Giustizia: a quanti diritti si può rinunciare in nome della sicurezza? di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 20 novembre 2015 Nelle guerre, anche le democrazie più solide e sicure di sé hanno la tentazione di sacrificare i princìpi più sacri, a cominciare dalle libertà in cui normalmente le nostre società sono abituate a respirare. Negli Stati Uniti, lo racconta splendidamente James Ellroy nel romanzo "Perfidia", circa centomila cittadini di origine giapponese, compresi americani di seconda generazione, vennero rinchiusi nei lager attorno a Los Angeles dopo l’attacco nipponico di Pearl Harbor, vittime della paranoia bellica sulle "quinte colonne" interne: una vergogna che in America ancora oggi si fa fatica ad accettare. La guerra inasprisce la censura, mette il bavaglio all’opinione pubblica, permette la diffusione di menzogne propagandistiche da parte degli Stati che difficilmente i giornali possono contrastare. La nostalgia degli inviati di guerra di una volta si basa su una mitologia molto lontana dalla verità: basta leggere le satire di Evelyn Waugh per comprendere quante bugie siano state propalate dai più rinomati corrispondenti di guerra. L’invenzione del telefonino ha fatto molto di più per conoscere i segreti inconfessabili delle guerre: chi si sarebbe mai accorto delle nefandezze di Abu Ghraib? Ci sono alcune eccezioni eroiche. I londinesi che durante i bombardamenti martellanti della Luftwaffe venivano invitati a frequentare la Biblioteca nazionale sempre aperta sebbene il suo edificio fosse stato già sventrato dalle bombe. E anche i più feroci nemici di Israele non possono negare che un Paese in guerra sin dalla sua nascita ha saputo coniugare efficienza bellica e democrazia. Farà pure scandalo il muro eretto per impedire gli attentati suicidi, una vita quotidiana come quella di Parigi in questi giorni, da decenni, ma il Parlamento israeliano, la Knesset, non ha mai chiuso i battenti. Contro il terrorismo interno, invece, gli Stati democratici non hanno lesinato mortificazioni alla libertà nel nome della sicurezza. In Germania la lotta al terrorismo della Baader-Meinhof si riassume simbolicamente nel nome di Stammheim, il carcere di massima sicurezza dove l’isolamento dei terroristi era totale, il biancore delle luci accecanti giorno e notte un’istigazione al suicidio per i detenuti. L’opinione pubblica democratica fu molto scossa infatti dal suicidio in cella dei terroristi. Eppure, nel nome della lotta a un male troppo grande per essere sopportato come la mafia, quella stessa opinione pubblica, più indulgente verso l’illegalità politica di stampo insurrezionale, non ha nulla da obiettare a una misura come quella del p bis che sottopone i boss mafiosi a un trattamento molto prossimo alla tortura. In Italia, per tornare al terrorismo, un grande dibattito si aprì intorno alle conseguenze illiberali della "legge Reale" che consentiva il fermo di polizia (prorogabile) senza che gli avvocati difensori potessero vedere i loro assistiti. Le leggi speciali non impedirono alle Brigate Rosse di mettere a segno molte delle loro imprese, mentre l’inizio della fine delle Br è certamente da ascriversi a un episodio di somma brutalità (e qualcuno disse di controversa legalità) come l’irruzione degli agenti antiterrorismo agli ordini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo di via Fracchia a Genova che provocò la morte di quattro brigatisi. Oggi la Francia di Hollande chiede modifiche costituzionali per stringere le viti nella guerra al terrore, dentro e fuori i confini del Paese ed esige che gli stessi movimenti dei cittadini europei in Francia siano sottoposti a controlli più stingenti. II dibattito è aperto, ma nulla in confronto al passato, quando le modifiche costituzionali di de Gaulle fecero gridare addirittura a un nuovo "fascismo". O quando in Francia, durante la guerra d’Algeria, si incendiò una discussione squassante sulla liceità delle torture che i parà praticavano nelle segrete di Algeri per prevenire attentati destinati a provocare la morte di tanti civili. Una soglia definitiva non esiste. E il compromesso tra libertà e sicurezza, tra guerra e democrazia è sempre mutevole. L’unica certezza è che i reati d’opinione, il massimo dell’illibertà, non hanno mai prodotto risultati efficaci. Sul Patriot Act di Bush dopo l’11 settembre, invece, persino un paladino delle cause democratiche come Alan Dershowitz ha dato il suo assenso e sulla chiusura di Guantánamo il presidente Obama ha clamorosamente disatteso le promesse. La sicurezza ha le sue ragioni che la ragione liberale non conosce. Giustizia: le misure del dolore di Adriano Sofri La Repubblica, 20 novembre 2015 C’è un gran discutere sulla disparità e l’iniquità del modo in cui reagiamo. Tutti per Parigi, nessuno per Beirut, dove il giorno prima due kamikaze dell’Is hanno ucciso 41 persone e ferite 200. Diciamo: "Sono Parigi" e non diciamo mai "Sono Peshawar" o "Sono Mogadiscio". È utile che ne discutiamo, senza fare confusione. La reazione alla violenza, la stessa solidarietà con le vittime, sono una cosa, il lutto è un’altra cosa. Il lutto ci riguarda personalmente, e distingue fra le perdite. Fra le ossa che ogni giorno in terra e in mare semina morte. Il lutto è di una persona, di una famiglia, di una comunità. Più spesso è prossimo nel senso della vicinanza, ma può unirci anche a una gran distanza. Quando siamo colpiti dal lutto, diciamo: "È come se avessi perduto una parte di me". Siamo umani, ma siamo fatti da ciò che nel tempo e nello spazio è diventato parte di noi, cui abbiamo appartenuto e apparteniamo. Appartengo a Parigi più di quanto appartenga a Beirut. Il mio amico Gad Lerner, che è nato a Beirut e ci torna in corpo e anima, non scriverebbe la stessa frase. Il lutto è così profondamente nostro che ci accomuna fino a farci uscire da noi, a farci riconoscere e abbracciare, non solo coi nostri famigliari, ma con gli sconosciuti che lo condividono, come avviene quando i passanti si prendono per mano durante il minuto di silenzio. E allo stesso tempo siamo intimamente gelosi del nostro lutto. È una faccenda nostra: mia e di Parigi. Mia e di Beirut. Di Ankara e mia. Del Bardo e mia. A ciascuno il suo lutto. A ciascuno, anche, la sua gioia. C’è una disparità anche nell’amore. L’amore non è la giustizia. La giustizia dovrebbe essere distribuita in dose uguale per tutti. Ma il giusto maestro del vangelo, così capace di amore, ha le sue predilezioni scoperte, e insegna che il tuo prossimo è colui in cui ti imbatti e ha bisogno del tuo soccorso, hai bisogno del suo soccorso. La dialettica di vicino e lontano è complicata. Vengono rapite 247 nigeriane dalle canaglie di Boko Haram, e mezzo mondo dice: "Ridateci le nostre ragazze". La Nigeria è lontana e le ragazze sono nere. Qualcuno obietterà che è perché sono cristiane, e perché sono ragazze e studentesse. C’è sempre una vittima più infelice e più ignorata, se si voglia a ogni costo fare una classifica. Nel Sud Sudan vengono rapite e massacrate bambine e donne a migliaia, e Michelle Obama non si mette un nastrino, come per le ragazze nigeriane. La comparazione è una buona maestra, purché non se ne abusi. Una buona norma è di sincerarsi su chi deplora il risalto dato a una sofferenza in nome di un’altra trascurata: lui, o lei, si è dedicato a quell’altra sofferenza? A chi vi rinfacci di essere troppo commosso per il destino della pastora Diesel mentre i cuccioli umani della terra muoiono di fame, chiedete, con cortesia, che cosa faccia lui di solito per i bambini affamati: caso mai, avrete una buona occasione per dargli una mano, senza dovervi sbarazzare del vostro bassotto. Sulla scia di questi confronti, su Facebook qualcuno ha contrapposto l’indifferenza per 146 universitari kenioti trucidati a Garissa dagli assassini somali di al Shabab al lutto per Parigi. Nella piena dell’indignazione, hanno preso quell’eccidio per appena avvenuto, invece che nello scorso aprile. A me toccò scriverne qui: i loro coetanei di Zagabria e di Caracas e di non so quali altri posti del mondo si sdraiarono poi a fare il morto, e nel parco al centro di Nairobi si radunarono ad accendere candeline e deporre messaggi. Il fatto è che non abbiamo "due pesi e due misure": abbiamo innumerevoli pesi e misure, tante quante le sventure del mondo e la nostra capacità di parteciparne. È vero che la disparità delle reazioni mostra che non tutte le morti sono uguali: ma questo è solo il complemento del fatto che non tutte le vite sono uguali, e anzi sono così diseguali da far pensare che il genere umano sia un modo di dire, e sia composto di specie viventi e morenti abissalmente distanti. Per questo abbiamo bisogno di leggi e istituzioni: perché ci si occupi secondo umanità anche di quelli che non succede a noi di amare, o di incontrare come il nostro prossimo. Come i "250 mila morti in Siria". Non possiamo volergli bene, il bene vive di dettaglio, non di ingrosso. Possiamo voler bene a qualcuno di loro, perché l’abbiamo visto, sentito piangere o gridare - o tacere. Ma di tutti dovevamo volere la salvezza, ed esigere che qualcuno ne avesse la responsabilità in nome di tutti noi. L’Onu non fu immaginata per i minuti di silenzio. C’è Parigi, e ci fu il piccolo Aylan. Perfino con lui si lamentò un privilegio! Successe anche a me di provare un sentimento di pena per il fratellino Galip. Di lui non avemmo una fotografia. Forse aveva cercato di afferrare Aylan, come fa un fratello maggiore anche se non ha nemmeno cinque anni, prima di essere travolto e portato dove nessuno l’avrebbe più visto, dei milioni che guardarono Aylan. Ma ci sono luoghi e persone che diventano il cuore del mondo: Aylan, Parigi. Valgono per tutti. Giustizia: vigilare sulla paura e l’odio evitare un coprifuoco emotivo di Paolo Giordano Corriere della Sera, 20 novembre 2015 In molti, sull’onda dello sgomento e dell’indignazione per gli attentati di Parigi, abbiamo esortato a non rinunciare nemmeno per un giorno alla nostra vita precedente. Ma niente sarà uguale d’ora in poi. È accaduto qualcosa di gigantesco e brutale. Bisogna vigilare sui tanti sentimenti negativi che ci assalgono. È necessario. La pena altrimenti è di ritrovarsi a vivere una vita in un perenne coprifuoco emotivo. La notte scorsa ho sognato le tigri. Camminavo lungo la riva di un torrente insieme a un amico, uno molto bravo a giocare con le parole. Sulla sponda opposta correva un sentiero affollato. A un tratto, da un nascondiglio, vedevo uscire due tigri che attaccavano un gruppo di ragazzini inermi. Li sbranavano davanti ai miei occhi. Al risveglio ho pensato al Bataclan. E a ciò che il sogno mi suggeriva: che cercare rimedio nelle parole, questa volta, fosse inutile. Non mi era mai successo di crederlo prima. In effetti, negli ultimi giorni vengo attraversato da una quantità di pensieri nuovi, nel sonno come da sveglio. Camminando in stazione, lunedì, ho provato l’impulso improvviso di arruolarmi. Non avevo idea di quale esercito avrebbe potuto beneficiare del mio contributo, ma sono certo che, se nei paraggi ci fosse stato un ufficio di reclutamento di qualche strana forza speciale disposta a prendermi, mi sarei consegnato seduta stante. Ho capito che cosa passava per la testa ai giovani uomini che un secolo fa si riversavano al fronte pur di servire a qualcosa. Processi altrettanto strani, ne sono certo, accadono nella mente di ognuno in queste ore. Osservo le persone intorno e cerco di indovinarli, ma siamo tutti così controllati, così funzionanti, che per lo più risulta impossibile. Ci occupiamo dei nostri affari quando in realtà la notte di Parigi non è finita. Il trauma sta ancora raggiungendo le sue diramazioni periferiche, percola piano in profondità, come un veleno. E da lì provoca incubi nuovi, il dubbio se sia prudente o meno attenersi a certi programmi, un dispiacere e un senso di futilità che fatichiamo a spiegare, perché non siamo propensi ad ammettere che un evento extra-personale possa condizionarci tanto. In molti, sull’onda dello sgomento e dell’indignazione, abbiamo esortato a non rinunciare neppure per un giorno alla nostra vita precedente, a non mutare di una virgola la nostra condotta. Non smettiamo di uscire, abbiamo detto, di andare allo stadio e nei ristoranti. Non lo faremo. Ho un biglietto per un concerto del 9 dicembre e so che ci andrò, l’idea di venderlo non mi ha sfiorato. Tuttavia, circolano in Rete dei video girati venerdì notte al Bataclan che non ho ancora avuto il coraggio di aprire. Il mio cervello si rifiuta anche solo di immaginare che cosa sia stato là dentro: se provo a soffermarmi, si divincola subito. Per quanto cerchi di spingere l’inquietudine oltre i margini, so che niente sarà uguale d’ora in poi. Che non metterò più piede in un teatro senza ripensare almeno per una frazione di secondo al Bataclan, come dal settembre 2001 non ho più messo piede su un aereo con il cuore sgombro dai presagi. Ho continuato a volare, ma non è stato come prima. La vigilanza della quale adesso si discute da ogni parte - quella dei servizi segreti, della polizia e degli aeroporti - non è l’unica che conta in questo passaggio cruciale. Esiste anche la vigilanza che ognuno di noi deve mantenere su se stesso. Comunque la pensiamo, è accaduto qualcosa di nuovo, gigantesco e brutale, perciò bisogna vigilare sulla paura, la repulsione, l’odio indiscriminato, la tristezza, i sogni allarmanti e il cinismo. È faticoso e complicato almeno quanto riorganizzare l’intelligence del continente, ma è necessario farlo. La pena che si rischia altrimenti è di ritrovarsi a vivere, magari senza saperlo, la stessa vita di prima in un perenne coprifuoco emotivo. Giustizia: come frenare le sirene maligne delle periferie di Marco Rossi-Doria La Stampa, 20 novembre 2015 Il presidente del Consiglio sta guardando con grande temperanza alla terribile crisi che l’attacco terroristico a Parigi ha aperto. L’uso misurato delle parole, l’insistenza sulle prevenzioni e sulla costruzione di alleanze e lo sguardo che dalla politica estera sa riandare alle crisi delle nostre periferie sono indirizzi politici sensati. Le immagini di St. Denis, dei quartieri di Bruxelles, le biografie dei terroristi, le nostre paure mentre camminiamo nelle zone meno protette delle nostre città ci evocano le periferie in senso negativo. E stentiamo ancor più a viverle come "nuovi centri", luoghi di promesse e invenzioni da esplorare, anche quando lo sono. Al contempo, proprio le promesse già in campo e gli attori positivi delle nostre periferie si confrontano davvero con territori più sofferenti, dove non vi è stata inclusione e vera cittadinanza e dove può crescere e poi esplodere una tremenda carica distruttiva. Ben prima degli eventi parigini, i dati Istat, le nostre cronache, le esperienze diffuse di tanti esperti sul campo ci consegnano, al contempo, storie di riscatto e storie di difficoltà e frustrazione. Ci sono migliaia e migliaia di storie di vita, spesso di giovani - in tanti le seguiamo in ogni parte d’Italia - nelle quali l’esclusione multi-dimensionale che si protrae nel tempo a un certo punto conosce un peggioramento e fa entrare in una zona di maggiore fragilità e pericolo. Per molte ragioni: il grado elevato della fatica di "stare a galla" dal punto di vista del lavoro e del reddito, il ripetersi di frustrazioni severe che offendono l’amor proprio, il mancato consolidamento, in età precoce, di uno "spazio pensante" e anche di regole interne sufficienti per dare parola alle cose, trovare una strategia per "aspirare a" e per sostenere il peso di difficoltà continue, il venire meno sia dell’accoglienza che dei limiti che può dare la comunità perché anche essa è troppo frammentata e impoverita di sapienza e di risorse. Molte storie così si trascinano, malamente. Minano la fiducia e la coesione sociale, allontanano dalla partecipazione alla formazione, al lavoro, al progetto comune, alle regole. Una politica troppo distante da questi territori e sciatta e burocratica nel proporre misure e azioni certo non aiuta, anzi... Poi - in questo paesaggio - un numero minoritario ma purtroppo crescente di storie conoscono uno scarto. Vanno oltre. Prendono, per strani o futili o apparentemente secondari motivi, le vie maligne dell’esplosione folle individuale o delle bande violentemente fuori controllo o del malaffare. Sirene estreme chiamano ad andare oltre. Nascono sintomi feroci di malattie divenute croniche e poi aggravate. Nei territori dell’esclusione, qualcosa oggi può andare - più facilmente che in passato - oltre gli ultimi argini. E siamo in tanti a pensare che già da tempo stiamo entrando in una nuova dimensione del pericolo, al quale vanno date risposte nuove. Fa bene il presidente del Consiglio a ritornare a parlare al Paese delle nostre periferie. Perché il loro sviluppo è volano di sviluppo generale. Perché i tessuti ricostruiti della coesione sociale favoriscono crescita economica e lavoro nelle sue nuove forme. Perché la potente crisi che viviamo in questi giorni ci sta confermando che bisogna presto riprendere - proprio nelle periferie - a pensare a come migliorare scuola e formazione, dare reddito chiedendo responsabilità, trovare vie nuove per creare lavoro insieme ai nostri ragazzi. Lo si fa già in tante parti d’Italia. Lo si può fare di più e meglio se si abbandona un sistema di stereotipi e vincoli che non funziona più, se si ricreano circuiti di confronto sulle cose da fare nel concreto, se si creano regìe in ogni quartiere e città. E se si costituisce presto una vera regìa nazionale per usare più fondi ottimizzando le risorse anziché sprecarle in mille rivoli e indirizzandole verso ciò che già funziona, verso chi sa fare, controllando i risultati. Ma, per fare questo, dobbiamo riguardare a come siamo, come educhiamo i nostri ragazzi, come si discute e si impara a scuola, e anche a cosa dobbiamo tenere per sacro, a come presidiare i limite nella vita di ogni giorno, a come mettere insieme norma e accoglienza, a come ridare luoghi, lavoro e parole alle comunità, a come sostenere adesso e non domani i sogni dei nostri ragazzi di periferia. Giustizia; i bilanci dei tribunali? da prendere con le molle di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 20 novembre 2015 Le cifre dei consuntivi spesso non sono corrette. E anche gli esibiti "risparmi" sulle intercettazioni non sempre sono "tagli" di cui ci si deve vantare. Ma chi garantisce che non siano "falsi in bilancio" i "bilanci sociali" con i quali da qualche anno alcuni uffici giudiziari italiani meritoriamente rendicontano la propria attività? Una volta c’era solo la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a fine gennaio, in Cassazione il venerdì e poi nei distretti il sabato. Adesso procuratori della Repubblica, dirigenti di tribunale e presidenti di Corte d’appello alluvionano numeri già quasi da dopo l’estate. Non tutti attendibili o neutri. Per due ragioni storiche. La prima è che per molti anni tutti "hanno dato i numeri" perché nessuno aveva i numeri veri, e nessuno li poteva avere perché quel tipo di sistema statistico (solo da poco mutato, specie con il quasi ultimato passaggio ovunque a una nuova piattaforma informatica) era strutturalmente incapace di fornirli. Sicché ad esempio può sembrare che in una certa sede 6 sentenze di tribunale su 10 vengano ribaltate in appello, ma in realtà è un dato di scarsa utilità, in quanto la statistica giudiziaria non distingue tra sentenze riformate perché un colpevole per il tribunale è diventato innocente per l’appello (o viceversa), e sentenze invece riformate perché, fermo restando il giudizio di colpevolezza o di innocenza formatosi in primo grado, a essere modificati in appello sono stati soltanto magari la quantificazione della pena o uno dei tanti capi di imputazione. La seconda ragione storica è che, come in certi Paesi è esistito un doping sportivo di Stato, in certi uffici giudiziari è esistito per anni un "doping" dei numeri, "gonfiati" per far apparire maggiori i flussi di lavoro sulla cui base Ministero e Csm poi parametravano periodicamente l’aumento o il taglio del personale e delle risorse. Ancora oggi c’è chi vanta cifre mostruose di beni sequestrati perché somma attivi e patrimonio delle aziende, ma dimentica di conteggiare anche debiti e perdite; c’è il "furbetto del quartierino" giudiziario che si accaparra i procedimenti seriali, standardizzabili ed esauribili con un solo provvedimento, per invece "fotocopiarli" poi in una moltitudine di casi buoni solo a ingrassare le statistiche di produttività; e c’è chi registra una a una le montagne di denunce a puri fini assicurativi contro ignoti, che altrove sono invece più seriamente accorpate e registrate a pacchi. sulle prove non si lesina. Ma al di là di queste patologie, che a poco a poco possono essere bonificate, il problema vero resta la non misurabile "cifra oscura" che possono celare le vantate meraviglie statistiche. Lusinghieri, ad esempio, nel caso del bilancio sociale appena presentato dal procuratore milanese Edmondo Bruti Liberati, sono il dimezzamento delle intercettazioni in 5 anni e il risparmio di 15 milioni di loro costo negli ultimi 3 anni, "nonostante la Procura abbia svolto indagini particolarmente complesse". Ma il problema non sono le indagini fatte nonostante la razionalizzazione delle intercettazioni, bensì quelle eventualmente penalizzate dal risparmio sulle intercettazioni. E tra le righe di alcune recenti richieste di archiviazione motivate dai pm proprio con l’assenza di riscontri alle pur rare denunce ad esempio di dirigenti di enti pubblici, s’affaccia il dubbio che, nel risparmiare lodevolmente denaro, involontariamente si finisca magari per lesinare pure sulle potenziali prove. Giustizia: onoriamo i giudici onorari di Gian Antonio Stella Sette - Corriere della Sera, 20 novembre 2015 Smaltiscono l’80% del carico dei tribunali, ma non hanno pensione, maternità, ferie, malattie. Meritano invece attenzione, diritti e rispetto. Il giudice onorario Giulio C., alle prese da 17 anni col diluvio di processi delle aule giudiziarie napoletane, che già tre secoli fa a Montesquieu parevano un bordello ingovernabile ("Non c’è un Palazzo di Giustizia in cui il chiasso dei litiganti e loro accoliti superi quello dei tribunali di Napoli. Lì si vede la Lite calzata e vestita") ha quel male infido che Curzio Malaparte chiamava lo "stramaledetto". Eppure tempo fa, dopo un delicato intervento, ha dovuto sospendere la chemio e tornare al lavoro alla scadenza del 30º giorno di assenza per "non perdere il posto". "Posto" si fa per dire: non prende infatti un solo cent di indennità di malattia. Un caso vergognoso. Ma niente affatto isolato. Tutti i 3.800 giudici onorari che, introdotti nell’ordinamento nel 1998, svolgono le stesse funzioni giurisdizionali dei magistrati di professione, sono infatti precari. E dopo un primo contratto di tre anni viaggiano di proroga in proroga annuale. Senza alcuna certezza lavorativa, assicurativa, previdenziale. Nonostante i giudici onorari di tribunale (Got) si facciano carico ad esempio del 97% delle esecuzioni immobiliari e i loro colleghi vice procuratori onorari (Vpo) del 97% delle cause che finiscono davanti al tribunale monocratico, che a loro volta corrispondono all’80% del carico di un tribunale. Lo riconoscono gli stessi colleghi ordinari. Come quelli di Torino che, attraverso il procuratore della Repubblica Armando Spataro, hanno scritto al ministro della Giustizia: "Il carico di lavoro degli uffici di questa Procura (come di tutte le procure della Repubblica italiana) non sarebbe in alcun modo sopportabile, considerando il numero di magistrati ad essa destinati e i problemi connessi al deficit delle altre risorse umane e materiali effettivamente disponibili, senza l’ausilio e la collaborazione dei magistrati onorari". I quali mica lo fanno in modo saltuario: "Al contrario si tratta di magistrati onorari che esercitano le funzioni giudiziarie non certo in modo occasionale e privo di motivazione, ma anzi con encomiabile dedizione e professionalità". Non si tratterà del solito andazzo che vede precari di altri settori chiedere la stabilizzazione per scavalcare i concorsi e le graduatorie? No, riconoscono gli stessi "ordinari", cioè quelli teoricamente potrebbero fare questa obiezione: non si tratta di "una categoria di operatori del diritto che cerca di tutelare supposti privilegi acquisiti "a basso costo". Promesse tradite. Paola Bellone, che fa il giudice onorario da anni, conferma: "Senza di noi la giustizia sarebbe al fallimento. Eppure non abbiamo previdenza, assistenza per malattia, maternità, ferie, niente di niente. E il titolo balzacchiano di "onorari", è un’etichetta falsa: per molti è l’unico "lavoro". Non abbiamo mai chiesto d’esser arruolati tra i magistrati di carriera, mai chiesto i loro stipendi. Vogliamo solo continuare a fare ciò che facciamo, niente di più e niente di meno, ma con le garanzie di tutti i lavoratori e un trattamento economico dignitoso. È troppo?". No, rispondeva cinque anni fa l’attuale ministro Andrea Orlando, allora all’opposizione del governo Berlusconi. E per dare una sistemata alla Giustizia in crisi e oppressa da milioni di cause pendenti, metteva al primo punto "una stabilizzazione della magistratura onoraria, che superi la precarietà e dia regole certe a questo fondamentale pezzo della giustizia". La riforma in arrivo, a quanto denunciano i giudici onorari, dovrebbe essere invece questa: chiuso lo sgocciolio delle proroghe annuali (l’ultima scade il 31 dicembre) quattro contratti di tre anni in tre anni per un massimo di dodici. Sempre nella precarietà, però. Unica concessione, ironizzano gli "onorari", la facoltà concessa loro di farsi la pensione, ma a carico loro e senza oneri per lo Stato. Un "diritto" ridicolo, che avevano già prima, ovvio, come ogni cittadino che voglia farsi una pensione integrativa. Giustizia: la legge Severino promossa alla Consulta, non è retroattiva e neppure penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 La legge Severino passa il primo esame di costituzionalità. Anticipate da un’informazione provvisoria di un mese fa, era il 20 ottobre, sono state depositate ieri le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata dal Tar della Campania nell’ambito della vicenda che aveva coinvolto, con una sospensione poi revocata, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Sindaco poi prosciolto in appello, dopo una condanna in primo grado, e per il quale quindi la pronuncia di ieri non ha conseguenze immediate. A breve però la Consulta dovrà tornare ad occuparsi, sotto altri profili, della legge Severino, questa volta nel procedimento che interessa il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Intanto ieri la sentenza, la n. 236, scritta da Daria de Pretis, mette alcuni punti fermi. Il principale: la sospensione dalla carica degli amministratori pubblici non costituisce, anche alla luce di plurimi precedenti della Corte stessa, una sanzione o un effetto penale della condanna, ma una conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alla carica o per il suo mantenimento. In sostanza il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale impedisce la conservazione della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva. Il secondo punto cruciale è quello della retroattività della sospensione e del suo impatto in termini di sacrificio del diritto di elettorato passivo. Anche su questo aspetto la Consulta chiude le porte alle perplessità del Tar. Tuttavia, per la Corte costituzionale, se è vero che la condanna non definitiva non autorizza a presumere accertata l’esistenza di "una situazione di indegnità morale", è anche vero che la permanenza in carica di chi è stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendono la pubblica amministrazione può comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’articolo 97, secondo comma, Costituzione, che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’articolo 54, secondo comma, Costituzione, che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche "il dovere di adempierle con disciplina ed onore". Quindi il legislatore, nel disciplinare i requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche che comportano l’esercizio di quelle funzioni, può ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco, cioè tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro; tanto più che il dovere, fissato a garanzia di questo secondo interesse, di svolgere con onore le funzioni pubbliche pesa precisamente sui destinatari della protezione offerta dall’articolo 51, vale a dire sugli eletti. E sull’applicazione ai mandati in corso la norma censurata non appare alla Corte frutto di un bilanciamento irragionevole degli interessi in gioco, dal momento che anche l’applicazione immediata delle nuove cause ostative in essa previste - a chi sia stato eletto prima della sua entrata in vigore - costituisce una ragionevole risposta all’esigenza che la normativa stessa ritiene centrale. Di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, infatti, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti, tra l’altro proprio contro la pubblica amministrazione, susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un inquinamento dell’amministrazione e per garantire la credibilità dell’amministrazione stessa presso il pubblico. In questione c’è allora il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato da una forma di opacità, esito dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera (sentenza n. 206 del 1999). Esigenze che, sottolinea la sentenza, sarebbero vanificate se l’applicazione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore. Giustizia: dietrofront sulla depenalizzazione degli obblighi antiriciclaggio di Cristina Bartelli Italia Oggi, 20 novembre 2015 Spetterà alle commissioni parlamentari che esamineranno i decreti legislativi appena approvati dal Governo correggere la svista che ha fatto ricomprendere il mancato rispetto degli obblighi di cui al dlgs 231/2007 tra i reati depenalizzati e quindi sanzionabili con misure amministrative. Una vera e propria incomprensione tra uffici legislativi, che ha fatto sobbalzare gli uffici tecnici del ministero dell’economia e della Banca di Italia tanto da mettersi a ragionare su una soluzione in tempi rapidi del pasticcio normativo. La soluzione potrebbe essere individuata proprio nei lavori delle commissioni una volta che il testo arriverà per la disamina. Nei pareri conclusivi si dovrebbe chiedere di inserire nella lista delle materie escluse dalla depenalizzazione proprio il regime sanzionatorio legato alla disciplina dell’antiriciclaggio e del contrasto al finanziamento del terrorismo. La riforma delle sanzioni in materia antiriciclaggio è infatti stata prevista nella legge delega comunitaria secondo i criteri della nuova direttiva in materia di antiriciclaggio (direttiva 2015/849). Le modifiche che prenderanno corpo in un decreto legislativo una volta che la legge di delegazione europea sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale rispetteranno il tavolo di lavoro tra professionisti e tecnici del ministero dell’economia coordinato dal sottosegretario del ministero Enrico Zanetti. I criteri di riforma infatti si ispirano al principio di graduare le fattispecie incriminatrici alle sole condotte di grave violazione degli obblighi di adeguata verifica della clientela e conservazione dei documenti perpetrati con frode e falsificazione. E di procedere a una maggiore graduazione delle sanzioni amministrative. Illeciti internazionali: il "gruppo" aggrava il reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 19 novembre 2015 n. 45935. Per potere contestare l’aggravante di transnazionalità serve che il reato sia stato commesso con il contributo di un gruppo criminale organizzato. E quest’ultimo è un qualcosa di più e di diverso rispetto al semplice concorso di persone e della più complessa associazione a delinquere. Per questo le motivazioni sul punto devono essere stringenti e non richiamare semplicemente quanto previsto dalla legge. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 45935 della Sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così annullato almeno parzialmente l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Bologna aveva disposto la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di un uomo accusato di svariati reati di associazione a delinquere per la commissione delitti contro la pubblica amministrazione e fiscali (per costituire una riserva di "fondi neri"), corruzione di funzionari esteri, evasione fiscale. Quanto al profilo di internazionalità della condotta, la Corte ricorda che l’aggravante prevista dall’articolo 4 della legge n. 146 del 2006 riguarda i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, alla cui commissione ha dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato. L’aumento della pena aumentata da un terzo alla metà. Tuttavia, per ritenere possibile l’aumento di pena serve una serie di elementi: • la stabilità dei rapporti tra gli aderenti; • minimo di organizzazione senza formale definizione dei ruoli; • non occasionalità della medesima organizzazione; • costituzione in vista della commissione anche di un solo reato e per ottenere un vantaggio finanziario o materiale. In realtà, poi, il gruppo criminale si distingue oltre che dal semplice concorso, e qui la differenza è più intuitiva, anche dall’associazione a delinquere, disciplinata dall’articolo 416 del Codice penale, che richiede per esempio un’articolata organizzazione strutturale, una precisa ripartizione di ruoli, e la pianificazione di una serie indeterminata di reati. E allora, per la Cassazione, è censurabile l’argomentazione del Riesame che afferma semplicemente che il fatto sarebbe stato commesso con il contributo di un gruppo criminale, come pure nella parte che non indaga a sufficienza sulla legge estera per verificare la natura delle attività oggetto della presunta corruzione. Status di rifugiato per l’omosessuale che in patria rischia il carcere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 Tribunale di Milano - Sezione I civile - Ordinanza 27 ottobre 2015. Va concesso la stato di rifugiato allo straniero omosessuale che in patria rischia una pena detentiva. L’orientamento sessuale, infatti, "costituisce un aspetto fondamentale dell’identità umana che una persona non deve essere costretta a nascondere o abbandonare". Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, ordinanza 27 ottobre 2015, accogliendo la domanda di un diciannovenne nigeriano, a norma dell’articolo 2 del Dlgs 25/2008 "Attuazione della Direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato". Il tribunale richiama anche i "Principi di Yogyakarta" adottati nel 2007 da un gruppo di esperti in materia di diritti umani che sebbene non vincolanti, "riflettono dei principi consolidati del diritto internazionale". Il Principio 23, per esempio, prevede: "Ognuno ha il diritto di cercare e di avvalersi in altri paesi della protezione dalla persecuzione, ivi compresa la persecuzione perpetrata per motivi legati all’orientamento sessuale o all’identità di genere. In nessun caso uno Stato può allontanare, espellere o estradare una persona verso uno Stato in cui questa persona potrebbe incorrere in un fondato timore di tortura, persecuzione o qualsiasi altra forma di trattamento o punizione crudeli, inumani o degradanti sulla base dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere". Il giudice ricorda, poi, che chi richiede la protezione deve comunque dimostrare quanto asserisce benché goda di un regime probatorio "attenuato". In particolare, il Dlgs 251/2007, all’articolo 3, stabilisce che anche in assenza di elementi rilevanti, i fatti possono comunque essere ritenuti veri se: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) è stata fornita un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) il richiedente ha presentato la domanda il prima possibile; d) dai riscontri effettuati è attendibile. Invece la Corte di Giustizia UE nel 2013 ha chiarito che "il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione". Ma "una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel paese d’origine dev’essere considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce pertanto un atto di persecuzione". E in Nigeria il "same sex marriage bill", approvato nel gennaio del 2014, prevede fino a 14 anni di carcere per chi contrae matrimonio o unione civile gay e 10 anni per chi rende pubblica la propria relazione omosessuale. Così ricostruito il quadro, il tribunale ha dato credito al terribile racconto dell’extracomunitario, giudicato invece inattendibile dalla Commissione territoriale che, infatti, aveva respinto la domanda di asilo. Dopo la morte del padre, sua madre venne accusata dagli appartenenti al villaggio di averlo ucciso e venne costretta a vivere nella foresta, dove poi si suicidò. Per darle sepoltura adeguata, seguendo le tradizioni locali, egli fu obbligato ad accettare del denaro da parte di un conoscente che in cambio gli chiese favori sessuali. Da quel momento egli rimase a vivere nella sua casa, dove poi, a seguito di una irruzione, venne "sorpreso" dai membri del villaggio. Da lì la decisione di fuggire per paura di perdere la vita. Così stando le cose, conclude l’ordinanza, "appare del tutto evidente il grave pericolo di persecuzione cui sarebbe soggetto il ricorrente in caso di rientro in Patria, motivato dal suo orientamento sessuale che era ormai noto anche alle Autorità locali, in seguito all’irruzione di alcuni membri del villaggio nell’abitazione dell’amico del ricorrente". Pertanto sussistono i presupposti per riconoscere lo status di rifugiato nel rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Dlgs n. 251/2007. La massima Richiesta di protezione internazionale - Orientamento sessuale del richiedente - Persona omosessuale proveniente da paese in cui l’omosessualità sia considerata reato (nel caso di specie: Nigeria) - Fondatezza della richiesta di protezione - Sussiste (art. 35 Dlgs 25/2008). Sussiste grave pericolo di persecuzione per il soggetto che, in caso di rientro in Patria, a causa del proprio orientamento sessuale (nel caso di specie: omosessuale), sarebbe sottoposto a pena detentiva così elevata da poter essere considerata una sanzione discriminatoria e dunque un atto di persecuzione (nel caso di specie: Nigeria). In ipotesi del genere è meritevole di accoglimento la richiesta di protezione internazionale presentata dallo straniero, atteso che l’orientamento sessuale costituisce un aspetto fondamentale dell’identità umana che una persona non deve essere costretta a nascondere o abbandonare. (Giuseppe Buffone) Legittima la destituzione del notaio che ha scontato la pena per reati gravi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 Corte Costituzionale - Sentenza 19 novembre 2015 n. 234. È legittima la norma dell’ordinamento notarile che preclude al notaio, condannato per reati gravi, la possibilità di esercitare di nuovo la professione. La Corte costituzionale (sentenza 234 di ieri) esclude il contrasto con la Carta del divieto di esercizio imposto al professionista malgrado abbia scontato la pena. Una norma, che taglia fuori gli ex condannati per reati come la corruzione il peculato o la truffa, che non può essere considerata né arbitraria né irrazionale perché non è frutto di un automatismo ma è conseguenza di un motivato apprezzamento da parte dell’organo disciplinare. Non è infatti, irragionevole presumere che condotte tanto gravi da meritare le destituzione, siano tali da far venire meno la fiducia nei confronti del notaio anche se questo ha scontato la sua pena. Un affidamento di grado particolarmente elevato che i consociati devono "poter incondizionatamente riporre in una figura destinata a garantire la sicurezza dei traffici giuridici, a propria volta preminente interesse nello Stato di diritto". Eccezionalità dell’istituto della rimessione del processo. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 Processo penale - Competenza per territorio - Rimessione del processo - Eccezionalità dell’istituto - Deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge Interpretazione restrittiva della relativa disciplina - Necessità. L’istituto della rimessione ha carattere eccezionale, implicando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge e, come tale, comporta la necessità di un’interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii, con la conseguenza che, da un lato, per "grave situazione locale" deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l’ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del giudice o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo e, dall’altro, che i "motivi di legittimo sospetto" possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 giugno 2015 n. 23962. Processo penale - Rimessione del processo - Casi - Libertà di determinazione del giudice - Nozione - Locali campagne di stampa - Pluralità di procedimenti a carico dell’imputato assegnati allo stesso PM - Rilevanza - Esclusione. L’istituto della rimessione del processo, costituendo deroga alla competenza per territorio determinata dal sospetto di condizionamenti del giudice in ordine alla sua imparzialità, pregiudicata da situazioni locali gravi, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, è regolato da norme che postulano una interpretazione rigorosa e restrittiva, per i chiari riflessi di ordine costituzionale attinenti al giudice naturale precostituito per legge, per cui Il pregiudizio effettivo, che si vuole evitare, richiesto dal primo comma dell’articolo 45 cod. proc. pen., esclude che la turbativa possa essere solo potenzialmente idonea a produrlo, onde si richiede, rigorosamente, un’incidenza negativa di tal concreta portata, da diventare un dato effettivamente inquinante. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 21 gennaio 2015 n. 2565. Competenza - Rimessione del processo - Turbamento dello svolgimento del processo - Presupposti - Campagna di stampa continua ed animosa - Idoneità - Esclusione. In tema di rimessione del processo, ripetuti articoli giornalistici, e persino una vera e propria campagna di stampa, pur continua ed animosa, non assumono di per sé rilievo ai fini della translatio iudicii, in mancanza di elementi concreti che rivelino una coeva potenziale menomazione dell’imparzialità dei giudici locali. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 marzo 2014 n. 11499. Competenza - Rimessione del processo - Presupposti - Parzialità dell’ufficio giudiziario procedente o lesione o pericolo di lesione delle determinazioni delle persone che partecipano al processo - Rischio reale - Necessità - Sussistenza - Turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice - Prospettazione di un rischio probabile - Sufficienza - Esclusione - Ragioni. La "grave situazione locale" di cui all’articolo 45 cod. proc. pen. deve essere intesa come un fenomeno esterno di tale e manifesta abnormità da costituire fonte di reale rischio di parzialità dell’ufficio giudiziario procedente ovvero di reale lesione (o pericolo di lesione) della libera determinazione delle persone che vi partecipano, avendo l’istituto carattere eccezionale di deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge e perciò implicando una stretta interpretazione delle relative disposizioni; conseguentemente, non ricorrono gli estremi per la rimessione nel caso di semplice prospettazione di un probabile rischio di turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice, sul fondamento di timori, illazioni e sospetti non espressi da fatti oggettivi né dotati di intrinseca capacità dimostrativa. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 marzo 2014 n. 11499. Rimessione del processo - Presupposti - Rischio di probabile turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice - Rilevanza - Esclusione. Non ricorrono gli estremi per la rimessione del processo quando l’istante si limiti a prospettare soltanto il probabile rischio di turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice, fondato su illazioni o sull’adduzione di timori o sospetti, non espressi da fatti oggettivi né muniti di intrinseca capacità dimostrativa, senza indicare alcuna situazione locale di una tale gravità e dotata di una oggettiva rilevanza da coinvolgere l’ordine processuale dell’ufficio giudiziario di cui sia espressione il giudice procedente. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 23 maggio 2013 n. 22113. Il caso fortuito come causa di esclusione della punibilità. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2015 Reato - Cause di esclusione del dolo e della colpa - Caso fortuito - Nozione. Non costituisce caso fortuito, tale da escludere la punibilità dell’agente, quello cui lo stesso abbia dato causa con la sua condotta negligente o imprudente. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 11 settembre 2015 n. 36883. Reato - Cause di esclusione del dolo e della colpa - Caso fortuito - Configurabilità. L’accadimento fortuito, per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell’agente - sul comportamento del quale viene ad incidere - deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta del soggetto agente, sia dalla sua colpa. Ne consegue che in tutti i casi in cui l’agente abbia dato materialmente causa al fenomeno - solo, dunque, apparentemente fortuito - ovvero nei casi in cui, comunque, è possibile rinvenire un qualche legame di tipo psicologico tra il fortuito e il soggetto agente, (nel senso che l’accadimento, pure eccezionale, poteva in concreto essere previsto ed evitato se l’agente non fosse stato imprudentemente negligente o imperito) non è possibile parlare propriamente di fortuito in senso giuridico. (Principio già affermato da Cass. dicembre 1988, Savelli, RV 180850). • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 10 agosto 2015 n. 34695. Reato - Cause di esclusione del dolo e della colpa - Caso fortuito - Nozione. Il caso fortuito consiste in quell’avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto e non può in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all’attività psichica dell’agente. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 12 febbraio 2013 n. 6982. Reato - Cause di esclusione del dolo e della colpa - Caso fortuito - Onere della prova - Individuazione. La prova del caso fortuito, come di tutte le cause che escludono la punibilità del fatto, deve essere fornita dall’imputato in modo rigoroso. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 22 marzo 1989 n. 4220. Reato - Cause di esclusione del dolo e della colpa - Caso fortuito - Nesso psicologico o materiale tra evento ed agente - Esclusione dell’esimente - Ragione. L’accadimento fortuito, per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell’agente deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta del soggetto agente, sia dalla sua colpa. In tutti i casi in cui l’agente abbia dato materialmente causa al fenomeno - solo, dunque, apparentemente fortuito - ovvero nei casi in cui, comunque, è possibile rinvenire un qualche legame di tipo psicologico tra il fortuito e il soggetto agente, non è possibile parlare propriamente di fortuito in senso giuridico. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 22 marzo 1989 n. 4220. Sardegna: Sdr; nelle carceri il vero problema è la tossicodipendenza non la jihad sardegnaoggi.it, 20 novembre 2015 "Il Segretario nazionale del Sappe Donato Capece sembra paradossalmente ignorare la realtà delle carceri. Abbiamo l’impressione che non siano gli jihadisti la principale preoccupazione degli Agenti della Polizia Penitenziaria e dei Direttori delle strutture detentive. Né è possibile riattivare ciò che furono l’Asinara e Pianosa. Se si vuole garantire una convivenza meno drammatica nei Penitenziari bisogna risolvere innanzitutto il problema dei tossicodipendenti. Occorre insomma una riflessione meno approssimativa della vita nelle strutture penitenziarie specialmente adesso. Altrimenti si rischia di volersi fare pubblicità a buon mercato". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare che "in Sardegna, come tutti ben sanno, non esiste alcuna possibilità di restituire l’Asinara a un ruolo penale. Sconcerta tuttavia l’assenza di idee per arginare fenomeni come il proselitismo alla jihad e garantire una maggiore sicurezza negli Istituti Penitenziari". "Se esiste una emergenza carceri, in Sardegna come in buona parte d’Italia, si chiama - rileva Caligaris - tossicodipendenza. Risulta infatti che circa il 40% dei detenuti delle strutture penitenziarie in particolare quelle di Cagliari-Uta e Sassari-Bancali, per fare due concreti esempi, ha problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti, alcol e gioco d’azzardo compresi. Si tratta di percentuali inaccettabili in un sistema di privazione della libertà in cui le attività di recupero e risocializzazione, anche nelle migliori prospettive, contrastano con la condizione fisica e psicologica di chi ha una dipendenza. Si tratta di soggetti anche con problematiche psichiatriche e infettivologiche (Hiv e epatite B e C). Occorre quindi trovare alternative alla detenzione attraverso Comunità il cui operato deve essere costantemente monitorato". "La negazione di libertà, soprattutto nei casi di tossicodipendenza, non può prescindere da attività trattamentali specifiche e da una programmazione personalizzata degli impegni individuali con tempi e spazi adeguati alle terapie riabilitative. I Penitenziari non sono idonei a queste finalità e al contrario sembrano piuttosto favorire la tossicodipendenza anche perché le iniziative e le attività sono troppo poche. Nonostante la buona volontà degli psichiatri e degli operatori dei Serd, che effettuano il servizio negli Istituti di Pena, le persone che hanno alle spalle una lunga storia di dipendenza non sono in grado - sottolinea Caligaris - di sostenere un regime detentivo. Molti di loro peraltro insieme alla tossicodipendenza convivono con gravi disturbi psichici che alterano ulteriormente il profilo della personalità compromettendo spesso la convivenza dentro le celle e mettendo a dura prova il lavoro degli specialisti oltre che degli Agenti Penitenziari, talvolta non preparati ad affrontare le situazioni di crisi". "La tossicodipendenza, inoltre, è spesso legata a condizioni socio-economico-culturali di difficile rimozione, ridefinizione e gestione con il risultato che anche quando si registra un netto miglioramento del detenuto-paziente, il suo ritorno a casa in regime di detenzione domiciliare coincide spesso - conclude la presidente di Sdr - con la ripresa delle vecchie abitudini. Ne consegue la tendenza a non rispettare le prescrizioni stabilite dal Magistrato di Sorveglianza per la concessione del beneficio e il ritorno in cella. È evidente insomma che si attiva un circolo vizioso impossibile da interrompere senza una forte presenza esterna degli operatori dei Servizi Sociali. È opportuno riflettere sulla Jihad e sul proselitismo, ma le carceri sarebbero molto più sicure se i tossicodipendenti fossero curati adeguatamente e se fossero garantiti a tutti attività. Stare chiusi in cella a guardare il soffitto non serve". Abruzzo: situazione delle carceri, la relazione in Regione del Presidente di "Antigone" avezzanoinforma.it, 20 novembre 2015 L’avvocato Salvatore Braghini, presidente regionale dell’Associazione Antigone, è intervenuto nella V Commissione del Consiglio Regionale - Salute, Sicurezza sociale, Cultura, Formazione e Lavoro - alla presenza del presidente Mario Olivieri e dei consiglieri interessati, per illustrare le criticità rilevate durante le visite nelle carceri abruzzesi, dove ha svolto, in qualità di osservatore accreditato dal Ministero di Giustizia, un’accurata indagine sulle condizioni dei detenuti, con particolare attenzione alla verifica del sovraffollamento, delle dimensioni delle celle in ragione del numero dei detenuti, delle condizioni igienico-sanitarie, delle attività trattamentali, del sistema di vigilanza. Dopo aver evidenziato alcune criticità riguardanti i dati del sovraffollamento (per Teramo e Sulmona), lo stato di inadeguatezza degli edifici (il super-carcere di Sulmona sta costruendo un nuovo padiglione che ospiterà 200 detenuti), la carenza di personale penitenziario, l’inadeguatezza dei fondi per il lavoro dei detenuti e il trattamento rieducativo, nonché la peculiare vicenda della Casa Lavoro di Vasto, dove per ritardi di ordine tecnico si è ancora in attesa di aprire una sartoria che impegnerebbe oltre 40 internati, Braghini ha esposto le problematiche di ordine sanitario: carenza di personale, insufficienza di apparecchiature elettromedicali, un elevato numero di ricoveri in ospedale che comportano oneri per l’amministrazione in termini di personale di scorta, mezzi e sicurezza, come dimostrato dalla recente evasione dal carcere di Pescara. Il presidente di Antigone, Associazione Onlus per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha riportato in audizione che si potrebbe ovviare a molti problemi attraverso la dotazione di apparecchiature informatiche adeguate, di apparecchi radiografici e anche mediante il ricorso alla telemedicina. L’avvocato ha poi posto il problema della mancata messa a norma dei locali, evidenziando che in alcuni Istituti andrebbe potenziato il servizio infermieristico per problemi connessi alla distribuzione della terapia che avviene in sezione a causa dell’ingente numero di visite mediche e specialistiche richiedenti la presenza dell’infermiere. Braghini ha sottolineato che un problema comune a tutti gli Istituti è legato alle protesi dentarie che non rientrano nei Lea, livelli essenziali di assistenza, per cui la Asl non le garantisce ed i detenuti devono provvedervi a proprie spese, e restano così precluse alla quasi totalità della popolazione carceraria, formata per lo più da indigenti. I detenuti vanno quindi avanti ad anti infiammatori o antibiotici ed a diete, con ulteriori problemi per la salute nonché di gestione. L’Associazione Antigone chiede alla Regione di prevedere dei fondi appositi in modo che ogni Asl possa provvedere almeno a un numero di dieci protesi annuali nei grandi e medi Istituti come quelli di Sulmona, Teramo, Pescara e Lanciano e almeno 5 negli altri. Stando alla relazione del presidente, risulta insufficiente anche l’assistenza psichiatra, necessaria visto il forte disagio correlato alla detenzione, mentre per i detenuti disabili non vi sono strutture adeguate. Anche questo spiega il perché dei numerosi scioperi della fame, atti di autolesionismo, forme di protesta, violenze e aggressioni tra detenuti e verso la polizia penitenziaria, fino ad arrivare ad azioni di suicidio. Il presidente di Antigone Abruzzo, che porta avanti insieme al comitato regionale StopOPG la battaglia per risolvere il problema della residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ha comunicato che la Regione Abruzzo è stata appena diffidata dal Ministero della Salute quale atto preliminare al commissariamento. Ciò in quanto ancora non provvede alla rimodulazione del programma per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, continuando a mantenere attiva la delibera di istituzione della sicurezza a Ripa Teatina, e non si è dotata dell’organismo di monitoraggio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, anche per avere finalmente dati ufficiali sul numero di persone abruzzesi e molisane con la misura di sicurezza dell’internamento e che verrebbero ospitate nella Rems. Nuoro: l’addio ad Antonio Floris, il detenuto di Desulo assassinato a Padova di Roberto Tangianu L’Unione Sarda, 20 novembre 2015 Sognava di tornare da uomo libero e invece è stato il suono delle campane di Desulo ad accogliere con i rintocchi del lutto Antonio Floris, il sessantunenne ucciso a Padova nella comunità dove scontava la sua condanna di 16 anni per un duplice tentato omicidio. La comunità del centro montano si è riunita ai parenti fin da mezzogiorno di ieri, quando il feretro ha fatto ingresso nella chiesa di San Sebastiano, rione di Asuai. Nel pomeriggio il parroco ha celebrato la messa e durante l’omelia ha toccato con delicatezza il tema del ricordo. "Cristianamente siamo richiamati ad essere sempre vicino a Dio - ha detto don Mariano Pili. A prescindere dai nostri errori nessuno può giudicarci. Antonio stava scontando la sua pena". Il sacerdote durante l’omelia ha letto anche un articolo che Floris aveva scritto tempo fa per una rivista carceraria. "In sedici lunghissimi anni, dalla mia cella, ho visto un albero crescere di cinque metri. Il suo sviluppo è lentissimo. Il tempo sembra non passare mai, soprattutto rinchiusi in una stanza". La metafora dell’albero è la ricerca di salvezza ha sottolineato don Mariano. Non sono voluti mancare al funerale di Antonio Floris anche i Padri Mercedari di Padova. "Non dimenticheremo mai la sua amicizia e la sua disponibilità. Antonio aveva un grande senso del dovere. Non ha mai creato alcun problema. Lavorava l’orto e cenava con noi". Il 6 novembre scorso il dramma, quando nel carcere Due Palazzi di Padova era scattato l’allarme per il mancato rientro di Floris. In un primo momento gli inquirenti avevano pensato che l’uomo fosse scappato. Pochi giorni dopo, invece, è arrivata la drammatica notizia. Il desulese era stato ucciso a colpi di spranga vicino alla sede della Cooperativa per la riabilitazione dei carcerati nell’oasi dei Padri Mercedari. Floris era considerato un detenuto modello, dotato di intelligenza e misurato nelle parole. Collaborava con un giornale locale e nel 1996 si era parlato di lui perché aveva descritto la sua latitanza utilizzando un codice cifrato. Antonio Floris, nonostante la lontananza, era molto legato al suo paese natale e in più occasioni aveva manifestato l’intenzione di rifarsi una vita nella sua Desulo, dopo aver pagato per i suoi errori. Ieri pomeriggio la comunità gli ha dato l’ultimo saluto. Bologna: i detenuti arabi si dissociano dall’Is, alla Dozza "netta presa distanza da strage" Dire, 20 novembre 2015 I detenuti arabi del carcere di Bologna si sono dissociati dagli attentati di Parigi rivendicati dall’Isis. Lo fa sapere la garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, che in una nota rilancia la proposta (criticata dalla Lega nord) di permettere l’ingresso degli imam alla Dozza per garantire il diritto di culto. Oggi era in programma la prima lezione del secondo corso sul tema "Diritti, doveri e solidarietà" all’interno del carcere bolognese. Erano più di 100 i detenuti presenti all’incontro, riferisce la garante, uomini e donne, italiani e stranieri. E molti di loro hanno preso la parola specificatamente per ribadire "una netta presa di distanza dai fatti criminali commessi in nome della religione, come quelli recenti di Parigi". I detenuti hanno anche voluto sottolineare "l’equilibrio sin qui dimostrato dalle istituzioni della giustizia francese nell’affrontare questa terribile esperienza". Anche la direttrice del carcere, Claudia Clementi, si è concentrata sugli attacchi terroristi a Parigi e sulle reazioni che hanno provocato, stigmatizzando la "ricerca strumentale di notizie ad effetto che si è aperta in questi ultimi giorni, in particolare rispetto a possibili reazioni in carcere, soprattutto da parte di detenuti stranieri, in favore delle azioni terroristiche parigine, che invece non si è affatto avuta". Quanto all’ingresso degli imam in carcere, Bruno ribadisce la necessità di "favorire l’espressione del culto anche tra i detenuti di fede musulmana, senza improvvisazioni e in sicurezza", perché "sono i diritti umani il veicolo per superare le diversità di religione e di lingua". Per farlo, insiste la garante, bisogna "introdurre un elenco o albo per gli imam ammessi agli istituti penitenziari, come già proposto dalla stessa comunità islamica nell’ambito della consulta per l’Islam presso il ministero dell’Interno". Un’idea che è "condivisa anche dagli operatori di settore", ci tiene a precisare Bruno. La lezione di oggi alla Dozza era dedicata alla ‘primavera arabà e in particolare al Nobel per la Pace 2015 assegnato al Quartetto del dialogo, protagonista della stagione di riforme in Tunisia. Durante l’incontro è stato proiettato un video della deputata tunisina Imen Ben Mohamed, che in un discorso al giovane Parlamento del suo Paese "enfatizzava la centralità dell’effettiva tutela delle libertà e dei diritti delle donne come motore di cambiamento sociale e l’importanza dei distinti ruoli dei rappresentanti eletti, delle forze economiche, dei sindacati dei lavoratori, delle associazioni dei cittadini per il funzionamento dello stato democratico". Tra i relatori di oggi: Ignazio de Francesco della comunità di Monte Sole, ideatore del corso; Adnane Mokrani, professore al Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica; Paolo Branca, islamista dell’Università cattolica di Milano; Yassine Lafram, mediatore culturale e coordinatore della Comunità islamica di Bologna. Cosenza: il carcere di Rossano sarà l’unico istituto di reclusione per i terroristi di Francesco Montanari Quotidiano del Sud, 20 novembre 2015 Oltre 30 i criminali nella prigione: 19 integralisti islamici un esponente Isis, uno Eta e 10 arriveranno da Siano. A breve il carcere di Rossano sarà l’unico istituto di reclusione per i terroristi operante in Italia, e si accrescerà grazie al trasferimento degli altri detenuti finora rinchiusi nel supercarcere di Siano. Dunque l’allarme lanciato nei giorni scorsi dal sindacato di polizia penitenziaria è tutt’altro che da ridimensionare. L’amministrazione penitenziaria avrebbe infatti già predisposto tutto per un immediato trasferimento dei detenuti nel braccio di alta sicurezza del carcere di Catanzaro, dove esiste un’apposita ala dedicata proprio a quanti sono accusati di reati di terrorismo, nel reparto di isolamento dell’istituto di Rossano, che così si accorperebbe alla sezione detentiva speciale per reati di terrorismo internazionale chiamata "Alta sicurezza 2". E questo porterebbe il numero dei terroristi concentrati in un solo istituto, a oltre trenta: gli attuali dieci di Siano più i ventuno (19 integralisti islamici, uno appartenente all’Isis e un altro all’Eta) già presenti a Rossano da quando gli altri due istituti di Benevento e Macomer hanno chiuso le loro sezioni speciali. A preoccupare il sindacato degli agenti penitenziari non è tanto la concentrazione - che pure non è da sottovalutare, visto che farebbe del penitenziario calabrese un obiettivo sensibile per attacchi dei terroristi, sia dimostrativi sia per la liberazione dei detenuti - quanto il fatto che i livelli di sicurezza sono scarsissimi. Il rossanese Giovanni Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, ha detto al Quotidiano "non ci preoccupa la tipologia di detenuti, dato che siamo preparati a gestire i peggiori mafiosi, ma la carenza assoluta di uomini e risorse dedicate al servizio". Le parole di Durante, lo ricordiamo, fanno eco a quelle espresse due giorni fa anche dal segretario generale del Sappe, Donato Capece, espresso subito dopo la visita effettuata nel carcere di Rossano. Per i due sindacalisti, dunque, l’istituto penitenziario calabrese era già carente e inadeguato. Ogni giorno in quella sezione speciale dovrebbero esserci quattro agenti di polizia penitenziaria, ma purtroppo ne abbiamo solo uno". "E il servizio - ha precisato ieri Durante - è effettuato a bordo di una Fiat Punto, non blindata". "L’altro giorno - ha aggiunto - abbiamo dovuto portare uno di questi detenuti a Bari per un processo, con un mezzo e un numero di agenti di scorta assolutamente inadeguati". Le richieste di rafforzamento dell’organico nel carcere di Rossano risalgono al 2009; ripetute ogni anno; anche dopo l’attacco terroristico al giornale satirico francese Charlie Hebdo, quando è scattato il maggiore livello di sicurezza sull’istituto; ma maggiore sicurezza - ha sempre lamentato i sindacati - rimasta sulla carta data la carenza di personale. Ma stavolta - dopo il nuovo attentato a Parigi e le urla di gioia che si sarebbero levate da dentro le celle dei detenuti-terroristi appena appresa la notizia - forse, sperano i sindacati, il governo capirà che il carcere di Rossano non può rimanere così sguarnito. Roma: l’appello di 1.200 detenuti di Rebibbia "fate uscire quella donna, sta male" di Donatella Coccoli Left, 20 novembre 2015 Da Rebibbia l’appello dei reclusi per una detenuta. "Ha una patologia psichiatrica, non può stare qui". L’avvocato: "Incarcerata nonostante fosse già stata dichiarata incompatibile con il carcere". "Scarceratela, sta male, non può rimanere in carcere". Una petizione firmata da 1.200 firme di detenuti di Rebibbia solleva il velo sulla storia di A.F., madre di un loro compagno di cella. Una storia in cui il dramma della malattia si aggiunge a quello della reclusione. "Noi detenuti del carcere di Rebibbia siamo indignati e offesi di essere venuti a conoscenza di un episodio che ci obbliga a intervenire compatti per denunciare pubblicamente una gravissima situazione che, se non sarà tempestivamente risolta in senso positivo, potrà degenerare in tragedia". La signora, dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la sentenza d’appello a 5 anni e otto mesi di reclusione, è stata portata a Rebibbia, lo stesso carcere dove è recluso il figlio, condannato per reati legati al traffico di stupefacenti. "Ma A.F. ha una patologia riconosciuta sin dal 1998, addirittura le prime manifestazioni della malattie risalgono al 1993", afferma l’avvocato Lucia Gargano che insieme al collega Angelo Staniscia ha presentato l’istanza di sospensione dell’esecuzione della condanna al magistrato di sorveglianza. "Adesso il magistrato ha chiesto al carcere una relazione sanitaria e speriamo che presto la situazione si risolva e che la signora venga affidata alla custodia domiciliare, seguita dal personale sanitario. Intanto per adesso è stata ricoverata in infermeria". A.F., racconta l’avvocato "soffre di disturbo di personalità, una patologia seguita e documentata dal Centro di igiene mentale di Ostia. Prendeva farmaci e spesso è stata ricoverata dopo aver compiuto gesti autolesionistici", continua Lucia Gargano. "Quando venne arrestata, nel 2012, era stata subito scarcerata perché dichiarata incompatibile con il regime carcerario. Nel momento in cui la sentenza è diventata definitiva, hanno eseguito la condanna ignorando questa cosa", afferma l’avvocato. A Rebibbia è incarcerato anche il marito di A.F. Entrambi i genitori infatti, sono stati condannati per associazione, "un reato dilatato" afferma l’avvocato. Un dramma nel dramma. A cui si aggiunge quello di A.F. in cui "ogni istante di permanenza in istituto può costituire una seria minaccia per l’incolumità e la vita della reclusa", scrivono i detenuti. Continuano, reclamando giustizia. "In questo caso non si tratta di un beneficio o di una regalia, una delle tante dispensate in tempi recente a detenuti cosiddetti eccellenti, ma di un atto di giustizia da applicare a un essere umano riconosciuto invalido al 100 per cento e, pertanto, da destinare a cure specialistiche in un ambiente che non sia quello carcerario". La petizione si conclude con la richiesta di rispettare il diritto alla vita e alla salute di una cittadina detenuta alla quale, pur gravata da una condanna, si devono riconoscere e applicare le garanzie di tutela sancite dalla nostra Carta Costituzionale". Benevento: fa visita al compagno in carcere e cerca di introdurre marijuana, denunciata ilquaderno.it, 20 novembre 2015 Si era recata presso Casa circondariale di Benevento per far visita ad un detenuto ma Polizia Penitenziaria rinviene droga nelle scarpe, arrestata una donna. La Polizia Penitenziaria di Benevento ha sventato un tentativo di introduzione di sostanza stupefacente all’interno dell’Istituto di pena di Capodimonte. A renderlo noto è il delegato Regionale della USPP Unione Sindacati Polizia Penitenziaria Nicola Schipani e il segretario Provinciale Luigi Napolitano. Nella tarda mattinata di ieri, approfittando dell’ingresso in Istituto per i colloqui, una donna di origini partenopee in visita al suo compagno detenuto, ha cercato di introdurre all’interno del pacco destinato all’uomo, della sostanza stupefacente, occultando la stessa in una sorta di vano astutamente ricavato nella suola delle scarpe destinate proprio al congiunto recluso. La cosa non è però sfuggita ai controlli dell’Unità Operativa Colloqui della Polizia Penitenziaria Coordinata dall’ispettore Maurizio Panella che, rilevata l’anomalia dell’oggetto, ha immediatamente attivato il protocollo di sicurezza previsto in questo casi, sequestrando la sostanza e allertando la locale Unità Cinofila Antidroga dei baschi azzurri di stanza a Benevento. Da esami più accurati, la sostanza rinvenuta è stata classificata come marijuana e immediatamente sono scattati ulteriori controlli sull’autovettura utilizzata dalla stessa donna per raggiungere da Napoli il capoluogo Sannita, questa volta anche con l’ausilio di cani antidroga che però hanno dato esito negativo. La donna è stata quindi denunciata all’Autorità Giudiziaria che ne ha disposto gli arresti domiciliari presso la propria abitazione di Napoli. "Ancora una volta - dichiarano Schipani e Napolitano dell’Uspp - la professionalità e l’esperienza del personale in divisa, hanno permesso di sventare l’introduzione e il conseguente certo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno del penitenziario, che, oltre al pericolo intrinseco dovuto agli affetti propri delle droghe, spesso, proprio per il loro acquisito valore una volta introdotte nei luoghi di pena, vengono utilizzate come preziose merci di scambio per ben altri truci baratti". Televisione: "Lea", una storia così grande che la scrittura passa in secondo piano di Aldo Grasso Il Corriere della Sera, 20 novembre 2015 Lea Garofalo scomparve la sera del 24 novembre del 2009; in un primo momento gli inquirenti sostennero che la donna fu torturata per ore per essere uccisa il giorno seguente e dissolta nell’acido. Il corpo della donna, invece, fu trovato carbonizzato solo nel 2012 in un campo della Brianza e dalle indagini emerse che Lea fu torturata e poi bruciata, non dissolta nell’acido. "Lea", il tv-movie prodotto da Rai Fiction, scritto da Monica Zapelli e da Marco Tullio Giordana, diretto dalla stesso Giordana, ripercorre la storia di una donna cresciuta in una famiglia criminale calabrese (Raiuno, mercoledì, ore 21.20). All’età di 13 anni si innamora di Carlo Cosco dal quale dopo quattro anni avrà la figlia Denise. Anche Cosco è un criminale, ma Garofalo sente il bisogno di avere una vita diversa, senza paura e senza violenza. Nel 2002 Lea (interpretata da Vanessa Scalera) decide che è giunto il momento di iniziare a collaborare con la giustizia e di conseguenza viene inserita nel programma di protezione insieme a Denise (Linda Caridi). Come ha dichiarato al Corriere il magistrato Domenico Airoma, la scelta di Lea "è una scelta rivoluzionaria, la peculiarità della ‘ndrangheta è il vincolo di sangue... Lei rompe questo vincolo e lo fa anche come donna". Toccherà poi alla figlia Denise costituirsi parte civile contro il suo stesso padre. In questo film, ovviamente, il peso del contenuto è così grande che quasi passano in secondo piano tutti gli aspetti formali. Com’era successo con "I cento passi". Ma questo è anche il merito di "Lea". Il racconto è così avvincente da far dimenticare gli elementi di scrittura. Che ci sono, altrimenti la narrazione non sarebbe così brutale, tragica, a tratti commovente. Speriamo che "Lea" non resti un unicum, una di quelle cose che si fanno per rinverdire ed esaltare il ruolo del Servizio pubblico. Fanno parte del cast del film tv anche Alessio Praticò, Mauro Conte e Matilde Piana. Radio: Jailhouse Rock, una puntata per essere vicini ai francesi Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2015 Anche Jailhouse Rock si strige intorno alla Francia e i francesi, vittime nei giorni scorsi della barbarie terrorista. Lo faremo con una puntata in cui si alterneranno le canzoni di alcuni musicisti d’oltralpe (George Brassens, Daft Punk, Renaud, Edith Piaf, Massilia Sound System, Les Negresses Vertes) e in cui i detenuti della cover band del carcere di Bollate arrangeranno La Marsigliese. Sarà ai nostri microfoni Michele Lobaccaro, musicista e compositore italiano, fondatore dei Radiodervish, gruppo che centra la propria opera in un costante dialogo e contaminazione con le altre culture, a partire da quella araba. È solo attraverso questo dialogo e questa contaminazione - e non con le guerre - che è possibile sconfiggere il terrorismo. Jailhouse Rock, suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni è una trasmissione ideata e condotta da Susanna Marietti e Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone. Va in onda il venerdì dalle 17.00 alle 18.00 in diretta su Radio Articolo 1 e Radio Popolare Roma. Su Radio Popolare, sulle frequenze della Lombardia e di altre radio di Popolare Network, la domenica dalle 16.30 alle 17.30. In onda anche su Controradio (Firenze) il martedì alle 22.30, su Radio Città del Capo (Bologna) il sabato alle 22.30, su Radio Flash (Torino) il lunedì alle 20.00, su Radio Popolare Salento la domenica alle 16.30 e su Radio Città Aperta (Roma) il lunedì alle 13.00. Radio: carcere di Turi, in cella la radio è libera di Antonio Galizia Gazzetta del Mezzogiorno, 20 novembre 2015 Una trasmissione radiofonica sul web per raccontare le vite e le realtà del carcere, storie di amicizia, ma anche per porgere gli auguri di Natale e di compleanno ai propri figli, ai familiari, senza che questi debbano raggiungerli in carcere. Si chiama "Radio torno subito", l’emittente realizzata dai detenuti dell’istituto di pena di Turi, in collaborazione con la web radio "Radiondattiva". Un lavoro mirabile di racconto, dove i detenuti si interrogano sui tanti problemi che comporta la vita in carcere, parlano di amicizia e raccontano storie. Questo è solo uno dei risultati conseguiti da "Cuore oltre le sbarre", il laboratorio finanziato dalla Fondazione Con il Sud che si pone l’obiettivo di migliorare e sostenere i rapporti relazionali all’interno delle famiglie di 10 detenuti dell’istituto di pena, attraverso interventi che prevedono attività psico-educative e ludiche. La prima ha riguardato, un anno fa, l’inaugurazione nel carcere di uno spazio neutro: una ludoteca riservata ai figli dei detenuti. La seconda, la realizzazione della web radio e di prodotti audio visivi (un cortometraggio e due spot pubblicitari), curati dagli ospiti dell’istituto con la collaborazione dei tutor dello Sportello Elp, l’associazione di promozione sociale di Mola, impegnata in un progetto di rafforzamento delle relazioni dei detenuti con le proprie famiglie ed in modo particolare con i propri figli. L’idea progettuale "Cuore oltre le sbarre" nasce dalla mente di tre giovani professionisti pugliesi: Gaia Marcella Rizzo, Michele Lacriola ed Emanuele Triggiani, i quali hanno partecipato insieme a Sportello Elp e ad un gruppo di associazioni e cooperative del territorio (Su 2 Pedali, Radiondattiva, Occhi verdi e A piccoli passi"), al bando "Progetti speciali e innovativi" pubblicato dalla Fondazione Con il Sud, ottenendo il finanziamento. Il progetto ha ottenuto anche il sostegno e il patrocinio dei Comuni di Mola di Bari e Turi e vanta la collaborazione della Casa circondariale di Turi, della sezione di Criminologia dell’Università degli studi di Bari e del Progetto Giada, servizio di Psicologia dell’Ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari. La radio, il cortometraggio e gli spot verranno presentati oggi, alle 20, nel Castello in una conferenza. Relatori: Giangrazio Di Rutigliano (sindaco di Mola), Luigi Caccuri (responsabile dei servizi sociali del Comune di Mola), Piero Rossi (garante dei detenuti della Regione Puglia), Rosy Paparella (garante dei Diritti dell’infanzia della Regione Puglia), Nicola Colonna (presidente di Sportello Elp), Pasquale Di Pierro (educatore presso la Casa di Reclusione di Turi) e per le associazioni coinvolte nel progetto, Pasquale Rubino, Alessandro Colella, Franco Ferrante, Nicola Strisciulli e Giovanni Carbonara. Saranno loro a descrivere i prodotti audio visivi realizzati, che saranno proiettati nell’occasione. La scomunica del Papa contro guerra e trafficanti d’armi di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 novembre 2015 Papa Francesco denuncia il traffico di armi: "Siete delinquenti". Dopo gli attentati di Parigi l’Europa si avvia allo scontro armato e papa Francesco ieri ha pronunciato una vera e propria scomunica: siano "maledetti" ha esclamato, durante la messa a Santa Marta, quanti per arricchirsi fanno la guerra, che provoca vittime innocenti e riempiono le tasche dei trafficanti. "La guerra - ha denunciato - è proprio la scelta per le ricchezze: "Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse". C’è una parola brutta del Signore: "Maledetti!". Perché Lui ha detto: "Benedetti gli operatori di pace!". Questi che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti". E poi ha sollevato il velo sulla retorica che sta accompagnando gli attacchi in Medio Oriente, Terzo conflitto mondiale non dichiarato ufficialmente: "Una guerra si può giustificare, fra virgolette, con tante, tante ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!, è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là, dappertutto, non c’è giustificazione". Il Papa torna a chiedere un nuovo cammino sulla "strada della pace", a partire dalla lezione del Vangelo: "Anche oggi Gesù piange - ha sottolineato Bergoglio - perché noi abbiamo preferito la strada delle guerre, la strada dell’odio, la strada delle inimicizie. Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi, tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra. Il mondo non ha compreso la strada della pace". Anche le commemorazioni recenti sulla Seconda guerra mondiale sembrano adesso vuote: "Stragi inutili - ha ripetuto il pontefice -, dappertutto c’è la guerra, oggi, c’è l’odio. Cosa rimane di una guerra, di questa, che noi stiamo vivendo adesso? Rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. E mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro e intascano tanti soldi - ha continuato papa Francesco - ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, danno la vita, morendo per aiutare la gente". Uno j’accuse che chiama in causa anche l’Italia: nella costituzione è scritto che la repubblica ripudia la guerra ma basta - però - farla senza dichiararla. "Questo mondo non riconosce la strada della pace - ha rimarcato il Papa. Vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla. Chiediamo la conversione del cuore. Proprio alla porta di questo Giubileo della Misericordia, che il nostro giubilo, la nostra gioia sia la grazia che il mondo ritrovi la capacità di piangere per i suoi crimini, per quello che fa con le guerre". Il Giubileo si farà nonostante tutto, anche se ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha ammesso: "Non si può negare che ci siano dei timori, purtroppo nessuno può escludere a priori di essere sotto l’attenzione di queste brutalità". Durante la conferenza internazionale del Pontificio consiglio degli operatori sanitari, ieri, Bergoglio si è scagliato anche contro il rifiuto della cultura dell’accoglienza. Ricordando gli "atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti di malati, pubblici peccatori, indemoniati, emarginati, poveri, stranieri", ha proseguito: "Curiosamente questi nella nostra attuale cultura dello scarto sono respinti, sono lasciati da parte, non contano. È curioso questo, questo vuol dire che la cultura dello scarto non è di Gesù, non è cristiana". Nel suo discorso dedicato ai venti anni della enciclica di Giovanni Paolo II "Evangelium vitae", Bergoglio ha ricordato: "Questa vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione. Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, gli esseri umani vengono accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in particolare di utilità sociale o economica". Superare ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione, conclude il papa: "Vicinanza all’altro, fino a sentirlo come qualcuno che mi appartiene, fino ad amare il nostro nemico". Dal 25 al 30 novembre il Papa sarà in Kenya, Uganda e Repubblica centrafricana "per la pace e la riconciliazione". Renzi: "no alla paura", ma a Roma e Milano è già psicosi di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 novembre 2015 "Nessuna sottovalutazione, ma nessun allarmismo". Prova a tenere la barra dritta, il titolare del Viminale Angelino Alfano che oggi sarà a Bruxelles per partecipare alla riunione straordinaria dei ministri degli Interni convocata dal Consiglio giustizia e Affari interni dell’Unione europea dopo gli attentati di Parigi. Ma all’indomani dell’informativa dell’Fbi che avverte l’Italia di essere concretamente nel mirino dei terroristi di Daesh, le metropolitane di Roma e Milano sono andate in tilt e migliaia di cittadini hanno vissuto momenti di tensione per due allarmi bomba scattati a distanza di poche ore l’uno dall’altro nella capitale e uno nel capoluogo lombardo che ha costretto all’evacuazione della fermata Duomo. Tutti e tre rivelatisi poi fortunatamente falsi. Ovviamente, ragiona il prefetto di Roma Franco Gabrielli, "non esiste né il rischio zero né la sicurezza assoluta" e d’ora in poi "di messaggi, allarmi, sollecitazioni ne avremo in maniera industriale perché spesso rispondono agli interessi più disparati: a chi vuole creare confusione o a chi ha obiettivi più sofisticati. E poi esiste una regola - aggiunge il prefetto che è a capo della cabina di regia sul Giubileo - anche l’orologio rotto, segna due volte al giorno l’ora esatta". Come a dire, bisognerà abituarsi agli allarmi, ai controlli e alle evacuazioni, ai teatri blindati come la Scala di Milano per la prima del 7 dicembre prossimo, alle mostre rinviate come quella di Modigliani ad Arezzo che non sarà inaugurata domani ma slitta di due settimane per il supplemento di controlli internazionali sulle opere provenienti dall’estero, e alle lunghe code nei concerti come quella che si è formata ieri (senza psicosi) al Pala Alpitour di Torino per la prima delle tre date italiane di Madonna. Segno, questo, che la paura non è poi così diffusa come si vorrebbe far credere e che forse gli italiani sapranno "reagire con determinazione senza rinunciare a vivere", come esorta a fare il premier Renzi nella sua e-news settimanale. Anche il presidente dell’Anci, Piero Fassino, a nome dei comuni italiani respinge "il ricatto terrorista che vorrebbe cambiare la nostra vita". C’è però chi, proprio nel Pd, inizia a chiedere di "riflettere seriamente sulla possibilità di rinviare il Giubileo" perché, dice il senatore Stefano Pedica, "Roma è una città vulnerabile e l’arrivo di migliaia di pellegrini per l’Anno santo può solo complicare le cose". Ma il Vaticano non ci sta, anche se il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ammette: "Non si può negare che ci siano dei timori, ma il Giubileo va fatto, ci mancherebbe". Basta "abituarci a vivere con qualche restrizione delle nostre libertà democratiche", come prevede Stefano Dambruoso, Questore della Camera. E trovare i circa 300 milioni che il governo sta tentando di reperire per finanziare, con un emendamento alla legge di stabilità 2016, uomini e mezzi per le forze dell’ordine e per l’intelligence. "Gli attentati minacciano anche noi", un italiano su due è pronto a cambiare stile di vita di Ilvo Diamanti La Repubblica, 20 novembre 2015 Sondaggio sulla sicurezza. Otto persone su dieci ritengono che l’attacco non riguardi solo la Francia ma anche noi. Cresce la disponibilità a limitare alcuni diritti, il trattato di Schengen diviene un problema e siamo pronti a chiudere le frontiere. Anche se "temporaneamente". Ma il timore su Islam e immigrati non cambia. I sanguinosi attentati di Parigi hanno emozionato e coinvolto anche noi. In Italia. Non si tratta di un effetto preterintenzionale. Al contrario. La scelta dei luoghi, delle vittime, la stessa rappresentazione dei massacri rivelano una evidente intenzione - e capacità - di colpire "nel mucchio". Molti bersagli "umani". Molti giovani. Ma anche di lanciare messaggi. Di trasferire paure, inquietudini, ben oltre i confini di Parigi e della Francia. Fino a noi. Paese confinante. Dove ha sede il Vaticano. Dove i flussi migratori dal Nord Africa continuano, incessanti. Lo conferma il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, nei giorni scorsi. Certo, la maggioranza degli intervistati (50%) vede negli attentati una "punizione" contro la Francia, colpevole di partecipare ai bombardamenti in Siria e in Iraq. Più di quanti (40%) lo considerano, invece, un avvertimento, contro luoghi e riti del consumismo occidentale. Tuttavia, oltre 8 italiani su 10 ritengono che questo attacco non abbia implicazioni solamente " francesi". Ma riguardi, al contrario, anche noi. Oltre metà delle persone (intervistate) ammette di sentirsi preoccupata per l’eventualità di atti terroristici. Con un aumento di 14 punti, nell’ultimo anno, e di circa 20 rispetto al 2010. Gli effetti sul clima d’opinione risultano evidenti. Anzitutto, sul piano dell’in-sicurezza, che appare diffusa. Componenti ampie della popolazione (meglio: del campione) pensano, infatti, che oggi convenga adottare comportamenti prudenti. Più che in passato. In particolare, il 46% ritiene opportuno evitare di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici. Il 43%: di viaggiare all’estero. Il 38%: di prendere l’aereo. Si tratta, perlopiù, di persone più anziane e meno istruite. Che, comunque, sono meno disponibili a mobilitarsi e hanno minore confidenza "con il mondo". Ma il segnale è chiaro. L’insicurezza sta penetrando nella società. E spinge le aree "periferiche" - dal punto di vista sociale ma anche territoriale (i piccoli comuni di provincia e le banlieue metropolitane) - a chiudersi in casa. A guardare gli altri con diffidenza. Quasi 4 persone su 10, infatti, oggi percepiscono gli immigrati come "un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone". E si rivolgono all’Islam con atteggiamento diffidente. La scia di sangue lasciata dalle aggressioni criminali avvenute a Parigi, dunque, è arrivata fin qui. E ha alimentato, presso gli italiani, l’inquietudine. Ha allargato le distanze, meglio, il distacco fra noi e gli altri. Percepiti come possibili minacce. Nemici. Così, il trattato di Schengen, che ha "aperto" le frontiere, reso più facili le comunicazioni e i movimenti personali, diviene un problema. Un rischio. E insieme alle porte di casa diventiamo più disponibili a chiudere anche le frontiere. Anche se "temporaneamente". È un provvedimento auspicato dal 56% degli intervistati. Al tempo stesso, come avviene quando la paura penetra fra noi, diventiamo meno esigenti, sotto il profilo dei diritti e delle nostre libertà. Così, oltre 9 italiani su 10 si dicono disponibili ad aumentare la sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso telecamere. Mentre quasi la metà di essi (per la precisione: il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità il controllo sulle nostre comunicazioni. Dalla posta elettronica alle telefonate. Quasi 20 punti in più, rispetto al 2009. In altri termini, i fatti di Parigi hanno accentuato la sindrome d’assedio, cresciuta negli anni della crisi. Alimentata dalla globalizzazione che ci espone, emotivamente, a ogni evento drammatico, che avvenga altrove. Anche lontano. È come se fosse qui. A maggior ragione quando si tratta di una "città esemplare", come Parigi. Destinazione degli itinerari da tutto il mondo. Per motivi turistici, di studio e di lavoro. Tanto più da qui. Dall’Italia. Affacciata ai confini. Per questo colpire Parigi significa colpire l’Europa, di cui è il centro. Un Centro strategico e attraente. Per questo colpire Parigi ha un impatto rilevante, sui nostri sentimenti. Per questo rischia di diventare un ostacolo, ulteriore, alla costruzione europea. All’integrazione politica, culturale. Eppure, evidenziare quanto gli attentati di Parigi abbiano cambiato il nostro modo di guardare gli altri e noi stessi, non basta. Potrebbe perfino essere deviante. Se non aggiungessimo che, nonostante tutto, la paura non è sfociata in panico. La diffidenza non è degenerata in distacco, segregazione. La percezione negativa nei confronti dell’Islam, come religione e comunità, infatti, non ha cambiato misura, nell’ultimo anno. Nonostante tutto. E oltre 7 italiani su 10 pensano che le responsabilità delle violenze di Parigi siano da attribuire a una "frazione di integralisti". Solo una minoranza le riconduce all’Islam, come tale. L’insicurezza suscitata dall’immigrazione, inoltre, è elevata. Ma non è cresciuta molto, negli ultimi mesi. Rispetto allo scorso giugno è perfino calata. Ed molto più bassa, in confronto all’autunno 2007, quando la campagna mediale preparava quella elettorale. Scandita - e decisa - dalle "paure". Ci muoviamo, dunque, in una terra instabile, lungo il confine mobile fra diverse destinazioni. Diverse soluzioni. Marcate da diversi livelli di in-sicurezza, apertura e - reciprocamente - chiusura. Verso le altre persone, le altre religioni. Verso gli altri Paesi. E ciò tende a estremizzare i sentimenti personali, i rapporti con gli "altri", ma anche gli orientamenti politici. Così, si allargano gli spazi per gli "imprenditori politici della paura". Che fanno dell’insicurezza e della sfiducia una risorsa da investire sul mercato politico. Insieme alla disponibilità verso i controlli. Sui comportamenti degli altri, ma anche sulle nostre relazioni. Sulla nostra vita personale. Da "sorvegliati speciali", a tempo pieno. Si tratta di capire se l’unica strada possibile sia questa. Rassegnarsi a uno " stato di emergenza" permanente. Fino a diventare ostaggi di se stessi. Di noi stessi. Significherebbe cedere alla logica del terrore. In fondo, arrendersi ai terroristi. Fortezza Schengen: ecco come cambieranno le nostre vite di Marco Zatterin La Stampa, 20 novembre 2015 Per l’Europol altri attentati sono probabili. La Ue vuole misure ad hoc sulla sicurezza Quali sono? E cambieranno le nostre vite?. L’Europol dice che non è finita. "È ragionevole supporre che altri attacchi siano probabili", avverte il direttore Rob Wainright, per il quale "abbiamo a che fare con un’organizzazione terroristica determinata, seria, con ampie risorse e attiva nelle nostre strade". È un modo per dire che non bisogna abbassare la guardia, invito che l’Unione europea giura di voler mettere in pratica nella riunione dei ministri degli Interni e della Giustizia di oggi. Si attendono decisioni concrete, almeno più del solito, anche perché il dopo Charlie Hebdo è stato deludente. Primi due passi: giro di vite ai controlli sulla frontiera esterna e schedatura dal 2016 per i passeggeri dei voli anche intracomunitari. È la "fortezza Schengen". Meno male e purtroppo. Il rafforzamento della vigilanza dovrebbe aumentare la sicurezza dei cittadini che, però, pagheranno la rinvigorita tutela con una perdita di libertà. Un arretramento necessario, forse, evitabile se in altre occasioni non si fosse pensato agli interessi nazionali, ma al bene comune. Invece i passi sono stati deludenti. "Dobbiamo dimostrare la capacità di azione ed essere credibili - dice Étienne Schneider, vicepremier del Lussemburgo, guida di turno Ue - e non continuare a palleggiare le decisioni fra Commissione, Parlamento e Consiglio". Ottimi auspici. Implicano che, se va bene, l’Europa agirà e riscriverà alcune abitudini dei suoi cittadini. Cosa che, a livello locale, molti governi hanno già fatto, in Francia come in Belgio. Ecco come. E cosa comporta per gli europei. La libera circolazione sarà limitata - Se ne parla da tempo, ma solo ora, nel momento del dramma, i governi son compatti. Troppi miliziani del Califfato, nati fra noi e con un passaporto europeo, hanno attraversato con facilità la frontiera esterna dello spazio Schengen. Sfruttano la più bella delle libertà, quella di circolazione, per seminare il terrore. Così ora i ventotto fanno un passo indietro e decidono di "attuare immediatamente i necessari controlli sistematici e coordinati, anche sugli individui che beneficano della libera circolazione". Controlli in tempo reale e più file - Ci saranno più uomini nei gabbiotti delle dogane, più computer efficienti e in linea a tempo pieno. La bozza di conclusioni del vertice odierno afferma che i Ventotto rilanceranno il sistema di controlli "entro il marzo 2016", con un "collegamento in tempo reale a Europol e a tutti i posti di frontiera dove avvengono le verifiche elettroniche dei documenti". I dati saranno immagazzinati e resi disponibili per tutte le polizie dell’Unione. Vuol dire più code e più attese, negli aeroporti, sui treni e lungo autostrade. Fra Roma e Bruxelles non cambia nulla. Ma se si rientra da Londra o New York bisognerà fare la fila. Un pezzo di autonomia persa. Temporaneamente, si spera. Meno liberi ma più protetti? - Meno liberi, più protetti? In Francia "l’état d’urgence" consente alle autorità di vietare all’istante la libertà di circolazione, limitare il soggiorno, vietare manifestazioni e autorizzare perquisizioni più facilmente. Il Belgio rafforza i controlli alle frontiere, spedisce altri 520 militari a pattugliare le strade delle città, userà il braccialetto elettronico per le persone sospette, mentre non si potrà più avere un telefono senza legare la carta Sim all’identità. Era in effetti una pratica piuttosto curiosa. Via libera entro l’anno al registro dei passeggeri - Se ne parla da anni. È il registro europeo dei nomi dei passeggeri. I governi Ue sono d’accordo, ma il dossier è frenato all’Europarlamento, dove parte dei socialisti, liberali e verdi, vogliono essere certi che non ci siano limitazioni per il diritto alla tutela dei dati personali. La bozza sul tavolo del Consiglio stamane propone l’adozione entro l’anno del Pnr, con l’inclusione della schedatura dei voli interni e per "un periodo di tempo sufficientemente lungo". Un anno, sarà. Senza un limite ai crimini di natura transnazionale. Controlli su cittadini anche europei e per ogni tipo di reato, il che non guasta. Nasce il coordinamento tra servizi segreti - Li hanno presi, ma se li sono fatti anche passare sotto il naso. Meglio ragionare su come integrare e coordinare l’Intelligence. Dal gennaio Europol lancerà l’Ectc, il Centro europeo antiterrorismo, nel quale "gli Stati potranno aumentare scambio di informazioni e coordinamento operativo sul monitoraggio antiterrorismo". Le capitali faranno confluire nella cellula gli esperti nazionali, creando un’unità di vigilanza transfrontaliera. "Faremo il massimo uso di queste capacità", assicurano. Sinora, non è successo. Solo cinque governi informano regolarmente Europol sui dossier antiterrorismo. Il trattato di Schengen - Lo spazio Schengen è un’area di libera circolazione nell’Unione Europea, all’interno della quale sono stati aboliti i controlli alle frontiere, salvo circostanze eccezionali. È attualmente composto da 26 Paesi, di cui 22 membri dell’Unione europea e quattro non membri (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Il trattato non include Bulgaria, Cipro, Croazia, Romania (perché non ancora in vigore) e Irlanda e Regno Unito, che non hanno aderito alla convenzione. Gli Stati non Ue che partecipano a Schengen sono Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein. Oggetto del trattato è il controllo delle persone, che non va confuso con i controlli doganali sulle merci, aboliti tra gli Stati Membri della Ue dal 1º gennaio 1993 (caduta delle frontiere). L’area di libera circolazione è entrata progressivamente in vigore a partire dal 1985, con un accordo di massima concluso da un gruppo di governi europei nella località lussemburghese di Schengen. I musulmani d’Italia scendono in piazza "Stato Islamico, non in mio nome" di Paolo Gallori La Repubblica, 20 novembre 2015 La manifestazione nazionale è convocata per sabato 21 novembre in piazza Santi Apostoli a Roma. Per dire no al radicalismo che "offende e tradisce il messaggio autentico dell’Islam" e per la "svolta nei rapporti con la società civile e lo Stato italiano, di cui siamo e ci riteniamo parte integrante". In corso contatti per la presenza di esponenti del governo. Il deputato dem Chaouki invita anche Salvini. Anche la comunità musulmana in Italia è chiamata a dare un segno collettivo e popolare di condanna, senza se e senza ma, dei nuovi attentati di Parigi e della strategia del terrore con cui lo Stato Islamico vorrebbe paralizzare la vita quotidiana degli europei. In Francia, il Consiglio nazionale del culto musulmano diffonderà domani, nel venerdì di preghiera, un "testo solenne" di condanna "senza ambiguità" di "tutte le forme di violenza o di terrorismo". Sarà letto in tutte le circa 2.500 moschee del Paese (con l’eccezione della Grande Moschea di Parigi, dove il raduno è stato annullato in queste ore per ragioni di sicurezza) per proclamare "attaccamento assoluto al patto repubblicano che ci unisce tutti e ai valori fondanti della Francia". In Italia l’appuntamento è per il giorno dopo, sabato 21 novembre a Roma. Dove, alle ore 15 in piazza Santi Apostoli, i musulmani sono chiamati a partecipare una manifestazione di valore nazionale, intitolata Not In My Name e nata dal coordinamento sostenuto dalla Coreis italiana (COmunità REligione ISlamica) a livello regionale e interculturale fra musulmani italiani, marocchini, pakistani, senegalesi e turchi. La manifestazione è preceduta da una nota, che riprende il richiamo all’appartenenza del testo francese: "Noi musulmani d’Italia condanniamo con forza la recente strage di Parigi, esprimendo il più profondo sentimento di vicinanza al popolo francese e a tutti i familiari delle vittime così barbaramente uccise. Intendiamo perciò lanciare un appello che sappia indicare una solida svolta nei rapporti con la società civile e lo Stato italiano di cui siamo e ci riteniamo parte integrante. Invitiamo quindi tutte le musulmane e i musulmani a una mobilitazione che, isolando ogni pur minima forma di radicalismo, protegga in particolare le giovani generazioni dalle conseguenze di una predicazione di odio e violenza in nome della religione. Questo cancro offende e tradisce il messaggio autentico dell’Islam, una fede che viviamo e interpretiamo quale via di dialogo e convivenza pacifica, insieme a tutti i nostri concittadini senza alcuna distinzione di credo. Questa pericolosa deriva violenta rappresenta oggi il pericolo più feroce per il comune futuro nella nostra società". L’appello raccoglie adesioni di ora in ora, non solo tra le componenti della comunità islamica. Saranno in piazza tra gli altri Abdellah Redouane, del Centro Islamico Culturale d’Italia Moschea di Roma, Zidane el-Amrani Alaoui, responsabile della Confederazione Islamica Italiana, musulmani dal Marocco, Izzedin Elzir, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, l’imam Yahya Pallavicini, vicepresidente Coreis, Omar Camiletti, del tavolo interreligioso di Roma, Khaled Abdalat e Ahmad al Hygazi dell’Unione Medici Arabi, l’imam Abd al-Razzaq Bergia, del Coreis Piemonte. E ancora il sociologo Ali Baba Faye, il teologo della comunità sciita d’Italia Hujjatulislam Abbas Di Palma, l’amministratore delegato di Halal Italia Hamid Abd al-Qadir Distefano. Giunge l’adesione della Comunità del mondo arabo in Italia (Co-mai), con il suo presidente, Foad Aodi, che ribadisce: "Dobbiamo essere uniti contro il terrorismo e la violenza feroce che si abbatte sui civili di tutte le religioni, senza distinzioni". Dalla politica, il sostegno di molti deputati del Pd, a cominciare dal presidente della Commissione parlamentare diritti Luigi Manconi e dal deputato Khalid Chaouki, uno dei riferimenti dell’iniziativa, da cui è partito anche l’invito a partecipare rivolto personalmente al segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Da altri schieramenti, si segnala il plauso a Chaouki da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, con reciproco scambio di tweet. Una manifestazione da condividere, i musulmani d’Italia vanno sostenuti di Khalid Chaouki e Luigi Manconi Il Manifesto, 20 novembre 2015 È apparso subito evidente, all’indomani della strage di Parigi, che si è di fronte a una minaccia mortale per le società europee, ma anche per il mondo arabo e musulmano. E bene hanno fatto le comunità islamiche italiane che hanno deciso di scendere in piazza in solidarietà con le vittime e contro il terrorismo di Daesh il pomeriggio di sabato 21 novembre a Roma (alle ore 15 in piazza Santi Apostoli). Spetta, infatti, soprattutto ai musulmani riconoscere, isolare e denunciare qualsiasi forma di estremismo fondamentalista, pronto a dotarsi di armi micidiali. E spetta a noi ora, cittadini italiani, associazioni laiche e religiose, donne e uomini di buona volontà, il compito non lieve e non facile di accogliere con serietà quest’invito per affermare i valori condivisi delle società democratiche. Dunque, le musulmane e i musulmani d’Italia, in un simile momento storico sono nostri preziosi alleati, in una sfida contro il terrorismo che vinceremo se e solo se saremo capaci di rimanere uniti intorno al valore della intangibilità della vita umana. E se, e solo se, saremo mossi dalla netta condanna di qualsiasi forma di fondamentalismo. Per questo i musulmani d’Italia e d’Europa vanno sostenuti e tutelati nei confronti di chi li associa a un Islam ridotto alla sua dimensione aggressiva e autoritaria e alla sua faccia intollerante e feroce. E con ciò si dimentica che la guerra in corso è, in primo luogo, una lotta all’ultimo sangue per l’egemonia all’interno del mondo musulmano, perfino al di là del conflitto tra sciiti e sunniti. Come ha scritto Amos Oz, questa "prima che essere una guerra contro l’Europa e l’Occidente, è una guerra interna all’Islam, per il suo cuore. È un conflitto sul significato e l’identità dei musulmani". Se non si capisce questo, è inevitabile che le opinioni pubbliche occidentali - smarrite e insicure - creino nuovi mostri e coltivino nuovi incubi. Si finisce così col guardare - cedendo a una equazione perversa - i flussi di profughi che arrivano sulle nostre coste come potenziali seminatori di terrore. E, invece, la gran parte di quanti giungono in Europa fugge da guerre e persecuzioni. Fugge, quindi, da quello stesso terrore che ha colpito Parigi e da anni colpisce paesi come la Nigeria, la Siria, l’Iraq, il Mali e l’Afghanistan. A loro dovremmo dare la possibilità di arrivare nel nostro continente con viaggi legali e sicuri. Ma mese dopo mese le nostre risposte si rivelano sempre più povere e inadeguate: il programma di ricollocamento stenta a partire, le barriere si moltiplicano e, nelle ore successive alla strage di Parigi, alcuni Stati hanno fatto marcia indietro sugli impegni presi per la gestione della crisi umanitaria in atto. Garantire il diritto d’asilo e consentire ai profughi di essere accolti con dignità e inclusi nelle nostre società è un altro passo indispensabile nella difesa dei valori fondamentali in cui ci riconosciamo. Lo si è visto in questi anni: quanto più escludiamo e segreghiamo e quanti più ghetti creiamo, tanta più miseria e tensione sociale finiamo col produrre. Manca, all’Unione europea, un programma comune per l’immigrazione e per l’asilo; e, più in generale, manca una strategia condivisa in politica estera e di difesa. La necessità di pensare e attuare l’unità politica degli Stati membri, nonostante venga ribadita in tutte le sedi, passa obbligatoriamente attraverso una serie di scelte che gli stessi Stati dovrebbero fare. E anche in fretta. L’incombenza della minaccia terroristica non fa altro che evidenziare fratture e contrapposizioni, le quali potrebbero rivelarsi fatali per l’obiettivo di un’Europa unita. Unicef: una petizione al governo per aiutare i piccoli migranti di Laura Montanari La Repubblica, 20 novembre 2015 Quanti ne abbiamo perduti, quanti sono stati inghiottiti dal freddo, da un’onda, per una mano che non è arrivata in tempo. Sono circa 700 i bambini morti nel 2015 nelle incerte e disperate traversate del Mediterraneo. Dalle coste dell’Africa, dalla Grecia o dai Balcani. È una stima, certo, nessuno ha la geografia esatta dei lutti, ma è firmata dall’Unicef che racconta nell’ultimo rapporto l’epidemia delle violenze sui minori: dai bambini soldato agli abusi sessuali, dallo sfruttamento sul lavoro alla malnutrizione. "La crisi dei rifugiati e dei migranti in Europa è una crisi che colpisce drammaticamente i bambini", si legge nelle pagine che ci inchiodano alle cifre. "Nei primi otto mesi di quest’anno, rispetto al 2014, si è verificato un aumento del 92% dei piccoli richiedenti asilo in Europa". Significa che un richiedente su quattro è un bambino, "700 al giorno, da gennaio a settembre 2015 fanno circa 190mila". Siamo pronti? L’Unicef sta promuovendo la petizione "Indigniamoci" per chiedere fondi e un impegno preciso al governo italiano sul tema dell’immigrazione. Chi viene nel Vecchio Continente si aspetta prima di tutto un porto al riparo dalle guerre: "Nessuno mette i propri figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terraferma", scrive Warsan Shire, poetessa africana. I "ragazzi in cammino" che si lasciano alle spalle i villaggi bombardati o i fantasmi della povertà, che fanno altrettanta paura, sono cresciuti di numero in maniera esponenziale: "Quelli che viaggiano non accompagnati sono sei volte di più: da 932 registrati ad agosto a 5.576 registrati a ottobre nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia". I bambini soli che hanno chiesto asilo all’Unione Europea dal 2014 a oggi sono 23.160, ma quelli che dal 2014 hanno abbandonato le proprie case a causa delle guerre sono 30 milioni. Nelle cifre ci si perde, ma dietro a ogni unità c’è un bisogno che grida, una storia: c’è necessità di un luogo dove poter riposare, uno spazio sicuro per giocare, una nutrizione adeguata, abiti e servizi igienici. In una parola, serve sostegno per rispettare il diritto di tutti al futuro. "L’intervento sull’infanzia è fondamentale", spiega Giacomo Guerrera, presidente dell’Unicef Italia. "Siamo davanti a flussi migratori biblici. Noi attraverso le donazioni che riceviamo siamo impegnati in 190 Paesi a far crescere non soltanto il singolo ma un’intera comunità. Una volta in Ciad incontrai un capo villaggio che mi mostrò alcune derrate alimentari e mi disse che a loro non servivano quelle cose, se le avesse date alla sua gente avrebbero smesso di coltivare il campo; lui voleva invece che noi insegnassimo loro a coltivare meglio per produrre quelle stesse cose". I numeri del rapporto Unicef 2015 sono a ogni capitolo un dito indice puntato contro il mondo: "Si stima siano 232 milioni i bambini che vivono in zone coinvolte in conflitti", si legge. "Il 36% di quelli che non vanno a scuola provengono da quelle aree". Soltanto in Siria si contano 7,6 milioni di sfollati e i piccoli che hanno trovato rifugio in Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Turchia sono 2 milioni. Ma non ci sono soltanto le guerre o le carestie: per esempio 200 milioni di bambini nel mondo soffrono di malnutrizione, anche se grazie all’impegno dell’Unicef e di altre organizzazioni umanitarie il tasso è in diminuzione: dal 1990 al 2014 è passato infatti dal 39,4 al 23,8%. Stati Uniti: la Camera approva lo stop ai rifugiati siriani, 50 democratici contro Obama Il Manifesto, 20 novembre 2015 La Camera Usa ha votato lo stop all’ingresso dei rifugiati siriani e iracheni nonostante l’invito in senso opposto del presidente Obama, che ha già annunciato il veto. Il Congresso è a maggioranza repubblicana ma almeno 50 democratici si sono schierati contro il presidente votando con la destra. La legge in discussione prevedeva l’ingresso di 10mila rifugiati previsto per il prossimo anno. E nello specifico impone che il capo dell’Fbi, il capo dell’Homeland security e il direttore dell’Intelligence approvino singolarmente ogni richiesta individuale di asilo, dichiarando la "non pericolosità" di ciascuno. Per la Casa Bianca si tratta di una posizione insostenibile politicamente ("indebolisce la leadership internazionale", ha detto ieri Obama) e inattuabile. Tuttavia il disegno di legge, popolare in entrambi i partiti, è passato con 289 voti a favore contro 137 contrari. La norma ora passa al senato e poi Obama dovrà decidere se firmarla o meno. Stati Uniti: oggi l’ex spia israeliana Pollard esce dal carcere dopo 30 anni Askanews, 20 novembre 2015 Jonathan Pollard, americano condannato all’ergastolo per aver lavorato come spia di Israele negli Stati uniti, sarà rilasciato sulla parola oggi dalla prigione del North Carolina dove ha scontato 30 anni. L’ex ufficiale dell’intelligence della marina americana, adesso 61enne, è stato arrestato per aver venduto documenti segreti nel 1985 ed è stato condannato all’ergastolo due anni dopo. La libertà condizionata impedisce a Pollard di lasciare gli Stati Uniti senza il permesso delle autorità per i prossimi cinque anni. L’ex "spia" ha detto di voler andare in Israele per ricongiungersi con la seconda moglie. In diverse occasioni il governo israeliano ha cercato di ottenere la scarcerazione del brillante analista e questo ha creato tensioni con Washington. Il segno che il caso resta delicato è evidente: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, secondo la stampa locale, avrebbe chiesto ai suoi ministri di evitare trionfalismi per la liberazione di Pollard, che ottenuto la cittadinanza israeliana nel 1995 ed è considerato un eroe per aver rinunciato alla sua libertà in nome della sicurezza di Israele.