La proposta per l’affetto dietro le barre, ma il sesso c’entra poco di Caterina Pasolini La Repubblica, 19 novembre 2015 Forse presto ci sarà una legge per realizzare nei luoghi di pena le "stanze dell’affettività famigliare". Se ne sta occupando il parlamentare padovano del Pd, Alessandro Zan. La realtà di chi ha contatti troppo rarefatti con la famiglia e soprattutto i figli, che sono quelli che soffrono di più. "Non si può far pagare il debito con la giustizia anche agli innocenti". Nelle carceri italiane sono rinchiuse più di 50mila persone. Hanno perso la libertà, come condanna per i reati commessi, ma spesso finiscono per perdere anche quello che resta della loro vita, quello che in un futuro li ancorerebbe ad un’esistenza normale: la famiglia, mogli, figli, amici. Puniti anche loro, innocenti, con l’assenza, il vuoto dei legami. Genitori e bambini, donne e compagni di chi viene arrestato, dal momento in cui si aprono le porte del carcere hanno infatti solo sei ore al mese, in spazi comuni, in mezzo ad altri sconosciuti, per vedersi, parlare, cercare di mantenere rapporti, non perdere la crescita dei figli, un minimo di condivisione e intimità della vita fuori e dentro le sbarre. Per non perdersi un domani possibile. Le "stanze dell’affettività". Di questo parla la proposta di legge per realizzare in carcere le "stanze dell’affettività famigliare", di cui primo firmatario è il parlamentare padovano del Pd, Alessandro Zan. Per raccontare la realtà di chi questa assenza la vive tutti i giorni, fuori e dentro le mura delle prigioni, in Commissione Giustizia alla Camera, via skype, sono arrivate le voci e i volti di chi s’incontra solo in parlatorio. Detenuti di Padova, dove ci sono esperienze modello in questo campo, hanno raccontato la loro fatica quotidiana nell’assenza, la paura di perdere gli ultimi legami, parole confermate dalla figlia e la moglie di un condannato. Pezzi di vita in giro per l ‘Italia inseguendo un genitore trasferito di continuo, la vergogna di un padre che finge di lavorare in carcere come idraulico, perché non ha le parole per dire alla figlia la verità e in quelle risicate sei ore al mese in cui l’ha davanti vuole solo godersela anche se mentendo. Il diritto all’intimità. La proposta di legge punta a concedere ai detenuti il diritto di intimità, un diritto che in molti paesi europei è già legge e che viene declinato in modi diversi, da piccoli appartamenti per famiglie, a stanze per coppie, spazi aperti. La proposta italiana prevede una visita al mese, che può durare dalle 6 alle 24 ore in locali realizzati appositamente, le cosidette stanze dell’affettività, senza controlli visivi o acustici. Ora dietro un vetro ci sono gli agenti a controllare. Sulla proposta di Zan, realizzata in collaborazione con Ristretti Orizzonti, sito diretto da Ornella Favero, nominata presidente della conferenza nazionale volontariato a giustizia, e sottoscritta da altri 20 parlamentari di vari partiti (soprattutto Pd e M5Stelle), è stata subito polemica. Con la Lega nord ad accusare di voler "trasformare il carcere in un bordello". "Non è giusto punire anche la famiglia". "Il sesso non c’entra nulla, qui stiamo parlando di altro. Un detenuto è giusto che venga punito perché ha commesso un reato, ma non è giusto che sia punita anche la famiglia. La proposta per il diritto all’affettività vuole garantire soprattutto ai figli una situazione di famiglia e di intimità più riservata per gli incontri, riproducendo una situazione di vita famigliare". Così ribatte De Zan. "Mi ricordo un ergastolano, arrestato in Belgio era abituato a vedere moglie, figli, essere trasferito in Italia e vederli sei ore al mese in parlatorio per lui fu un vero shock", racconta Ornella Favero che da anni vive in prima persona i problemi di chi si trova dietro le sbarre, soprattutto nel carcere di Padova e della Giudecca, dove ogni anno coinvolge cinquemila studenti, portandoli all’interno perché capiscano cosa vuol dire vivere in cella. I più colpiti sono i figli dei detenuti. "Ho visto mogli di detenuti che hanno seguito per anni i propri mariti, in giro per tutte le prigioni d’Italia, solo per vederli poche ore - dice ancora Ornella Favero - gente che prima portava i figli e ora porta i nipotini, ma è come se per tutta la vita fossero state anche loro prigioniere, condannate, private dell’affettività. Ma sono i bambini i più colpiti, perché è difficile mantenere legami, farli crescere in sei ore condivise in uno spazio affollato, lontano da qualsiasi apparenza di vita famigliare e domestica. Penso - aggiunge Favero - sia una quesitone di sicurezza anche per la società: un detenuto che mantiene legami con la famiglia, una volta uscito dal carcere ha più probabilità di farcela". E parla dei vari esperimenti, di chi ha chiesto almeno l’uso di skype per vedersi più spesso, anche solo a distanza, oppure la richiesta di più ore al mese e periodi comunque più lunghi per incontrarsi. E poi gli spazi, anche se tutto questo ha a che fare con un cambiamento radicale dell’edilizia carceraria, sebbene all’inizio - sostengono in molti - ce la si potrebbe fare solo usando dei prefabbricati". "È una questione di dignità". Sulla stessa linea Donatella Ferranti, presidente della Commissione Giustizia alla Camera, che dice: "Il diritto all’affettività dei detenuti non è una questione di sesso in carcere: il problema è ben più serio e investe il rispetto della dignità umana e la necessità di garantire accettabili e non umilianti condizioni di vita negli istituti di pena. Del resto il riconoscimento del diritto all’affettività dei reclusi è contenuto già nei principi di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario che abbiamo di recente approvato alla Camera votando la riforma del processo penale". L’esempio di Bollate. E la realtà di alcune carceri italiani è già più avanti della legge che verrà. "A Bollate - racconta il direttore, Massimo Parisi - c’è una sorta di appartamentino con cucina, divani, un ambiente simile ad una vera casa dove genitori e bambini possono passare le giornate". Una cinquantina, su gli oltre mille detenuti, quelli che, grazie alla partecipazione a progetti specifici, entrano nella stanza dei desideri. Dove senza controlli - solo una telecamera registra - padri e figli possono passare insieme ore ed ore cercando di ricostruire una normalità, una quotidianità perduta. Giustizia: "no a leggi speciali", Renzi esclude modifiche alla Costituzione di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 19 novembre 2015 Il premier annuncia investimenti sulla sicurezza web. Mattarella: non ci ruberanno il nostro modello di vita. Non è un problema di frontiere, "quelli che dicono che il problema è Schengen non si rendono conto che i terroristi arrivano con gli aerei di linea e non con i barconi". Per il capo del governo è un problema soprattutto di intelligence, di prevenzione, per cui "occorrono accordi di cooperazione con gli altri Paesi". Intervistato da Sarah Varetto, a SkyTg24, Matteo Renzi offre la visione del nostro esecutivo sull’allarme terrorismo, ripete di condividere la proposta di Putin di una grande coalizione contro l’Isis, aggiungendo che "sarebbe molto positivo" riportare la Russia al tavolo della coalizione internazionale. Poi offre un’immagine salda del nostro Paese: "Siamo di fronte a un momento di difficoltà ma siamo anche un grande Paese e abbiamo vinto la sfida del terrorismo interno e della mafia. Non bisogna correre il rischio dell’isteria e neanche della sottovalutazione". Mentre il Parlamento approva l’innalzamento dei poteri dello stesso premier e dei nostri 007, capaci di ordinare missioni all’estero dei nostri corpi speciali, Renzi aggiunge che serve "un investimento sulla cyber security: puoi mappare i sospetti, ma anche banalmente incrociare le telecamere. È un tema che va affrontato in modo diverso". Poi c’è il capitolo delle risorse finanziarie: da Bruxelles Juncker ha dato il via libera, il premier conferma che anche per lui "il patto di Stabilità non si deve applicare alle spese della difesa, è giusto, sacrosanto. Figurarsi se uno sta attento allo "zero virgola" sulla sicurezza. Quello che vale per la Francia varrà anche per l’Italia". E in questo caso "nei prossimi 15 giorni verificheremo se possiamo mettere più denari" sulla sicurezza nella legge di Stabilità. C’è l’Anno Santo alle porte: "Mai pensato di rinviarlo, tema che non esiste. Tutti i Paesi europei hanno lo stesso grado di rischio, ma a chi dice "c’è il Giubileo e il Papa è un obiettivo" rispondo: massima attenzione, ma il Papa se è un obiettivo lo è sempre". Una rivendicazione è sul nostro ruolo "per individuare Jihadi John, il boia dell’Isis, l’Italia ha collaborato con i suoi uomini". Da escludere "nel modo più categorico una modifica costituzionale su questi temi. Non credo che la priorità siano leggi speciali". Inoltre "Valeria Solesin resterà nei nostri cuori e cercheremo di ricordarla anche con una borsa di studio". Parole nette anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: "Non sradicheremo l’odio facendolo entrare nelle nostre vite. Il terrore vuole snaturarci. Noi non ci piegheremo. Non ci faremo rubare il nostro modello di vita e il nostro futuro. Dobbiamo essere uniti e affermare i principi del nostro umanesimo". Beppe Grillo invece punta l’indice contro la recente visita di Renzi a Riad: "Lui dice che l’Italia non fa affari con i Paesi che finanziano il terrorismo. Può darci le prove? Cosa è andato a fare a Riad? Con chi finanzia i terroristi non ci deve essere dialogo". Giustizia: l’appello di Renzi sulla sicurezza, una mano tesa al centro-destra di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2015 Renzi prova a mettere contenuti a quell’appello all’unità nazionale che altrimenti sarebbe rimasto un pro forma solo per accompagnare la drammaticità di questi momenti. E in effetti quella proposta che ha annunciato farà a tutti i partiti è sull’unico capitolo - la sicurezza - che davvero rappresenta un tema concreto ma anche una mano tesa al centro-destra. L’opportunità gli arriva da Bruxelles, dalle aperture della Commissione Ue e dello stesso presidente Jean-Claude Juncker di estendere la flessibilità di bilancio anche alle risorse aggiuntive su sicurezza e anti-terrorismo che gli Stati dovranno stanziare dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Ed è quella apertura europea che consente a Matteo Renzi di dare una sostanza a un appello alla responsabilità che altrimenti sarebbe rimasto una pura formalità, un richiamo retorico senza conseguenze fattuali. Tra l’altro proprio sulle spese per la sicurezza c’è già stato uno scontro aspro tra maggioranza e opposizioni sulla legge di stabilità con il centro- destra e il Movimento 5 Stelle che erano già andati all’attacco del Governo sui tagli. Oggi, invece, proprio quello può diventare un capitolo su cui fissare una tregua soprattutto dopo il nuovo allarme di attentati in Italia che è scattato ieri sera. La possibilità di sforare e stanziare più risorse diventa lo strumento giusto per consentire al premier di rispondere alle esigenze dei cittadini e alle richieste delle Forze di polizia, che già quest’estate avevano protestato sui rinnovi contrattuali, e che ora sono in prima linea nei luoghi più sensibili della Capitale e durante tutto il Giubileo. Ma quelle risorse assumono anche una valenza politica perché Renzi avrebbe potuto intestarle solo al Governo mentre usa quelle aperture di Bruxelles come un tavolo di trattativa con l’opposizione. Diventano, insomma, un canale di dialogo soprattutto con il centro-destra che tra le altre opposizioni è quella che ha sempre votato per il finanziamento delle missioni all’estero o su misure anti-terrorismo. Molto più che il Movimento 5 Stelle che già ieri metteva all’indice la politica estera di Renzi che, secondo Grillo, cede al dialogo con gli Stati finanziatori del terrorismo come l’Arabia Saudita. Dunque, difficile scongelare le posizioni dei grillini, che ancora ieri sembravano piuttosto chiusi all’appello del premier e lo accusavano per le sforbiciate alla sicurezza nella legge di stabilità. È molto più praticabile - invece - la collaborazione con Forza Italia che certo non può chiudere alla possibilità di nuove risorse e investimenti per il comparto sicurezza, polizia e intelligence. Il punto è come si arriverà a una collaborazione. "Dovranno accettare le nostre proposte che già da tempo abbiamo messo sul tavolo: aumenti contrattuali per le forze di Polizia, aumento degli organici, fine delle missioni inutili", diceva Maurizio Gasparri senatore di Forza Italia che finora si è visto respingere i suoi emendamenti ma ora trova una via aperta. È molto probabile che l’accordo si troverà, soprattutto dopo l’allerta di attentati in Italia scattata nella serata di ieri. E dunque sarà difficile per tutti - e per il centro-destra in particolare - mettersi di traverso. Le uniche schermaglie saranno su chi si intesterà politicamente la vittoria. Sempre che abbia un senso, in queste condizioni, strattonarsi su chi l’avrà avuta vinta. Giustizia: quell’urlo in carcere "Allah Akbar", misure più dure per 87 detenuti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 novembre 2015 Nel carcere di Viterbo, a un detenuto di religione musulmana già segnalato come incline alle sirene della propaganda estremista, sono state trovate cartoline raffiguranti piazza Navona, Trinità dei monti e Fontana di Trevi, immagini che hanno acceso un campanello d’allarme. A Pisa un altro recluso portato in infermeria ha avuto un diverbio con il personale che lo stava curando e ha reagito dicendo: "Spero che vi accada quello che è successo in Francia". A Parma sono stati sequestrati manoscritti in lingua araba considerati "meritevoli di attenzione", e così a Bolzano; a Spoleto, la notte del 13 novembre, dalla cella di tre tunisini s’è levato il grido "Allah Akbar". Anche a Civitavecchia qualcuno ha urlato quella frase, insieme a epiteti contro i francesi, mentre a Pisa un detenuto ha indossato una maglietta con scritto "Parigi", destando qualche sospetto. Sono alcuni degli episodi verificatisi nelle galere d’Italia all’indomani delle stragi del venerdì 13, segnalati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. La mattina di sabato 14, prima ancora di partecipare alla riunione dei Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza convocato d’urgenza, il capo del Dap Santi Consolo ha diramato un "allertamento urgente" a tutti gli istituti per sollecitare il personale "a proseguire nell’attività di osservazione per individuare eventuali segnali di proselitismo e radicalizzazione". Senza trascurare "alcun segnale di pericolo"; il che significa comunicare ogni fatto o comportamento, compreso il più apparentemente irrilevante, che possa indicare "adesione anche indiretta ai tragici eventi" di Parigi, come specificato ancora ieri. Da tempo le carceri sono considerate il principale bacino da controllare nell’attività di contrasto al terrorismo di matrice islamica. Per un semplice e banale motivo di numeri. Secondo i dati aggiornati al 31 ottobre scorso, su un totale di 52.434 detenuti, 17.342 sono stranieri. Uno su tre. Di questi, circa 10.000 provengono da Paesi di religione musulmana, e in questa quota (il 20 per cento del totale) ce ne sono 7-8.000, distribuiti nei quasi 200 istituti, che partecipano alle preghiere collettive. Un universo dove si concentrano le personalità e le storie più diverse, la propaganda radicale può attecchire più facilmente che altrove. Agevolata dallo status e dalle condizioni di detenzione. Per provare a controllare e contrastare questo rischio, l’Amministrazione penitenziaria ha preso le sue contromisure. Per esempio applicando anche ai detenuti di fede islamica classificazioni a cui corrispondono regimi più restrittivi, a seconda del grado di pericolosità. I 29 reclusi accusati di terrorismo e reati connessi rientrano - al pari dei sovversivi nostrani, anarchici e militanti No Tav coinvolti in attività di sabotaggio - nel circuito "Alta sicurezza 2", subito sotto quello "As1" riservato ai mafiosi che provengono dal "41 bis". Altri 58, non inquisiti per attività eversive ma soprattutto per traffico di droga, sono in "Alta sicurezza 3", con restrizioni appena minori. Il resto della massa s’immerge nel mare magnum della detenzione comune, e dunque il controllo si sposta nei luoghi di aggregazione e di preghiera. A questo scopo il Dap ha appena siglato un protocollo d’intesa con l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia, per avere "una lista di persone interessate a prestare la propria opera di volontario nelle carceri in qualità di ministri di culto (imam) e mediatori interculturali"; una sorta di sigillo di garanzia su persone che possano gestire le preghiere che attualmente si recitano nelle 52 stanze adibite a moschea in altrettante prigioni, o in singole celle o locali improvvisati in altri 132 istituti. L’esperimento comincerà dagli otto istituti con la maggior presenza di musulmani: Verona, Modena, Torino, Cremona, due a Milano, Brescia e Firenze. Contemporaneamente sono state avviate le procedure per l’identificazione certa durante la detenzione, in modo da procedere all’espulsione (quando necessaria) subito dopo il fine pena. Senza le lunghe attese nei centri di accoglienza, altri luoghi a rischio "proselitismo e radicalizzazione". Giustizia: Unione delle Camere penali "allarme insensato su fondamentalismo in carcere" Ansa, 19 novembre 2015 È "insensato" l’allarme del Sindacato di polizia penitenziaria Sappe sul fondamentalismo islamico nelle carceri. A sostenerlo è l’Unione delle Camere penali, che ricorda come il Sappe abbia segnalato "il rischio che la numerosa componente extracomunitaria della popolazione detenuta possa essere facile preda dell’attività di proselitismo del terrorismo di matrice fondamentalista, per invocare una svolta restrittiva nelle modalità di esecuzione della pena". "Si chiede esplicitamente la sospensione del sistema della vigilanza dinamica e del regime penitenziario aperto, che consentirebbero la promiscuità fra i detenuti senza controllo della Polizia Penitenziaria, per evitare che fanatici estremisti, in particolare ex combattenti, possano indottrinare i criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, per reclutarli alla causa del terrorismo internazionale", rileva l’Ucpi, che non considera "una novità l’ostilità da parte di alcuni settori della Polizia Penitenziaria rispetto alla sorveglianza dinamica". Questa modalità di gestione della sicurezza negli Istituti di detenzione "richiede sforzi organizzativi maggiori e maggiori attitudini professionali della mera attività di custodia", ma "è ormai diffusa la convinzione che, a dispetto delle ricorrenti resistenze di alcune componenti dei sindacati del settore, il cambio di prospettiva richiesto agli operatori, risponde anche a un’esigenza di qualità della gestione della sicurezza, poiché mira a una conoscenza individuale dei detenuti, attuabile solo attraverso l’interazione e non nell’isolamento". "È fin troppo agevole domandarsi dove potrebbero verificarsi le temute attività di proselitismo e indottrinamento a opera dei fondamentalisti, se non nell’isolamento forzato all’interno delle celle piuttosto che nelle attività di comunità gestite dagli operatori del trattamento", proseguono i penalisti. Per questo "invocare una stretta sui detenuti di origine extracomunitaria per evitare il contagio, dunque, non ha alcun senso, se non quello di rispondere a un pregiudizio di matrice etnica". "Non resta che augurarsi (ma ne siamo certi) - conclude l’Ucpi - che il Ministro della Giustizia, che viene direttamente chiamato in causa, non stenti a riconoscere nella sollecitazione rivoltagli una strumentale evocazione dei venti securitari che le tragedie di questi giorni sollevano nell’opinione pubblica a sostegno di una battaglia di retroguardia". Giustizia: appunti contro la gogna giudiziaria e l’egemonia del tribunale del popolo di Marianna Rizzini Il Foglio, 19 novembre 2015 Quanto l’azione del magistrato è influenzata dall’"impressione popolare unanime"? Quanto l’insistenza mediatica sulla "reputazione", anche a monte del giudizio in tribunale, ha fatto sì che dal panorama giuridico-politico emergesse l’ibrida figura del "coinvolto", colui che non è imputato ma di cui si parla, il più delle volte con un giudizio morale di condanna già pendente sulla sua testa? E siamo davvero a nostro agio nella cosiddetta "società giudiziaria", quella che sta a metà tra società civile e società politica, e che è composta un pò da comuni cittadini un pò da politici e un pò da pm, e che affonda le sue radici nella punizione come terreno su cui si misura persino la qualità di un progetto di legge - della serie: più punitivo è meglio è, vista anche la resa generale della stessa politica e dei media e di una parte della magistratura all’"incultura giuridica del cittadino medio"? Si sono posti ieri queste domande, al convegno su giustizia e politica organizzato alla Camera dall’associazione "Popolari per l’Europa", Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera e della Commissione parlamentare antimafia con percorso tutto ex Pci-Pds-Ds-Pd; Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto Penale all’Università di Palermo, giurista di area progressista per sua stessa definizione; Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica istruzione nei governi Prodi I e D’Alema; Gerardo Bianco, presidente dell’Associazione ex parlamentari, Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, Giuseppe Gargani, avvocato, già parlamentare in Italia e in Europa di area ex Dc, ex sottosegretario alla Giustizia e autore nel 1998 di un libro più volte ristampato fino a oggi ("In nome dei pubblici ministeri. Dalla Costituzione a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate", ed. Mondadori, a cura di Carlo Panella e Gennaro Caravano"). C’era anche Piero Tony, già procuratore capo di Prato ora in pensione, autore del j’accuse "Io non posso tacere-confessioni di un giudice di sinistra" (ed. Einaudi), la storia, già nota a questo giornale, di un magistrato che a un certo punto non ne ha potuto più di fare finta di niente davanti alla gogna generalizzata a mezzo stampa, ai processi mediatici, al protagonismo di alcuni pm e alla cosiddetta supplenza politica di certa magistratura. "Sono mature le condizioni per aprire una discussione pubblica ampia sul ruolo del giudice in prospettiva futura, nell’ottica di un recupero dell’equilibrio nei rapporti tra politica, media e giudici?", si è chiesto Fiandaca, partendo proprio dai libri di Tony e di Gargani, e rispondendosi purtroppo con un no: "Il quadro politico generale non è ancora sufficientemente coraggioso", ha detto, né aiuta "l’atteggiamento di un’opinione pubblica" che sembra sempre in attesa della punizione come mezzo di risoluzione dei problemi, come dice Violante quando parla della suddetta "società giudiziaria", la stessa che cede all’"impressione popolare unanime" che allarma Luigi Berlinguer per la sua abitudine all’"inevitabilità del giudizio politico e morale" prima di tutto. Non è solo un problema italiano, dice Violante, anzi è un dilemma internazionale di questi giorni: "Le democrazie stanno come mostrando la corda", dice. Devono "essere trasparenti", le democrazie, per rispondere alle richieste dell’opinione pubblica, ma in questa trasparenza auto imposta si fanno più che mai "deboli", e quando la politica è debole e non riesce a mettere ordine "il potere giudiziario avanza". In Italia c’è una specificità nella politicizzazione della magistratura, dice Violante alludendo anche ai "partiti politici fondati da ex magistrati come Antonio Di Pietro e Antonino Ingroia", non particolarmente baciati dalla fortuna, e in questa specificità la "società giudiziaria" punitiva si espande, perché "è più semplice" sentirsi parte di un mondo in cui la punizione fa da palliativo a qualsiasi emergenza. "Dopo la sentenza Mannino", dice Giuseppe Gargani come prefigurando la sconfitta della posizione "punitiva" a oltranza, "l’antagonismo tra politica e magistratura si è accentuato ma nello stesso tempo è diventato più evanescente come evanescente si sono dimostrate le tesi inquisitorie nel processo. La sentenza Mannino è una sconfitta di Pirro, uno degli ultimi colpi di coda della magistratura politicizzata che perde non solo nel dibattito pubblico ma anche nelle aule di tribunale". E Fiandaca, già critico feroce del processo sulla "Trattativa stato-mafia", prende come spunto il libro di Gargani, in cui si parte dalla Costituzione del 1948 (per individuare le radici del mancato sistema di checks and balances), per rintracciare il legame invisibile tra ieri e oggi. Nel libro si parla di un vecchio articolo del 1983 in cui Gherardo Colombo, ex pm di Mani Pulite, disegnava quello che secondo lui (allora) era il ruolo del magistrato. Un ruolo, dice Fiandaca, di controllo preventivo di legalità, un ruolo quasi pedagogico che, come modello, "è sopravvissuto fino a oggi". Giustizia: nei Modelli 231 tutele per chi denuncia fatti di corruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2015 Doppio binario sulle segnalazioni anticorruzione tra pubblico e privato. Con l’inserimento, su quest’ultimo fronte, nei Modelli 231 di un inedito contenuto specifico. Intanto però sulle misure è scontro Pd-5 Stelle. Al centro della polemica il whistleblowing, il meccanismo cioè che tutela il dipendente che segnala fatti di corruzione. Il testo messo a punto dalla commissione Giustizia della camera sarà al voto dell’Aula a già dalla prossima settimana, ma il Movimento 5 Stelle, tra i promotori del testo, accusa il Partito Democratico di avere stravolto il provvedimento con una serie di "emendamenti vergogna: "si potevano difendere e premiare i cittadini onesti che denunciavano la corruzione, invece la maggioranza nel chiuso della commissione Giustizia ha votato ancora una volta contro la legalità e per la corruzione". La presidente della commissione Donatella Ferranti (Pd) non ci sta e replica che "non c’è nessuna volontà di distruggere la proposta di legge presentata dai Cinque Stelle, ma semmai di migliorarla costruttivamente, soprattutto alla luce dei risultati dell’indagine conoscitiva che abbiamo svolto e dei suggerimenti arrivati da Anac, Autorità della Privacy, Confindustria, Agenzia delle Entrate, Bankitalia, esperti giuristi". Il disegno di legge prevede che il dipendente pubblico non può essere sanzionato in alcun modo (licenziamento compreso come ovvio) né discriminato per avere denunciato condotte illecite di cui è venuto a conoscenza per il proprio rapporto di lavoro. È in buona fede il dipendente pubblico che effettua una segnalazione circostanziata ritenendo altamente probabile che la condotta illecita o di abuso si sia verificata. L’identità del dipendente non può essere rivelata ed è coperta nel processo penale dalla norma (articolo 329 del Codice di procedura) che disciplina l’obbligo di segreto degli atti d’indagine. In ogni caso è affidata all’Autorità anticorruzione la redazione di linee guida per la presentazione e la gestione di segnalazioni con l’obiettivo specifico di alzare il più possibile il livello di riservatezza. Le tutele non sono più garantite però quando, anche con sentenza di primo grado,. è accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione. Sul versante privato si inserisce, ed è la prima volta che avviene, un contenuto obbligatorio all’interno dei modelli previsti, in via facoltativa, dal decreto 231 del 2001. In particolare, a carico dei vertici societari e dei loro sottoposti, ma anche di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, collaborano con l’ente, l’obbligo di presentare segnalazioni circostanziate di illeciti che in buona fede ritengano altamente probabile si siano verificati o le violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente di cui sono venuti a conoscenza. Nei modelli devono poi trovare posto canali alternativi di segnalazione, di cui almeno uno idoneo a garantire, anche con modalità informatiche la riservatezza dell’identità del segnalante. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono poi nulli il cambiamento di mansioni e qualsiasi altra misura punitiva o discriminatoria adottata nei confronti del lavoratore. Giustizia: stop a processi paralleli, niente accavallamenti negli stati europei di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 19 novembre 2015 Stop ai processi paralleli nella Ue. Gli stati devono parlarsi ed evitare che su uno stesso fatto ci siano due procedimenti (divieto del ne bis idem). E poi standard Ue per i processi in assenza dell’imputato. Mattone dopo mattone si costruisce la procedura penale europea: attraverso l’uniformità che si raggiunge con il recepimento della normativa Ue da parte dei singoli stati. Come nel caso degli schemi di decreti legislativi, approvati in via preliminare dal consiglio dei ministri del 13 novembre 2015, che recepiscono altrettante decisioni quadro. Processi paralleli. Evitare il doppio processo in due stati europei per uno stesso fatto, e cioè il ne bis in idem. È l’obiettivo dello schema di decreto legislativo, che si propone di conformare il diritto italiano alla decisione quadro 2009/948/Gai, sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali. Il meccanismo di risoluzione stabilisce che gli stati europei, ugualmente competenti ad avviare un’azione penale in relazione a un illecito sulla base dei medesimi fatti, dopo essersi consultati, si accordino, anche con l’ausilio di Eurojust, per individuare lo stato su cui concentrare la giurisdizione. È lasciata dunque alle autorità interessate la massima flessibilità per addivenire a una soluzione efficace, compatibilmente con i principi del proprio ordinamento. Nel dettaglio le autorità italiane, se hanno notizia di un procedimento parallelo in altro stato dell’Unione, devono prendere contatto con l’autorità dell’altro stato per verificare se è proprio cosi. In caso affermativo si devono intavolare consultazioni per eventualmente concentrare la giurisdizione presso un solo stato. La richiesta deve indicare il fatto e le circostanze del procedimento penale, l’identità dell’indagato e la fase del procedimento. Allo stato modo le autorità italiane potrebbero essere contattate da quelle omologhe di altri stati europei e lo schema di decreto in esame impone l’obbligo di rispondere. La procedura di consultazione deve interessare anche il ministero della giustizia, che potrà vietare la concentrazione del processo e, quindi, disporre che il processo italiano prosegua se sono in gioco la sicurezza interna o altri interessi essenziali dello stato. Durante le consultazioni il procedimento non è sospeso, ma non si può emettere sentenza. Se si decide la concentrazione dei procedimenti in Italia, sono fatti salvi gli atti probatori compiuti all’estero; mentre se il processo si sposta nell’altro stato europeo, il processo italiano diventa improcedibile. Mandato d’arresto Ue. Uniformità di garanzie per l’imputato quando l’autorità giudiziaria deve decidere in esecuzione di un mandato d’arresto europeo della consegna di un soggetto ad altro stato dell’unione. È quanto prevede lo schema di decreto legislativo, che attua la decisione quadro 2009/299/Gai, sul reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo. Lo schema di decreto prevede la diversa casistica della consegna di un cittadino ad altro stato europeo in caso di processo, in cui l’imputato è rimasto assente. Passiamola in rassegna. L’imputato può essere consegnato se ha ricevuto la comunicazione formale della data del processo e della possibilità di processo in contumacia, se ha nominato un difensore e se ha ricevuto la notifica della sentenza emessa in sua assenza e se ha avuto il diritto di ottenere una riapertura del giudizio oppure se ha la possibilità di ricevere la notifica della sentenza subito dopo la consegna e se gli sarà possibile chiedere la riapertura del procedimento partecipato. Se mancano queste condizioni la consegna dell’imputato si blocca. Giustizia: se i magistrati fossero intercettati come i politici… cosa verrebbe fuori? di Mauro Mellini Italia Oggi, 19 novembre 2015 Dalle registrazioni sinora pubblicate salta fuori il mondo sordido della politica, fatto da maneggioni, portaborse, questuanti, compratori e comprati. Se una pesca a strascico di questo tipo fosse fatta anche sui magistrati salterebbe fuori che anche loro hanno mogli, mariti, figli, amici, compari, amanti, ex compagni di scuola. Non dico che attorno al potere giudiziario ci sia il marciume che c’è attorno al mondo politico. Ma non c’è neppure un ambiente asettico da camera operatoria. Come, del resto, di tanto in tanto, si può toccare con mano. Le intercettazioni quindi vanno manovrate con cura. La privacy non è un valore solo da declamare. Lo sputtanamento gratuito, senza rilevanza penale, prima o poi, può capitare a tutti. E non è un bel vedere. Tra le molte stranezze e le molte ovvietà del "caso De Luca" ce n’è una che non sembra interessare troppo i detentori dello jus sputtanandi che stavolta sembra (dico sembra, perché…) aver colpito un bersaglio inconsueto. Anzi ce ne sono due. Gli ingredienti del caso sono tipici, noti e, come tali, variamente sottolineati. A cominciare dalla sciagurata Legge Severino, che, in nome della limpidità delle coscienze dei pubblici amministratori da imporre con nome di legge, ha sconciamente maltrattato il principio fondamentale di elettorato passivo universale, affiancandogli un assurda "candidabilità" da quella diversa ed a quella opposta. Per poi passare ad una serie di altre incongruenze, fi no all’indecente intervento della Commissione Antimafia, con la sua presidente "più bella che intelligente" che, alla vigilia delle votazioni ha raffazzonato una listarella di "impresentabili" (c’era una volta il proverbio: "Il bue che dice cornuto all’asino"). E poi i maneggi del cosiddetto staff del governatore, i parassiti che nelle le situazioni ingarbugliate ci sguazzano. E poi i tempi, dalle cadenze, degne di una qualche sospettosa critica, tra tribunale e corte costituzionale. E infine veniamo alla prima stranezza autentica. Riguarda la corte costituzionale ed il fatto che essa non abbia voluto riunire i vari ricorsi pendenti contro la Legge Severino, che, pur riguardando commi diversi della norma, comportavano questioni identiche. Trattarle separatamente era una premessa, neppure troppo implicita, di una volontà, cioè di un pre-giudizio, tendente a sfuggire all’esigenza di non fare "due pesi e due misure". Ma non è tanto di questo che voglio scrivere. Ma dell’intercettazione. Da chi fu ordinata l’intercettazione? E per quale motivo quella telefonata sarebbe stata intercettata? O bella! Direte voi: perché tutti intercettano tutti. Il che è verissimo, tanto vero che è l’unica cosa che non si può dire. Forse da qualche parte ci sarà bene un’autorizzazione, magari rilasciata in bianco come avviene per una parte molto considerevole di tali provvedimenti. Forse sarà pure venuta fuori la giustificazione di quell’ascolto indiscreto, che a me, che non sono un giornalista autorizzato all’esercizio del diritto costituzionale di ogni cittadino, sarà sfuggita. Ed allora: possibile che magistrati, che con questo sistema di intercettazione generale delle nostre più private conversazioni, come si suol dire ci sguazzano e ne fanno la base del loro terribile jus sputtanandi, pensino di poter parlare per telefono senza sapere che è come se parlassero con un altoparlante in un pubblico comizio? Prima considerazione: Il grande orecchio (ricordate un’opera teatrale di Vitaliano Brancati?) non è poi così generalizzato: se è vero che tutti intercettano tutti, ci sono alcuni cittadini (che sono poi quelli della categoria che più si avvale a proposito ma anche a sproposito di queste intromissioni auricolari) che si sente al di sopra di ogni sospetto, semplicemente perché sarebbe auspicabile che così fosse. E parla e straparla del diritto alla propria privacy, che però talvolta non esiste neppure per loro. Ciò detto viene voglia di trarne una prima conclusione, che potrebbe apparire una maligna spiritosaggine e non lo è: immaginate che tutti i magistrati siano intercettati e che tutte quelle intercettazioni registrate siano propalate. Se, oramai, stampa, televisione, libri, giornali, spettacoli di varietà ci hanno dato uno stereotipo dell’ambiente politico e, soprattutto dei tanti, tantissimi parassiti della politica, dei maneggioni, dei portaborse, dei questuanti, dei compratori e dei comprati della politica, cosa credete che ne verrebbe fuori, dopo un pò, dell’ambiente degli insospettabili? Degli intoccabili (quelli del pool di Mani Pulite così si definivano ed uno di loro teneva nel suo ufficio appeso al muso il manifesto dell’omonimo film americano) dell’ambiente dei magistrati? Mariti, mogli, figli di magistrati e amici, compari, amanti, ex compagni di scuola, credete davvero che si tengano lontani dalle delicatissime cose che occupano i cervelli dei loro togati congiunti, amici, compari etc. etc. Non dico che attorno al potere giudiziario ci sia un marciume pari a quello in cui si muove la politica e la pubblica amministrazione. Ma non c’è neppure l’ambiente asettico e sterile di una camera operatoria. La disinvoltura che ogni tanto fuori di certi comportamenti (e di certe non intime conversazioni) attesta tutto ciò. Non dirò che "anche i magistrati sono uomini". Questa può essere, al massimo, la premessa. Il fatto è che molti, troppi, si fanno in dovere di dimenticarlo e si è creata, un pò per distrazione, un pò per paura, un pò per indifferenza, un’atmosfera di falsa fiducia, di adorazione, una collocazione ingiustificata al di sopra di ogni sospetto, che ci dà un rispetto falso della categoria, favorisce la sua trasformazione in "partito istituzionale" ed, in conclusione produce più Saguto che poco appariscenti ma solidi e bravi amministratori della giustizia. Giustizia: "premi in denaro ai dipendenti-spia anticorruzione", la proposta è del M5S di Liana Milella La Repubblica, 19 novembre 2015 Il Pd "scippa" a M5S la legge sulla "gola profonda" che, in un ente pubblico o in un’azienda privata, denuncia la corruzione. Al punto che M5S è intenzionato a ritirare la legge. Per parare il colpo il Pd ne presenta una tutta sua firmata Ferranti. Non solo. Il Pd elimina pure dalla proposta dei grillini un paio di norme che avrebbero potuto consentire, a quello che gli americani da anni hanno battezzato "whistlerblower", un decisivo salto di qualità contro il malaffare. Un premio in denaro, tra il 5 e il 15% dell’importo recuperato, e la possibilità di presentare anche denunce anonime, a patto di garantirne la totale fondatezza. Niente da fare invece. Tra Pd e M5S, in commissione Giustizia alla Camera, volano gli insulti. Giusto alla vigilia di un’importante intesa sui giudici della Consulta, va in scena uno strappo che potrebbe avere anche un peso negativo. Di certo, da ieri, tra i deputati M5S che si occupano di giustizia - Alfonso Bonafede, Francesca Businarolo (che ha firmato la proposta sulla "gola profonda"), Giulia Sarti, Andrea Colletti, Vittorio Ferraresi - e quelli del Pd - la presidente della commissione Donatella Ferranti e il capogruppo Walter Verini, autore del blitz sul nuovo testo - la guerra è aperta. Come andrà a finire? Per ora si sa solo che lunedì prossimo il testo approda in aula solo per la discussione generale. Il voto è destinato a slittare nel tempo. Ma cos’ha portato allo scontro Pd e M5S che ieri, in una nota ufficiale, parlava di "legge distrutta", di "emendamenti vergogna", di una maggioranza che "ha votato contro la legalità e per la corruzione"? Ovviamente rimbrottati da Verini che li accusa di "malafede e scorrettezza" e da Ferranti che vede solo una "legge migliorata". Un fatto è agli atti, quella di M5S non piaceva per niente a Confindustria, come dimostra l’articolato parere del 29 ottobre. I fatti. Il 15 ottobre M5S presenta la legge che istituzionalizza la figura della gola profonda, ne tutela la riservatezza, ne garantisce anche l’anonimato, ne protegge l’identità fino al processo, la premia in denaro, soprattutto la garantisce da discriminazioni ritorsive sullo stesso luogo di lavoro. Un testo, diceva ieri M5S, che "ottiene il plauso dell’ambasciatore Usa a Roma". Si fanno le audizioni, tra cui quella del presidente dell’Authority anticorruzione Raffaele Cantone, che si batte da sempre a favore del whistlerblowing. Poi si arriva a 48 ore fa, agli emendamenti. E qui per M5S la sorpresa è grande perché Verini, con il responsabile Giustizia del Pd David Ermini, ne presenta di "soppressivi" per azzerare l’intera legge. Più due che la riscrivono. Ieri si vota. La commissione trema per le urla del grillino Bonafede che accusa il Pd "di aver violato i diritti delle opposizioni cancellando e stravolgendo una legge in quota nostra". Peraltro M5S fa un passo verso il Pd e presenta un testo più soft, ma tiene fermo il premio che dal 15-30% scende al 5-15%, mentre Verini ne ipotizza uno sulla "valutazione di professionalità". Si vota. Pd contro M5S. Ncd astenuto. Dice il vice ministro della Giustizia Enrico Costa: "Votiamo solo una proposta equilibrata". Il "no" ai domiciliari con il braccialetto deve essere motivato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2015 Il giudice deve chiarire le ragioni per le quali il carcere non può essere sostituito dalla misura dei domiciliari "aggravati" dal braccialetto elettronico. La Corte di cassazione, con la sentenza 45699 depositata ieri, ricorda che dopo la riforma delle misure cautelari, messa in atto con la legge 47/2015, il Tribunale della libertà non può più limitarsi a spiegare perché considera inadeguati gli arresti domiciliari "semplici" senza esprimersi sulla idoneità o meno della misura cautelare con le procedure di controllo elettronico previste dal Codice di rito (articolo 275 bis comma 1). La Suprema corte annulla dunque l’ordinanza impugnata dall’imputato, in carcere per reati connessi alla cessione di stupefacenti, per la sola parte che riguarda il "vuoto" sul tema del braccialetto. Per il resto, infatti, precisano i giudici della terza sezione, il Tribunale della libertà aveva spiegato in maniera esauriente, anche alla luce della riforma, il no ai domiciliari semplici. Un responso negativo sul quale non aveva pesato solo la gravità del reato, ormai esclusa dalla legge 47/2015 come unico elemento indicativo di un rischio concreto e attuale di recidiva. La decisione sfavorevole era stata adottata in considerazione dei precedenti specifici e dei procedimenti pendenti per reati di minaccia e ricettazione, crimini che, benché non analoghi, sono considerati indicativi della personalità del ricorrente. Spia di un pericolo di reiterazione da parte dell’imputato anche il ricorso alla violenza, in alcuni episodi di cessione. Il tutto, correttamente, secondo il Tribunale della libertà giustificava il "contenimento della persona con la massima misura custodiale". L’errore commesso però dai giudici e sottolineato dalla Cassazione è stato quello di non aver motivato sulla misura domiciliare aggravata: un passo imposto dall’articolo 275 del Codice di procedura penale inserito dalla riforma delle misure cautelari. Con la sentenza 35571 del 25 agosto scorso la Suprema corte si era espressa, con un’inversione di rotta, sul via libera alla scarcerazione anche senza braccialetto nel caso questo non sia disponibile, nell’ipotesi, diversa da quella esaminata ieri, in cui il giudice consideri comunque adeguata la misura dei domiciliari. Una conclusione basata sulla consapevolezza che il mezzo elettronico non è una misura coercitiva ulteriore e non serve a evitare la "fuga" ma solo a "testare" la capacità dell’imputato di autolimitarsi, assumendo l’impegno di installare il braccialetto. Truffa aggravata per i dipendenti assenteisti di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 novembre 2015 n. 45698. L’utilizzo indebito del badge da parte del dipendente pubblico, consistente nel timbrare il cartellino del collega di volta in volta assente, integra gli artifici e i raggiri del reato di truffa, tali da trarre in inganno l’Amministrazione di appartenenza e provocare all’ente stesso dei danni economicamente apprezzabili, nonché di immagine, per via della mancata presenza sul posto dei lavoratori. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza 45698 depositata ieri, dichiarando inammissibili i ricorsi presentati da alcuni dipendenti pubblici contro la misura cautelare loro imposta dai giudici di merito. I fatti - Gli episodi di "assenteismo" in questione sono molto simili a quelli recentemente venuti alla ribalta della cronaca che hanno coinvolto alcuni dipendenti del Comune di Sanremo. In questo caso i protagonisti sono agenti del comando di Polizia municipale e lavoratori socialmente utili dipendenti di un comune del casertano. La vicenda era sorta in seguito ad una indagine effettuata dai Carabinieri del luogo dalla quale era emerso che alcuni dipendenti della Polizia locale e Lsu che prestavano servizio presso il comune, pur avendo registrato l’ingresso tramite il badge in loro possesso, non risultavano fisicamente presenti sul posto di lavoro. Di seguito, venivano installate delle videocamere nascoste in prossimità delle macchinette marcatempo poste all’ingresso degli uffici comunali dalle cui riprese era emerso "un sistema di scambi reciproci dei badge personali", con gruppi di dipendenti che "vicendevolmente si scambiavano il badge per la rilevazione delle presenze per conto dei colleghi assenti" e con altri che "sistematicamente entravano ed uscivano dalla sede di lavoro timbrando non solo il badge personale ma contestualmente utilizzavano altri 3 o 4 badge dei colleghi". Durante la fase delle indagini preliminari il Gip prima e il Tribunale del riesame poi imponevano agli indagati la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di truffa aggravata ai danni dello Stato, previsto dall’articolo 640 c.p., e quello di false attestazioni o certificazioni, di cui all’articolo 55-quinquies del t.u. sul pubblico impiego. Il ricorso - I dipendenti comunali impugnavano l’ordinanza del Tribunale del riesame contestando l’assunto dei giudici di merito per cui l’indebito utilizzo del badge dimostrerebbe l’assenza dal posto di lavoro e, dunque, sarebbe tale da integrare gli estremi dei due reati contestati. Per i ricorrenti, infatti, le timbrature irregolari farebbero solo presumere l’effettiva assenza del lavoratore per l’intera giornata lavorativa. Il giudizio sulle misure cautelari - La Cassazione ritiene il ricorso dei dipendenti comunali manifestamente infondato in primis in quanto i ricorrenti chiedono alla Corte di operare una diversa lettura del materiale indiziario in senso più favorevole alla difesa. Ma ciò non è possibile. La Corte ricorda infatti che le misure cautelari personali devono essere applicate utilizzando un livello di prudenza massimo, sulla scorta di un "incisivo giudizio prognostico di elevata probabilità di colpevolezza" e sulla base degli indizi raccolti. E tali regole sono state rispettate dai giudici di merito che, nella specie, hanno effettuato una valutazione adeguata e congrua degli elementi indizianti raccolti, insindacabile nel merito in sede di legittimità. La truffa aggravata - Ciò posto, passando alla valutazione del "fumus" dei reati contestati, per i giudici di legittimità la dinamica e la reiterazione degli episodi accertati sono tali da far assumere al quadro indiziario quella gravità sufficiente a giustificare l’adozione di una misura cautelare. Difatti, sussiste nella specie il reato di truffa aggravata poiché i dipendenti comunali con le loro condotte hanno tratto in inganno l’Amministrazione di appartenenza provocando, per via della reiterazione delle medesime condotte, dei danni economicamente apprezzabili. Per la Corte, infatti, la timbratura del cartellino elettronico assume una funzione certificativa del rispetto degli orari di lavoro e dell’espletamento in concreto della propria attività e, di conseguenza, "qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di attestazione è di per sé idonea a trarre in inganno l’amministrazione" circa la presenza del dipendente sul luogo di lavoro. Quanto al danno poi, l’ingiustificato protrarsi delle condotte ha prodotto quel pregiudizio "patrimoniale e d’immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente nel presidio lavorativo, rimato così sguarnito della corrispondente unità di lavoro". Il reato di false attestazioni - Infine, discorso analogo vale per il reato di false attestazioni e certificazioni previsto dal testo unico sul pubblico impiego, che concorre con il delitto di truffa. Tale reato si consuma - spiegano i giudici - con la mera falsa attestazione della presenza del dipendente, la cui prova è data dall’"irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze". Impugnazione con posta privata, conta la data di spedizione non del ritiro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Ordinanza18 novembre 2015 n. 45697. Ai fini del rispetto dei termini processuali, l’impugnazione tramite servizio postale privato, possibile dal maggio 2011, si considera proposta dalla data di spedizione della raccomandata contenente il relativo atto. Non ha, dunque, alcun rilievo il giorno in cui l’agente del servizio privato ha ritirato il plico presso lo studio professionale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza 45697/2015, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per reati di droga. Resta, dunque, a carico dell’impugnante "il rischio che l’atto, ritirato a domicilio dall’agente postale privato in tempo utile ma "spedito" dal servizio di recapito privato dopo la scadenza del termine di impugnazione, sia dichiarato inammissibile per tardività". La Suprema corte comincia col ricordare che "non può esservi alcun dubbio in ordine alla legittimità del ricorso ad un servizio di recapito gestito da una società privata". E che l’effetto anticipatorio regolato dall’articolo 583, comma secondo, del Cpp, secondo il quale "l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata", vale anche per gli atti di impugnazione spediti con raccomandata fornita dai servizi di recapito privato, purché autorizzati dal Ministero dello sviluppo economico. Dal 30 aprile 2011, infatti, Poste Italiane spa ha perso "la riserva del servizi di invio e recapito delle raccomandate attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie". Riguardo al computo dei termini dell’impugnazione, i giudici di Piazza Cavour non hanno accordato alcun peso alla dichiarazione, allegata dalla difesa, in cui il responsabile del servizio di posta privata attestava di aver ritirato la raccomandata l’ultimo giorno utile. Afferma infatti la Corte che "la tempestività della presentazione dell’atto non dev’essere valutata al momento del ritiro della busta contenente l’impugnazione da parte dell’agente postale ma al momento in cui l’impugnazione stessa viene presentata, momento che si identifica nella data di "spedizione" del piego raccomandato". Così, tornando al caso affrontato, se è vero che nel testo è riportata una data di un giorno antecedente alla scadenza, da nessun atto risulta che la spedizione sia effettivamente avvenuta nel termine perentorio. Mentre il francobollo a stampa apposto sulla busta della raccomandata riporta una data di tre giorni successiva. Ed è solo a questa data, conclude la sentenza, che deve aversi riguardo non a quella diversa del ritiro della raccomandata. Bari: detenuto con problemi psichiatrici muore suicida, si è impiccato stanotte alle 3:00 antennasud.com, 19 novembre 2015 È deceduto per impiccamento il detenuto a regime psichiatrico che ha deciso di togliersi la vita in una delle celle del carcere del capoluogo barese con l’utilizzo di una cintura legata alle sbarre del bagno mentre il compagno si era appena addormentato. A scoprirlo è stato un agente insospettito dell’assenza nel proprio letto del detenuto mentre effettuava l’ennesimo giro di controllo. La Polizia penitenziaria alle 3 ha dato l’immediato allarme ma nulla si è potuto fare per medici e paramedici se non constatare il decesso del recluso. La notizia giunge in una struttura sulla quale che da tempo il sindacato di coordinamento sindacale del penitenziario aveva richiamato l’attenzione delle istituzioni carcerarie. Basti pensare che dall’inizio dell’anno 2015 presso il penitenziario di Bari si sarebbero verificati almeno 22 tentativi di suicidio, tutti sventati grazie alla tempestività e alla professionalità della polizia penitenziaria, sebbene ampiamente carente nei servizi interni ed esterni. Trento: sono in arrivo 50 detenuti in più, causa sfollamento dagli istituti del Triveneto Il Trentino, 19 novembre 2015 Sindacati della Polizia penitenziaria sul piede di guerra per l’imminente arrivo nel carcere di Trento di "un numero considerevole di detenuti provenienti, causa sfollamento, dagli istituti del Triveneto". Nella nota dei sindacati si parla di "almeno 50 detenuti che, uniti a quelli già ristretti nel penitenziario cittadino, porterebbero il numero complessivo ad oltre 350 persone". Per le sigle firmatarie - Sappe, Osapp, Uil, Sinappe, Fsa-Cnpp e Fns-Cisl, "ciò comporterebbe, come più volte denunciato, notevoli problemi di carattere gestionale che, congiunti all’esiguo numero di unità di Polizia Penitenziaria in forza al carcere di Spini di Gardolo, porterebbe l’intero sistema in brevissimo tempo al collasso". Le difficoltà maggiori - per i sindacati - deriverebbero dall’allocazione dei detenuti: sarebbe necessario infatti installare letti a castello, ridurre gli spazi comuni e diminuire le offerte di attività trattamentali, "sino ad oggi fiore all’occhiello dell’istituto". Tutto ciò - viene aggiunto - "preoccupa notevolmente" i sindacati, perché "inevitabilmente comporterà un aumento del clima di tensione" tra i detenuti. La decisione "di far confluire presso l’istituto di Trento un numero così considerevole di detenuti (la nuova capienza stabilità dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma ne prevedrebbe addirittura 418!) appare in netto contrasto con l’accordo sottoscritto, sin dall’apertura del nuovo carcere, tra il Governo nazionale e l’Amministrazione provinciale, il quale stabiliva una capienza massima pari a 250 detenuti". Rossano: (Cs): il Sappe "allarme per detenuti terroristi". Il Dap "la sicurezza è garantita" Quotidiano del Sud, 19 novembre 2015 Dopo lo stato di allerta per gli attentati in Francia, attenzione sugli istituti penitenziari di Catanzaro e Rossano che ospitano terroristi. Il sindacato: "Sicurezza pari a zero, questi detenuti non dovrebbero essere qui". "Nella sezione speciale del carcere di Rossano dove sono detenuti 21 terroristi islamici, uno dei quali appartenente all’Isis ed un altro all’Eta, e gli altri 19 integralisti islamici, tutti con pena definitiva nel 2026, c’è un livello di sicurezza pari a zero". L’allarme è stato lanciato dal segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece, in visita al carcere calabrese per verificare lo stato di sicurezza in particolare della sezione speciale dove sono ristretti i terroristi islamici. Dopo gli attacchi terroristici di Parigi, da fonti interne al penitenziario, si era appreso che quattro dei 21 terroristi islamici detenuti avevano inneggiato al grido di "Viva la Francia libera". Ma la situazione dell’istituto penitenziario è finita anche sul tavolo del prefetto di Cosenza. L’argomento è stato, infatti, affrontato nel corso di una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per fare il punto sulle misure di prevenzione del terrorismo islamico. Alla riunione, presieduta dal prefetto di Cosenza Gianfranco Tomao, hanno partecipato i vertici delle forze dell’ordine, il Procuratore aggiunto della Procura distrettuale di Catanzaro Giovanni Bombardieri, ed il direttore del carcere di Rossano. Durante la riunione si é discusso anche dell’episodio avvenuto domenica nel carcere di Rossano dove alcuni detenuti islamici hanno inneggiato agli attentati di Parigi. È stato successivamente analizzato il dispositivo di sicurezza per il carcere di Rossano che è stato già intensificato dopo gli attentati di Parigi. Il sindacato di polizia penitenziaria non ha dubbi sulla situazione di emergenza: "Questo istituto penitenziario - ha detto Capece - è carente e inadeguato. Dunque noi o siamo eroi o siamo ingenui. Il personale che ci lavora è specializzato, ma carente. Ogni giorno in quella sezione speciale dovrebbero esserci 4 agenti di polizia penitenziaria, ma purtroppo ne abbiamo solo uno ed i turni sono estenuanti. In questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, sono stati alzati i livelli di sicurezza, con maggiore attenzione ai terroristi islamici detenuti. Ogni giorno hanno diritto ad un’ora d’aria singolarmente e mai in compagnia. Dalle 18 alle 19 possono recarsi fuori dalla cella per pregare e nel periodo del Ramadan la preghiera si protrae fino alle 22, ma in questi giorni hanno avuto qualche limitazione". "Non capisco - ha detto ancora Capece - perché i terroristi islamici debbano essere ristretti nel carcere di Rossano e non a Pianosa o Asinara. Questi soggetti devono essere collocati in posti isolati e non nelle carceri dei centri abitati, dunque non condivido la scelta di Rossano per detenuti definiti di alta sicurezza". Quelli detenuti a Rossano non sono gli unici accusati di terrorismo presenti in Calabria. Analoga situazione esiste nel braccio di alta sicurezza del penitenziario di Catanzaro, dove esiste un’apposita ala dedicata proprio a quanti sono accusati di questi reati. Lo stesso sindacato Sappe ha anche evidenziato che spesso tra i due penitenziari avvengono trasferimenti di questi detenuti, con tutti i rischi che ne derivano. A gettare acqua sulle polemiche per il carcere di Rossano è il prefetto di Cosenza, Gianfranco Tomao, il quale ha affermato: "L’episodio dell’esultanza dei presunti terroristi ristretti nel carcere di Rossano va ridimensionata. Secondo le notizie in mio possesso, riferite dal direttore del carcere, dopo gli attentati di Parigi c’è stata una esultanza di un limitatissimo numero di soggetti, quasi irrilevante". Tomao ha presieduto oggi il Comitato per l’ordine e la sicurezza presieduto dal Prefetto Gianfranco Tomao. "Sono stati esaminati gli obiettivi sensibili - ha spiegato il Prefetto al termine della riunione - e la riunione ha consentito di fare un raccordo con l’attività della magistratura, sono state programmate le misure da adottare in questo momento". Quanto all’eventuale coinvolgimento dell’Esercito, il Prefetto Tomao precisa che i militari sono già impiegati per servizi sul territorio nel piano nazionale Strade sicure e "l’eventualità di chiedere che si occupino della vigilanza su alcuni siti è una delle ipotesi che stiamo facendo" ma ancora nulla è stato disposto in tal senso. Anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria prova a rasserenare tutti: "Le carenze di personale, alquanto diffuse in molti istituti penitenziari - afferma - non sono di livello tale da compromettere la sicurezza delle strutture". Il Dap sottolinea "con riferimento agli istituti ove è presente una componente di detenuti islamici, per i quali si rende necessaria una maggiore attenzione. Gli istituti di alta sicurezza sono stati da tempo individuati e collaudati nella loro efficienza alla stregua delle caratteristiche strutturali-architettoniche e delle particolari allocazioni che preservano da contiguità ambientali". Busto Arsizio: Lega contraria; amministrazione comunale nega sede a detenuti panettieri La Prealpina, 19 novembre 2015 Il sogno di Marco Cirigliano (Sel) si infrange contro il secco no della Lega Nord a concedere uno stabile comunale: "Rieducazione sì, ma non penalizziamo chi da sempre rispetta la legge" Detenuti panettieri? Concorrenza sleale. Un immobile di proprietà pubblica, da concedere a una cooperativa sociale che aiuta i detenuti nel loro reinserimento sociale, per trasformarlo in un panificio in cui farli lavorare. Questo è il sogno di Marco Cirigliano, consigliere di Sel, per consentire alla onlus "L’Una" di inserirsi nel contesto cittadino bustese con una speciale proposta commerciale. Questo il senso della richiesta formulata alla giunta. Idea nobile e interessante? Per lui certamente sì, "perché si offrono occasioni di rinascita per persone che sfruttano il periodo di detenzione per riscattarsi, creandosi una professionalità per il dopo pena". Un pò sulla falsariga del progetto Dolci & Libertà che tanto spazio e consensi ha saputo conquistare. Ma il laboratorio con adiacente punto vendita, non si farà mai. Non almeno attraverso la concessione di uno spazio idoneo rintracciato dal municipio fra le sue proprietà. Perché la Lega proprio non ci sta e Isabella Tovaglieri, la più giovane delle politiche padane, lo spiega chiaramente: "Pensare di concedere un locale in comodato gratuito, significa creare delle situazioni di concorrenza in cui i carcerati avrebbero dei vantaggi sugli altri prestinai rispetto ai costi d’affitto". Ma non solo: "Se anche si fissasse un canone di locazione, chi fa libera impresa sarebbe svantaggiato per gli altri oneri e le tasse che va a pagare. Capisco che si vorrebbero rieducare le persone - insiste Tovaglieri - tuttavia è un preciso dovere dell’amministrazione, specie in questi momenti di crisi economica, stare dalla parte di chi ha sempre rispettato la legge". Insomma, chi ha sgarrato non può ora essere in qualche maniera privilegiato. Una divisione forte che, in qualche modo, vede pure Forza Italia aderire alle posizioni del Carroccio, seppur con discorsi meno drastici. Per la Lega Nord margini di discussione non ce ne sono: il panificio in questione, dentro una proprietà pubblica (Cirigliano suggerisce i beni confiscati alla mafia), non potrà esistere. Salerno: morte di Carmine Tedesco; resta un solo accusato, il medico che era di turno Il Tirreno, 19 novembre 2015 Imputazione coatta per il medico che era di turno quando morì Tedesco. Prosciolti tutti gli altri. Ci sarà un solo imputato per la morte del detenuto Carmine Tedesco, deceduto nel novembre del 2012 al "Ruggi" dopo due giorni di ricovero. Il giudice delle indagini preliminari Renata Sessa ha disposto l’imputazione coatta per il medico Immacolata Mauro, che era di turno in reparto quando avvenne la morte, e ha invece prosciolto gli altri cinque camici bianchi ancora coinvolti nell’inchiesta dopo che un’altra decina di posizioni era stata stralciata nei mesi scorsi. Il sostituto procuratore Roberto Penna aveva chiesto l’archiviazione per tutti (difesi tra gli altri da Michele Tedesco e Nello Feleppa), dopo un supplemento di indagine e una consulenza medico legale che escludeva responsabilità mediche in una morte avvenuta per infarto. La famiglia del 58enne di Montecorvino Rivella si era però opposta, presentando altre consulenze secondo cui il decesso si sarebbe potuto evitare se la patologia fosse stata riscontrata nelle prime ore di ricovero e l’intervento fosse stato tempestivo. Una ricostruzione condivisa solo in parte dal giudice, che ha ordinato al pm di procedere all’imputazione soltanto per il medico di guardia, a cui si rimprovera, "data la gravità del paziente", di non averlo monitorato a dovere e di non essere accorsa subito quando un infermiere le segnalò che era caduto dal letto. L’ipotesi è che un soccorso immediato con un defibrillatore avrebbe potuto salvare il paziente. Scagionati invece i colleghi che avevano visitato Tedesco nelle ore precedenti. Per il gip "i medici presenti quel pomeriggio intervennero, ma le condizioni del paziente non erano ancora tali da deporre per una sofferenza cardiaca in atto". Prosciolti quindi Maria Teresa De Donato, Antonio Carrano, Alberto Clarizia, Giuseppina Plaitano e Nicola Narducci, quest’ultimo ritenuto "del tutto estraneo ai fatti perché non prestava servizio presso il reparto ove era ricoverato Tedesco". Il 58enne, sposato e padre di tre figli, era finito in cella nel marzo del 2012 e sarebbe dovuto uscirne il 29 dicembre, un mese e mezzo dopo la data della morte. Soffriva di diabete e l’11 novembre di due anni fa fu trasportato d’urgenza dal carcere all’ospedale per violenti dolori al torace e all’addome. L’autopsia avrebbe poi rivelato una cirrosi epatica, ma la morte avvenne - due giorni dopo il ricovero - per infarto del miocardio. Trani: "Ripartiamo dalla pasta", domani presso il carcere di la consegna degli attestati radiobombo.com, 19 novembre 2015 Volge al termine la terza edizione del progetto di riqualificazione sociale "Ripartiamo dalla pasta". Domani alle 10.30, presso il penitenziario maschile della città di Trani, verranno consegnati ai detenuti gli attestati di partecipazione. Dopo due bellissime esperienze vissute insieme alle detenute del carcere femminile di Trani, il carcere maschile è stato protagonista di uno stimolante progetto che ha visto attivi in prima linea i detenuti attraverso un percorso formativo in cui cibo e letteratura si sono uniti con l’obiettivo di dare nuovi stimoli e un rapporto consapevole con l’ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale a chi dopo aver scontato la propria pena, cercherà di reinserirsi nella società. Il progetto, pensato e ideato da Granoro e Factory del Gusto, una scuola di cucina con sede a Molfetta, già sperimentato con successo nel 2013 e nel 2014 presso il penitenziario femminile, si è riproposto l’obiettivo di fornire attraverso un percorso di riqualificazione numerose opportunità di sviluppo favorendo l’acquisizione di competenza, professionalità e qualità nel settore del food e in quello pastario (un alimento consumato quotidianamente in tutta Italia) grazie alla presenza di importanti aziende come Granoro. "Ripartiamo dalla pasta" è stato proposto a undici detenuti del penitenziario tranese. Il percorso, articolato con sei lezioni teoriche e pratiche tenute dai tecnici dell’azienda Granoro e dai cuochi della Factory del Gusto (svoltosi nel mese di maggio, per sei settimane), ha avuto la finalità di formare i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca di semola di grano duro nell’ottica finale di far comprendere le caratteristiche intrinseche del prodotto per una migliore rielaborazione dello stesso nel momento della sua preparazione. Inoltre ha avuto l’obiettivo di creare formazione specializzata in campo alimentare, migliorare l’autostima e l’immagine di sé, individuale e di gruppo, costruire una conoscenza accademica più approfondita intorno al tema dell’alimentazione. Per la terza edizione un prezioso alleato si è aggiunto per completare il percorso di formazione, prima di tutto culturale, dei detenuti: grazie al Presidio del Libro di Corato, istituzione che si propone di sperimentare nuove forme di coinvolgimento dei lettori e di promozione dei libri, soprattutto nei momenti e nei luoghi in cui mai ci si aspetterebbe di incontrarli, i detenuti hanno avuto la possibilità di leggere alcuni stralci tratti da saggi di libri dedicati all’alimentazione, selezionati a cura della Responsabile del Presidio del Libro di Corato Prof.ssa Angela Pisicchio che ha contribuito in modo determinante alla riuscita di questa edizione. Durante la cerimonia di consegna degli attestati sarà proposta ai partecipanti una lettura dello scrittore Luca Bianchini, tratta dal suo celebre libro "Io che amo solo Te". Radio Carcere: "i 3 detenuti morti in Sardegna e il silenzio del ministero della giustizia" Ristretti Orizzonti, 19 novembre 2015 Puntata di Radio Carcere, si Radio Radicale di martedì 17 novembre 2015: "Quei 3 detenuti morti in Sardegna e il silenzio del Ministero della Giustizia". Condotta da Riccardo Arena, che in questa puntata ha ospitato Mauro Pili (deputato, Misto). Link: http://www.radioradicale.it/scheda/458946/radio-carcere-quei-3-detenuti-morti-in-sardegna-e-il-silenzio-del-ministero-della I barbari hanno paura di Adriano Sofri La Repubblica, 19 novembre 2015 Tempo fa, un video dell’Is mostrava un suo ragazzo alla partenza con l’autobomba, che d’improvviso si metteva a lacrimare per nostalgia della vita. Parliamo ora della paura che hanno, non di quella che fanno. Non per qualche siringa rinvenuta: un doping sta nel conto anche dei professionisti di stragi. A Parigi, forse, qualcuno di loro ha avuto paura, ha cercato di prendere tempo coi suoi quando già sguazzava nel sangue del Bataclan, si è fatto (o è stato fatto) esplodere fuori dallo stadio. Senza nemmeno procurarsi una vittima. Tempo fa, un video dell’Is mostrava un suo ragazzo alla partenza con l’autobomba, che d’improvviso si metteva a lacrimare per nostalgia della vita. Poi i suoi caporali lo carezzavano e ammonivano, e andava a esplodere. Ma c’è altro che gli episodi personali. Vediamo. Tutto è cominciato con la loro onnipotenza. Ne siamo stati sbigottiti e annichiliti. Quella, cui non eravamo pronti, era l’onnipotenza della ferocia. Le decapitazioni al coltello eseguite alla telecamera senza battere ciglio. Occorre tempo, addestramento, esercizio, per fare dei combattenti. Avevamo preferito non accorgerci di quanto tempo, esercizio e addestramento avessero investito per fare dei tagliagole. Ne era pieno da anni l’oriente più o meno vicino. Come una lunga serie di prove, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Pakistan alla Nigeria, e finalmente la prima, recitata sotto le luci di scena, coi costumi, il trucco, il gran pubblico, tutto a posto. Abbiamo avuto una paura terribile. Lo spettacolo del terrore ha una storia antica, ma gli mancava la perfezione della scena planetaria. E questi nuovi attori avevano estirpato da sé, come in una resezione chirurgica, due organi essenziali dell’umanità civile: il rispetto della morte e il pudore, la lentissima conquista della riluttanza e della ripugnanza verso il sacrificio umano consumato immergendo le mani nel sangue e nelle viscere. Uomini così neri, così spietati e sicuri della propria brutalità, così avidi di morte. Qualcosa del genere devono aver provato i nostri antenati estenuati dalla raffinatezza e dalla decadenza al rumore dell’arrivo dei barbari, e non avevano i video. Hanno avuto paura i peshmerga, agosto 2014, tradendo la loro epopea di veterani e il loro nome di pronti alla morte. Scapparono, a Sinjar, e abbandonarono gli inermi affidati loro. (Resistettero i curdi siriani e turchi, per i quali la condanna a combattere non si era mai interrotta). Un’onta umiliante per quei petti di cicatrici e di medaglie. La lunga inerzia delle potenze, occidente e Russia, oltre che a calcoli loschi di convenienze e sragioni di stato, fu anche il frutto di quella paura animalesca, dunque umanissima. Il Terrore funzionava, cioè terrorizzava. Contro di loro, nella viltà internazionale, rosicchiava un’altra qualità umana, forse la più irriducibile benché spesso spregevole: l’abitudine. Impresari di una compagnia di giro che rischiava la caduta d’ascolti, i programmisti del Califfo escogitavano tormenti sempre più lambiccati, una pirotecnia barocca dell’efferatezza: bambini carnefici, gabbie di uomini bruciati a fuoco lento, annegati ad acqua lenta, crocifissi, decollati, squartati, la gamma dei supplizi di una superstizione laureata in anatomia. Servivano ad alimentare l’affluente del reclutamento internazionale, al grande pubblico arrivavano sempre meno. Intanto qualcuno trovava la forza e la lucidità per reagire. Non esistono uomini invincibili, barbari o no. Quando fu troppo - Erbil e Bagdad avevano il fiato sul collo, ezidi e cristiani sterminati, le bambine passate da canaglia a canaglia - gli americani decisero che un argine andasse elevato, che qualcosa bisognasse fare. "Qualcosa", nella contemporanea arte della guerra (!), è il ricorso alla supremazia dall’alto dei cieli - ancora per poco. Beninteso, senza i riluttanti caccia e droni americani il califfato non avrebbe incontrato alcun ostacolo. Con la protezione, misurata, da quel cielo, donne e uomini di Siria hanno tenuto e ripreso Kobane, la prima sconfitta spettacolosa degli uomini neri. Poi sono venuti i riscatti dei peshmerga, attorno a Kirkuk e ora, il giorno prima di Parigi, con la battaglia di Sinjar. A Sinjar si batteva il nerbo dell’armata nera, a difesa di un simbolo prezioso, e delle vie di comunicazione fra le due "capitali", Raqqa e Mosul. Gli uomini neri erano già scappati a sud di Kirkuk, ora sono scappati a Sinjar. Su quei fronti curdi vi sentirete dire solo la frase orgogliosa: "Adesso sono loro che hanno paura dei peshmerga". Ieri fonti clandestine e coraggiose parlavano della fuga disordinata e spaventata degli uomini neri sotto i bombardamenti di Raqqa, e addirittura di donne affacciate a capo scoperto a salutarla. Non so se sia vero, e a che punto. Ma si deve pensare che il terrore esportato a Parigi e in ogni altra nostra contrada non sia l’espansione di un’avanzata onnipotente, ma piuttosto il contraccolpo di una difficoltà: piccola, perché minima è finora la forza messa in campo contro il preteso califfato in Iraq e in Siria. È facile l’onnipotenza di chi, tuta nera e coltellaccio, non trova resistenza: è ovvio, ma l’avevamo dimenticato. A quel nostro sbigottimento apparteneva ancora l’idea che il coraggio sia legato al disprezzo della morte. L’idea di tutti gli inni. L’idea che ci trattiene dal chiamarli vigliacchi perché si mostrano avidi di morire. Ma è un’idea assurda e resuscitata dal panico: la civiltà non è altro che la progressiva consapevolezza che il vero coraggio sia un frutto della ragionevole paura e dell’amore per la vita. La civiltà è tanto più progredita quanto meno è pronta a menare le mani, su un’autostrada o su un campo di battaglia. E se non spinge la dolcezza del vivere fino al suicidio, diventa lei invincibile. È questo il punto cui siamo. (Uso la prima persona plurale. Chi siamo "noi"? Quelli che la sera vanno al bar Bataclan in bicicletta). Li abbiamo lasciati gonfiarsi a dismisura, e non ci sono scorciatoie: siamo in un tempo nuovo, che chiede umani nuovi o rinnovati. Winston Churchill era un personaggio buffo se non ridicolo quando prese in mano le cose. Ma il punto cui siamo è quello in cui gli uomini neri fanno meno paura e hanno più paura. Spese militari fuori dal Fiscal Compact in nome dell’emergenza di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 19 novembre 2015 Le spese per finanziare eserciti e polizia contro il terrorismo non saranno conteggiate nel patto di stabilità. Potrebbe essere una moratoria totale sulle spese militari, mentre si tagliano welfare, sanità, tutele. Come si crea il diritto europeo all’emergenza. Il presidente della Commissione Ue Juncker approva un altro tassello del diritto speciale continentale dopo i trattati sull’austerità. Le spese per finanziare eserciti e polizia contro il terrorismo non saranno conteggiate nel patto di stabilità. Potrebbe essere una moratoria totale sulle spese militari, mentre si tagliano welfare, sanità, tutele. Gli unici strumenti di pace contro il terrorismo. L’Europa sprofonda nell’abisso. Le spese per finanziare eserciti e polizia contro il terrorismo non saranno conteggiate nel patto di stabilità. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha recepito la richiesta avanzata da François Hollande. Oggi lo stato di emergenza sarà recepito nella costituzione francese. Domani varrà per l’Europa. In un dibattito sul futuro dell’Europa organizzato da tre quotidiani belgi ieri a Bruxelles, Juncker ha definito gli attacchi di Parigi "atti di guerra compiuti in Europa" e ha parlato dell’Isis come del "nemico numero uno per l’Europa e non solo". Si è detto inoltre convinto che "Usa, Russia ed Europa devono lavorare insieme contro l’Isis, mettendo da parte i problemi tra noi per concentrarci su un problema che se non sarà risolto ci porterà sull’orlo dell’abisso". Lo stato di emergenza dichiarato da Hollande ha prodotto un contraccolpo politico sul rigore della Troika. Le spese militari non devono avere lo stesso trattamento delle altre spese rispetto al Patto di Stabilità, un principio che dovrà "valere anche per gli altri stati" ha assicurato Juncker. Da oggi, se l’Italia o la Grecia decideranno di assumere poliziotti o militari, avranno la benedizione della Troika, o comunque di uno dei suoi componenti. Ciò non varrà per gli altri "pilastri" della dottrina Merkel-Schauble: aumenti delle spese sociali, per le tutele universali degli individui, per il lavoro, o contro la povertà non saranno contemplate. Che cos’è il patto della sicurezza. Questo è il cuore del "patto della sicurezza" vigente insieme al "patto di stabilità". Il commissario Ue all’economia Moscovici lo ha giustificato in questo modo: "Una cosa è chiara nelle circostanze attuali: in questo momento terribile la sicurezza dei cittadini in Francia e in Europa è la priorità assoluta, e la Commissione lo capisce pienamente". La Commissione seguirà l’esempio fornito da un’altra emergenza, quella dei profughi che ha spinto a concedere la flessibilità di bilancio. "Vedremo in futuro quale sarà l’impatto e il modo in cui sarà pertinente analizzarlo - ha detto Moscovici - tenendo conto che in ogni caso già oggi "il patto di stabilità non include le spese militari". Una precisazione che potrebbe portare anche ad una moratoria totale sulle spese militari e per la sicurezza. In altre parole, terminata l’emergenza terrorismo, gli stati membri potranno continuare a finanziare le spese militari e di polizia, ma non tutto il resto. Insieme alle garanzie costituzionali, il governo dell’emergenza restringe quelle sociali e l’idea, residuale, di Welfare. Quanto a Renzi l’affermazione di un diritto dell’emergenza permanente avviene nella normalità assoluta. Anzi, diventa l’occasione per rivendicare un primato. Il presidente del Consiglio sostiene di averlo proposto per primo nel 2014 "ma ci fu detto no". Oggi, invece, "è positivo, giusto, sacrosanto: figurarsi se uno sta attento allo zero virgola sulla sicurezza, quello che vale per la Francia varrà anche per l’Italia". Nel nostro paese non occorre un cambiamento della costituzione, almeno su questo punto. Lo stato di emergenza, e l’uso emergenziale di apparati di sicurezza, può passare dal decreto legge di proroga della partecipazione italiana di missioni militari all’estero che sarà approvato oggi. Ieri la Camera ha approvato un emendamento che permette al premier di "emanare disposizioni per l’adozione di misure di intelligence di contrasto, in situazioni di crisi o di emergenza all’estero che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani all’estero, con la cooperazione di assetti della difesa". C’è chi ha denunciato il rischio di un "servizio segreto militare" ripristinato in segreto. Per il momento si tratta di uno spostamento strategico dei poteri decisionali sull’emergenza verso Palazzo Chigi. L’indirizzo politico è lo stesso, in Francia e in Italia. Con queste parole un editoriale apparso il 18 novembre su Le Monde descrive la trasformazione securitaria ed eccezionale della politica europea: "Fare dello stato di emergenza un’arma permanente al servizio del potere esecutivo può condurre a rimettere in causa le libertà fondamentali. Quelle che figurano al primo posto dei diritti dell’uomo, allo stesso titolo della sicurezza. La sicurezza è un’esigenza. Non importa a quale prezzo". La Francia lo dichiara nella costituzione e sta creando il suo abisso. L’Italia si trova inello stesso abisso, ma lo fa di nascosto. Con un emendamento. Il diritto europeo dell’emergenza. Questo è un nuovo tassello che si aggiunge al mosaico del diritto europeo dell’emergenza così è stato definito da Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini nel loro libro "Sogno europeo o incubo?" (Fazi). L’emergenza terrorismo viene oggi usata, in termini governamentali, per creare un diritto speciale. Fino a oggi, in Europa, è stato usato per sovvertire le regole dei trattati e il metodo comunitario, insieme ai fragili e complicati equilibri tra le istituzioni europee: commissione, parlamento, corti di giustizia e organi intergovernativi. I trattati del Fiscal compact e del Meccanismo europeo di Stabilità (Msn) sono stati infatti adottati secondo le regole del diritto internazionale e non secondo quelle dell’Unione europea. Il Six Pack e il Two Pack, invece, rispondono al diritto comunitario. Il terribile attentato di Parigi aggiunge un altro dettaglio in questo patchwork giuridico che non conta su una politica economica unica e nemmeno su una politica di difesa comune. "Io sono a favore dei un esercito europeo, ma non è questo il punto - ha aggiunto Juncker - L’importante ora è avere una politica di difesa comune europea". Tale politica oggi viene sostituita in nome di un’emergenza indefinita e durevole, all’insegna delle politiche di polizia, dentro e fuori i paesi europei. Tale politica oggi viene sostituita in nome di uno stato di emergenza indefinito a livello europeo, all’insegna delle politiche di polizia, dentro e fuori i confini europei. Ieri, ai piani alti del continente, nessuno ha pensato che l’aumento dei bilanci contro la disoccupazione, per l’istruzione e l’inclusione sociale possa essere uno strumento efficace per garantire la sicurezza sociale delle vittime della crisi economica o della segregazione sociale. Che sia uno strumento di pace contro il terrorismo. E adesso i profughi rischiano di pagare le atrocità dell’Isis di Carlo Lania Il Manifesto, 19 novembre 2015 Europa. Venerdì vertice dei ministri degli Interni a Bruxelles. Le conseguenze degli attentati di Parigi rischiano adesso di ricadere pesantemente anche sulle decine di migliaia di profughi che cercano ogni giorno di entrare in Europa, vittime anche loro, seppure in maniera indiretta, dei terroristi dell’Is. Già in difficoltà nel ricollocare i richiedenti asilo tra i paesi membri, l’Unione europea dovrà presto fare i conti con le rinnovate resistenze di quei governi che finora si sono opposti alla sola idea di accogliere i migranti all’interno dei propri confini e che utilizzano la tragedia francese per rafforzare il loro rifiuto. Se si tratta di preoccupazioni eccessive oppure no lo si capirà venerdì prossimo, quando a Bruxelles si terrà il consiglio Gai - il primo dopo gli attentati -, dove i ministri degli interni dei 28 discuteranno di immigrazione e terrorismo. Già il fatto che due questioni così cruciali per l’Europa vengano affrontate insieme non induce all’ottimismo. In più i segnali che arrivano dai paesi dell’est, da sempre i più duri nei confronti dei migranti, confermano che la discussione sarà a dir poco accesa. Il nuovo governo nazionalista che si sta formando in Polonia ha infatti già annunciato di non voler far fronte alla richiesta della Commissione europea di accogliere 7.000 migranti nei prossimi due anni. "Non è solidarietà il tentativo di esportare il problema creato da altri stati", ha detto la neo premier Beata Szydlo, con quello che sembra essere un chiaro riferimento alla cancelliera Merkel. Più esplicitamente il futuro ministro per gli affari europei, Konrad Szymanski, ha escluso "la possibilità politica di rispettare" gli impegni su ricollocamento dei rifugiati. Analogo il messaggio inviato a Bruxelles dal parlamento ungherese che due giorni fa, grazie anche ai voti degli estremisti del Jobbik, ha approvato una legge che permette al governo di ricorrere presso la corte di giustizia Ue contro le quote obbligatorie volute dalla commissione di Jean Claude Juncker. Ma più di tutti hanno fatto esponenti dei governi ceco e slovacco, alimentando la paura generata dagli attacchi di Parigi che tra i migranti si possano nascondere commando di terroristi: "Si è avverata la brutta premonizione che nell’ondata di migranti lo stato islamico inviasse in Europa i suoi combattenti con l’obiettivo di assassinare la nostra gente" ha detto il vicepremier ceco Andrej Babis. L’equazione profugo arabo = terrorista, sulla quale soffiano da giorni i populisti di tutta Europa, è dunque destinata probabilmente a tenere banco venerdì a Bruxelles. Un’equazione rafforzata dal ritrovamento sul corpo di uno dei terroristi uccisi a Parigi, di un documento intestato a un profugo siriano registrato al suo arrivo a ottobre in Grecia ma che con ogni probabilità è falso. Come spesso accade, chi avrebbe tutto il diritto di gridare più forte - in questo caso Parigi - è quello che invece si mostra più razionale. Finora le autorità francesi si sono infatti limitate a chiedere a Italia e Grecia di rafforzare i controlli sui migranti, garantendone l’identificazione. da parte sua Juncker ha invece avvertito Varsavia che non saranno tollerate defezioni dal programma di ricollocamento: "La Polonia - ha detto - ha l’obbligo di fare quello che il Consiglio ha deciso". I questo quadro per l’Unione diventa sempre più decisivo il vertice con la Turchia che si terrà a fine novembre, primi di dicembre a Bruxelles, durate il quale si tornerà a chiedere al presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fermare i migranti evitando nuove partenze verso l’Europa. Passati per forza di cose in secondo piano dopo la strage di Parigi, nel frattempo i migranti continuano a decine di migliaia ad affollare i Balcani nonostante le temperature rigide. Nelle ultime 24 ore ne sono arrivati 1.590 in Macedonia e 7.704 in Slovenia. Il passo senza ritorno di Parigi di Massimo Villone Il Manifesto, 19 novembre 2015 Hollande chiede di modificare la Costituzione con la previsione di uno stato d’emergenza. Nella proposta di Hollande di modificare la Costituzione vediamo il dilemma storico delle democrazie sotto attacco. Come reagire senza negare la propria ragion d’essere? Hollande chiede di modificare la Costituzione con la previsione di uno stato d’emergenza. La Costituzione francese già prevede che il Presidente della Repubblica possa assumere poteri straordinari (art. 16). Ma presuppone a tal fine una interruzione del funzionamento dei poteri costituzionali, che non c’è. Prevede anche la possibilità di uno stato di assedio (art. 36), definito in dettaglio dal Code de la défense, che però trasferisce poteri all’autorità militare. E dunque Hollande ritiene necessaria una ulteriore e diversa copertura costituzionale. In realtà già è previsto in Francia anche uno stato di emergenza, con la legge n. 55-385 del 3 aprile 1955, e successive modificazioni. Dichiarato dal Consiglio dei ministri per 12 giorni, prorogabili con legge, attribuisce al ministro dell’interno e ai prefetti poteri amplissimi, tra cui chiudere temporaneamente luoghi di incontro, proibire assemblee e riunioni, autorizzare perquisizioni, vietare la circolazione o il soggiorno, controllare tutti i mezzi di informazione, stabilire coprifuoco, posti di blocco, controlli sulle persone in apposite "zone di protezione". La proposta di legge ora presentata (18 novembre 2015, n. 3225) cancella i soli controlli sull’informazione. Tutto il resto rimane, senza alleggerimenti. E si proroga di 3 mesi lo stato di emergenza dichiarato il 14 novembre, che scade il 26. È un regime di drastici limiti a libertà e diritti. Cosa può ancora volere Hollande, oltre che puntare a un recupero di consensi? A una prima valutazione: intestare il potere direttamente a se stesso; consentire una più lunga durata; ulteriormente comprimere le garanzie individuali, ad esempio con la detenzione o altre limitazioni della libertà per lunghi periodi senza intervento del giudice; sottrarre i poteri - con l’inserimento in Costituzione - al controllo giudiziario, costituzionale e ordinario. Si è detto che Hollande vuole il suo Patriot Act. In realtà, vuole di più. È l’inserimento in Costituzione che fa la differenza. Negli Stai uniti, il dibattito che ha fatto riconsiderare le leggi post-torri gemelle ha tratto alimento dalla contestazione, anche giudiziaria, della violazione delle garanzie costituzionali di diritti e libertà. I - pochi, e per un’opinione diffusa ancora insufficienti - limiti allo spionaggio di massa introdotti con il Freedom Act del 2 giugno 2015 avrebbero visto la luce in un contesto costituzionale modificato? E i 112 che l’American Civil Liberties Union ci dice ad ottobre 2015 ancora detenuti a Guantánamo, avrebbero miglior sorte se la Costituzione consentisse di mantenerli in cella senza processo? L’esempio americano ci dice che la Costituzione è importante perché non solo difende la persona, ma anche offre fondamento e ragioni al controllo sociale e alla formazione di un’opinione pubblica consapevole. Hollande cita il rapporto della Commissione Balladur, istituita nel 2007 da Sarkozy. Ma la Commissione costituzionalizzava lo stato di emergenza nell’ambito di un equilibrio complessivo. Nelle conclusioni elencava tra le priorità adottate "émanciper le Parlement et lui reconnaître un rôle effectif de contrôle de l’action du Gouvernement; conférer et garantir des droits nouveaux aux citoyens". Dunque, rafforzare parlamento e diritti. Si prevedeva che lo stato di emergenza fosse in Costituzione solo menzionato, per essere poi disciplinato con legge organica. Hollande coglie certo un punto quando non vede prossima la fine della minaccia terroristica. Il termine di 12 giorni attualmente previsto dalla legge 55-385 può essere breve. Ma perché non limitarsi a una legge che lo prolunghi, o introduca forme semplificate di proroga? Inoltre, è spesso emerso che i protagonisti di atti di terrorismo erano già noti agli apparati di sicurezza. Tale sembra essere oggi il caso, ad esempio, della cellula scoperta in Belgio, per la quale addirittura si sospettano scambi inconfessabili tra terroristi e apparati di sicurezza. Questo suggerisce che una migliore intelligence può valere molto più che una compressione generalizzata di diritti e libertà. Oggi e nel futuro, una risposta al terrorismo la sinistra deve saperla dare, se non vuole essere travolta dalla richiesta popolare di sicurezza. Nessun appeasement, nessuna tolleranza, ma con punti fermi. Che sulle garanzie di libertà e diritti non si facciano passi indietro. Che i poteri di qualunque autorità non siano mai sottratti a limiti e controlli. Che in particolare il controllo di costituzionalità e quello giudiziario siano salvaguardati nell’ampiezza e nell’incisività. Che si perseguano politiche inclusive e dialogo interculturale con la comunità di fede islamica, per rafforzarne gli anticorpi contro il veleno del terrorismo. Una sinistra deve ricordare che la Costituzione non è solo un regolamento di confini tra poteri, e tra individuo e autorità. È anche l’identità di un popolo e di un paese, in cui resta l’essenza della democrazia. Bisogna sempre diffidare delle modifiche sulla spinta dell’emergenza. Le reazioni che vediamo - inclusa quella di Hollande - vengono dal sangue di molti sparso a Parigi. Ma anche le Costituzioni possono venire dal sangue di molti. È il caso della Costituzione francese, e della nostra. Il sangue di oggi chiede risposte forti e univoche. Il sangue di ieri memoria e rispetto. "Restringere la libertà per recuperarla in futuro", il sacrificio della Francia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 19 novembre 2015 Il presidente. "Restringere la libertà per recuperarla in futuro". Hollande presenta la sua riforma costituzionale. Il parlamento vota il prolungamento dello stato di emergenza. Opposizione di sinistra annichilita. Mattinata ad alta tensione a Saint-Denis, dove alle 4,20 del mattino e per quasi otto ore 110 tra poliziotti del Raid e militari hanno preso d’assalto un appartamento in pieno centro, non lontano dalla Basilica, dove erano presenti persone sospette. Più di 15mila cittadini sono rimasti bloccati in casa, in un quartiere sopraffatto dal clima di paura. Una donna kamikaze si è fatta esplodere, non è ancora stata ufficialmente identificata, ma potrebbe trattarsi della cugina del ricercato numero uno, il "belga" Abdelhamid Abaaoud, che non appare tra i fermati, secondo il Procuratore della Repubblica di Parigi, François Molins. Non ci sarebbe neppure l’altro grande ricercato, Salah Abdeslam, presunto autore dell’attacco nell’11° arrondissement venerdì scorso. Un altro terrorista è stato ucciso, non ancora identificato, ma il numero dei morti potrebbe essere maggiore, otto persone sono state fermate, dopo ore di un intervento di rara violenza. È anche morto Diesel, un cane poliziotto. Molins ha sottolineato che il commando che è stato neutralizzato ieri dopo lunghe ore di intervento era pronto a un’altra azione terrorista. Due appartamenti sono stati al centro dell’intervento ieri a Saint-Denis, individuati grazie a testimoni ma anche attraverso un telefonino trovato in una pattumiera vicino al Bataclan, con un sms, venerdì prima degli attacchi terroristici del 13 novembre: "Andiamo, cominciamo". In questa giornata convulsa, Hollande ha ottenuto una vittoria: a Bruxelles, Jean-Claude Juncker ha concesso che le "spese per la sicurezza della Francia devono essere escluse dai calcoli che rientrano nel campo delle regole della Ue sui deficit". Il governo ha presentato il testo del progetto di legge per il prolungamento dello stato di emergenza, che sarà sottoposto oggi al voto dell’Assemblea, domani al Senato. Entrerà in vigore dal 26 novembre, cioè allo scadere del primo decreto preso nella notte tra il 13 e il 14 novembre, dopo gli attentati. Ci vorrà un altro decreto per mettervi fine. Il testo comporta modifiche rispetto alle legge del ‘55. Gli arresti ai domiciliari, che potranno venire decisi in modo extragiudiziario, riguarderanno "persone nei confronti delle quali esistono serie ragioni di pensare che il comportamento costituisca una seria minaccia per l’ordine pubblico". Basteranno dei sospetti sul "comportamento", le "frequentazioni", delle "affermazioni", o "progetti" di cui sia venuta a conoscenza la polizia. Sarà la polizia a decidere il domicilio coatto e la frequenza dell’obbligo di presentarsi al commissariato più vicino (fino a tre volte al giorno). Potranno venire sequestrati passaporti e carte di identità. Questa misura, da cui sono esplicitamente esclusi magistrati, avvocati e giornalisti, si avvicina molto alla richiesta più estremista della destra, che voleva che tutti gli schedati "S", tra cui ci sono le persone sospettate di essere in via di radicalizzazione islamista, fossero "internati" o dotati di braccialetto elettronico. Lo stato d’emergenza permetterà anche di sciogliere d’ufficio associazioni o gruppi che "partecipano, facilitano o incitano ad atti che colpiscono l’ordine pubblico". Nel mirino, i salafisti. Ieri, il clima al Parlamento è stato meno teso della vigilia, dove lo scontro politico, in vista delle elezioni regionali del 6 e 13 dicembre, era scaduto in uno scontro dai toni violenti. I deputati si sono presentati con un fiordaliso, in omaggio alle vittime degli attacchi. Manuel Valls ha fatto riferimento all’"islamismo", come sfondo della deriva terrorista, mentre Hollande non aveva pronunciato questo termine, per evitare di gettare olio sul fuoco delle divisioni della società - e per questo era stato severamente criticato dalla destra. François Hollande, di fronte ai sindaci di Francia riuniti, ha invitato a "non cedere alla tentazione del ripiego, alla paura della stigmatizzazione". Ha lanciato di nuovo un appello all’"unità nazionale" in una Francia che è "nella guerra". Il presidente ha ricordato che la Francia continuerà ad "accogliere i rifugiati", ma ha precisato che lo farà solo dopo "verifica che non ci siano rischi" (è stato trovato un passaporto siriano travisato vicino al corpo di un kamikaze allo Stade de France). Ma per rassicurare i sindaci, Hollande ha annunciato che le 3.900 polizie municipali di Francia potranno venire armate (con armi della polizia). Il presidente ammette che la legge "restringe le libertà", ma promette che è solo per meglio ritrovarle domani. La svolta securitaria di Hollande ha spiazzato l’opposizione. Ma la tensione nel paese dopo gli attentati ha chiuso la bocca alla sinistra. Dopo la valanga di accuse e di proposte al limite del fascismo di martedì all’Assemblea, culminate con la retorica del deputato Laurent Wauquiez (dei Républicains) "niente libertà per i nemici della libertà", ripresa da Saint-Just, la destra ha moderato i toni. Nicolas Sarkozy, che non può che constatare che Hollande sta applicando le sue teorie, insiste solo sui tempi: "Perché così tardi? Perché questo non è stato fatto prima?", cioè dopo Charlie Hebdo. Con questo cambiamento di tono, Hollande potrà riuscire a far passare anche la sua riforma costituzionale, contestata dai costituzionalisti, perché le restrizioni di libertà, ora dovute allo stato di emergenza, verranno introdotte nella Carta fondamentale. La sinistra socialista non ha più voce. Come far sentire un’altra posizione, quando il paese è nell’angoscia e si susseguono voci incontrollate di nuovi attacchi? Il terrorismo e la war on terror spengono il dissenso. Ieri, era ben isolato il deputato comunista François Asensi nel chiedere al governo di introdurre nella lotta necessaria contro Daesh anche un’azione per prosciugare le fonti finanziarie del terrorismo, comprendendo stati sospetti di doppio gioco come Arabia saudita e Qatar, in questi giorni invitato d’onore in Francia per l’inaugurazione del Salone della sicurezza interna. La battaglia resta strabica, gli interessi economici restano predominanti. Stati Uniti: Obama insiste "Guantánamo chiuderà e l’America sarà sicura" Agi, 19 novembre 2015 Il presidente americano, Barack Obama, ha promesso di non abbandonare lo sforzo di chiudere la prigione militare di Guantanámo Bay e ha aggiunto che punta a ridurre a breve il numero dei detenuti sotto il centinaio. "Mi aspetto che entro l’inizio del prossimo anno potremo avere meno di un centinaio di persone a Guantanámo", ha detto. Il presidente statunitense - che è a Manila per il vertice dell’Apec, il summit per la Cooperazione economica Asia-Pacifico - ha comunque assicurato che chiuderà la prigione pur mantenendo gli americani al sicuro. Creata all’indomani degli attentati dell’11 settembre per rinchiudervi i sospettati di terrorismo, Camp X-Ray è diventata tristemente nota per le condizioni di vita durissime e le crudeli tecniche di interrogatorio. Obama ha ripetutamente cercato di chiudere Camp X-Ray (ché a suo giudizio è diventato uno strumento di reclutamento per il terrorismo jihadista), ma è stato sempre ostacolato dalla ferma opposizione del Congresso. La Casa Bianca ha promesso un nuovo piano a breve per trasferire i rimanenti prigionieri (attualmente ce ne sono 107) in Paesi stranieri.