemente anche dai loro familiari), altrettanto evidente, dall’altro, è l’affanno che opprime gli agenti. "Il carcere di Badu e Carros - sottolinea il senatore - da anni lamenta una forte carenza nell’organico alla quale neanche l’enorme impegno del corpo di polizia penitenziaria può far fronte". Giuseppe Luigi Cucca ricorda al ministro che "è un atto di civiltà, oltreché di risparmio per le casse dello Stato, adeguare le strutture detentive alle normative vigenti in materia". Basti pensare alle ripetute condanne e sanzioni inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni di vita dei detenuti e delle carceri. E se soffrono quelle italiane in genere, le carceri sarde non sono certo da meno. Cucca, tanto per fare un esempio, porta il caso del detenuto cinese a Badu e Carros. Come pure il caso Oristano: "Nel carcere di Massama - segnala il parlamentare - il sovraffollamento è divenuto tale da seguire a legittimare le sanzioni che l’Europa impone, a fronte delle condizioni precarie in cui versano i detenuti, aumentando il numero di letti di un terzo e mantenendo i medesimi spazi". E inoltre: "Nel medesimo carcere pare siano stati cambiati gli orari per le visite dei parenti, diminuendo di fatto la possibilità delle visite da parte dei familiari, che unitamente all’inasprirsi delle condizioni e quindi anche dello stato emotivo dei detenuti, rende il percorso rieducativo nella struttura fortemente compromesso". Cucca chiama in causa il ministro per sapere "se non sia opportuno riequilibrare le piante organiche delle carceri sarde, favorendo la tutela dei detenuti e dei corpi di polizia stessi; se non sia necessario intervenire affinché nel carcere di Massama siano garantiti i diritti dei detenuti, intervenendo direttamente e tempestivamente; se non ritenga urgente dar luogo a un azione di riordino generali delle carceri sarde, in modo tale da dar seguito ai principi Costituzionali e di diritto che questo Paese riconosce ai detenuti e ai lavoratori e alle forze dell’ordine impegnate nelle strutture". Genova: nuova dirigenza a Marassi, Maria Milano sostituisce Salvatore Mazzeo genovapost.com, 21 novembre 2015 Sarà una donna a guidare il carcere di Marassi al posto di Salvatore Mazzeo che andrà ad occuparsi della gestione del personale del Provveditorato competente per le carceri di Piemonte e Valle d’Aosta: si tratta di Maria Milano che ha alle spalle la direzione delle case circondariali di Pontedecimo e Chiavari oltre al ruolo di provveditore vicario della Liguria. Il cambio di guardia a Marassi è stato svelato con un comunicato da Donato Capece, segretario generale del sindacato Sappe degli agenti penitenziari: "Auguriamo a lui ogni fortuna: è stato un dirigente serio e motivato ed innovatore che gode della stima di tutti i poliziotti di Marassi". Incarico - Mazzeo, durante il saluto agli agenti ha dichiarato: "Sono molto soddisfatto perché andrò a ricoprire un incarico di grande prestigio, anche se mi sarebbe piaciuto continuare a lavorare a Marassi per portare a termine alcuni progetti". Trani: con il progetto "Ripartiamo dalla pasta" un nuovo inizio per undici detenuti coratolive.it, 21 novembre 2015 Si è conclusa ufficialmente con la consegna degli attestati di partecipazione la terza edizione del progetto di riqualificazione sociale rivolto ad alcuni detenuti di Trani e ideato da Granoro e Factory del Gusto. Ieri mattina ai detenuti del Penitenziario maschile di Trani sono stati consegnati gli attestati di partecipazione progetto di riqualificazione sociale "Ripartiamo dalla pasta". Oltre alla direzione del Penitenziario tranese (Bruna Piarulli, direttrice del penitenziario tranese; Elisabetta Pellegrini, responsabile area trattamentale; Felice Nazzareno De Pinto vice commissario; Paola Ruggieri, direttore Uepe) hanno preso parte alla conclusione del progetto Marina Mastromauro amministratore delegato dell’azienda Granoro, Salvatore Turturo direttore della Factory del Gusto e Paola Pisicchio responsabile del Presidio del Libro di Corato. Dopo due esperienze vissute insieme alle detenute del carcere femminile di Trani, il carcere maschile di Trani è stato protagonista di uno stimolante progetto che ha visto attivi in prima linea i detenuti attraverso un percorso formativo in cui cibo e letteratura si sono uniti con l’obiettivo di dare nuovi stimoli e un rapporto consapevole con l’ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale a chi dopo aver scontato la propria pena, cercherà di reinserirsi nella società. Il progetto, pensato e ideato da Granoro e Factory del Gusto, una scuola di cucina con sede a Molfetta, già sperimentato con successo nel 2013 e nel 2014 presso il penitenziario femminile, si è riproposto l’obiettivo di fornire attraverso un percorso di riqualificazione numerose opportunità di sviluppo favorendo l’acquisizione di competenza, professionalità e qualità nel settore del food e in quello pastario (un alimento consumato quotidianamente in tutta Italia) grazie alla presenza di importanti aziende come Granoro. "Ripartiamo dalla pasta" è stato proposto a undici detenuti del penitenziario tranese. Il percorso, articolato con sei lezioni teoriche e pratiche tenute dai tecnici dell’azienda Granoro e dai cuochi della Factory del Gusto (svoltosi nel mese di maggio, per sei settimane), ha avuto la finalità di formare i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca di semola di grano duro nell’ottica finale di far comprendere le caratteristiche intrinseche del prodotto per una migliore rielaborazione dello stesso nel momento della sua preparazione. Inoltre ha avuto l’obiettivo di creare formazione specializzata in campo alimentare, migliorare l’autostima e l’immagine di sé, individuale e di gruppo, costruire una conoscenza accademica più approfondita intorno al tema dell’alimentazione. Per la terza edizione un prezioso alleato si è aggiunto per completare il percorso di formazione, prima di tutto culturale, dei detenuti: grazie al Presidio del Libro di Corato, istituzione che si propone di sperimentare nuove forme di coinvolgimento dei lettori e di promozione dei libri, soprattutto nei momenti e nei luoghi in cui mai ci si aspetterebbe di incontrarli, i detenuti hanno avuto la possibilità di leggere alcuni stralci tratti da saggi di libri dedicati all’alimentazione, selezionati a cura di Angela Pisicchio, responsabile del Presidio del Libro di Corato che ha contribuito in modo determinante alla riuscita di questa edizione. Durante la toccante cerimonia di consegna degli attestati è stata proposta ai partecipanti una lettura dello scrittore Luca Bianchini, tratta dal suo celebre libro "Io che amo solo Te". Imperia: detenuti al lavoro a Baitè, un progetto tra Comune, carcere e società sportive sanremonews.it, 21 novembre 2015 Quattro detenuti si recano regolarmente al campo, dove si svolgono partite e allenamenti delle società di rugby e tiro con l’arco, occupandosi di lavori di pulizia, tracciatura del campo, pavimentazione di una tensostruttura, pulizia di fasce e olivi e sfalcio d’erba. Detenuti al servizio della collettività. È il progetto che stanno portando avanti da alcuni mesi il carcere di Imperia e Sanremo, il Comune di Imperia e le società Imperia Rugby, Union Rugby e Arcieri Imperiesi per la manutenzione del campo di Baitè. Il progetto è stato presentato questa mattina alla presenza del Sindaco di Imperia Carlo Capacci, dell’Assessore all’Arredo Urbano e Verde Pubblico Maria Teresa Parodi, del Presidente dell’Imperia Rugby Luigi Ardoino, del Direttore Tecnico di Imperia Rugby Alessandro Castaldo, del rappresentante della Federazione Italiana Rugby e Consigliere del Comitato Regionale Ligure Giovanni Visco, del rappresentante di Riviera School of Rugby, che comprende Imperia Rugby, Sanremo Rugby e Union Riviera Rugby Marco Podestà, del Presidente degli Arcieri Imperiesi Giuseppe Barbarino, del responsabile del progetto Gandalini e del direttore del carcere di Imperia e Sanremo Francesco Frontirrè. Rimini: dimissioni Garante detenuti. Il vicesindaco Lisi "non per soldi, mancava serenità" altarimini.it, 21 novembre 2015 Sul caso delle dimissioni di Davide Grassi da Garante per i diritti dei detenuti, avvenute lo scorso 7 luglio, interviene il vicesindaco Gloria Lisi che intende far chiarezza sulla figura di Grassi alla casa circondariale riminese. Grassi "ha sempre cercato di fare gli interessi delle persone private della libertà personale nel legittimo esercizio delle funzioni attribuitegli proprio dal Comune di Rimini sulla base di un’accurata selezione dei necessari requisiti professionali" sottolinea Lisi. Il vicesindaco continua ammettendo che le "vedute sulla organizzazione dell’ufficio" erano "diverse", ma mai sono state fatte allusioni a "condotte scorrette, addirittura illecite da parte di Grassi. E lo stesso Grassi, aggiunge, "non ha fatto pressioni sotto diverse forme affinché’ venissero sborsate somme di denaro in suo favore per il suo incarico". Dunque nessuna motivazione economica nelle dimissioni. Da imputare all’ex Garante l’inaccettabile critica sulla "insufficiente collaborazione e mancata predisposizione di risorse", ma comunque conferma di avere "grande stima" nei confronti di Grassi. "Purtroppo - conclude - ha maturato con il tempo la scelta di rassegnare le proprie dimissioni perché riteneva di non avere gli strumenti adatti per operare in serenità e l’amministrazione ha dovuto prenderne atto, pur ringraziandolo per l’opera resa nei precedenti mesi". Parma: maltrattamenti a un detenuto, sospeso un agente di polizia penitenziaria La Repubblica, 21 novembre 2015 Botte, umiliazioni e maltrattamenti a un detenuto: individuati dalla Procura i due presunti responsabili. Misura cautelare per uno di loro, che ha fatto parziali ammissioni. Per tre giorni avrebbero sottoposto un detenuto a botte e pesanti umiliazioni, fino a fargli subire un duro pestaggio. Sono stati identificati dalla Procura i due agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di via Burla che si sarebbero macchiati dei reati di lesioni e maltrattamenti ai danni di un ingegnere italiano accusato di violenza sessuale su minore. Entrambi sono indagati e per uno dei due il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per un anno. Il pm Giuseppe Amara, titolare del fascicolo d’inchiesta, aveva chiesto la custodia cautelare agli arresti domiciliari. I fatti erano stati resi noti da un servizio in esclusiva dell’Espresso uscito il mese scorso. Quanto denunciato del Garante dei detenuti del Comune di Parma ha trovato precisi riscontri nell’attività d’indagine affidata dal sostituto procuratore alla Squadra mobile e alla polizia giudiziaria del corpo di polizia penitenziaria. Tra il 4 e il 6 aprile di quest’anno il detenuto è stato picchiato duramente, costretto a rimanere in ginocchio in cella per ore e lasciato senza cena per tre giorni. Una "punizione" ulteriore per un reato considerato infamante, gli abusi sessuali su minori. Dopo il pestaggio, costatogli grossi lividi alla schiena e al volto, l’uomo è stato trasferito nel carcere di Piacenza. Il Garante ha fatto partire un esposto e la Procura di Parma ha avviato un’indagine. I due agenti individuati come i responsabili delle violenze sono stati interrogati nei giorni scorsi dal pm Amara. Uno dei due ha fatto parziali ammissioni in particolare sulle lesioni, cercando di ridimensionare l’accaduto. La posizione dell’altro è ancora sottoposta ad accertamenti. Entrambi rimangono iscritti nel registro degli indagati per i reati di lesioni e maltrattamenti. Come detto il pm aveva chiesto i domiciliari per l’agente che ha ammesso i fatti, un 40enne italiano. Il gip ha ritenuto sufficiente la sospensione dal servizio. Bergamo: "Spazio" dal carcere, la voce dei detenuti in una rivista che è diario bergamonews.it, 21 novembre 2015 Debutto giovedì 19 novembre per la rivista "Spazio", un diario prodotto dai detenuti del carcere di Bergamo, che raccoglie i pensieri e le emozioni che ogni detenuto ha deciso di condividere con i lettori. Durante la conferenza Paola Suardi, dell’agenzia Alterego-Informa che si è occupata del concept grafico - ha illustrato l’obbiettivo che funge da radice al progetto: "Come creare un ponte tra "sbarre" e società esterna? La rivista è il metodo diretto che meglio può coinvolgere il lettore e spingerlo ad interessarsi a questo tipo di formazione collettiva. Il nome donato al progetto è semplice e chiaro. La "o" che si apre è stata scelta perché la rivista è un diario "aperto", può anche simboleggiare due sbarre che si allargano". Nessun immagine è presente nella rivista, solo pochi colori ma tanti "caratteri" che accentuano le sfumature delle esperienze di ogni carcerato. Le ore di laboratorio previste sono 180, durante le quali sono stati prodotti due numeri della rivista. Il primo numero ha fruttato la stampa di 500 copie mentre il secondo 1000. Adriana Lorenzi, autrice e collaboratrice diretta del progetto pone all’uditorio una domanda di rilevale importanza: "la pena ha un fine ma qual è la fine della pena?" Le persone detenute prima o poi ritorneranno in libertà. Tutti sanno che la pena ha una fine. La città si illude di chiudere il male in carcere, ma durante la detenzione l’educazione è il miglior modo per disabilitare l’illegalità. Anche i carcerati sono umani e hanno il diritto di avere salva la loro dignità. "Spazio" è l’unica occasione che hanno i detenuti di parlare dei loro problemi, di sfogarsi e di migliorare loro stessi. Il direttore del carcere Antonino Porcino conferma le parole di Adriana Lorenzi e aggiunge: "Il carcere ha il compito di sostenere e affiancare. Se noi rompiamo opportunità non diamo responsabilità". Perciò lo Stato si impegna ad offrire questo percorso di rieducazione all’interno del carcere perché l’uomo del reato non è l’uomo della pena. Sottolineare come il lavoro, la scuola, la comunicazione con i famigliari siano diritti comuni a tutti gli uomini, ovviamente senza dimenticare il reato compiuto e le persone danneggiate. La pena può assumere diversi significati giuridicamente parlando, essi vengono codificati in una sentenza di condanna, l’articolo 27 della costituzione invece sottolinea il vero significato della parola, quello della prevenzione sociale ovvero sul piano educativo. Il progetto della rivista è stato approvato da benefattori come l’assessorato del comune di Bergamo tra cui Loredana Poli la quale specifica perché il comune sostiene questo progetto. La scuola è un sistema educativo anche per adulti, le sue finalità sono quelle di creare un collegamento con enti esterni come le scuole superiori e provare a favorire una crescita personale degli individui che raccontano. Inoltre il segretario generale della Fondazione Credito Bergamasca, Angelo Piazzoli, spiega come è stata accolta la richiesta d’aiuto intervenendo con un contributo significativo per dare continuità alla rivista. Televisione: "Fuori", le storie dal carcere di Rai 3 di Barbara Conti avantionline.it, 21 novembre 2015 Rai Tre, il 16 novembre scorso (ma presentato domenica 15 in anteprima alla nona edizione del Roma Fiction Fest), ha mandato in onda un cortometraggio con Isabella Ragonese nei panni di una detenuta che riceve una giornata premio fuori dal carcere per il suo compleanno; ne approfitterà per riallacciare il legame con sua figlia, Zoe (Lisa Ruth Andreozzi), che nel frattempo è cresciuta. Tratto da una storia vera, si ispira a quella personale di Agnese Costagli. "Fuori", infatti, questo il titolo del cortometraggio tutto al femminile per la regia di Anna Negri, riprende il racconto della carcerata risultato finalista al Premio Goliardia Sapienza 2014. Lo scorso anno fu la volta di "Malavita" con Luca Argentero, quest’anno Rai 3 lo ha voluto mandare in onda, in duplice orario alle 20:10 e alle 23:30, nella stessa data in cui si sarebbero conosciuti i "vincitori" di dell’edizione 2015. Tra l’altro Luca Argentero, nei panni di tutor, è stato nuovamente presente nell’antologia in cui sono raccolti i 25 racconti finalisti (oltre alle introduzioni dei rispettivi tutor appunto): "All’inferno fa freddo - Racconti dal carcere" Rai Eri, di cui è curatrice l’Assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili Lidia Ravera. "Storia di un’amicizia vissuta nel chiuso di un carcere, raccontata con la tenerezza e la compassione di chi crede che quel sentimento e quella vicinanza possano più di ogni pena e di ogni errore. Merito dell’autore è quello di sondare la psicologia dei protagonisti rendendoli da subito familiari al lettore": questa la motivazione per il terzo classificato (nella categoria "adulti") Biagio Crisafulli con il racconto "Diario di una lunga morte" (tutor Luca Argentero appunto). Donna anche l’ideatrice del progetto Antonella Bolelli Ferrera. Per quanto riguarda "Fuori", oltre all’attrice protagonista femminile Isabella Ragonese, oltre alla regia sempre "in rosa" di Anna Negri, è al femminile anche la produzione di Laurentina Guidotti e di quella Rai nella persona di Lorenza Bizzarri. Un racconto che di piccolo ha solo il formato perché, in tempo breve, riesce ad entrare dentro gli animi delle protagoniste, hanno voluto evidenziare loro stesse. importante per parlare di temi sociali da fuori, che vengono dal di dentro, dall’interno (di un carcere, di un’anima di una persona sola, della sua solitudine e isolamento). "Mi ha colpito l’ironia di Agnese, ma anche della figlia, perché parlano di se stesse e di cose dure e tristi senza fare pietismo; anzi ridendo di sé. Soprattutto il cortometraggio mostra come fossero prigioniere anche molte persone fuori dal carcere", ha affermato la regista. "Questa detenuta è quasi come un viaggiatore che torni a casa", ha voluto riflettere in merito Isabella Ragonese. "Il suo sguardo con cui vede la realtà è diverso, come fosse ritornata da un lungo viaggio. È stato difficile interpretare Agnese - ha confidato l’attrice - per vari motivi; avevo visto solo una sua foto e letto il suo racconto bellissimo; esso mi colpì come il suo sorriso e la sua vitalità, che non volevo tradire. Per me è una storia che ha a che fare con la distorsione e la dilatazione del tempo, scandito da riti e orari sempre uguali nel carcere. Questa giornata particolare di libera uscita che ha ricevuto in premio è quasi una macchina del tempo che la proietta nel futuro, facendola tornare all’origine del suo passato, per affrontarlo nel presente e per proseguire nel futuro poi. In questo è pregnante l’ambiguità del titolo: cos’è il dentro e cosa il fuori. In un luogo non luogo come il carcere sei più legato/a alle tue origini, al tuo dentro, mentre il mondo fuori cambia. Abbiamo coinvolto - ha aggiunto Ragonese - delle vere detenute durante giornate ricche di umanità e di una densità enorme. Mi è sembrato che fossero contente che le rendessimo visibili. Ho sentito come se mi affidassero la loro storia per raccontarla. Durante l’incontro con Agnese, poi, ho sviscerato tutti i miei dubbi; soprattutto, però, mi ha lasciato un’enorme energia di una persona vitale. Conta la loro umanità di persone comuni ed esseri umani, prima ancora che detenuti. Fare un film su di loro è una cosa preziosa, che mi ha dato grande gioia. Il film ha il sapore di un ricordo, è poetico. Non si vive la durezza del carcere, ma c’è una delicatezza con cui vengono trattate anche le cose più dure, come lo stare in carcere per otto anni e non vedere la propria figlia. Riesce a farlo con ironia e leggerezza", quasi che la Agnese vera abbia sublimato il dolore con l’arte della narrazione e del racconto. Tanto che dispiace quasi che finisca. Pertanto, visto il successo di entrambi questi due prototipi (Malavita e Fuori), "si sta già pensando di farne un pilot, un serial al dentro di una realtà quale la detenzione. C’è già una serie americana che affronta tali temi e lo si potrebbe ambientare in un braccio femminile in cui non vi siano solamente donne detenute, ma anche guardie penitenziarie, anch’esse a loro modo un po’ detenute", ha annunciato la produttrice Laurentina Guidotti. In questa direzione spingono anche le nomine di due direttrici donne dei carceri di Rebibbia e di Civitavecchia (da pochi mesi). Si tratta di scelte di coraggio. Come intima e profonda, priva di didascalismo o retorica, è quella di Agnese. "Spesso quella dei penitenziari è una realtà che ignoriamo. Gettare uno sguardo più approfondito ed esplorare più a fondo questo universo farebbe aprire gli occhi anche al pubblico su questo mondo", ha concluso Guidotti. Anna Negri poi ha voluto rivolgere un pensiero alla maturità della co-protagonista giovane: Zoe (Lisa Ruth Andreozzi), di soli 13 anni. Con cui si è instaurato subito un clima familiare, ha confessato Isabella Ragonese. "Si è creato un clima di complicità, anche perché tutto lo staff era quasi interamente di donne. C’è stata una maniera di affrontare il tutto con un’attenzione e una sensibilità tipiche femminile. Da subito poi mi ha preoccupato il fatto che Zoe/Lisa Ruth potesse essere troppo grande per un personaggio di giovane madre come quello mio di Agnese. Tuttavia, presto, mi sono resa conto che la poca distanza di età che c’era tra le due ha permesso ad entrambe di essere molto protettive l’una con l’altra: a volte non si capiva chi era la madre e chi la figlia. Fino a che, nel finale, addirittura, si confidano come amiche, quasi dandosi consigli ed aiutandosi a vicenda". Questo è il nuovo scenario che si apre di fronte a loro, la loro nuova conquista e scoperta, il futuro che intravedono per loro. Nonostante la strada sia ancora in salita, lunga e difficile, piena di intemperie e ancora troppo presto per ricominciare. Eurogendfor, la polizia robusta dell’Unione europea di Checchino Antonini Left - Avvenimenti, 21 novembre 2015 Eurogendfor, la Gendarmeria europea, è un corpo militare che gode di ampia immunità e autonomia. E agisce militarmente per contrastare flussi migratori, terrorismo e conflitti sociali. "Polizia robusta", la chiamano gli addetti ai lavori. Eurogendfor è un ibrido tra polizia e forza armata. Chi studia queste dinamiche da tempo mette in guardia dai processi di militarizzazione dell’ordine pubblico e di trasformazione della guerra in operazioni di polizia. La notizia più recente, oltre alla celebrazione il 19 ottobre del compleanno del corpo, è il cambio della guardia, l’estate scorsa "nella incantevole cornice della caserma Chinotto di Vicenza", tra il colonnello della Guardia civil spagnola Francisco Esteban Perez e il subentrante, colonnello della Gendarmeria nazionale francese Philippe Rio, che sarà il sesto comandante di Eurogendfor. Su cose del genere, Egf, è piuttosto prolissa: sappiamo di figuranti in uniformi storiche, di una "toccante" deposizione di una corona "portata da due militari donna della Guardia civil e scortata da due carabinieri, sulle note di una stupenda Marcia spagnola, dal titolo "La morte non è la fine"". Sappiamo che "movimenti, lenti e solenni, di un’eleganza composta ed austera, hanno lasciato tutti i presenti senza parole". Sappiamo pure che a luglio, a Capri, furono notate pattuglie formate da carabinieri e Guardia civil: una sperimentazione di "Comisarias Conjuntas" sotto l’egida di Egf, un pattugliamento misto estivo per "garantire sicurezza ai turisti nei luoghi di maggiore affluenza dei due Paesi con il supporto di personale che parli la lingua del turista. Tra le funzioni degli operatori il pattugliamento a piedi o in macchina, il sostegno alle vittime di reato, la prevenzione della criminalità e l’assistenza nella presentazione di denunce". Così com’era avvenuto già l’anno prima a Madrid, Malaga, Ibiza, Formentera, Roma, Firenze, Venezia, Sorrento, Amalfi e Capri. Questa sorta di Erasmus in divisa e le sue cerimonie nell’incantevole cornice, però, non spiegano granché di Eurogendfor. Di cui continuiamo a non sapere quasi nulla se non che è stata, ed è tuttora, attivissima in Afghanistan, Haiti, Bosnia Erzegovina e nelle recentissime missioni in Mali e nella Repubblica Centro-africana. All’interno dell’Ue, poi, più volte in Grecia è stata denunciata la presenza di uomini dell’Egf nelle piazze greche del 2010, per "inquinare" il clima degli scioperi generali contro la Troika, ma a quelle denunce non è mai seguito alcun riscontro. Dove, invece, si incontra con certezza la Gendarmeria è laddove si contrastano i flussi migratori, il terrorismo, i conflitti sociali, sempre "in un clima di cameratismo e cooperazione", come spesso rivendica - ma mai scendendo nei dettagli - l’ufficio stampa del comando Egf. Niente. L’aura di mistero si fa sempre più fitta. Perfino negli ambienti della polizia di stato c’è chi si mostra guardingo verso un’organizzazione "con dei tratti a volte poco definibili, oppure fin troppo definiti e forti" commenta un dirigente del sindacato di polizia Consap: "Certamente non si tratta di un’istituzione di beneficenza, ma di una polizia militare. Che gode di ampia immunità e autonomia. Ma il punto è, autonomia da chi?", si chiede l’agente, preoccupato per la possibilità che "un’organizzazione di polizie militari" intervenga in ordine pubblico "quando esistono già numerosi ed efficaci strumenti di polizie miste che se ne occupano già con un elevato grado di professionalità e competenza". Egf risponde agli ordini del Cimin, il Comitato interministeriale formato dai ministri degli Esteri e della Difesa dei Paesi membri dell’Unione. È un organo, perciò, che obbedisce ai governi e non ai Parlamenti nazionali democraticamente eletti. Quindi Egf può "sostituire o rafforzare le forze di polizia" oltre che "condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale". I locali e gli edifici di Eurogendfor sono inviolabili, le autorità non possono entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante. Anche gli archivi sono inviolabili come pure corrispondenza, manoscritti, fotografie, film, registrazioni, documenti, file o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Egf, ovunque siano essi ubicati. E ancora, le proprietà, i capitali e i beni messi a sua disposizione per scopi ufficiali sono immuni da qualsiasi provvedimento esecutivo, indipendentemente dalla loro ubicazione e dal loro detentore. Com’è possibile? I Paesi firmatari - con il Trattato di Noordwijk del 17 settembre 2004 e il trattato istitutivo firmato nel 2007 a Velsen, in Olanda - hanno rinunciato, con il Trattato, a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni. Pertanto, i membri della Gendarmeria non possono subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti per un caso collegato all’adempimento del loro servizio. Il corpo di Egf può contare su 800 uomini mobilitabili in trenta giorni, più una riserva di altri 1.500. Gli Stati membri coinvolti sono Italia, Francia, Olanda, Portogallo, Spagna, dal 2007 Romania e Polonia come partner e Turchia come osservatore (inizialmente l’idea era piaciuta anche a Slovenia, Gran Bretagna e Grecia). Ma la partecipazione è aperta alle forze di polizia militare appartenenti anche a Paesi extra europei. L’intoccabile Eurogendfor è irraggiungibile anche da qualsiasi tribunale civile per danni procurati dai suoi membri. Inutile aggiungere che intoccabile e autoreferenziale è anche il Cimin. Egf, in queste condizioni, può condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, nonché esercitare funzioni di monitoraggio, controllo e indirizzo finanche sull’operato delle forze di polizia locali, sino a poter determinare o influenzare perfino il corso delle indagini penali, senza doverne rendere conto ad alcuna autorità giudiziaria dello Stato. L’Incantevole cornice", parafrasando il cronista embedded della caserma Chinotto, è gestita dall’Arma con i fondi di Africom, come notato dal giornalista d’inchiesta Antonio Mazzeo. Dal dicembre 2008, il comando Setaf (Southern european task force) dell’esercito Usa di stanza a Vicenza ha assunto il nome di Us Army Africa, componente terrestre di Africom, l’organismo dello Zio Sam che sovraintende a tutte le operazioni di guerra nel continente africano. Vicenza ospita anche il principale centro di formazione strategica degli eserciti dei Paesi africani, spesso in testa nelle classifiche relative a crimini di guerra, violazione dei diritti umani, repressione di organizzazioni e movimenti sociali. Tutto ciò conduce Mazzeo a pensare alla famigerata "Scuola delle Americhe", quella che formò migliaia di ufficiali latinoamericani golpisti. In particolare, il Centro d’eccellenza per le stability police units (Co-espu), da marzo 2005 è ospitato da Egf presso la sede di Chinotto e sotto il comando della solita Arma. "Africom continuerà a mantenere stretti legami con il Centro d’Eccellenza di Vicenza", ha assicurato nel 2009 il generale William "Kip" Ward, del Comando Africom di Stoccarda. L’idea di dar vita al centro per la formazione, a Vicenza, di 3mila ufficiali e sottufficiali africani, sorse in occasione del vertice dei Paesi del G8 tenutosi nel 2004 a Sea Island, negli Stati Uniti. E dal 26 ottobre al 6 novembre, Eurogendfor ha organizzato e condotto alla Chinotto, proprio con il Coespu, il primo "Laboratorio di Progettazione per le Operazioni di gestione delle crisi", insieme a osservatori di Unione europea, Nato, Onu e singoli Paesi membri. La Gendarmeria affonda le sue radici nel clima della guerra globale, durante una riunione informale dei ministri della Difesa dell’Unione, a Roma l’8 ottobre 2003. All’epoca per l’Italia il ministro era Antonio Martino, forzista, allievo di Milton Friedman, ultraliberista della scuola di Chicago e ministro degli Esteri di Berlusconi. Martino sostenne la bufala che l’Iraq avesse acquistato uranio dal Niger, affermazione ripresa in un rapporto del governo Blair e citata da Bush per scatenare la guerra all’Iraq. Ma il trattato di Velsen venne firmato nel 2007 mentre era ministro degli Esteri di Prodi, Massimo D’Alema e mentre Vicenza nello stesso periodo diventava la capitale europea del movimento pacifista con la lunga lotta contro la nuova base Usa al Dal Molin. Infine, nel 2010, il nostro Parlamento ratificò quel trattato, all’unanimità. A morte già avvenuta della "seconda potenza mondiale", il movimento pacifista. Parigi verso il ripristino della pena di morte? di Pierangelo Maurizio Libero, 21 novembre 2015 Per affrontare la minaccia jihadista il presidente francese Hollande ritiene più adatto il coinvolgimento della giustizia militare. In Italia manca qualsiasi piano di emergenza. Tra le pieghe dei poteri speciali accordati al presidente Francois Hollande è scivolato anche un riferimento - giustamente non reso troppo esplicito - al "coinvolgimento della giustizia militare" nella guerra dichiarata all’Isis sul "fronte interno", cioè quello in casa. Nessuno pare averci fatto troppo caso. Ma è molto importante. Vuol dire che i reati previsti dal codice penale militare - per ora di pace, non ancora di guerra - dopo l’ultimo massacro sono ritenuti molto più adatti della giustizia ordinaria ad affrontare la minaccia dei jihadisti nelle nostre città. Significa anche che si è molto più vicini di qualche mese fa a infrangere un tabù: la pena di morte che ha resistito nei codici militari europei fino a tempi molto più recenti di quanto si pensi. I progetti di Marine. In Francia le esecuzioni capitali sono state abolite per volere del presidente Mitterand nel 1981. Dal 1995 si sono susseguiti almeno una ventina di progetti di legge, da parte di Marine Le Pen ma non solo, per reintrodurle: ora si vedrà. Pochi lo sanno, ma l’Italia, uno dei primi Paesi ad abolire nel 1948 la pena capitale, l’ha mantenuta nel codice militare tanto di pace che di guerra fino al 1994. E solo nel 2007, con Napolitano, nella Costituzione è stata cancellata la parte dell’art. 27 che continuava a prevederla. E adesso? Che contiamo di fare? Boh. Colpisce che in Italia tuttora, a parte i balbettii di Renzi e compagni, manca un qualsiasi piano di emergenza tipo quello francese. Ed è grave. È talmente evidente che un piano analogo è indispensabile nella malaugurata ma prevedibile ipotesi che ciò che è avvenuto a Parigi succeda anche da noi, come ci hanno promesso più volte. E stupiscono tanti commenti anche di osservatori acuti e incisivi come Sergio Romano che sul Corriere della Sera ha concentrato l’attenzione su un aspetto: il pericolo che i poteri speciali francese aumentino l’arruolamento di terroristi nelle banlieu. Sarà, ma è francamente marginale. L’intervento di mercoledì a Parigi ha dimostrato che se quei poteri fossero stati già in vigore, magari dopo le stragi di gennaio, la sera del 13 novembre sarebbero state risparmiate molte vite di innocenti. La velocità di reazione è decisiva nel limitare i danni. Poi, anzi prima, è fondamentale la prevenzione, la capacità di neutralizzare gli assassini prima che entrino in azione. E in questo è importante il "coinvolgimento della giustizia militare", passato sotto silenzio. I codici penali militari - anche quello italiano "di pace" in vigore - prevedono una serie di reati appunto militari che possono essere contestati non solo a chi porta una divisa ma anche a chi non la porta. E sono crimini che si attagliano perfettamente all’azione logistica dei jihadisti e dei loro supporter con cittadinanza francese (o italiana o belga ecc.) e - ancora meglio - ai foreign fighters di ritorno: dall’"intelligenza con il nemico", al procacciare notizie per compiere attentati, al fornire documenti e mappe, e contemplano pene molto pesanti in genere superiori ai 7-10 anni. Sono cioè gli strumenti giudiziari che, in tempi rapidi, possono aiutare - da soli non bastano - a svuotare il mare in cui nuotano i soldati del terrore. E veniamo alla pena di morte. La Convezione europea l’ha mantenuta in vigore (nei codici militari) fino al 2002. L’ha cancellata allora in una situazione ben diversa, anche se era un anno dopo l’attacco alle Twin Towers di New York che però ci sembrava così lontano. Scelta avvenuta sotto la spinta abrogazioni-sta in particolare dei radicali italiani. Ho sempre avuto simpatia per la loro azione e per "Nessuno tocchi Caino". Ma forse abbiamo avuto troppa fretta. Buona prevenzione Discorso difficile e delicatissimo. Personalmente sono contro la pena di morte, perché nessuno Stato degli uomini può arrogarsi i poteri del Padreterno. Ma siamo tutti buoni e per la pace. È facile esserlo e il politicamente corretto uccide più dei terroristi. Se il patibolo serve per salvare uno, cento, tanti agnelli sacrificali che non sanno neppure di esserlo, allora è diverso. In guerra, purtroppo, forse la pena di morte è indispensabile. Non come deterrente, già Cesare Beccaria dimostrò ampiamente che non serve sotto questo aspetto. Ma come prevenzione: se vogliono fare i martiri accontentiamoli, contemporaneamente salvando centinaia, migliaia di innocenti. Cominciare a rendercene conto è già un passo avanti. Importante. Il generale Hollande su tutti i fronti di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 21 novembre 2015 Francia. Non si placa la comunicazione ansiolitica di Valls: "Abbiamo ormai cambiato epoca". Hollande è su tutti i fronti, in attesa del voto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, nella notte, della risoluzione presentata dalla Francia che autorizza "tutte le misure necessarie" per combattere Daesh. Ieri, Parigi ha inviato 40 poliziotti d’élite a Bamako e con un messaggio il presidente ha invitato i francesi che risiedono in Mali (7200, più di 6mila nella capitale) a "prendere contatto con l’ambasciata" e "tutte le precauzioni" in una situazione dove "i terroristi vogliono segnare una volta di più la loro presenza barbara". Contemporaneamente, il generale Hollande ha deciso di intensificare i bombardamenti, in Siria, ma - ed è una novità - anche in Iraq. Di fronte al Senato, che ieri pomeriggio ha votato (dopo l’Assemblea la vigilia) il prolungamento per tre mesi dello stato di emergenza, Manuel Valls ha continuato con la comunicazione ansiogena: "ho una convinzione - ha detto il primo ministro - abbiamo cambiato epoca", e ha annunciato un aumento di altri 3mila militari nelle città di Francia, 1.500 in più solo per Parigi. Valls ha drammatizzato anche su Schengen, in discussione al Consiglio Interni a Bruxelles: "se non avanziamo in modo decisivo, Schengen non sopravvivrà". A Parigi è evocata la possibilità di un’esclusione della Grecia (non sarebbe un trauma, dicono, a differenza del Grexit sfiorato nei mesi scorsi), perché considerata non all’altezza per controllare le frontiere, sia con la Turchia che con la Macedonia. La Francia, che manterrà i controlli alle frontiere "fino a quando continuerà la minaccia terroristica", ha precisato il ministro degli Interni Cazeneuve, mette così in atto una contromossa per evitare che guadagni terreno la proposta olandese di limitare Schengen a un "nocciolo duro" (Benelux, Austria, Slovenia, Germania), con Parigi in una posizione intermedia (e l’Italia esclusa). Giornata tesa a Parigi ieri, a una settimana dal venerdì nero. Le vendite di biglietti per i concerti sono crollate dell’80%. Per la serata, c’era l’appello di "fare rumore e luce", facendo sentire la "musica che detestano", firmato dal mondo dello spettacolo e della cultura, da Charles Aznavour a Jack Lang e Gilles Kepel. Nel paese sono continuate le perquisizioni e i fermi. Il Prefetto della Yonne, ha imposto il coprifuoco dalle 22 alle 6 del mattino, per il week end nel quartiere sensibile dei Champs-Plaisants nel comune di Sens, dove ci sono stati vari arresti e la scoperta di armi nascoste. È proibita "la circolazione a piedi e in auto, salvo per i veicoli d’urgenza". 793 perquisizioni extragiudiziarie negli ultimi giorni, con numerosi sequestri di armi. Anche all’aeroporto di Roissy, dove ci sono stati controlli sul personale di Fedex, Air France Cargo, Servair, con la presenza di alcuni schedati "S" (rischio per la sicurezza). A Brest è stata perquisita la moschea dell’imam Abou Houdeyfa, salafista che denuncia la musica che "fa nascere il Male" (ma in realtà ha anche denunciato gli attentati). Ieri, nel giorno di preghiera i musulmani di Francia sono stati in prima linea. La Grande Moschea di Parigi era assediata da un numero consistente di poliziotti e militari. Perquisizione e controlli di documenti per entrare nella sala di preghiera. La manifestazione che avrebbe dovuto aver luogo dopo la cerimonia era stata annullata, per ragioni di sicurezza. All’interno, è stato letto un testo diffuso dal Consiglio francese del culto musulmano in difesa della "sacralità della vita": "l’islam autentico è a anni luce dall’ideologia di odio di questi criminali terroristi". Ma nel mondo musulmano non tutti sono d’accordo su questa iniziativa che avrebbe dovuto coinvolgere le 2300 moschee di Francia. Le autorità dell’islam sono considerate distanti e con poca credibilità. I fedeli di fronte alla Grande Moschea sono perplessi, non sanno come manifestare ad alta voce la distanza dai terroristi, hanno paura, temono facili amalgama. Degli intellettuali insistono sulla necessità di una riforma profonda della teologia islamica, ma hanno poca eco tra un pubblico appartenente alle classi popolari. Hollande ha ringraziato ieri il re del Marocco, ricevuto all’Eliseo, per "l’assistenza efficace" dopo gli attentati. L’inchiesta ha stabilito che Abaaoud, il "cervello" belga ucciso a Saint-Denis mercoledì, ha effettivamente partecipato agli attacchi: un video della Ratp (trasporti parigini) lo ha registrato venerdì 13 alle 22,14, sulla linea 9 alla stazione Croix-de-Chavaux a Montreuil (mentre entrava senza pagare il biglietto), dove era stata trovata abbandonata la Seat usata dal commando contro i bar del X e XI arrondissement, verso le 21,30. Un altro corpo, sui 3 morti di Saint-Denis, è stato ufficialmente identificato ieri: si tratta di Hasna Ait-Boulahcen, 26 anni, che si presentava su Facebook come la "cugina" del belga e che la vigilia era stata presentata come kamikaze. Ieri non c’era nessuna certezza su questo fronte. Potrebbe essere morta negli scontri con la polizia, durati ore. Non è ancora chiaro quando Abaaoud sia entrato in Francia. È stato stabilito che ha fatto vari viaggi in Siria, ma i servizi europei non hanno scambiato informazioni. Abaaoud, il cui fratello è in carcere in Marocco, era anche sparito dai radar dei controlli alle frontiere europee, tra Belgio, Francia e Germania. Ancora tre corpi di kamikaze del venerdì nero non sono stati identificati. Salah Abelslam, un francese coinvolto negli attacchi, era ieri ancora in fuga. La solitudine francese di Massimo Nava Corriere della Sera, 21 novembre 2015 La Francia è diventata interventista in un pantano in cui l’America di Obama ha tentato di sfilarsi e che dal Medio Oriente è tracimato nell’Africa subsahariana. Sembra molto lontano il tempo in cui il presidente Jacques Chirac diceva forte il suo no alla guerra americana in Iraq. Allora, la Francia fu un riferimento per quanti nel mondo pensavano - e pensano - alla guerra come a una soluzione estrema. Il nuovo attacco terroristico in Mali, dopo la carneficina di Parigi, ci racconta quanto le cose siano cambiate e in peggio. Per l’Europa che vive il suo 11 settembre e soprattutto per la Francia, invischiata in un’offensiva a tutto campo, con alleati riluttanti o di convenienza e senza la potenza di fuoco degli Usa, arma peraltro spuntata che negli anni ha destabilizzato lo scenario e moltiplicato i terroristi d’esportazione. La Francia è diventata interventista, in un pantano da cui l’America di Obama ha tentato di sfilarsi. Un pantano che dal Medio Oriente è tracimato nell’Africa subsahariana e che ha colpito il cuore dell’Europa. Ma l’interventismo francese non nasce oggi, con la comprensibile risposta muscolare nel Daesh. È la percezione collettiva dei nemici interni ed esterni ad avere provocato un cambiamento di rotta. Ieri con Nicolas Sarkozy, oggi con François Hollande: rivali nella corsa all’Eliseo, ma entrambi risoluti nelle decisioni estreme. Di fatto, la Francia combatte su due fronti. Quello interno delle periferie, dell’"apartheid" territoriale, etnica, culturale e religiosa che ha prodotto proselitismo radicale e terroristi pendolari e ha favorito la crescita del Front National, fattore di ricatto del quadro politico, anche nel rapporto con l’Europa. E quello esterno delle ex colonie africane e dello scacchiere mediorientale, di un mondo arabo e musulmano che le è diventato ostile e che influenza le comunità che vivono in Francia. Dal lungimirante progetto di Unione per il Mediterraneo (quando Assad era invitato d’onore a Parigi assieme a Gheddafi) si è passati all’appoggio ondivago alle primavere arabe, al bombardamento della Libia, alle operazioni quasi solitarie nell’Africa subsahariana dove la crisi libica è sfociata, travolgendo fragili strutture statali e delicati equilibri religiosi ed etnici. In questo quadro, sono cambiate anche posizioni e alleanze, non senza qualche disinvoltura e incertezza. Oggi la Francia bombarda il Califfato a fianco della Russia e in sostanza puntella il regime di Assad che fino a ieri voleva abbattere. Intanto, Hollande vola a Washington per sollecitare l’impegno americano e spera nel sostegno dell’Europa, a oggi improbabile sul piano militare. Sarebbe importante, di fronte all’offensiva terroristica, avanzare sulla strada della difesa comune, di una maggiore integrazione, di accordi concreti per la sicurezza interna. L’Europa ha mezzi economici e tecnologici, tra l’altro con la possibilità di sforare il patto di Stabilità. Manca una sostanziale volontà politica. La Germania resta refrattaria a operazioni militari. La Gran Bretagna allenta i legami con l’Europa. La stessa Francia non ha ancora scelto fra concertazione imposta dal suo status di media potenza e ambizioni interventiste dettate anche da interessi strategici ed ex coloniali. L’Italia sembra più convinta della necessità del concerto europeo e di soluzioni globali che convincano tutti gli attori a fare un passo indietro. Ma non basta. L’attacco terroristico a Parigi ha provocato una commovente ondata di solidarietà, ma è bene non coltivare illusioni cantando la Marsigliese. I due volti dei jihadisti Fai-da-te di Emanuele Trevi Corriere della Sera, 21 novembre 2015 Un salto invisibile genera una nuova vita irriconoscibile, e un ragazzo che cantava il rap adesso ci guarda, truce e demente, brandendo un mitra. Urgono narrazioni aggiornate, che ci permettano di capire chi sono questi mostri della porta accanto, i nuovi protagonisti dell’incendio terroristico che continua a divampare senza che nessuno sappia davvero come domarlo. Dalla matassa enorme e aggrovigliata delle informazioni, bisogna tirare fuori il bandolo di un racconto dotato di senso. Non è, questo, un problema astratto e secondario, circoscritto all’attività dei romanzieri e degli sceneggiatori di serie televisive. In ogni conflitto, in ogni emergenza si agitano delle identità, e la capacità di ricostruirne credibilmente il profilo va annoverata a buon diritto tra le più urgenti misure di sicurezza. In questo senso, la vita reale funziona in modo molto simile ai romanzi o alle fiction televisive: il pericolo aumenta in maniera esponenziale quando si affacciano sulla scena personaggi dotati di caratteristiche e psicologia del tutto diverse da quelle che ci eravamo abituati a pensare. Si tratta, allora, di un esercizio intellettuale necessario, e molto doloroso. I kamikaze dei ghetti di Bruxelles e Parigi ci ricordano infatti, prima di ogni altra cosa, che la miseria umana muta e si rafforza continuamente, alla maniera dei virus più nocivi. Come tutti i loro contemporanei, questi disgraziati si lasciano dietro un mare di tracce digitali: selfie e messaggi che fino a un certo punto della loro storia li mostrano indistinguibili da tutti gli altri, nell’infinita serie di variabili che rientrano comunque in un concetto approssimativo di "normalità". Poi avviene una specie di salto invisibile, come una morte apparente che genera una nuova vita irriconoscibile, e il ragazzo che cantava il rap ci guarda truce e demente, brandendo un mitra, lo sguardo ridotto a una fissità maniacale, come se un congegno fantascientifico fosse riuscito a espellere da lui ogni forma di coscienza e di empatia. Cos’è accaduto? Nessun selfie potrà mai catturare il momento della metamorfosi. È proprio su questa casella vuota e oscura che bisogna esercitare l’intelligenza. Le serie di foto che guardiamo sui siti di giornali ci fanno vedere solo il prima e il dopo. Tra queste gallerie di immagini, nessuna è più impressionante di quella che riguarda Hasna Ait Boulahcen, morta assieme ad altri due terroristi nel covo di Saint-Denis. Eccola qui, nella vasca da bagno, coperta solo da invitante velo di schiuma. O ancora con uno di quei cappelli americani che amava così tanto da guadagnarsi il soprannome di "cowboy". Ha alle spalle un passato difficile, come ci hanno raccontato, ma non ha certo l’aspetto di chi si è arreso al suo passato. È un essere umano, piuttosto, che vive la sua vita, che per tutti gli esseri umani è più o meno difficile. Dopo il salto, non c’è più nulla. È un vestito pronto ad esplodere, dotato di una fessura per gli occhi. Ma sono occhi, se è mai possibile immaginare una simile mostruosità, che pur non essendo accecati, hanno perso lo sguardo. Hanno perso, cioè, ogni forma di emozione generata dalla relazione con l’altro. Se per ipotesi questa donna fosse rimasta sola al mondo, l’unica sopravvissuta a un disastro planetario, quegli occhi continuerebbero a odiare il nulla che li circonda. Si dirà che tanta gente cambia, in meglio o in peggio, finendo per incarnare addirittura il proprio contrario. E così considerate in astratto, le fotografie di Hasna non sono poi così interessanti. Ma i cambiamenti, per loro natura, sono dei processi che avvengono nel tempo. Possiamo esserne inorriditi, ma ci permettono delle ipotesi. Prendiamo un mostro di vecchio stampo come Osama bin Laden. La sua biografia consiste di periodi abbastanza riconoscibili, tanto che riusciamo a raccontarla: il rampollo di una potentissima famiglia, il guerrigliero che fa la sua jihad contro i russi in Afghanistan, e così via. Nella vita maledetta di Hasna e dei suoi amici, al contrario, non c’è nulla che assomigli al tempo che passa, con la sua innumerevole serie di gradazioni, cambi di rotta, possibilità di ritornare sui propri passi. La trasformazione è così repentina che non consente di appigliarsi al fondamento stesso della logica, che è la relazione tra cause ed effetti. Proprio non riusciamo a capire. Questa ragazza ha dedicato molto più tempo a scegliere i suoi cappelli da cowboy che a decidere di far parte di un gruppo di terroristi. In tutto questo, mi sembra ovvio, il Corano non ha avuto nessun ruolo. Potrà essere ancora importante per gli ideologi del Califfato, e per le bande di fanatici che agiscono lontani dall’Europa. Ma per i nuovi kamikaze fai-da-te, molto più simili ai ragazzi americani che fanno strage dei loro compagni nelle scuole che ai vecchi terroristi dell’11 settembre, la religione è solo un minimo, quasi impercettibile involucro di significati che non conta di più della bandiera di una squadra di calcio o del tatuaggio di una gang di spacciatori. C’è da scommetterci: alla fine, sfuggiranno di mano ai loro stessi mandanti e reclutatori. Se c’è qualcosa a cui sono fedeli, è una pulsione di morte che, a differenza di quanto accade in tutti i loro simili, non è più ostacolata da nessun contrappeso interiore. Ed è per questo che si arruolano tra loro con la stessa facilità e rapidità con cui i nazisti ingrossavano ogni giorno le loro file: la pulsione di morte è un contagio, non ha bisogno di nessun proselitismo tradizionale, non ha bisogno di parlare né all’intelligenza né alle emozioni, si impadronisce dell’identità come un malvagio incantesimo. Irresponsabili politiche sociali ed urbanistiche hanno creato alle porte di città come Parigi e Bruxelles il contesto ideale per questa catastrofe. Li chiamiamo ancora ghetti, quasi tradendo una giustificabile nostalgia per le tradizionali, cicliche rivolte di piazza. In realtà, somigliano sinistramente ai laboratori degli scienziati pazzi di certi vecchi film: sono le culle dell’inconcepibile, l’incubatrice di un rischio mortale dal quale nessuno di noi può pensarsi al riparo. Non è il Corano a colpire l’occidente di Michele Prospero Il Manifesto, 21 novembre 2015 Sacro e profano. Con la metafora della guerra globale per i diritti umani, Bush e Sarkozy coprivano la puzza dell’oro nero. Anche chi di mestiere fa lo storico tende ad interpretare i fatti di Parigi come episodi di una guerra di religione. Con queste categorie non si capisce però ciò che sta accadendo. Se si vuole comprendere la minaccia che incombe, è meglio non assecondare certe semplificazioni storiografiche. Sarebbe un’impresa vana accostarsi a un fenomeno armato, che minaccia di incendiare l’occidente, pretendendo di rintracciare la sua genesi ispiratrice nel Corano. Come non si spiega la politica estera di Putin leggendo i testi ortodossi, così non si può cogliere il senso delle stragi ispirate al fanatismo religioso consultando il Corano. Non tiene, a un minimo vaglio critico, il diffuso pregiudizio per cui in occidente si fa politica con la logica della potenza e in medio oriente o altrove invece si fa terrore con la logica della fede. I classici del pensiero politico lo avevano segnalato già alcuni secoli fa. Locke suggeriva di vedere nell’invocazione del sacro, usata dalle fazioni avverse che si affrontavano nelle guerre di religioni, solo una maschera che nasconde effettivi obiettivi di potenza. E sul finire del 1500 Alberico Gentili, il fondatore del moderno diritto internazionale, esortava ad eliminare la cortina teologica nella descrizione della condotta degli Stati, che segue altre suggestioni rispetto a quelle contenute nei sacri testi. Molti oggi sono disposti a compiere il tragitto inverso rispetto a quello che ha percorso il grande pensiero politico, con il suo trasparente invito rivolto alla teologia a mettersi da parte, per scrutare il fenomeno politico nella sua diramazione di potenza. Con il ritorno alla teologia politica, e quindi alla metafisica dello scontro di cultura o di civiltà, si getta solo una coltre di fumo che devia nell’interpretazione di una grande emergenza che viene così sottratta ai moduli di gestione della politica. Quando le mistiche anime della potenza imperiale pregavano nella sala ovale prima di sganciare le bombe, hanno determinato la catastrofe attuale. Il volto profetico del presidente che ripescava la dottrina medievale del tirannicidio per sbarazzarsi di despoti sgraditi, e mettere le mani sulle loro gradite risorse, ha creato il deserto disordinato che oggi viene riempito dalle velleità di occupare terra per inseguire il mito del Califfato. L’occidente ha confidato troppo in questi anni nelle virtù delle sue bombe intelligenti perché da decenni latita una sua politica intelligente. Con la metafisica della guerra globale al terrore, Bush o Sarkozy hanno ordinato politiche folli e inefficaci, con il pretesto del sacro dovere di combattere per i diritti umani, soprattutto nelle aree dove la puzza dell’oro nero era più nitida. Con i loro disastrosi calcoli di potenza hanno destrutturato alla radice quel minimo di ordine feroce che le dittature assicuravano dall’Iraq alla Libia, alla Siria. Hanno lasciato sul campo élite deboli e denazionalizzate, che non hanno forza, organizzazione per trattenere masse mobilitate. Il riciclaggio tardivo dello scontro di cultura non solo ignora i disastri che ha provocato la ri-teologizzazione della politica internazionale ma non fa che fornire un insperato fondamento politico agli strateghi del terrore che sperano nella spoliticizzazione dell’evento bellico, nell’accantonamento cioè del suo profilo pubblico-statuale. L’ancoraggio alla teoria di Alberico Gentili sulla pubblicizzazione-statalizzazione del conflitto impone invece di escludere il movente della fede come motivo di un’iniziativa bellica. Il moderno, con Locke raggiunge la pacificazione-neutralizzazione della sua vita interna solo con la privatizzazione della fede, e con il De jure belli di Gentili acquisisce la pubblicizzazione della guerra solo con la negazione del "nemico di fede" esterno. Deviare da questo processo comporta solo sciagure politiche: disordine, terrore, caos. La pubblicizzazione del conflitto sconsiglia di intraprendere guerre asimmetriche contro non-Stati, ed implica comunque il dovere prioritario di vedere la geopolitica dove la propaganda mette la fede. Di esaminare il calcolo dove si esibisce il Corano. Di scorgere il territorio dove si invoca Dio. Contro un nemico che sfila con auto e armi occidentali nei territori dell’autoproclamato Stato islamico, non si può rispondere con i simboli delle armi convenzionali della guerra via terra che assume l’altro come "nemico etico". Prima bisogna spiegare gli effetti perversi delle nuove guerre in distese spaziali che l’occidente ha destrutturato nei vertici politico-militari. E poi occorre riflettere sulle implicazioni di una organizzazione del terrore capace di portare la morte entro le metropoli dell’occidente. Con un quasi Stato, oltre che con la minaccia delle armi si parla con la diplomazia, con l’arte del compromesso, con l’offerta di un ragionamento plurale sulla nuova ripartizione dei territori in un’area ormai implosa. Solo con i conflitti non mediabili, quando cioè le altre alternative sono sfumate, si procede manu militari. Ma, anche in questi casi, l’efficacia delle armi è stata sinora devastante, e le guerre del petrolio hanno creato solo disordine mondiale. Non si può trascendere il nucleo forte degli interessi di potenza che la Russia tradizionalmente coltiva in Siria. E non è possibile escludere la tattica del negoziato con la semplice definizione del nemico come agente del terrore. Il fatto è che la gola tagliata dall’Isis allarma molto di più della testa legalmente sgozzata in Arabia, con le cui classi dirigenti le cancellerie europee sottoscrivono contratti d’oro. Con ciò che si definisce Stato islamico è prova di forza, non di disperata debolezza parlare con il linguaggio degli interessi, dello spazio, delle risorse. Dopo tutto, anche i capi dell’esercito del Califfato maneggiano più i barili di greggio che gli scaffali zeppi di Corano. Si tratta di élite del terrore che rivendicano potere e quindi sanno effettuare il calcolo dei costi e dei benefici dinanzi a offerte e a minacce. Confidano i signori del Califfato in un indubbio punto di forza, e cioè il prevedibile contagio della maschera fondamentalista nelle rabbie delle periferie della vecchia Europa. La sola forza del Califfato è nel consenso che può nascere tra fasce di cittadini esclusi delle periferie, colpiti non tanto nella carenza di risorse economiche ma nella dignità. Privare ancor più di dignità i migranti in nome della sicurezza e negare negoziati con le élite del terrore in nome dei diritti umani non disponibili, questa sì che è l’avventura folle, che conduce l’occidente al suicidio. Droghe: a Milano la conferenza nazionale "Cambiamo verso sulle droghe. Adesso!" Ansa, 21 novembre 2015 Modifiche alla legislazione vigente sulle tossicodipendenze, con le ipotesi di depenalizzazione del consumo e legalizzazione della cannabis, ma anche analisi dei nuovi stili di consumo, della crisi e della riorganizzazione del sistema di intervento. Si è aperta ieri a Milano, presso la Camera del lavoro, la conferenza nazionale "Cambiamo verso sulle droghe. Adesso!", promossa dal Cartello di Genova, una rete composta da Antigone, Cgil, Cnca, Comunità di San Benedetto al Porto, Coordinamento dei garanti dei diritti dei detenuti, Coordinamento operatori bassa soglia Piemonte, Fondazione Giovanni Michelucci, Forum Droghe, Gruppo Abele, Isola di Arran, Itaca, Itardd, La Società della ragione, Legacoopsociali, Lila e Magistratura democratica. L’evento ha avuto il patrocinio del Comune di Milano e si concluderà domani. Per i promotori della conferenza è "necessario riaprire il dibattito sulle droghe nel nostro paese. Dopo il fallimento della visione repressiva espressa in particolare dai governi di centrodestra, sancito in modo inequivocabile dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, non è più rinviabile l’approvazione di una nuova legislazione del fenomeno, oggi regolato attraverso una legge del 1990. Durante la Conferenza si confronteranno ipotesi diverse che vanno dalla depenalizzazione del possesso e del consumo di tutte le sostanze psicoattive a una vera e propria legalizzazione della cannabis, anche in relazione alle esperienze internazionali, da quella dell’Uruguay ai tanti stati degli Usa". In secondo luogo, è detto in una nota, "bisogna fare i conti con i nuovi modelli di consumo, intrecciati con contesti sociali determinati. Vediamo sorgere nelle città zone che si specializzano nel fornire economie del divertimento, che prevedono l’offerta congiunta di street food, alcol e altre sostanze psicoattive di vario genere. Questo comporta una politica che deve coinvolgere i Comuni, realizzare sistemi di allerta rapida sulla pericolosità delle sostanze che circolano in un dato momento, prevedere unità mobili stabili. Per altro verso, occorre confrontarsi con un’area di marginalità estrema, composta anche da persone migranti, che presenta problemi di carattere non solo sanitario ma anche sociale". In terzo luogo, "appare chiaro a tutti gli addetti ai lavori che Sert, comunità, interventi di strada, gli stessi Comuni devono ripensare strategie, metodologie e strumenti. Il sistema di intervento è in crisi e sotto finanziato. È evidente che una tale ridefinizione della nostra politica sulle droghe ha bisogno di un investimento forte da parte delle Istituzioni. Per questo i promotori dell’evento chiedono al Governo di realizzare entro l’inizio del 2016 la Conferenza nazionale sulle droghe (l’ultima risale al 2009!). Nell’aprile del prossimo anno si terrà una sessione speciale sulle droghe dell’Assemblea Generale dell’Onu e non possiamo permetterci di arrivare impreparati a tale appuntamento". Arabia Saudita: il poeta Fayadh condannato a morte "ha dubitato dell’esistenza di Dio" La Repubblica, 21 novembre 2015 La denuncia di Human Rights Watch. L’artista, nato da genitori palestinesi ma cresciuto in Arabia Saudita, è stato arrestato nel 2013. In primo grado era stato condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate. Ora la sentenza di appello. Un tribunale saudita ha condannato a morte il poeta palestinese Ashraf Fayadh per aver rinunciato alla sua religione. Lo denuncia Human Rights Watch, che afferma di aver preso visione della sentenza. Il pronunciamento del giudice risale a martedì scorso e conferma il reato contestato dall’accusa, vale a dire aver "dubitato dell’esistenza di Dio". Nato da genitori palestinesi, ma cresciuto in Arabia Saudita, Fayadh è stato arrestato dalla polizia religiosa nel 2013, dopo che un suo lettore lo aveva accusato di incitamento a rinunciare all’Islam, a causa del contenuto di una sua raccolta di poesie del 2008. Rilasciato dopo pochi giorni, il poeta 50enne era stato arrestato nuovamente a gennaio 2014 nella città sud-occidentale di Abha. Una prima sentenza lo aveva condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate, ma il giudice d’appello ha deciso di condannarlo a morte. La condanna, secondo alcuni attivisti, sarebbe legata a un video pubblicato sul Web dal poeta, che mostra la polizia religiosa di Abha che picchia un giovane in pubblico. Per chiedere la sua liberazione, lo scorso anno è stata lanciata una petizione, sottoscritta da centinaia di artisti e intellettuali. Almeno 150 persone sono state giustiziate in Arabia Saudita nel 2015, il dato più alto degli ultimi anni. Cina: organi prelevati dai condannati a morte "per espiare le loro colpe" di Leone Grotti Tempi, 21 novembre 2015 È passato un anno da quando la Cina ha annunciato che avrebbe smesso di prelevare migliaia di organi per i trapianti dai condannati a morte, ma il sistema è più in voga che mai "grazie a un trucchetto amministrativo". Dopo aver negato per decenni la pratica barbara, nel 2005 Huang Jiefu, dottore e ufficiale del governo comunista, oggi viceministro della Sanità, ha dichiarato all’Oms: "È vero, gli organi per i trapianti vengono in buona parte dai condannati a morte delle nostre prigioni. Questo sistema è immorale, non sostenibile e nei prossimi anni cambieremo". In Cina circa un milione e mezzo di persone attendono un trapianto di organi ma solo 10 mila lo ottengono, pagando cospicue mazzette. Secondo un famoso studio del ricercatore Ethan Gutman, i due terzi di questi 10 mila organi (circa tremila) vengono presi violando tutte le convenzioni sui diritti umani e dei carcerati dai detenuti condannati a morte appena giustiziati. Spesso i dottori si occupano dell’espianto quando i prigionieri sono ancora vivi. La Cina detiene il record di esecuzioni capitali e anche se non ha mai diffuso dati ufficiali, si pensa siano almeno 4 mila all’anno. A dicembre dell’anno scorso, Huang aveva promesso che dall’1 gennaio 2015 gli organi non sarebbero più stati prelevati dai condannati a morte. La pratica però continua indisturbata, sostiene Li Huige, dottore che lavora presso l’Università di Mainz, in Germania. "Hanno semplicemente riclassificato i prigionieri come cittadini", dichiara al New York Times, e li hanno inseriti in un sistema nazionale di donatori ideato proprio per razionalizzare gli organi disponibili e le richieste, riducendo così la "dipendenza" dal prelevamento illegale di organi dai prigionieri. Il trucco è ben spiegato dalle dichiarazioni fatte a gennaio da Huang al Quotidiano del popolo: "I prigionieri nel braccio della morte sono cittadini come gli altri e la legge non può privarli del loro diritto a donare gli organi. Se i condannati a morte vogliono donare gli organi per espiare la colpa per i propri crimini, allora dovrebbero essere incoraggiati". Questo processo è esattamente ciò che la World Medical Association cerca di vietare in tutto il mondo. Come dichiarato dal suo segretario generale, Otmar Kloiber, è infatti impossibile distinguere tra chi è obbligato a donare e chi vuole farlo volontariamente. "La pratica è immorale e i trucchi della Cina non bastano a renderla morale", insiste Kloiber. Secondo , "la Cina ha semplicemente smesso di prelevare gli organi dai detenuti uccisi senza il loro consenso". Il problema è come viene ottenuto il consenso e visto che la legge autorizza la polizia a torturare liberi cittadini per sei mesi ancora prima di arrestarli, figuriamoci quello che può fare con i condannati a morte. Cheng Jingyu si occupa dei trapianti all’Ospedale del popolo di Wuxi. L’anno scorso, insieme al suo team, ha fatto 104 trapianti di reni. "La maggior parte dei reni proveniva dai condannati a morte". Dall’1 gennaio, a causa della nuova politica annunciata, si aspettava una grande carenza di organi. Invece quest’anno ha fatto 150 trapianti di reni, più dell’anno scorso. Forse i detenuti donatori volontari sono aumentati. Gran Bretagna: trans morta in cella, minacciò suicidio se mandata in carcere maschile fanpage.it, 21 novembre 2015 Vicky Thompson, una ventunenne transgender di Keighley, nel West Yorkshire, aveva minacciato di uccidersi se l’avessero mandata in una prigione per uomini. La donna è stata trovata morta nella sua cella. Una donna transgender che aveva minacciato di uccidersi se l’avessero mandata in una prigione per uomini è stata trovata morta nella sua cella. Vicky Thompson, una ventunenne di Keighley, nel West Yorkshire, è stata condannata in agosto a una pena di 12 mesi. Al momento della sentenza, il suo avvocato Mohammed Hussain ha detto al giudice che Vicky era "essenzialmente una donna" e ha chiesto che fosse mandata alla prigione per donne New Hall, vicino Wakefield. Ma la decisione è stata diversa, e Vicky è stata mandata al carcere maschile HMP a Leeds. La donna è stata trovata morta lo scorso venerdì nella sua cella nella categoria B della prigione. Secondo la BBC, l’avvocato ha descritto Vicky - che non aveva subito un intervento chirurgico per il cambio di sesso - come una "persona transgender vulnerabile". Gli amici hanno detto che Vicky, che era nata uomo ma si sentiva donna sin da quando era una teenager, aveva ripetutamente richiesto di essere mandata in una prigione femminile. Aveva detto che si sarebbe uccisa nel caso in cui fosse stata portata in un carcere maschile. Sulla sua morte è stata aperta un’indagine. Un portavoce della polizia penitenziaria ha raccontato che Vicky è stata trovata morta la sera di venerdì 13 novembre. "Staff e paramedici - ha detto - hanno provato a rianimarla, ma alle 20 e 48 hanno dovuto dichiarare il decesso. Come accade in tutti i casi di morte in carcere, ci sarà un’indagine". L’associazione Sparkle di Manchester, che supporta le persone transgender e i loro diritti, ha detto in un messaggio postato sulla sua pagina Facebook che la detenzione di donne trans in prigioni maschili è una "pratica ripugnante a cui deve essere immediatamente messa una fine". "Il rischio - prosegue il post - per questi detenuti il rischio di aggressioni di natura sessuale è enorme, ma ciò che risulta chiaro da questa tragica notizia è che ci sono rischi per la loro salute mentale e questo potrebbe ucciderli. C’è bisogno di una discussione sul modo in cui vengono detenute le persone identificate come trans, e deve essere messa la parola fine sulla loro detenzione in prigioni che sono pensate per un genere che non è il loro". La morte di Vicky è arrivata solo qualche settimana dopo che Tara Hudson, una donna transgender di Bath, è stata trasferita in un carcere femminile dopo una campagna di pressione. Tara era stata mandata in una prigione maschile perché è ancora legalmente maschio, nonostante sei anni di chirurgia per cambiare sesso. Sostiene di essere stata abusata e molestata dagli altri detenuti. I giudici della corte di Bristol avevano inizialmente rigettato il suo appello. Tara è stata poi finalmente spostata nella prigione femminile di Eastwood Park dove ha concluso la pena, dopo che 150 mila persone hanno firmato una petizione in suo supporto. Nonostante il suo trasferimento, è emerso che Tara è stata tenuta isolata dal regime principale delle donne, per "proteggerla da rischi" - anche se non è chiaro di che tipo.