Giustizia: magistrati e politica, un problema di stile c’è di Piergiorgio Morosini (Membro Csm) Corriere della Sera, 1 novembre 2015 Riforma. La proposta del Csm non è "timida" né "corporativa". Ma è vero che alcune toghe che ricevono incarichi "governativi" modificano i loro comportamenti e sovraespongono il proprio ruolo. Regole più rigorose per le toghe in politica. Tema attuale e controverso. Lo affronta una proposta del Consiglio Superiore della Magistratura, giudicata "timida" e "corporativa" da Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 24 ottobre scorso. Da estensore del documento mi si consentano quattro battute sulle ragioni di quell’intervento. Primo. Il magistrato gode dei diritti politici. Può candidarsi e assumere cariche di governo, locale o centrale. Ma ci sono casi che giustamente fanno discutere. Giudici che "entrano" nella giunta della città dove sino al giorno prima hanno fatto processi. Pubblici ministeri candidati premier. O che dopo anni di "battaglie di partito" vogliono rientrare in procura. Il Csm dal 2010 cerca di "stringere le maglie", con le sue circolari. Ma ora chiede riforme legislative. In gioco c’è l’"immagine di imparzialità" della giurisdizione. Bene prezioso quando i tribunali, ogni giorno, si occupano di uomini politici e scelte politiche. Si pensi alle inchieste su malaffare e corruzione; o alle "battaglie per i diritti" dei casi "Ilva" o "Englaro". Secondo. Per intervenire con efficacia bisogna capire le ragioni che portano le toghe alla politica. Contrariamente a quanto sostiene il professor Cassese, la diagnosi del plenum del Csm è stata senza ipocrisie. Si è parlato di scelte frutto di spinte ideali; di professionalità al servizio di partiti in crisi di autorevolezza. Ma anche di cooptazioni "figlie" della "notorietà cercata nei processi" o di situazioni meno trasparenti, quali le frequentazioni di cerchie ristrette, circoli e salotti. Occorrono, allora, "regole speciali" su tempi e modi dell’esercizio del diritto di partecipazione attiva alla politica. Trattandosi di libertà costituzionali del magistrato-cittadino, non basta l’attività para-normativa del Csm. Bisogna necessariamente rivolgersi al parlamento. Alcune leggi già esistono. Per le elezioni del Parlamento nazionale ed europeo si prevedono sei mesi di "stacco" dalle funzioni giudiziarie (aspettativa), prima della candidatura nella circoscrizione dove il magistrato ha prestato servizio. Nulla è previsto per le elezioni amministrative e per gli incarichi di governo nazionale e locale. Il Csm non può fare altro che sollecitare una legge per colmare le lacune. Terzo. Sul "rientro nella giurisdizione dopo la politica", il Csm da anni impone ai magistrati restrizioni su luoghi e funzioni di destinazione, talvolta annullate dal giudice amministrativo. Ma per assicurare ai cittadini "giudici al di sopra di ogni sospetto di parzialità", va promossa la tendenziale irreversibilità della scelta di "fare politica". In particolare per le esperienze ultradecennali, che condizionano inevitabilmente la professionalità e la stessa forma mentis del magistrato. Il Csm propone una collocazione in altri plessi dell’amministrazione, seppure prestigiosi quanto l’ordine giudiziario: ad esempio l’avvocatura dello Stato o la dirigenza pubblica. D’altronde il "diritto di conservare il posto" per i magistrati va declinato con la peculiarità del ruolo che rivestono. Nessuna difesa corporativa, dunque. Quarto. C’è, però, una lacuna nella proposta del Csa. Come rileva Cassese, ci sono i magistrati che ricoprono per anni posizioni di vertice in enti o autorità pubbliche di "nomina governativa". Ciò può modificare i loro stili comportamentali, come quando si lasciano andare a continue "esternazioni" su temi sensibili, che possono essere lette a favore della maggioranza. Anche su questo il Csm dovrà fare la sua parte, dimostrando di essere sintonizzato sui temi dell’attualità. Giustizia: diritti civili e processi lumaca, così l’Europa bacchetta l’Italia di Gigi Di Fiore Il Mattino, 1 novembre 2015 Per i prossimi tre anni sarà il Presidente della Corte europea per i diritti dell’uomo a Strasburgo. Il napoletano Guido Raimondi, 62 anni, ne fa parte dal 2010, succedendo a Vladimiro Zagrebelsky. Dal 2012 ne è stato anche vice presidente. Già assistente universitario in diritto internazionale, in magistratura da 38 anni, distaccato poi al ministero degli Esteri e addetto giuridico dell’Italia a Strasburgo, in questo fine settimana il presidente Raimondi è nella sua casa romana. Presidente Raimondi, si sente lusingato dalla dimostrazione di stima dei suoi colleghi alla Corte europea, che l’hanno nominata? "Sì, l’ho detto nel commento a caldo. Si tratta di 46 giudici colleghi, di altrettanti Paesi europei. Lavoro da cinque anni alla Corte e vi ho sempre dedicato tutto il mio impegno". Come si diventa giudici delia Corte europea di Strasburgo? "Il governo nazionale presenta una lista di tre candidati, esaminati dal Consiglio europeo. La lista può essere accettata con una scelta, o rifiutata". In questi cinque anni ha esaminato procedimenti delicati? "La prima vicenda che ho affrontato è stato il famoso ricorso della signora Lautsi contro il crocifisso nelle aule scolastiche italiane. La nostra decisione ribaltò quella iniziale di prima istanza". Tante vicende sotto i riflettori? "Vicende delicate, come quella sulla legge dei respingimenti dei migranti, o il sovraffollamento delle carceri italiane". La decisione più recente? "Quella nel luglio scorso sulle coppie omosessuali cui i Comuni avevano rifiutatole pubblicazioni per potersi sposare. Il procedimento conosciuto come Enrico Oliari contro lo Stato italiano, dal nome del ricorrente. Abbiamo riconosciuto la fondatezza del ricorso e le carenze della legge italiana in materia di diritti civili". Le decisioni in gran parte bacchettano le leggi italiane? "Non tutte. Nel caso del crocifisso in aula, ad esempio, non abbiamo ritenuto esistente o provata alcuna influenza negativa sugli alunni". Quali sono i ricorsi più numerosi, che riguardano l’Italia? "Sicuramente quelli sulle eccessive lunghezze dei processi. Ma anche i ricorsi sui limiti della cosiddetta legge Pinto, che ha istituito un sistema di correzioni e risarcimenti interni in Italia nei casi di processi troppo lunghi. Anche su questi correttivi dimostrano limiti e lamentele che ci vengono sottoposti". Cosa avviene dopo una sentenza della Corte europea? "L’articolo 46 della convenzione tra gli Stati membri prevede che il singolo Stato debba eseguire la sentenza. Si tratta di riconoscimenti pecuniari di risarcimenti, o di obblighi a riparare le violazioni riconosciute in base alle norme internazionali europee, o ancora l’invito a correggere le leggi esistenti nella materia esaminata nel procedimento. I singoli governi devono sorvegliare l’esecuzione delle sentenze che li riguardano". È l’Italia il Paese con il maggior numero di difetti nel suo ordinamento giuridico, o nelle applicazioni delle leggi? "Direi che il nostro ordinamento gode di ottime valutazioni internazionali. Il problema è l’efficienza e l’applicazione, che non sempre risponde alle previsioni delle norme". Nei tre anni di presidenza, quale sarà la priorità? "La priorità assoluta è continuare a lavorare per il riordino dell’arretrato, che è tanto. Molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare". Quali sono i numeri dell’arretrato? "Abbiamo circa 85mila ricorsi pendenti. Negli ultimi due anni ne avevamo 160 mila. Come vede, abbiamo ridotto di molto le cifre lavorando con intensità. Dobbiamo proseguire". Come mai tanti ricorsi? "La Corte europea ha competenza su una popolazione di 800 milioni di persone. Si può ben capire perché tanti ricorsi". Che difficoltà incontrate nelle decisioni? "Forse solo le differenze di lingue, o la diversità delle culture giuridiche di provenienza. Le lingue ufficiali della Corte sono l’inglese e il francese. È comunque sempre interessante il confronto tra sistemi culturali differenti. Basti pensare le diversità, ad esempio, tra culture giuridiche latine e anglosassoni". La Corte europea riceve pressioni politiche sulle sue decisioni? "Spero sempre che non ci siano mai". Giustizia: "cause civili più rapide", l’Italia guadagna undici posizioni di Francesco Grignetti La Stampa, 1 novembre 2015 Secondo il Rapporto della Banca mondiale l’Italia guadagna undici posizioni: cause più rapide, il processo telematico fa risparmiare 43 milioni in un anno. Il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, che ci piazza al 45° posto nella graduatoria internazionale della competitività, è passato un po’ inosservato. Per l’Italia sono ombre e luci. L’unica vera soddisfazione viene dalla giustizia civile, una delle voci che compongono il paniere della competitività di un Paese. Ebbene secondo la Banca Mondiale, in questo campo, dove eravamo clamorosamente arretrati, siamo avanzati di 11 posizioni, in quanto "l’Italia che ha reso più facile rispettare i contratti introducendo la notifica telematica obbligatoria degli atti, semplificando le regole del processo telematico e automatizzando il processo dell’esecuzione". La Banca Mondiale è rimasta impressionata, insomma, dagli effetti del processo civile telematico, in sigla Pct, che ci pone all’avanguardia nel mondo. Val la pena ricordare qualche numero: dal giugno 2014 al giugno 2015 ci sono state oltre 13,7 milioni di comunicazioni telematiche. Vagoni di carta da non dover sistemare negli archivi. Il risparmio con le notifiche telematiche è stato calcolato in 43 milioni di euro. In alcune sedi particolarmente avanzate, tipo Milano, gli avvocati ormai gestiscono le cause con le app del cellulare. A fine 2014, intanto, l’arretrato è sceso sotto la soglia dei 5 milioni di fascicoli pendenti; l’anno nuovo dovrebbe aprirsi con un arretrato di 4,5 milioni di cause. Può sembrare tantissimo. In realtà è un sensibile miglioramento rispetto alle 6 milioni di cause del 2009. Se poi si guarda meglio, come ha fatto l’ultimo censimento promosso dal direttore generale Mario Barbuto, l’arretrato vero e proprio è fatto di 3 milioni di cause perché il numero va depurato da 1,3 milioni di procedimenti nei quali il giudice fa solo da garante. Compulsando i dati dei 139 tribunali italiani, si scopre che un terzo dell’arretrato civile è concentrato in soli 10 tribunali. Stesso discorso per l’arretrato accumulato nelle 29 Corti di appello (400 mila cause): la metà è in cinque sedi. È questa la zavorra che porta a fondo l’Italia nelle statistiche. Grazie al processo civile telematico, peraltro, si tagliano i costi, ma si tagliano anche i tempi. Per i decreti ingiuntivi, i tempi di emissione si sono ridotti del 29% ad Ancona (con una media di 10 giorni), del 31% a Catania (29 giorni), del 50% a Milano (24 giorni), del 58% a Roma (20 giorni) e del 12% a Torino (17 giorni). Buone notizie anche dal versante del tribunale delle imprese, particolarmente caro alla Banca Mondiale: i processi in queste speciali sezioni all’83% sono stati definiti in dodici mesi (risultato del 2014); l’anno prima accadeva soltanto al 46% dei fascicoli (risultato 2013). Giustizia: Orlando "la vera sfida è aggredire l’arretrato nei tribunali del Sud" di Francesco Grignetti La Stampa, 1 novembre 2015 Il ministro: "Il paradosso è che non abbiamo soldi per la macchina, ma poi siamo costretti a pagare milioni di euro in risarcimenti". Ministro Andrea Orlando, lei è a metà di un viaggio tra i tribunali più scassati d’Italia. Quelli con le performance peggiori. Finora ha visitato Vibo e Lamezia Terme in Calabria, poi Nola e Vallo della Lucania in Campania. Che situazione ha trovato? Come si spiegano arretrati così pesanti rispetto alla media nazionale? "Ho incontrato problemi molto diversi tra loro. In alcuni casi c’è carenza di personale amministrativo. In altri, le tabelle organiche dei magistrati vanno aggiornate. A Nola scontano un vizio d’origine: nel 1995, quando quel tribunale nacque, ebbe in dote un tale arretrato proveniente da Napoli che non s’è mai ripreso. In generale, si nota un forte turn-over di magistrati, che restano in queste sedi il minimo indispensabile e poi chiedono il trasferimento. Infine, in alcuni casi ci sono stati dirigenti di non spiccate attitudini organizzative". Come se ne esce? "Con uno sforzo straordinario per aggredire l’arretrato. Ho trovato molta consapevolezza che la vera sfida è questa. Tanto più che siamo schiavi del paradosso che come Paese non abbiamo soldi per la macchina, ma poi siamo costretti a pagare milioni di euro in rimborsi per i risarcimenti dovuti alla lentezza dei processi. C’è da invertire anche una certa mentalità che vede solo rogne nelle cause invecchiate. Né sottovaluto l’effetto perverso degli indici statistici: se una causa "giovane" viene risolta presto, le medie sono brillanti; se si chiude una causa "vecchia", una di quelle che si trascina da decenni, la media improvvisamente peggiora. Meglio lasciarla nel limbo, può pensare qualcuno". Detta così, non se ne uscirà mai. "Anche a questo serve il mio viaggio. A pungolare gli uffici che sono più indietro con l’arretrato, ad assicurare aiuti e assistenza, a non farli sentire soli". Le classifiche della Banca mondiale segnalano un balzo in avanti nella produttività dei tribunali. Merito del processo civile telematico. Ma non sono tutti fiori, vero? "Ci sono alcune criticità, non lo nego, ma non tali da offuscare lo straordinario successo del digitale, che resta un’opzione strategica. Una volta tanto siamo all’avanguardia nel mondo. Qualcosa di simile accade solo in alcuni Land tedeschi. Grazie al digitale, abbiamo dematerializzato il processo: in un anno, sono stati ben oltre 15 milioni di comunicazioni telematiche. Per noi ha significato risparmiare 53 milioni in notifiche. Boccheggiavamo per la gestione degli archivi, avremo invece grandi risparmi in uomini e infrastrutture. E abbiamo eliminato le code davanti alle cancellerie, incombenza tipica dei praticanti degli studi legali. Il personale amministrativo sta meno allo sportello e può dedicarsi di più ai fascicoli. C’è più trasparenza, infine, e ora è chiaro perché una causa va avanti prima di un’altra. Il risultato è che per i decreti ingiuntivi i tempi, in alcuni tribunali, si sono dimezzati. E penso che il processo stesso, tra breve, risentirà di questo clima virtuoso. Capita ancora di dover archiviare memorie difensive di 500 pagine, e sentenze enciclopediche. In futuro dovremo giungere, con un percorso concordato tra avvocati e magistrati, ad atti più sintetici". Questi i vantaggi. E gli svantaggi? "L’infrastruttura informatica va rinforzata. L’anno prossimo spenderemo 148 milioni di euro in informatica, il doppio di quest’anno. Una parte di questi soldi sono il frutto del risparmio che abbiamo realizzato con il dimezzamento delle direzioni generali del ministero. A fine mese annunceremo un piano: nuovi computer, software e assistenza in linea". Qualcuno lamenta che non dedicate pari attenzione alla giustizia penale. "Segnalo che il digitale si sta affacciando anche qui. L’anno prossimo si parte con la sperimentazione del processo penale telematico". La Banca mondiale ci chiede ancora qualche sforzo, però, in materia di giustizia. Il rapporto Doing Business segnala che siamo indietro con la specializzazione delle corti. "Il prossimo rapporto registrerà quanto di buono oggi è in discussione alla Camera. Il ddl di riforma del processo civile, figlio della commissione Berruti, prevede un robusto rafforzamento del tribunale delle imprese in competenze, uomini e infrastrutture. Se il Parlamento licenzierà presto la riforma, l’anno prossimo faremo un altro balzo di 10 posizioni". Giustizia: i pm di Roma vogliono i 101 nomi legati a Mafia Capitale di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2015 Presto leggeremo la relazione della commissione prefettizia che voleva sciogliere per mafia il Comune di Roma, con i nomi dei 101 amministratori e dirigenti pubblici che hanno avuto rapporti con la presunta associazione mafiosa di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. La leggeremo quando il procuratore Giuseppe Pignatone e i suoi sostituti la metteranno a disposizione delle parti nel processo Mafia Capitale che si apre, per i 46 imputati del troncone principale, giovedì 5 a Roma. Prima però è necessario che l’atto, classificato come segreto in base alla legge sullo scioglimento dei Comuni per mafia, sia desecretato dal prefetto di Roma Franco Gabrielli. La relazione della commissione d’accesso guidata dal prefetto Marilisa Magno, nominata dal predecessore di Gabrielli Giuseppe Pecoraro, si distende per circa 850 pagine ma, a quanto dice chi l’ha letta, non contiene rivelazioni sconvolgenti né nomi del tutto nuovi. I tre commissari sono infatti partiti dalle indagini condotte dal Ros dei carabinieri per conto della Procura. E hanno analizzato l’attività amministrativa svolta incrociandola con le risultanze di intercettazioni e appostamenti: solo così si può sapere quali atti e quali delibere corrispondano ai contatti tra gli amministratori e gli esponenti di Mafia Capitale. Ad ogni modo le conclusioni del prefetto Magno erano nette per lo scioglimento del consiglio comunale di Roma per mafia. È noto che invece Gabrielli, il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il presidente del Consiglio Matteo Renzi sono stati di diverso avviso e alla fine è stato sciolto solo il Municipio X, quello di Ostia. A quanto pare, però, la commissione Magno si sarebbe limitata a settori e municipi al centro dell’inchiesta penale. Naturalmente la relazione, con i dettagli dell’attività amministrativa che si sospetta nell’interesse di Carminati, Buzzi & Co., sarà molto utile per i pm. Un conto è dire che il dirigente x ha rapporti con l’indagato y, un conto è spiegare cosa avrebbe fatto per lui. Di qui l’interesse del procuratore. Non risulta invece che il Comune abbia mai fatto richiesta dell’atto in Prefettura, anche perché non poteva ottenerlo. Ora Gabrielli dovrebbe trasmetterlo andando anche al di là di quanto suggerito dal Viminale, che avrebbe preferito concedere ai magistrati di averlo solo "in visione", senza estrarne copia. Non sarà desecretato, invece, l’elenco secco dei 101 dirigenti che è contenuto in un allegato: le posizioni sono molto diverse tra loro, si va da chi potrebbe aver commesso reati a chi ha avuto rapporti sporadici con la galassia di Carminati e Buzzi e potrebbe chiedere i danni per essere stato inserito in una lista di "cattivi". Giustizia: "i video del furgone di Bossetti sono adattati per la stampa" di Luca Telese Libero, 1 novembre 2015 In aula i carabinieri ammettono: la sequenza con il messo che circola per Brembate è stata confezionata "per esigenze di comunicazione". L’avvocato e il super-carabiniere, Claudio Salvagni e Giampiero Lago: un duello spettacolare. Nella giornata più importante del processo (fino ad oggi), Salvagni e Lago stanno discutendo di una prova decisiva: un filmato visto in tutte le televisioni, in tutti i programmi, in tutti i notiziari, quello in cui i carabinieri hanno montato i fotogrammi ripresi dalle telecamere di sorveglianza, in cui a detta degli inquirenti (fino ad oggi) appariva il furgone di Massimo Bossetti che gira freneticamente intorno alla palestra di Brembate la sera in cui è scomparsa Yara. Si è detto tante volte, lo hanno spiegato gli inquirenti: "È il predatore che si mette in caccia della sua preda". È una immagine che ha colpito molto, chiunque, anche me. Una di quelle che ronzano nella testa di chi è convinto che Bossetti sia un mosto che andava in cerca delle bambine, come i pedofili dei film. È il filmato che ha fatto litigare in carcere Marita e Massimo: "Tu quella sera eri li! Ti ho visto con il furgone! Che cosa facevi?". Anche lei aveva visto il filmino dei Ris e lo aveva creduto vero. Ieri ho scoperto dalla bocca del super-carabiniere più importante d’Italia due cose stupefacenti. La prima: che quel documento è stato confezionato dai Ris e diffuso ai media, ma che incredibilmente non compare nel fascicolo processuale. E subito dopo ho scoperto un secondo elemento che non so come definire altrimenti: questo filmato, immaginifico e decisivo, è un falso. Un filmino tarocco. Tenete a mente questo botta e risposta, poi ci torniamo: "Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?". "Perché dice questo, avvocato?". "Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane!". "Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa". "Cosa vuol dire colonnello?" "È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa". La risposta di Lago mi lascia di stucco. Pensateci per un attimo. Giampietro Lago, il superpoliziotto, il comandante del Ris, l’uomo che dopo Luciano Garofalo è diventato il numero uno di tutte le indagini scientifiche coordinate dai carabinieri in Italia, sta dicendo che una delle immagini più suggestive di questo processo è stata assemblata dai suoi uffici non per dimostrare una tesi, o per documentare una verità, ma per condizionare i media con elementi di cui già si conosceva la non autenticità. Incredibile. Guardo Lago sul banco dei testimoni, con la sua montatura leggera, il vestito scuro, la cravatta, il tono cattedratico del carabiniere che parla come se fosse un professore universitario. Lago viene ascoltato, e sta raccontando dell’inchiesta sul delitto Yara, nell’aula di Bergamo, da tre lunghi giorni: nove ore solo venerdì pomeriggio. Un tempo in finito, soporifero, incomprensibilmente dilatato. Assisto per tutta la mattinata di venerdì alla sua deposizione, e penso che quasi quasi mi sta convincendo. Non per efficacia persuasiva: per sfinimento. Quando alle ultime battute del terzo giorno gli avvocati delle parti civili gli fanno delle rispettose domande, l’aula mormora di panico perché teme altre risposte prolisse, autorevoli e vacue: tutti guardano l’orologio. Tuttavia, in questi tre lunghi giorni, Lago mi ha quasi convinto dei capisaldi della sua tesi: 1) che le fibre del sedile del furgone di Bossetti sono inequivocabilmente sui vestiti di Yara. 2) che il Dna è quello del muratore di Mapello. 3) che sugli stessi panni ci sono delle minuscole sferette di metallo che quasi sicuramente provengono dal furgone di Bossetti. Poi improvvisamente la fiammata arriva il controinterrogatorio e, in un solo pomeriggio, il lavoro persuasivo di tre giorni crolla come un castello di carte, proprio per via di questo bombardamento di Salvagni. L’avvocato comincia chiedendo pazientemente come sia identificato il furgone di Bossetti. Poi chiede in quali fotogrammi Lago sia inequivocabilmente certo che il furgone sia quello. Ed è a questo punto che il colonnello commette il suo vero passo falso, ammettendo che nella maggior parte dei fotogrammi non c’è nessuna certezza che sia il suo. Il resto è una scena così veloce che la maggior parte delle persone, nel pubblico, non si rende conto di cosa stia accadendo. Salvagni fa collegare lo spinotto del computer al monitor dell’aula e trasmette quel video. Lago inizia a discuterne. E fa quelle incredibili ammissioni. A questo punto, mentre gli avvocati stanno gridando mentre le voci degli avvocati Salvagni, Camporini e del colonnello si sovrappongono si alza il pubblico ministero Letizia Ruggeri: "Presidente, questo video non è nella relazione che abbiamo consegnato! Presidente!!!". E Camporini, girandosi di lato: "E allora?". La Ruggeri, arrabbiata: "Non è nel fascicolo, non lo potete mostrare in questa aula". Risposta: "Lo avete fatto voi! È un vostro documento". La Ruggeri: "Non è nel fascicolo!". Putiferio. Camporini: "Chiedo che sia messo a disposizione della Corte l’intero materiale acquisito con le telecamere di videosorveglianza!". A questo punto interviene la presidente Bertoja che, in qualche modo, accetta le obiezioni del Pm: "Se non è nella relazione del Risnon ci interessa minimamente". Adesso: se dal punto di vista processuale questo può avere un senso, questo significa solo che bisognerebbe acquisire subito agli atti quel video. Ripenso infatti alle parole di Lago: "Il video è stato concordato con la procura a fronte delle numerose richieste di chiarimento". Tradotto in parole povere: siccome bisognava convincere la stampa della colpevolezza di Bossetti, "per fini di comunicazione" i Ris hanno "confezionato" quel video. Il Reparto fiction che serve a smussare i dubbi dei giornalisti? Sono sempre più perplesso, quando il contro interrogatorio arriva alle famose sferette. Lago, la mattina, con i suoi tempi, quando nessuno gli faceva domande, ci aveva spiegato questo: c’erano tante micro particelle ferrose, presenti sui vesti di Yara "centinaia" al momento del ritrovamento del corpo, secondo lui provenivano dal furgone di Bossetti. Per farlo è partito all sua maniera spiegando cos’è un microscopio elettronico, come funziona, le unità di misura... Ci ha spiegato che "le sferette", "hanno forme ben precise", che sono "tipiche delle attività antropiche che hanno a che fare con il ferro". Che "sui sedili del furgone di Bossetti di queste sferette ce ne sono migliaia". E poi ha aggiunto un dettaglio che dovrebbe conferire un crisma di indubitabile scientificità all’inchiesta: per capire se Yara poteva avere o meno sul suo corpo queste benedette sferette di metallo, i Ris sono andati a prendere addirittura quattro studenti di terza media di una scuola di Parma, che hanno più o meno la stessa età e la stessa vita che aveva Yara, li hanno testati con gli stessi strumenti, e hanno scoperto questo: su di loro solo due hanno addosso quattro sferette. Gli altri due ne hanno zero. Conclusione del professor-colonnello Lago: "La cosa più probabile è che queste centinaia di sferette sui vestiti di Yara arrivino dalle migliaia di sferette sui sedili di Bossetti". Chiaro, no? E invece, poi, in un pugno di minuti, ancora una volta il contro-interrogatorio di Salvagni ha effetti devastanti sulle certezze dei Ris. "Colonnello, i quattro ragazzi che avete esaminato sono stati scelti con criteri statistici?". Lago fiuta la trappola: "Io non ho mai parlato di criteri statistici". Ma questo è un dato che lei ritiene statisticamente significativo?". E il colonnello: "No, non è significativo statisticamente". Salvagni: "Ma voi avete fatto questo stesso esame delle sferette sugli abiti della sorella di Yara, su quelli dei genitori?". Risposta: "No, non lo abbiamo fatto". Salvagni: "I ragazzi esaminati venivano dal vostro territorio?". Lago: "Dal parmigiano, sì". L’avvocato di Bossetti, osa, e fa centro: "Appartenenti all’arma?". Lago: "Sì, parenti di appartenenti all’arma". Salvagni: "Avete verificato se ci sono acciaierie sul territorio?". La presidente si spazientisce: "Sarebbe stata una perdita di tempo!". E invece quello che capisco da questo contro-interrogatorio è clamoroso, e si ripeterà pari pari anche sulle famose fibre dei furgoni. I Ris non hanno cercato dei ragazzi che frequentavano ambienti simili, ma sono andati, per comodità, a prendere qualcuno vicini alla loro sede: ma è ovvio che a Carrara i ragazzi avranno più probabilità di avere addosso polvere di marmo, così come è chiaro che a Dalmine potrebbe essere più facile avere residui ferrosi. Domanda chiave dell’avvocato: "Avevate a disposizione la macchina della famiglia Gambirasio, avete fatto un test su quei sedili?". Risposta di Lago: "No". Altra domanda: "Avete preso in considerazione dei muratori?". Risposta laconica: "No". Ancora l’avvocato: "Avete esaminato il furgone della palestra?". Risposta del super-carabiniere: "No: è stata fatta un’altra scelta investigativa. Stavamo seguendo la ragazza". Salvagni: "Ma dopo avete controllato?". Risposta: "No. Sarebbe stato interessante, dal punto divista investigativo. Ma dal punto di vista delle risorse". Mi chiedo: ma se si tratta di ferro, l’assassino non potrebbe essere un fabbro, o un tornitore? Chiudo il taccuino e penso: in una inchiesta costata un paio di milioni di euro in cui si è risaliti al Dna di Batta Guerinoni nell’anno di grazia mille settecento, il super-carabiniere è andato ad esaminare dei ragazzi a Parma, ma nessuno ha avuto l’idea geniale di fare l’esame sulle fibre e sulle sferette delle macchine che Yara frequentava tutti i giorni. E nessuno ha pensato di esaminare l’unico furgone che è stato sicuramente avvistato da testimoni a Brembate, la sera della scomparsa. Forse non sarebbe emerso nulla. Chissà. Ma me ne vado da Bergamo pensando ai tre lunghi giorni di deposizione di Lago, e al video tarocco: essere noioso, quasi mai significa essere autorevole. Ma in questo caso significa sicuramente non esserlo. Campania: Rems, entro fine novembre in funzione la struttura per detenuti psichiatrici di Flavio Coppola Il Mattino, 1 novembre 2015 Con la nomina dì Amerigo Russo quale responsabile ad interim si accelera il percorso che porterà, in tempi brevi, all’apertura di una Residenza estensiva di massima sicurezza (Rems) a San Nicola Baronia e di un’articolazione per la salute mentale in carcere a Sant’Angelo dei Lombardi. La delibera che, "invia provvisoria e per il tempo necessario all’avvio a regime delle atti -vita previste" indica Russo, è pubblicata sul sito dell’Asl di Avellino. Entrambe le articolazioni, previste dal decreto numero 104 del 30 settembre 2014, "Adeguamento del programma per il superamento degli ospedali psichiatrici della Regione Campania", dovrebbero concretizzarsi già nella seconda metà del mese di novembre. La misura regionale, infatti, stabilisce l’ attivazione di una struttura ospedaliera a San Nicola Baronia con 20 posti di utenza maschile, e di altri posti letto per patologie mentali presso la casa circondariale di Sant’Angelo. Ora l’Asl sarebbe in dirittura d’arrivo. Dal 2008, infatti, le competenze della Medicina penitenziaria sono state trasferite dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. Di qui il lavoro messo i n campo d all’ azienda sanitaria, anche in collaborazione con i comuni interessati dai due progetti. Per l’azienda, infatti, è prevista una vera e propria presa in carico degli internati, scandita - come si legge nella delibera - "da precisi programmi terapeutici e riabilitativi". L’obbligo per ogni Asl di dotarsi di un servizio per la salute mentale in carcere e di strutture residenziali perle misure di sicurezza è perentorio dal 2012. Nella delibera, infatti, si legge anche che "la completa ristrutturazione dell’ offerta dei servizi dovrà mettere la Magistratura in condizione di effettuare la misura di sicurezza in contesti sanitari ordinari, con garanzie di equità di trattamento rispetto alla popolazione psichiatrica generale". Le strutture previste nei due comuni irpini di Sani Nicola Baronia e Sant’Angelo dei Lombardi, dunque, dovranno avere tali requisiti. Un fatto di grande civiltà che servirà, in sostanza, per garantire anche ai detenuti la dovuta assistenza psichiatrica. Cagliari: muore detenuto 36enne, decesso per arresto cardiaco dopo emorragia interna Ansa, 1 novembre 2015 Un detenuto del carcere di Uta è morto per arresto cardiocircolatorio, sopravvenuto a un’emorragia interna. L’uomo, di 36 anni, originario di Quartu Sant’Elena, era rinchiuso da agosto nella struttura detentiva nell’area industriale di Cagliari. "Sconforto nella Casa circondariale per la nuova tragedia avvenuta nelle prime ore del mattino di oggi. La morte di un detenuto, però, lascia sempre aperti tanti interrogativi anche quando le cause, come in questo caso, sono naturali. È inevitabile infatti domandarsi se potevano essere individuati segnali premonitori dell’evento", lo ha dichiarato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. "Le prime indicazioni fornite dal direttore dell’istituto e dai medici, che si sono prodigati anche con il supporto del 118, per salvargli la vita - sottolinea Caligaris - fanno propendere per un arresto cardiaco. È evidente però che si tratta della quarta morte a poco meno di 12 mesi dal trasferimento dei detenuti da Buoncammino. L’episodio inoltre si è verificato a 48 ore da un nuovo tentativo di suicidio e a una settimana dalla morte di un giovane di 21 anni. Eventi slegati tra loro ma che devono far riflettere sulla realtà di una struttura dove è molto elevata la percentuale di tossicodipendenti con disturbi psichici per i quali sarebbe necessario disporre di strutture idonee al recupero". "Il carcere di Cagliari-Uta, nonostante la buona volontà degli operatori e aldilà degli episodi imprevedibili - aggiunge Caligaris - presenta aspetti molto problematici. Occorre apportare le indispensabili modifiche migliorative all’organizzazione sanitaria, non ancora adeguata ai bisogni, e rafforzare le attività trattamentali con particolare riferimento all’impegno che deve caratterizzare l’esistenza quotidiana dei cittadini privati della libertà". Roma: detenuta straniera dei 34 anni muore nell’infermeria del carcere di Rebibbia Ansa, 1 novembre 2015 Una donna straniera di 34 anni, arrestata con l’accusa di avere ucciso il figlio, è morta per cause naturali ieri pomeriggio nell’infermeria della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia dove era ricoverata perché affetta da una grave patologia. A darne notizia, in una nota, è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "La donna - spiega Maurizio Somma, segretario Regionale del Lazio del Sappe - era entrata in carcere a Roma Rebibbia il 16 ottobre scorso perché denunciata dal marito per avere messo il figlio nel congelatore. Rifiutava il cibo ed era affetta da una grave patologia e per questo portato nell’infermeria del carcere. Proprio ieri era arrivata in carcere un’ambulanza che con la scorta del Nucleo Traduzioni della Polizia Penitenziaria avrebbe dovuto accompagnarla in ospedale, ma per cause naturali la donna è deceduta". Il Segretario Generale Sappe Donato Capece commenta: "La notizia di una persona che perde la vita in carcere è sempre triste, è sempre una brutta notizia. Ma la situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata! Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. Questo fa capire ancora di più come e quanto è particolarmente stressante il lavoro in carcere per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria". Bolzano: il Sottosegretario Ferri "la nuova Casa circondariale sarà un modello" Ansa, 1 novembre 2015 Il sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri, ha visitato la Casa circondariale di Bolzano. "Occorre - ha detto - guardare avanti e puntare su un nuovo modello di carcere. L’attuale struttura di Bolzano, dove tutti gli operatori lavorano con grande impegno e serietà, ha pochi spazi per l’area trattamentale che sono essenziali per costruire un percorso rieducativo serio ed efficace". "Si sta lavorando insieme alla Provincia di Bolzano per costruire una struttura moderna e assolutamente all’avanguardia. L’aver pensato ad un project financing, è importante perché delinea un forte interesse della società civile alla piena rieducazione e al reinserimento dei detenuti. La nuova struttura sarà dotata di ampi spazi per i progetti e per i trattamenti e permetterà di sviluppare le attività lavorative. Questo progetto doterà la città di Bolzano di un carcere pensato sul modello europeo e costituirà un punto di riferimento per la progettazione di nuove strutture di detenzione", ha concluso il sottosegretario. Lucera (Fg): "Bottega dell’Ausilio", detenuti al lavoro riparano ausili per i disabili notizie.tiscali.it, 1 novembre 2015 I detenuti della Casa circondariale di Lucera lavorano in un progetto di inclusione lavorativa che prevede la raccolta, riparazione e rilancio sul mercato di carrozzine e altri dispositivi per la disabilità. "Atelier dell’Ausilio" è il progetto di inclusione lavorativa che vede all’opera sette detenuti del carcere di Lucera e quattro persone in affidamento ai servizi sociali, nel riparare - per rimetterli nel mercato - carrozzine ed ausili per la disabilità. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione "Con il Sud" attraverso l’iniziativa "Carceri 2013", che coinvolge numerosi partner pubblici e privati. Il lavoro dei detenuti - tutti assunti con contratti regolari - viene svolto nella "Bottega dell’Ausilio" del carcere e in un’officina della zona industriale di Cerignola; al servizio delle società e dei disabili, le persone destinatarie del progetto, con il loro lavoro, garantiscono un risparmio della spesa per il servizio sanitario pubblico. Sono previste inoltre, sia a Lucera che a Cerignola, attività di sensibilizzazione sui temi del carcere, dell’esecuzione penale, delle misure alternative alla detenzione. Presupposto ineludibile per un re-inserimento socio-lavorativo di successo delle persone detenute o in esecuzione penale esterna, è infatti una comunità solidale e accogliente. Saranno organizzati, quindi, 3 eventi rivolti in modo particolare agli studenti degli istituti di ogni ordine e grado, coinvolgendo le famiglie dei detenuti (circa 250) e i detenuti stessi sia nell’organizzazione, che come testimoni delle problematiche legate alla detenzione. Prima di iniziare le attività vere e proprie ci sarà un percorso di orientamento e counseling individuale, formazione in aula e on the job, fino alla work experience, con la fase di start up e sperimentazione del processo produttivo dell’impresa sociale. Parallelamente, sono previsti, per i detenuti e per le loro famiglie, attività di sostegno psico-sociale, con particolare attenzione per i genitori detenuti o in esecuzione penale esterna e per i figli, con l’attivazione di un Centro di Ascolto. La conferenza stampa di presentazione del progetto si è svolta il 29 ottobre presso la sede del Consiglio regionale della Puglia a Bari, presenti il presidente dell’Assemblea regionale Mario Loizzo, il garante regionale delle persone soggette a restrizione della libertà personale Pietro Rossi, il provveditore per l’amministrazione della Giustizia in Puglia Giuseppe Martone, il direttore del carcere di Lucera Valeria Pirè, il dirigente della Sezione "Sicurezza del cittadino, politiche per le migrazioni e antimafia sociale" del Prap Stefano Fumarulo e il direttore di Escoop, la prima società cooperativa europea, Marco Sbarra. Ferrara: Avvocato di Strada, dieci anni di tutela ai senzatetto estense.com, 1 novembre 2015 Diritto alla salute, alla tutela legale, alla residenza. Un aiuto a superare gli ostacoli che impediscono l’inserimento nella società ed il pieno esercizio della cittadinanza. Sembrano ormai slogan dalla facile presa sociale e politica, ma possono rivelare anche una necessità più profonda - per alcuni - di dare il proprio contributo per cambiare lo stato delle cose. Su questi presupposti nasceva infatti 10 anni fa a Ferrara lo sportello dell’associazione onlus Avvocato di Strada, rinominato anche "lo studio legale più grande d’Italia e anche quello che fattura meno", per dare una tutela legale gratuita alle persone senza dimora. Dieci anni in cui i cambiamenti sociali ed economici hanno contribuito ad ampliare il concetto di povertà, in un contesto dove continua a salire il numero di persone, italiane e straniere, private dei beni di prima necessità o anche di una identità anagrafica. "Come cambia la società, cambiano anche le esigenze - spiega Raffaele Rinaldi, coordinatore dello sportello ferrarese di Avvocato di Strada -; ora allo sportello viene anche l’imprenditore". Rinaldi sottolinea anche un altro elemento per capire come sono cambiate le esigenze legali in dieci anni di attività. "Prima le cause più seguite erano di tipo penale, poi sono state maggiori quelle amministrative. Oggi ci troviamo di fronte, da ormai sette, otto anni, a cause che vertono sul civile. È un indizio importante: è tornata la povertà e il senzatetto non è più solo l’alcolista cronico o il tossicodipendente. Spesso la povertà è collegata a uno smarrimento, un momento in cui nella vita ci si perde, ma non può esserci carità senza giustizia e serve uno stretto collegamento con le istituzioni". A 15 anni dalla nascita dell’associazione, fondata a Bologna nel dicembre del 2000 come proseguimento dei lavori iniziati con Amici di piazza Grande, Avvocato di Strada conta ora 41 sportelli distribuiti in Italia (sono scoperte come regioni solo la Calabria e la Sardegna) e oltre 1.000 avvocati di strada volontari. Nel 2014 sono state 3231 le persone difese, "persone che altrimenti non avrebbero avuto nessuna difesa" evidenzia il presidente nazionale dell’associazione, Antonio Mumolo. "In Italia c’è molta fame, soprattutto di diritti - continua -. Questo comporta problemi che rendono davvero difficile la possibilità di uscire dalla strada, una volta superato il momento di difficoltà". Nonostante il diritto alla difesa legale sancito dalla Carta europea dei diritti fondamentali, il gratuito patrocinio nella Penisola italiana è subordinato alla residenza, tanto che chi ne è privo non può essere di fatto tutelato. "È molto facile perdere la residenza, anzi, facilissimo - spiega Mumolo. Una volta persa non si ha più diritto alla salute, non si può aprire una partita iva, si perdono i diritti previdenziali, i diritti politici, le tutele offerte dal welfare locale: in pratica si diventa completamente invisibili e risulta impossibile uscire dalla strada". Lo stesso vale per i soggetti detenuti in carcere. "Chi è in carcere - racconta Marcello Marighelli, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune e della Provincia di Ferrara - perde rapidamente la residenza e inizia così un periodo di limbo finché per lui non arriva la sentenza definitiva". La proposta, che si sta concretizzando in questi mesi, è quella di istituire uno spazio informativo di prossimità, "pensato per chi sta per uscire dal carcere e voluto da noi e dall’amministrazione comunale per risolvere uno di quegli aspetti che creano diseguaglianza, ovvero la carenza di informazioni". Quanto ai dati, a Ferrara nel 2014 gli utenti sono stati 35 uomini e 6 donne (venti italiani, sei UE e 15 extra europei) e le pratiche sono state 41. Di diritto civile sono state in totale 26 (di cui 9 con questioni inerenti al diritto di residenza), 8 di diritto penale (di cui 4 legate alle richieste di pene alternative alla detenzione) e zero quelle amministrative. Le pratiche collegate al diritto dei migranti 6, di cui 5 legate a decreti di espulsione. Sono attualmente 6 gli avvocati che svolgono attività di volontariato per l’associazione. Da qualche giorno è stata stipulata una convenzione con l’Università di Ferrara per poter far fare tirocini curricolari agli studenti di Giurisprudenza, "ma servirebbe anche un coinvolgimento maggiore dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara, per aiutarci a far conoscere le attività dell’associazione anche ad altri colleghi", evidenzia Rinaldi. Per don Domenico Bedin, presidente dell’associazione Viale K dove Avvocato di Strada ha sede a Ferrara, "a dieci anni di distanza da quando è nato, questo è un percorso che sta portando i suoi frutti. C’è sempre una sorta di paura da parte della cittadinanza, una sorta di preoccupazione di una sottrazione di benessere nel dare diritto alle persone senza dimora. Servirebbe invece capire che riconoscere i diritti di tutti è un arricchimento". Roma: "Memorial Cucchi", abbiamo corso con Stefano… e lo faremo ancora di Checchino Antonini Il Manifesto, 1 novembre 2015 Abbiamo corso con Stefano. Eravamo tanti, cinquecento podisti e altrettanti ad aspettare i corridori, stamattina al parco degli Acquedotti di Roma, là dove ebbe inizio l’ultima corsa di Stefano: l’arresto e la via crucis tra caserme di carabinieri, Regina Coeli, guardine sotterranee di Piazzale Clodio, pronto soccorso del Fatebenefratelli, ancora Regina Coeli, infine il repartino penitenziario del Pertini dove venne nascosto alla vista, ultima fase di una tortura durata sei giorni. Seguirono, per i suoi parenti, fasi successive e più lunghe della tortura: lo strazio dell’autopsia, il muro di gomma delle versioni ufficiali, le indagini strabiche, le chiacchiere dei giornali, i processi incapaci di dare nomi e cognomi ai colpevoli. E loro a correre per Stefano. Per Stefano e gli altri. E non comincio l’elenco perché non sarebbe completo, perché lo conosciamo già. E noi a correre con loro. Nelle piazze, nelle aule di tribunale, nei centri sociali, in ogni spazio reale e virtuale dove si può lottare contro la miscela velenosa che ha ucciso Stefano e gli altri fatta di proibizionismo, razzismo, mala-polizia, emergenza sicurezza, torsioni autoritarie, fascismo e la complicità di chi si gira dall’altra parte. Di chi non corre. Milano: chiusura Expo, Eurochocolate dona bancale di dolci ai detenuti di Bollate Adnkronos, 1 novembre 2015 La giornata conclusiva dell’Esposizione Universale di Milano sarà speciale anche per i detenuti della Casa di Reclusione di Bollate. Per iniziativa di Eurochocolate, Official Content Provider del Cluster Cacao e Cioccolato, grazie alla collaborazione con le aziende che hanno animato il padiglione collettivo dedicato al "cibo degli Dei", un intero bancale di cioccolato è stato donato agli Istituti Penitenziari che hanno collaborato con il sito espositivo. Il dolce dono è stato consegnato questa mattina da Eugenio Guarducci, presidente di Eurochocolate, ai volontari del carcere che lavorano in Expo, alla presenza di Massimo Parisi, direttore della Casa di Reclusione di Bollate. Un regalo gradito e un modo per suggellare nel segno della solidarietà la straordinaria esperienza di Eurochocolate a Expo Milano 2015. Libri: "Catarsi e giudizio", di Paolo de Angelis, tutta la vergogna delle nostre carceri di Massimo Di Lauro Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2015 Ci sono libri che, al di là del loro intrinseco valore e persino della volontà del l’autore, sembrano scritti apposta per suscitare nuove riflessioni e riaccendere dibattiti che sembravano sopiti. Catarsi e giudizio, del giurista Paolo De Angelis (autore di importanti opere di filosofia del diritto, come Politica e giurisdizione nel pensiero di Francesco Mario Pagano) è uno di questi libri. Opera prima della Collana "Quaderni di diritto e letteratura" diretta da Felice Casucci, il libro di De Angelis ha un obiettivo ben preciso: tracciare un’analisi storico-ideologica delle istituzioni penitenziarie in Italia. Un tema di bruciante attualità, se si pensa che sono in corso gli Stati Generali dell’esecuzione penale, che dovrebbero sensibilizzare l’opinione pubblica sull’angosciosa gravità della situazione carceraria. De Angelis prende spunto da un saggio di Piero Calamandrei pubblicato nel marzo del 1949 sulla Rivista "Il Ponte", dal titolo Inchiesta sulle carceri e sulla tortura, nel quale veniva tracciato lo stato di grave regresso della giustizia penale e denunziato l’incrudelimento della repressione carceraria. L’analisi di Calamandrei, che conteneva anche interessanti notazioni circa le occasioni di stesura del libro di Beccaria Dei delitti e delle pene, destinato in pochi anni a travolgere in tutta Europa i patiboli e gli strumenti di tortura, metteva capo a questa sconfortante conclusione: "la tortura, nonostante Beccaria, è più attuale di prima nella mite Europa. Questo bisogna confessare chiaramente: che oggi in tutto il mondo civile, a occidente e a oriente e anche in Italia, non solo esistono prigioni crudeli ma esiste ancora, forse peggiore che ai tempi di Beccaria, la tortura". De Angelis prende in esame un altro testo storico di critica della legislazione penalistica e penitenziaria novecentesca pubblicato nel 1904 da Filippo Turati, amico e sodale di Matteotti, che dopo aver denunciato l’"incivile" realtà carceraria italiana, concludeva con queste parole: "le carceri italiane sono la maggiore vergogna del nostro Paese. Erano così cinquant’anni fa e sono oggi così, quasi immutate". Questi i punti di partenza di una riflessione sull’attuale repressione carceraria in Italia, resa disumana e degradante dalle condizioni di fatiscenza e insalubrità dei luoghi di detenzione, che De Angelis affronta con particolare attenzione al drammatico problema del sovraffollamento nelle carceri (circa 70mila detenuti contro una capienza regolare di 45mila). Un problema reso ancor più angoscioso dal numero dei detenuti in attesa di giudizio, pari al 44% della popolazione carceraria, contro il 16% della Gran Bretagna. Come sia stato affrontato fino a oggi questo problema, che ha suscitato l’indignazione delle competenti Corti europee, è tristemente noto. Anziché con la costruzione di nuove carceri, si è dato il via libera ad amnistie, indulti e leggi svuota carceri, con l’effetto di aggirare l’altro problema, sempre più incombente, dell’esecuzione effettiva della pena. Il nocciolo del libro di De Angelis sta proprio qui: nella critica intransigente di un sistema penitenziario che, distante anni luce dai princìpi di civiltà giuridica dettati da Beccaria, ha tradito la funzione risocializzativa della pena detentiva, che continua a essere intollerabile tortura, retaggio di quella concezione primitiva dell’espiazione carceraria dalla quale la cultura e l’ideologia dominante non sembrano ancora essersi liberate. Il gran lavoro del Centro Astalli per l’aiuto ai rifugiati di Agnese Moro La Stampa, 1 novembre 2015 "Fondato nel 1980 dall’allora Padre Generale della Compagnia di Gesù Pedro Arrupe, il Jesuit Refugee Service accompagna, serve e difende i rifugiati. L’organizzazione, che ha la sua direzione a Roma e 10 uffici regionali in tutto il mondo, conta oltre 1.800 collaboratori e volontari, tra cui 70 gesuiti. Serve più di 950.000 rifugiati in un anno. Oltre a servizi sanitari e sociali il JRS offre programmi di istruzione formale e informale a circa 280.000 bambini, giovani e adulti ogni anno". Così il mensile di informazione del Centro Astalli di Roma (centroastalli.it) - sede italiana del JRS, con una sua rete territoriale italiana - presenta il contesto planetario in cui svolge la sua azione. Un’azione complessa che affronta, a tanti livelli, grazie anche all’aiuto di 450 volontari, le questioni pratiche e culturali che riguardano ogni anno la vita di 34.000 migranti forzati (21.000 nella sola sede di Roma). Ci sono tanti servizi: accettazione, mensa, centri di accoglienza (per adulti, famiglie, minori, donne con bambini), ambulatorio, l’aiuto con specifiche cure mediche e psicologiche a persone vulnerabili (come i, purtroppo, tantissimi rifugiati che hanno subito torture di ogni genere), centro di ascolto e di orientamento socio-legale, scuola di italiano, accompagnamento al raggiungimento di una piena autonomia, sostegno all’inserimento lavorativo, creazione di "comunità di ospitalità" all’interno di case e comunità religiose disponibili per facilitare percorsi di autonomia. Emozionante la lettura del loro rapporto annuale disponibile sul sito; mostra problemi, capacità di affrontarli, buone notizie. Non manca una densa attività culturale di conoscenza e sensibilizzazione rivolta ai rifugiati stessi, ai giovani, ai giornalisti e alla società. Ci sono progetti a cui partecipano scuole di varie città, come "Finestre" e "Incontri", incentrati sul diritto d’asilo e il dialogo interreligioso nei quali ogni anno testimoni di varie religioni e rifugiati incontrano circa 12.000 studenti. Questi progetti hanno un loro momento creativo nei concorsi letterari "La scrittura non va in esilio" rivolto agli studenti delle superiori e "Scriviamo a colori" per quelli delle scuole medie inferiori; la premiazione dei vincitori, avvenuta giovedì, ha visto la presenza di 800 studenti e di numerosi esponenti del mondo artistico e culturale italiano. Guardiamo i migranti negli occhi di Silvia Costa (Parlamentare europea) L’Unità, 1 novembre 2015 Il tema dei rifugiati rischia di disgregare l’Europa. Un rischio di naufragio, potremmo dire. Anche se con coraggio l’alleanza inedita tra Commissione Junker e PE ha ottenuto in questi ultimi mesi risultati importanti ovvero la solidarietà tra gli Stati Membri nel ripartirli, con corridoi umanitari, e nel sostenere risorse umane ed economiche per i centri di registrazione, per l’accoglienza, anche nei campi in Libano, Giordania e Turchia dove sono ospitati oltre 4 milioni. In Europa il problema non è per il numero (parliamo di un primo piano di accoglienza e distribuzione di 140.000 e ora di 280.000 persone in un Continente di 500 milioni di abitanti). Ma perché non ci sono ancora adeguati strumenti comunitari di gestione, con la contraddizione palese che gli stessi Stati . Membri che chiedono che l’Europa intervenga poi alzano muri e filo spinato quando si tratta di accogliere la propria "quota" di profughi. Parola che assomiglia alle quote latte. Al fondo c’è però una questione di valori e di cultura: l’Europa è nata, dopo due guerre mondiali, la Shoah e le dittature, dalla volontà di costruire uno spazio comune di libertà, democrazia e pace sulla base di valori e diritti umani fondamentali, e dei principi di solidarietà e responsabilità. E centinaia di migliaia di profughi europei sono fuggiti, nel Novecento, all’esterno e all’interno dell’Europa. Proprio in una fase storica in cui la globalizzazione dei processi esige una governance almeno europea, dalle migrazioni all’energia, dal clima all’ambiente, dalla ricerca alla finanza, sta montando un populismo demagogico che evoca un sovranismo nazionale impotente, indebolisce la crescita di una Unione Europea autorevole politicamente e alimentando paure allontana le soluzioni. Ma al fondo c’è una miopia dettata dall’egoismo e talora da piccoli calcoli elettoralistici. Locali o nazionali. Solo la cultura, l’educazione e un’altra narrazione della verità umana e sociale dei migranti e dei rifugiati farà la differenza. Riallacciando memorie e storie personali familiari: perché tutti siamo . migranti, come dice Papa Francesco. La prima operazione da fare è ricreare una empatia, una condivisione e restituire identità, dignità e parola alla persone che sono costrette dolorosamente a lasciare il loro paese per guerre, fame, persecuzioni o povertà. Vederli, parlargli, guardarli negli occhi, nella loro forza e fragilità è il primo antidoto alla indifferenza, alle paure e al rifiuto. Questo mi hanno insegnato la le mie esperienza sui luoghi: a Lampedusa, dopo il naufragio di tre anni fa, il 3 ottobre 2013, con i suoi 366 morti. Li ho Incontrato famiglie eritree, afghane, africane che celebravano riti diversi di fronte al mare. In Parlamento europeo, subito dopo, abbiamo preso sul serio questo appello e abbiamo chiesto corridoi umanitari, asilo europeo, il superamento di Dublino, il sostegno a chi era in prima linea, come l’Italia, a salvare e ad accogliere, e un supporto europeo a Mare nostrum. Allora la nostra voce fu accolta solo in parte dalla maggioranza degli Stati membri in Consiglio dei Ministri e la Commissiona Barroso si limitò a prenderne atto. Sembrava un problema solo del sud Europa e da noi del Sud Italia. Abbiamo perso tempo e vite. Un naufragio della politica e della solidarietà. Che sono la stessa cosa: costruire un noi. Quando è cambiato l’atteggiamento? Perché la Merkel ha rivisto, le propri posizioni? Quando il nord e i Paesi dell’Est Europa hanno avuto il "loro" Mediterraneo, la loro Lampedusa ai loro confini, ma soprattutto quando hanno visto i volti, la disperazione, il dolore e non solo gli invasori e il pericolo del "fenomeno migrazioni". Aylan, il piccolo adagiato sulla spiaggia di Bodrum, guardato con occhio rispettoso, commosso, non morboso, da una giovane fotografa, ha fatto la differenza. Ma l’hanno fatta anche le decine di migliaia di persone, volontari, cittadini, scuole, parrocchie che si sono prodigate senza aspettare direttive e linee guida, dopo Lampedusa, a Milano, a Roma, ma anche in Germania, in Austria. In Islanda il governo ha proposto di accettarne solo 500, ma i cittadini ne hanno ospitati 5000. La differenza l’hanno fatta gli amministratori locali, le Ong umanitarie, uomini e donne delle forze dell’ordine e i militari a servizio dei diritti delle persone che vengono prima dei diritti di cittadinanza. E la differenza l’hanno fatta quei film, quegli intellettuali, quei giornalisti che hanno saputo vedere oltre il fenomeno e la massa, che hanno riconosciuto il fratello e l’umano. In Ungheria ho visto e ho capito la differenza tra chi considera questa crisi umanitaria una semplice e ordinaria questione di immigrazione illegale e non solo alza muri e fili spinati, non solo crea finte transit-zone come terre di nessuno dove i diritti sono sospesi, ma fomenta paure e odio e approva leggi come quella che ha reso reato penale anche rovinare le reti o mettere un piede oltre la barriera o che autorizza poliziotti ad entrare in case private a verificare che non accolgano profughi senza autorizzazione di un giudice. Ho chiesto con una interrogazione alla Commissione europea se questo è compatibile con la Carta europea dei diritti umani e con le Convenzioni internazionali. Non lo è, così come non è accettabile la lentezza con cui si dà l’assenso, dopo averlo concordato, alla accoglienza dei rifugiati italiani e greci: solo 90 partiti dall’Italia da ottobre sui 40mila previsti. Bisogna lavorare perché sia superato il conflitto in Siria é sia finalmente dato un governo di riconciliazione alla Libia e trovata una via per "sharing Jerusalem". Dire che la distruzione di queste vite e dello straordinario patrimonio culturale in Siria e in Iraq è la stessa cosa non è un sacrilegio: si distruggono insieme vite umane e la radice della comune umanità, dell’identità e della fratellanza. È da qui che dobbiamo ripartire. "L’Italia non venda armi all’Arabia Saudita", appello delle Ong contro fornitura a Ryad di Stefano Pasta Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2015 Nel giorno in cui l’Unione europea assegna il Premio Sakharov a Raif Badawi, il blogger dissidente incarcerato, l’Italia spedisce armi proprio in Arabia Saudita. La denuncia arriva dalla Rete Disarmo, Amnesty International e l’Osservatorio Opal di Brescia. Si tratta di diverse tonnellate di bombe "made in Sardinia", caricate giovedì mattina su un Boeing 747 della compagnia azera Silk Way. Il cargo è decollato dall’aeroporto di Cagliari con destinazione Taif, dove c’è una base militare della Royal Saudi Armed Forces. "Si tratta - dice Giorgio Beretta, analista di Opal - con ogni probabilità di una nuova fornitura di bombe fabbricate nell’azienda tedesca Rwm Italia di Domusnovas, in provincia di Carbonia e Iglesias, che prosegue le spedizioni degli ultimi anni". Infatti, ordigni inesplosi venduti dall’Italia, come le bombe Mk84 e Blu109, sono stati ritrovati in diverse città dello Yemen, bombardato da sette mesi dalla coalizione guidata da Ryad. "Il ministero - continua Beretta - non ha mai smentito che le forze militari saudite stiano impiegando anche ordigni made in Italy". Senza alcun mandato internazionale, gli sceicchi, con l’appoggio dei paesi sunniti della regione, lanciano bombe sullo Yemen per contrastare l’avanzata del movimento sciita Houthi. Il bilancio: 4mila morti (400 bambini), 20mila feriti (di cui almeno la metà civili), un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari. Proprio giovedì, mentre partivano le armi da Cagliari, il Segretario dell’Onu condannava i bombardamenti sauditi che nei giorni scorsi avevano colpito un ospedale di Medici senza Frontiere nella provincia di Sàdah Ban Ki-moon ha chiesto di "rispettare gli obblighi stabiliti dalle convenzioni per i diritti umani e del diritto umanitario internazionale per prevenire attacchi contro i civili". L’Italia da decenni vende armi in Medio Oriente, spesso con scarsa trasparenza. L’Arabia Saudita, nonostante le ripetute violazioni dei diritti umani, è tra i maggiori acquirenti: oltre alle bombe, ha acquistato caccia Eurofighter e missili Iris-Ti. Ma per le associazioni pacifiste, quest’ultima spedizione, proprio perché a guerra in corso, è particolarmente sconcertante. "Chiediamo - dicono - che l’opinione pubblica si mobiliti per fermare l’invio". Francesco Vignarca della Rete Disarmo ritiene che avvenga in violazione della Legge 185/1990 e chiede al ministro Gentiloni di riferire in Parlamento. Finora, nonostante un precedente appello e diverse interrogazioni parlamentari: il governo ha invece scelto di tacere. Disperazione saharawi: "dimenticati dai media" di Fatima Mahfud (*rap­pre­sen­tante del popolo saharawi per l’Italia) Il Manifesto, 1 novembre 2015 I campi di rifugiati allestiti in territorio algerino per i duecentomila saharawi fuggiti nel 1975 in seguito all’occupazione marocchina della loro terra, il Sahara Occidentale, vivono in questi giorni momenti drammatici. Nelle ultime due settimane, incessanti e violente alluvioni stanno letteralmente cancellando le precarie costruzioni che davano riparo alla popolazione, ospitata da quarant’anni in tende e case di sabbia e in attesa, da ventiquattro anni, di un referendum per l’autodeterminazione annunciato nel 1991 e mai realizzato. Le Nazioni unite spendono 60 milioni di dollari all’anno per mantenere lì una missione d’osservazione composta da 240 militari. Per i duecentomila rifugiati saharawi i contributi delle Nazioni unite ammontano a 30 milioni di dollari, ma il loro ottenimento non è mai garantito: ogni volta, i saharawi sono costretti a motivare le loro ovvie necessità per poter ricevere questo aiuto. Necessità acuite proprio dal fatto che nessuno si preoccupa dei loro diritti. L’unico interesse che le Nazioni unite sembrano perseguire è un cessate il fuoco che al momento garantisce solo l’occupante marocchino, e che impone ai saharawi una condanna senza fine pena e senza motivo. Dimenticati dai media e dalla comunità internazionale, bambini, anziani, donne e uomini privati di ogni diritto elementare sono costretti a una attesa infinita nel deserto, esposti all’assenza di generi di prima necessità e, come in questo caso, alle intemperie più violente. Mi appello alla vostra sensibilità e alla vostra attenzione professionale sul tema delle nuove criticità che le condizioni disperate generate dalle alluvioni stanno creando nei campi saharawi. Spero vivamente nella pubblicazione della notizia.