Giustizia: allarme-sicurezza, poteri speciali alle forze dell’ordine di Valentina Errante Il Mattino, 18 novembre 2015 Un emendamento al decreto legge "Missioni", del senatore del Pd Nicola Latorre, estende agli agenti le "garanzie funzionali" degli 007 ossia la possibilità di essere non punibili "qualora pongano in essere condotte previste dalla legge come reato". Misure speciali sulla sicurezza e interventi da stato di emergenza per le missioni antiterrorismo, con la trasformazione dei reparti speciali delle forze armate in 007. L’Italia si mobilita e mentre con una nuova circolare del Viminale l’attività di prevenzione si estende anche agli stadi, il governo prova a prevedere nuovi poteri e pensa di estendere le cosiddette "garanzie funzionali" degli 007 anche alle forze armate, militari e corpi speciali impegnati nella lotta al terrore. La circolare del capo della polizia, Alessandro Pansa, che prevede misure straordinarie anche per le partite di calcio, è stata inviata a tutti i questori e ai prefetti. Quanto accaduto venerdì sera allo Stade de France dimostra che gli stadi sono più che mai "obiettivi sensibili" Saranno quindi predisposti controlli più rigidi, perquisizioni, più personale a presidiare le aree attorno agli impianti sportivi, massima attenzione all’individuazione di eventuali sospetti mischiati tra la folla. Con la ripresa del campionato, Pansa ha chiesto "massima attenzione e vigilanza" su tutti quegli eventi considerati di "particolare importanza" dove "è previsto un significativo afflusso di persone". Oltre agli stadi rientrano nelle misure anche gli "eventi di natura culturale, religiosa". Le prove generali sono andate in scena ieri a Bologna dove, al Dall’Ara, è stata giocata l’amichevole tra Italia e Romania. Ma sarà in occasione delle partite più importanti che potranno essere utilizzati cani anti-esplosivo e strumenti in grado di rilevare eventuale presenza di ordigni. Più risorse per la sicurezza sono previste nella legge di Stabilità, ma si valuta anche la possibilità per la presidenza del Consiglio di trasformare in agenti "a tempo" i reparti speciali delle forze armate. Nel decreto legge "Missioni", discusso ieri alla Camera, potrebbe essere inserito l’emendamento del senatore del Pd Nicola Latorre (presidente della Commissione Difesa di Palazzo Madama) che prevede anche per i reparti speciali delle forze armate le cosiddette garanzie funzionali, ossia la possibilità di essere non punibili "qualora pongano in essere condotte previste dalla legge come reato", durante missioni "legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali". È stato lo stesso Latorre a spiegare: "In virtù dei drammatici avvenimenti di Parigi è necessario rafforzare le misure di sicurezza nel nostro Paese. Dopo la strage e in vista del Giubileo, il decreto potrebbe essere licenziato in un paio di giorni". Ma aumentano anche gli stanziamenti, il contingente italiano impegnato in Iraq sarà incrementato da 580 a 750 unità, mentre per il comparto intelligence si prevedono circa 20 milioni di euro in più. Ieri, intanto, in un nuovo video sono state rinnovate le minacce all’Italia. "Le nazioni dei cristiani hanno dichiarato guerra all’Islam, e sostengono le politiche radicali islamofobe. Il loro sangue non sarà risparmiato". E l’ultima minaccia dell’Isis, diffusa in rete dal ramo iracheno della provincia di Anbar, annunciato con una foto che annovera il Big Ben, la Torre Eiffel e il Colosseo. Il video jihadista "Messaggio al popolo della croce", di oltre 4 minuti, ha un’alta qualità delle immagini e del montaggio. Giustizia: l’Ue è senza frontiere, riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie di Gabriele Ventura Italia Oggi, 18 novembre 2015 Via libera al reciproco riconoscimento Ue delle sanzioni pecuniarie. Le decisioni giudiziarie prese da uno stato membro (di decisione) possono, a determinate condizioni, trovare riconoscimento in un altro paese dell’Unione europea (di esecuzione) ed essere equiparate alle decisioni adottate nel medesimo stato di esecuzione. Lo prevede lo schema di decreto legislativo recante "disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2005/214/Gai del Consiglio sull’applicazione tra gli stati membri dell’Unione europea del principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie", approvato il 13 novembre scorso, dal Consiglio dei ministri. La normativa europea così recepita introduce uno strumento di cooperazione giudiziaria tra i paesi Ue, attraverso il quale lo stato membro in cui la persona è stata condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria, può trasmettere la decisione allo stato membro in cui il condannato dispone di beni o di un reddito, ovvero ha la residenza e dimora abituale o, se persona giuridica, ha la sede legale, ai fi ni del riconoscimento e conseguente esecuzione. La trasmissione della decisione. Entrando nel dettaglio del provvedimento, l’art. 4 si occupa, in sede di trasmissione all’estero, della competenza, precisando che il pubblico ministero presso il tribunale che ha emesso la decisione sulle sanzioni pecuniarie o nel cui circondario ha sede l’autorità amministrativa che si è pronunciata in merito alla sanzione amministrativa, provvede direttamente alla trasmissione della decisione sulle sanzioni pecuniarie all’autorità competente dello stato membro in cui la persona condannata dispone di beni o di un reddito. La trasmissione della decisione, prevede l’art. 5, deve essere disposta immediatamente dopo che la decisione sulle sanzioni pecuniarie è divenuta definitiva, con qualsiasi mezzo che lasci una traccia scritta, previa traduzione del testo del certificato allegato al decreto stesso nella lingua dello stato di esecuzione. Gli effetti del riconoscimento. L’art. 7 dispone invece che, quando l’autorità competente dello stato di esecuzione riconosce la decisione sulle sanzioni pecuniarie, dandone informazione diretta al pubblico ministero che ha disposto la trasmissione, l’autorità italiana non è più tenuta all’adozione dei provvedimenti necessari all’esecuzione. L’autorità italiana, invece, riassume il potere di procedere all’esecuzione nel caso in cui l’autorità competente dello stato di esecuzione dà notizia della mancata esecuzione, totale o parziale, oppure rifiuta il riconoscimento e l’esecuzione. Il riconoscimento. L’art. 8 del dlgs prevede che la competenza a decidere sul riconoscimento spetta alla Corte di appello nel cui distretto la persona condannata dispone di beni o di un reddito, ovvero risiede e dimora abitualmente, ovvero, se persona giuridica, ha la propria sede legale nel momento in cui il provvedimento è trasmesso dall’estero. Qualora la Corte d’appello rilevi la propria incompetenza, la dichiara con ordinanza e ordina la trasmissione degli atti alla Corte di appello competente, dando tempestiva comunicazione, anche tramite il ministero della giustizia, all’autorità competente dello stato di decisione. La Corte d’appello riconosce la decisione sulle sanzioni quando ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: la persona condannata dispone nel territorio dello stato di beni o di un reddito, ovvero risiede e dimora abitualmente, ovvero ha la propria sede legale; il fatto per cui è stata emessa la decisione è previsto come reato anche dalla legge nazionale, indipendentemente dagli elementi costitutivi o dalla denominazione. Condizionale in formato europeo Sospensione condizionale in formato Ue. Con il reciproco riconoscimento delle sentenze in vista della sorveglianza degli obblighi e delle prescrizioni impartiti. Lo prevede uno schema di dlgs, approvato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri in attuazione della delega conferita al governo per il recepimento delle direttive e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea (legge di delegazione europea 2014). L’obiettivo è quello di un rafforzamento della cooperazione giudiziaria e di polizia all’interno dell’Unione europea, stabilendo una norma comune nel caso in cui una pena non detentiva irrogata nei confronti di una persona non avente la residenza legale e abituale nello stato di condanna comporti la sorveglianza di obblighi e prescrizioni impartiti con la sospensione condizionale della pena o con sanzioni sostitutive o con la liberazione condizionale. L’art. 5 del provvedimento, in tema di trasmissione all’estero della sentenza o della decisione di liberazione condizionale all’autorità competente dello stato membro in cui risiede legalmente e abitualmente o in cui intenda ritornare la persona condannata, prevede che quest’ultima sia disposta dal pubblico ministero presso il giudice indicato all’articolo 665 del codice di procedura penale ossia il giudice dell’esecuzione. L’art. 6, invece, disciplina le condizioni di trasmissione, prevedendo come la trasmissione all’estero debba essere disposta immediatamente dopo il passaggio in giudicato della sentenza, ovvero immediatamente dopo la decisione di liberazione condizionale, sempre che gli obblighi e le prescrizioni imposti siano da adempiersi e osservarsi per un periodo di tempo non inferiore a sei mesi, diversamente vanificandosi la portata dell’intervento normativo. Quando l’autorità competente dello stato di esecuzione informa dell’avvenuto riconoscimento della sentenza, l’autorità giudiziaria italiana non è più tenuta alla adozione dei provvedimenti necessari alla sorveglianza degli obblighi e delle prescrizioni impartiti. Giustizia: nuova direttiva europea per tutelare al meglio i diritti delle vittime di reati di Paolo Bozzacchi Italia Oggi, 18 novembre 2015 Tutelare al meglio i diritti delle vittime di reati nell’Unione europea. Questo l’obiettivo della nuova direttiva in materia entrata in vigore lo scorso 16 novembre. Che prevede obblighi chiari anche per gli stati membri chiamati ora a metterla in atto. Elementi principali dei nuovi diritti riguardano anzitutto i familiari delle vittime decedute, che godranno degli stessi diritti delle vittime dirette, tra cui il diritto all’informazione, all’assistenza e alla compensazione, oltre che assistenza e protezione. Tutte le informazioni fornite alle vittime dovranno essere espresse in linguaggio chiaro e accessibile, con forme di comunicazione adeguate alle specifiche esigenze di ciascuna vittima, tenendo conto dell’età, della lingua e dell’eventuale disabilità, nell’ambito della tutela del diritto di comprendere ed essere compresi. Le autorità giudiziarie e di polizia nazionali dovranno fornire alle vittime una serie di informazioni sui loro diritti e sulle forme di assistenza di cui possono usufruire, fin dal primo contatto e senza alcun indugio. Gli stati membri, a loro volta, dovranno garantire che le vittime abbiano accesso ai servizi di assistenza gratuita e disponibile anche per coloro i quali non hanno ufficialmente denunciato il reato. Assistenza che sarà specializzata con sostegno per il trauma subito e consulenza, a seconda del reato subìto. Verrà garantito anche il diritto di prendere parte al procedimento penale, con un ruolo più attivo delle stesse vittime, che dovranno essere ascoltate e informate sulle varie fasi del procedimento. Qualora le vittime non siano d’accordo con una decisione di non luogo a procedere, verrà comunque garantito il diritto all’impugnazione. Le vittime avranno diritto anche alla compensazione, e per i sistemi giudiziari nazionali che prevedono provvedimenti di giustizia riparatoria, verranno instituite norme per far sì che le vittime possano fruire di tali misure in maniera sicura. Le vittime saranno difese sia dagli autori dei reati che dal sistema stesso di giustizia penale. La protezione sarà individuale (caso per caso) una volta stabilita l’esposizione al rischio di nuovi pericoli che possano insorgere durante i procedimenti. In questi casi dovranno essere istituite misure speciali di protezione da qualsiasi minaccia con particolare attenzione alla protezione dei bambini. In attesa del recepimento a livello nazionale, i singoli cittadini comunitari potranno appellarsi direttamente ai tribunali nazionali di competenza, anche qualora lo stato membro di residenza non abbia ancora recepito pienamente le nuove norme. Giustizia: Consulta, verso l’accordo. Italicum, il governo lo difende in tribunale di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 novembre 2015 Corte Costituzionale. In parlamento il Pd dice sì alla richiesta dei grillini, farà il nome di un candidato giudice per sottoporlo alla rete. Il 25 novembre si può chiudere, almeno per due posti su tre. A Milano la prima causa contro la legge elettorale. Il rinvio di una settimana prelude alla soluzione del caso Consulta. Da un anno, quattro mesi e venti giorni il parlamento deve eleggere un giudice costituzionale, e nel frattempo i posti da coprire sono diventati tre. La Corte procede a ranghi ridotti, le frequenti assenze di un quarto giudice la portano alla soglia del minimo legale: 11 giudici su 15. Al Pd serve un’altra settimana di lavoro sul dossier. Ieri ha chiesto e ottenuto che fosse sconvocata la seduta comune della camere prevista oggi. Tutto rinviato al 25 novembre, dovrebbe essere il giorno giusto. Se non per tutti e tre i giudici, almeno per due. Il giudice che da più tempo va sostituito è Mazzella, cessato il 28 giugno 2014. La prassi vuole che la casella resti riservata alla parte politica che lo aveva indicato, Forza Italia. Ma Forza Italia è nelle stessa condizione dell’anno scorso - quando nel voto segreto impallinò di fila quattro suoi candidati - se non peggio. Aspettando l’impossibile ricomposizione dei pochi berlusconiani rimasti, il Pd è arrivato alla soglia del record di giorni di latitanza, mentre è già stato superato il record di votazioni a vuoto (la prossima sarà la 27esima). Anche per questo alcuni radicali stanno facendo lo sciopero della fame, da cinque giorni. Il Pd sperava di trovare un accordo per consegnare un giudice a Forza Italia e tenerne due per sé. E in effetti vanno sostituiti Mattarella e Napolitano, eletti in quota centrosinistra. Ma in parlamento c’è la "terza forza" Movimento 5 Stelle, l’unica che ha presentato da tempo i suoi candidati. E così Renzi ieri ha visto i capigruppo Rosato e Zanda e ha dato via libera all’intesa con i grillini: entro lunedì il Pd offrirà il suo nome perché i 5 stelle possano sottoporlo al gradimento online degli iscritti (quelli certificati da Casaleggio). Questo nome dovrebbe essere quello di Augusto Barbera. In alternativa c’è Massimo Luciani. Entrambi sono costituzionalisti che hanno difeso la riforma Renzi-Boschi (Luciani con qualche moderato distinguo). Per eleggere ogni giudice serve il consenso dei tre quinti dell’assemblea di senatori e deputati, 571 voti; l’accordo è indispensabile. I grillini hanno avvertito che non accetteranno politici "di professione". Barbera ha trascorsi parlamentari persino più lontani di quelli del candidato 5 stelle che fin qui ha raccolto il maggior numero di consensi nelle votazioni in aula, Felice Besostri. Gli altri sono i costituzionalisti Silvia Niccolai e Franco Modugno. Anche il Pd vorrà scegliere in quella lista; Besostri è l’autore della maggior parte dei ricorsi in tribunale contro la nuova legge elettorale. Sui quali, eventualmente, dovrà giudicare proprio la Consulta. Ma, ha detto più volte Besostri, non c’è conflitto d’interessi. Tanto che l’attuale presidente della Repubblica Mattarella, da poco nominato giudice costituzionale, si trovò a decidere sulla legge "Porcellum" che aveva cancellato il suo "Mattarellum". E proprio sul fronte dei ricorsi contro l’Italicum arriva da Milano il primo aggiornamento. Ieri la giudice monocratica della prima sezione civile Martina Flamini ha tenuto la prima udienza, in questo caso la citazione è firmata dagli avvocati Bozzi, Zecca e Tani (che con Besostri avevano ottenuto la vittoria contro il Porcellum). La citazione milanese è più avanti della altre, perché presentata prima di quelle coordinate a novembre in tutta Italia dal Coordinamento per la democrazia costituzionale (porta la data del 22 giugno). Il 21 gennaio ci sarà la prossima camera di consiglio, allora la giudice potrebbe già decidere di rimettere la questione di incostituzionalità alla Consulta. A Milano soprattutto si è già potuta ascoltare la voce del governo, intervenuto ieri in udienza rappresentato dall’avvocata dello stato Maria Gabriella Vanadia. Gli avvocati ricorrenti hanno esposto sei profili di sospetta incostituzionalità dell’Italicum - dalla mancanza di soglia per il premio al ballottaggio ai capilista bloccati e pluricandidati, dal rischio che vengano eletti più dei 630 deputati previsti in Costituzione alla violazione dell’articolo 72 nella procedura di approvazione. La presidenza del Consiglio e il ministero dell’interno hanno risposto sostenendo che i ricorrenti non sono legittimati in quanto "manca l’interesse concreto attuale". E questo perché l’Italicum è una legge regolarmente promulgata e in vigore, ma congelata negli effetti fino al luglio 2016. Argomento che ne sottintende un altro: anche per il governo Renzi l’eventuale incostituzionalità dell’Italicum non può essere sanzionata prima che la legge elettorale venga utilizzata concretamente alle elezioni, anche a rischio di eleggere ancora il parlamento con le regole truccate. Una "consuetudine costituzionale", sostengono i ricorrenti, che sta già creando tanti problemi con il Porcellum. Giustizia: il pm che narra il coraggio di Lea di Nicola Saldutti Corriere della Sera, 18 novembre 2015 Il magistrato Domenico Airoma va nelle scuole a raccontare il coraggio di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia uccisa e bruciata dal suo ex compagno, boss della ‘ndrangheta: "La mafia si può battere". Novecento è ancora lì. Chiuso. Al numero 6 di via Montello c’è una piastra di ferro come portone. E i segnali di un cantiere mai iniziato. Di fronte però c’è anche il giardino comunitario dedicato a lei, nel cuore di Milano. È poco distante da qui che nella notte del 24 novembre 2009, quella maledetta notte, Lea Garofalo viene portata via. È da lì che si può immaginare come le cose possano andare in modo diverso. Che il coraggio, in giorni come questo, è una lezione per tutti noi. Ad alcuni risulta persino incomprensibile. Eppure è forte. Nitida. Domenico Airoma fa (o meglio è) un magistrato. La storia di Lea Garofalo l’ha conosciuta dalle carte. E quelle carte raccontano di "una scelta rivoluzionaria, la peculiarità della ‘ndrangheta è il vincolo di sangue. È quello il nucleo fondante del vincolo associativo. Anche all’estero tende a stabilizzarsi, a riprodurre il nucleo della famiglia. La garanzia della sua impermeabilità. Lei rompe questo vincolo e lo fa anche come donna. Una scelta doppiamente coraggiosa". Perciò la scelta di Lea, fatta anche per proteggere sua figlia Denise, è più di un sacrificio. È la rottura di uno schema antico. Airoma, vicepresidente del Centro studi Livatino, spesso va nelle scuole per parlare ai ragazzi. "Certo l’azione repressiva è importante, ma l’unico antidoto è la sanificazione del tessuto sociale. Ridare un abito sociale a chi ne è privo". Come quando un ragazzo poco più giovane di Lea, che aveva 32 anni quando incontrò il suo coraggio, è davanti a lui per un interrogatorio. È un momento complicato quello, cercare di arrivare alla verità dalle parole di qualcuno che è coinvolto in un mondo parallelo. Nel mondo di qua ci sono le regole, nel mondo di là ce ne sono altre. Persino più forti, più rigide. "Quando parlo di Lea Garofalo molti mi chiedono "perché lo ha fatto?". È una scelta difficile da comprendere dentro quei codici. Qualche volta però la sua storia riesce a scalfire il muro del silenzio", racconta. "Perché lo ha fatto?". È questa la domanda che molti di quei ragazzi rivolgono al magistrato. "Perché?". Segno che a distanza di anni quella scelta può risultare ancora incomprensibile. "Perché fu una scelta rivoluzionaria per questo mondo. Eppure il cambiamento è possibile", sottolinea Airoma. Una testimone di giustizia, non una collaboratrice di giustizia. Non una pentita, perché Lea non aveva commesso alcun reato. Molti di quei ragazzi che il pm incontra pensano invece che lo sia. Perché anche la memoria si confonde in questi casi. "Credo che molte delle sue scelte siano dovute al tentativo di proteggere la figlia. Lei va da sola l’ultima volta. Forse sa a che cosa va incontro ed è l’ultimo sacrificio di una mamma". Andrà in onda stasera su Rai Uno, il film di Marco Tullio Giordana, a raccontarla. Un ruolo da vero servizio pubblico. Stamattina al cinema Barberini i ragazzi delle scuole e don Ciotti. "Ho interrogato tanti ragazzi nella mia carriera, molto spesso mi viene risposto che i loro comportamenti, la violenza, l’obbedienza sono un modo per avere qualcosa in cui spendere la loro vita". Un padrino al posto del padre. La ‘ndrina al posto della famiglia. Come scriveva il giudice Giovanni Falcone: per combattere la mafia dobbiamo capire che le assomigliamo. Lei, che veniva da Petilia Policastro a un passo da Crotone, in molti momenti dev’essersi sentita sola. Anche lo Stato non deve aver fatto tutto quello che poteva per proteggerla, forse. "È questa la lezione di coraggio di Lea, testimoniare che non esiste soltanto quel codice. Che si può cambiare". Anche se al suo funerale i pullman arrivarono vuoti. Oggi Lea avrebbe 41 anni. Giustizia: "Nelle scarpe dell’altro", racconti dal carcere futuroquotidiano.com, 18 novembre 2015 Si è svolta a Roma la cerimonia di premiazione della quinta edizione del Premio letterario Goliarda Sapienza "Racconti dal carcere", che ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica. Serena Dandini, in qualità di presentatrice assieme ad Antonella Bolelli Ferrera, prima di dare inizio alla conduzione, ha invitato tutti i presenti a un minuto di raccoglimento silenzioso in memoria delle vittime del terribile attacco di Parigi. Ha poi comunicato che Dacia Maraini, madrina del Premio, a causa delle condizioni di salute della madre, non è potuta essere presente all’evento. L’intera cerimonia è stata poi condotta da Serena Dandini con simpatia e prontezza di spirito contribuendo o a creare un’indimenticabile atmosfera di umanità e sincerità. Nel suo breve intervento Santi Consolo - Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ha affermato collaborando al Premio "vogliamo garantire la libertà della mente che si confronta in un impegno di scrittura e quindi di comunicazione. Per noi appoggiare e sostenere questo Premio significa voler partecipare a un percorso di progresso". Ha voluto poi ringraziare e ricordare tutte le persone che operano in questa struttura, soprattutto la polizia penitenziaria che si espone in prima persona per garantire la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari. Francesco Cascini, Capo Dipartimento Per La Giustizia Minorile ha precisato che dopo i terribili fatti di Parigi, "il rischio più forte è che la reazione emotiva possa ridurre le libertà dei cittadini. Proprio per questo abbiamo voluto confermare oggi questa iniziativa anche per dimostrare l’apertura, l’uscita dalle forme di isolamento, sia per i detenuti adulti che per i più giovani. "Aumentare iniziative di questo tipo," ha concluso" è un modo differente per conquistare un margine di sicurezza nel nostro sistema." Silvana Sergi, Direttore C.C. Regina Coeli, ha voluto offrire un ringraziamento speciale a tutto il personale che di fronte alla possibilità di annullare questa cerimonia per motivi di sicurezza, ha dimostrato coraggio nel voler comunque garantire il sereno svolgimento della cerimonia. "Ed è grazie a loro che oggi siamo in grado di garantire la presenza dei 100 ospiti qui presenti". Ha poi concluso "Questa manifestazione ci fa volare sulle ali della libertà e anche quest’anno siamo felici di ospitare il Premio Goliarda Sapienza". L’ideatrice del Premio Antonella Bolelli Ferrera ha salutato e ringraziato il Presidente Pier Ferdinando Casini e l’Assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili Lidia Ravera e ha presentato il libro All’inferno fa freddo - Racconti dal carcere" Rai Eri, di cui è curatrice, che raccoglie i 25 racconti finalisti e le introduzioni dei rispettivi tutor. Ha poi chiamato sul palco Luigi De Siervo, amministratore delegato di Rai Com, il quale ha sottolineato l’impegno "della Rai nel cercare di fare il proprio meglio affinché chiunque partecipi al Premio possa in qualche modo riempirsi la vita con questa straordinaria esperienza". Ha poi concluso chiedendo a tutti i presenti di far di tutto per far parlare del libro e farlo conoscere al maggior numero di lettori e cittadini. Alcuni tutor che hanno conosciuto per la prima volta gli scrittori detenuti che gli sono stati affidati, hanno espresso parole calorose e li hanno incoraggiati a continuare a scrivere. All’unanimità i tutor letterari hanno riconosciuto di essere rimasti molto colpiti dalla consapevolezza e dall’autenticità con cui i racconti dei detenuti sono scritti. "La scrittura mi ha salvato la vita - ha dichiarato uno dei detenuti finalisti - in uno dei momenti più difficili della mia vita. E adesso, sentire che la mia tutor mi definisce, uno scrittore nato mi riempie di orgoglio e gioia e mi commuove". Andrea Purgatori ha voluto precisare che "questo non è un premio letterario per detenuti, ma un premio letterario, punto!" Si è rivolto poi al direttore Andrea Vianello invitandolo nel prossimo programma in cui si parlerà di libri di presentare il volume che raccoglie i 25 racconti finalisti, "dove è visibile la differenza tra un racconto di plastica e un racconto scritto con l’anima". Pino Corrias, che da tre anni è tutor del Premio Goliarda Sapienza, è stato il promotore del progetto I corti del Premio Goliarda Sapienza, "proprio per dare una chance in più ai detenuti scrittori". Lidia Ravera, Assessore alla Cultura per la Regione Lazio, ha trasmesso un messaggio di incoraggiamento ai detenuti e agli organizzatori del Premio: "Scrivere aiuta a vivere, è una protesi necessaria per camminare spediti, per non cadere, o, se si cade, per rialzarsi. Scrivere ti fa sentire, sempre, protagonista di un racconto, di una storia, la tua. Anche se sei nato nel posto sbagliato, anche se la società ti ha sospinto verso i margini, scrivere ti rimette al centro, combatte la marginalità, include. Conosco il premio dagli esordi, sono stata tutor di una grande detenuta. Penso che promuovere l’amore per la parola, dove si è accerchiati dal silenzio, sia una priorità culturale e politica. Come Regione Lazio sosteniamo il teatro nelle carceri, le officine delle arti e dei mestieri, con la passione di chi crede nella funzione salvifica dell’espressione, della creatività, della narrazione". Un detenuto finalista ha preso la parola chiedendo di poter parlare dell’ergastolo e ha pronunciato parole intense: "Sono detenuto dal 1984 e condannato all’ergastolo. A un certo punto non sai più carcere andare avanti perché non avere il fine pena, ti fa andare avanti per inerzia e si può finire non si sa come. Agli addetti ai lavori, vi dico trovate una soluzione, non si può pensare di morire in carcere." Erri De Luca parlando del testo dello scrittore detenuto che gli è stato affidato quest’anno ha sintetizzato: "Profondità, vastità, un passaggio sulla neve che vale tutta la letteratura che ho letto di recente". Ha voluto poi riprendere il discorso sul fine pena mai: "Io dico da libero che l’ergastolo è un’aberrazione. E aggiungo, ho saputo che non entrano libri nel 41bis, questa è una persecuzione, un supplemento di pena, una terapia non adatta ai reclusi". Silvana Mazzocchi raccontando brevemente il racconto dell’autrice detenuta che le è stata affidata ha espresso un profondo apprezzamento e ha concluso: "Nel suo racconto le parole sono lacrime di dolore ma anche di speranza." Emozionanti gli interventi dei detenuti finalisti, chi ha dichiarato "in questo momento qui dentro siamo tutti uguali grazie alla bellezza, noi detenuti, gli ospiti e le guardie carcerarie. Solo l’arte la bellezza e la cultura possono spingere i detenuti alla salvezza" ma anche chi ha ringraziato tutti i presenti perché "la vostra umanità ci dà la forza per resistere e andare avanti" e chi ha ringraziato il Premio "perché ci dà la possibilità di raccontare cosa viviamo dentro". Vincitore assoluto della categoria Adulti è stato Ivan Gallo con il racconto "Nelle scarpe dell’altro", il quale tutor è stato Marco Buticchi, mentre per la categoria minori, "Unknown" con il racconto "Double Face", seguito dal tutor, il Maestro Alessandro D’Alatri. A tutti i 25 finalisti è stato donato un pc portatile dotato di e-book. Ai primi tre classificati di ogni categoria e alle Menzioni speciali è stato riconosciuto anche un premio in denaro (1.000 euro per i primi classificati, 800 euro per i secondi, 600 euro per i terzi, 100 euro alle menzioni speciali). I premi sono sostenuti da Siae e Unicredit, con contributo tecnico di Ergo e Wedot e dal Gruppo editoriale Gems per i contenuti didattici. Il Premio, ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, che ha condotto la cerimonia di premiazione insieme con Serena Dandini, è promosso dall’Associazione inVerso Onlus, Dap - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Dipartimento per la Giustizia Minorile, Siae (principale sostenitore del Premio dalla prima edizione) e ha ottenuto L’Adesione del Presidente della Repubblica e il patrocinio di: Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Rai - Radiotelevisione italiana. Dalla collaborazione con il Premio Goliarda Sapienza è nato il progetto "I corti del Premio Goliarda Sapienza" voluto da Rai Fiction, che prevede ogni anno la realizzazione di un cortometraggio tratto da uno dei racconti finalisti del concorso: quest’anno il cortometraggio "Fuori" (Iterfilm in collaborazione Rai Fiction), è tratto dal racconto di Agnese Costagli (2° classificata nell’edizione 2014), ha come protagonista Isabella Ragonese, e la regia di Anna Negri. "Fuori" proiettato in anteprima al RomaFiction Fest e trasmesso su Rai 3. "Mala Vita", il primo cortometraggio realizzato del Premio Goliarda Sapienza, con Luca Argentero nel ruolo di protagonista e la partecipazione di Francesco Montanari, è andato in onda su Rai 3 il 26 marzo 2014. "Mala Vita" ha finora ottenuto i seguenti riconoscimenti: vincitore festival Corto Sordi 2015, vincitore menzione speciale a Cortinametraggio 2015, vincitore festival Sedicicorto 2015 e selezionato al Valdarno Cinema Fedic 2015 e alla IX edizione del premio "L’anello debole" 2015. Giustizia: la cultura che nasce in carcere, strumento di rigenerazione civile di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) key4biz.it, 18 novembre 2015 Il premio Goliarda Sapienza con il premio letterario "Racconti dal carcere" promuove anche una serie di corti prodotti da Rai. Ma dov’è il Mibact? Su queste colonne, ed anche nell’economia di questa rubrica, ci piace segnalare iniziative di eccellenza, tra il culturale ed il sociale, tra il mediale ed il civile: merita di essere senz’altro enfatizzata l’innovatività e la qualità del progetto "Goliarda Sapienza", ovvero il premio letterario "Racconti dal carcere", giunto nel 2015 alla quinta edizione, ideato dalla giornalista ed organizzatrice culturale Antonella Bolelli Ferrera, che ieri 16 novembre ha tenuto la cerimonia di premiazione, all’interno della Casa Circondariale di Regina Coeli a Roma. Goliarda Sapienza è stata una eterodossa attrice teatrale e cinematografica nonché scrittrice (il suo romanzo più famoso è "L’arte della gioia", ripubblicato da Einaudi nel 2008). L’iniziativa si caratterizza non soltanto per la comunque commendevole attività di stimolazione alla scrittura nella popolazione detenuta (adulti e minori), ma per l’affiancamento degli "esordienti" carcerati a scrittori ed intellettuali di successo: questa caratteristica rende l’iniziativa unica a livello europeo. Il Premio è promosso da inVerso onlus, dalle due "anime" competenti del Ministero della Giustizia (il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ed il Dipartimento per la Giustizia Minorile di Comunità - Dgmc), e dalla Siae - Società Italiana Autori Editori (che sostiene con convinzione l’iniziativa fin dalla prima edizione). All’edizione 2015, hanno partecipato ben 500 aspiranti scrittori detenuti. I 25 finalisti hanno ricevuto in premio computer portatili, grazie al contributo di Unicredit, mentre i vincitori (1°, 2°, 3° classificato per la sezione "Adulti" e per la sezione "Minori", e le "Menzioni Speciali") hanno ricevuto anche un piccolo premio in denaro (1.000 o 600 euro). Il Premio non si è fermato alla dimensione letteraria, cartacea, ma ha presto sviluppato una dimensione multimediale: con la collaborazione di Rai Fiction, è infatti nato il progetto "I Corti del Premio Goliarda Sapienza", che prevede ogni anno la realizzazione di un cortometraggio tratto da uno dei racconti dal carcere finalisti del concorso, così come un lavorio per una web serie. Quest’anno, il cortometraggio "Fuori", per la regia di Anna Negri (la figlia di Tony - noto teorico dell’Autonomia Operaia e più recentemente sociologo e politologo riconosciuto anche dall’accademia - già dimostratasi eccellente film maker), con Isabella Ragonese come protagonista, che è stato trasmesso ieri sera su Rai 3 (in un’inedita formula di offerta di palinsesto: alle ore 20.10 ed in replica alle 23.30), dopo esser stato proiettato in anteprima al Roma Fiction Fest. ll primo cortometraggio della serie, "Mala Vita", diretto da Angelo Licata, con Luca Argentero nel ruolo di protagonista, ha finora ottenuto diversi riconoscimenti festivalieri. In occasione della premiazione (condotta da una come sempre accattivante Serena Dandini), è stato presentato anche il libro "All’inferno fa freddo. Racconti dal carcere", edito da Rai Eri, che presenta i 25 racconti finalisti con le introduzioni dei "tutor", curato da Bolelli Ferrara. Si tratta di un florilegio di storie che dimostrano come la scrittura può divenire uno strumento di liberazione (almeno psichica e morale) e finanche di "evasione" (nel senso metaforico del termine, ovviamente). Si ritrova la libertà attraverso l’immaginazione, si elabora con la fantasia il dolore degli errori commessi. Sono 25 storie "off limits", per il mondo "fuori": un gommone verso l’Europa, l’iniziazione alla criminalità organizzata, gli abusi sessuali e la violenza domestica durante l’infanzia, l’obbligo di uccidere quando si è chiamati alla guerra, sia essa contro un clan rivale sia contro i ribelli del Darfour. Giustizia: gli imputati di Mafia Capitale nell’aula-bunker, sfida su chi ha diritto ai danni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 novembre 2015 Chiesta l’esclusione dal risarcimento di Pd e associazioni antiracket. Prima udienza per gli imputati di Mafia Capitale nell’aula bunker di Rebibbia. Sfida su chi ha diritto ai danni: gli avvocati degli accusati chiedono l’esclusione dal risarcimento di Pd e associazioni antiracket. L’immagine di Luca Gramazio dietro le sbarre, con la barba curata e il maglione griffato, è la fotografia del terremoto provocato dall’indagine romana su "Mafia Capitale". Fino a sei mesi fa era il capogruppo del Pdl alla Regione Lazio e prima in Campidoglio, figlio d’arte dalla carriera politica già tracciata a 35 anni non ancora compiuti; oggi è tra la dozzina d’imputati chiusi in gabbia, costretto a comunicare a gesti con quelli della cella accanto, in un inevitabile quanto umiliante "effetto zoo". La prima udienza nell’aula bunker del carcere di Rebibbia del processo contro Massimo Carminati e i suoi presunti complici accusati di associazione mafiosa e altri reati offre tutti gli ingredienti del maxiprocesso: dai detenuti in gabbia alle decine di avvocati che si susseguono ai microfoni in otto ore di questioni preliminari. Oltre le sbarre che nel corso dei decenni hanno separato dal resto del mondo terroristi, boss e criminali d’ogni risma, i "colletti bianchi" accusati di una nuova forma di mafia "originaria e originale" sono mescolati a personaggi pressoché sconosciuti fino all’esplosione dello scandalo. Nella gabbia numero 2 c’è il calabrese Rotolo, che ha colorato di ‘ndrangheta la ricostruzione dell’accusa, con altri due imputati; nella 3 ecco Gramazio con altri quattro tra cui un ex collaboratore di Salvatore Buzzi, che passeggia avanti e indietro e - denuncia il suo difensore - dal momento dell’arresto ha perso 27 chili; nella numero 4 c’è Franco Panzironi, corpulento come quando governava la Municipalizzata dei rifiuti, insieme a quattro coimputati. I "capi" della presunta banda - Carminati, Buzzi, Riccardo Brugia e Fabrizio Testa - stanno più larghi, ciascuno nella stanza del carcere dal quale è collegato in videoconferenza. Buzzi prende appunti, gli altri ascoltano immobili le eccezioni degli avvocati. Che pure quando discutono le cinquanta e più richieste di costituzione di parte civile, continuano a scavare la loro linea del Piave: corruzione sì, ma mafia no. E attacco al "processo mediatico". Quando prende la parola nell’interesse di Carminati, Brugia e Testa, l’avvocato Ippolita Naso punta il dito sulle associazioni di immigrati nonché "i signori nomadi", secondo le quali gli imputati avrebbero sfruttato (ai danni dei loro assistiti) "il business dei migranti". Dopo gli strali lanciati nella scorsa udienza dal padre, Bruno Naso, contro gli spot che hanno "dopato" l’indagine, adesso è la figlia che attacca: "Nei capi d’imputazione non c’è traccia di questo business, evocato solo dalla maledetta intercettazione in cui Buzzi dice che con gli immigrati si guadagna più che con la droga; una frase trasmessa in continuazione come un trailer cinematografico, che può scandalizzare qualche anima candida ma non ha alcuna rilevanza processuale". L’avvocato Naso jr se la prende anche con le richieste pretestuose e inverosimili avanzate da organismi come la Federazione per la somministrazione e il turismo: "Tutela le tradizioni gastronomiche, non si capisce a che titolo pretenda risarcimenti"; o dal Partito democratico che lamenta i danni d’immagine: "Non mi risulta che Carminati sia mai stato iscritto al Pd, quel partito se la prenda coi suoi rappresentanti che si sono fatti coinvolgere in questi fatti". Il legale di Buzzi rivendica la "indiscutibile qualità dei servizi" offerti dalle cooperative del suo cliente, mentre quello del gestore della pompa di benzina dove Carminati era di casa vuole lasciare fuori dal processo le Associazioni antiracket e antiusura: "Il mio assistito è accusato di aver preteso la restituzione di un migliaio di euro, il valore di alcuni pieni di carburante: su questo si fonda l’accusa di associazione mafiosa!". Naturalmente la versione dell’accusa è tutt’altra, ma i primi duelli sono indicativi del binario sul quale i difensori vogliono indirizzare il processo. Terminata la discussione gli avvocati dello Stato e del Movimento 5 Stelle si ribellano al tribunale che non concede tempo alle repliche (non previste dal codice), e in aula si scatenano grida e proteste. Alla fine i giudici tagliano fuori dal processo proprio i grillini, Confindustria, il Codacons e altri gruppi lasciando dentro quasi tutte le associazioni anti mafia. Giustizia: la versione Cutolo sul caso Moro "rapito con le armi della ‘ndrangheta" di Paolo Berizzi La Repubblica, 18 novembre 2015 Le rivelazioni dal 41 bis dell’ex capo della Nuova camorra organizzata: "Patto in carcere tra le Br e le cosche calabresi". Le armi usate dal commando delle Brigate Rosse per rapire e uccidere il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e per falciare i cinque uomini della sua scorta in via Fani, uscirono dall’arsenale della ‘ndrangheta. Quasi certamente in cambio di una contropartita coi terroristi. Con tutta probabilità nel perimetro di una trattativa criminale ancora avvolta nel mistero, ma della quale, oltre ai due " contraenti" - brigatisti e ‘ndranghetisti, erano al corrente anche pezzi deviati dei servizi segreti. Gli stessi soggetti che - ed è la seconda rivelazione, affidando l’ambasciata al braccio destro di Cutolo - il fedelissimo Vincenzo Casillo, detto ‘o Nirone, fatto saltare in aria con la sua auto a Roma il 29 gennaio 1983 vicino alla sede del Sismi - intimarono all’ex capo della Nuova Camorra Organizzata di "togliersi di mezzo" proprio quando il boss aveva la possibilità di trattare in carcere con le Br per arrivare alla liberazione di Moro. È il racconto emerso dalle dichiarazioni - le prime, ancora da riscontrare - rese da Raffaele Cutolo il 14 settembre nel carcere di Parma (dove è detenuto al 41 bis): dichiarazioni registrate su un file audio dal luogotenente dei carabinieri Giuseppe Boschieri e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Dopo aver svelato la collaborazione con lo Stato (da non confondersi con un pentimento o una dissociazione) del vecchio capo camorrista - dietro le sbarre da oltre 50 anni e da 23 anni sottoposto al carcere duro -, Repubblica ha potuto conoscere il contenuto del documento raccolto dalla Commissione sull’escussione del detenuto Cutolo Raffaele. Un documento secretato. Anzi, l’unico, coperto da segreto, di tutti i 41 documenti messi agli atti dall’organismo parlamentare. Cutolo è una pagina di verbale (il documento 316/1, inserito nel protocollo 1027). Una goccia nel mare delle 1.415 pagine di indagine annunciate finora all’ufficio di presidenza (la commissione è guidata da Giuseppe Fioroni). Partiamo da qui: perché l’interrogatorio del detenuto "Cutolo Raffaele" è stato secretato? "Stiamo cercando riscontri alle sue parole". Così ha fatto sapere ieri la Commissione d’inchiesta, confermando la nostra anticipazione. Al di là dell’"obbligo di prudenza" e del "riserbo" richiesti da una testimonianza ritenuta "delicata" - perché "di interesse per indagini in corso" - va detto che le circostanze e i dettagli riferiti dall’ex boss di Ottaviano "scottano" anche per un altro motivo. Riscrivono, almeno in parte, alcuni degli scenari dei 55 giorni del sequestro dello statista Dc (e del periodo che lo precede). Almeno per come li abbiamo conosciuti fino ad oggi. Ecco che cosa riferisce Cutolo: "Quando ero nel carcere di Ascoli Piceno, seppi che, in epoca immediatamente antecedente al sequestro Moro, ci furono ripetuti contatti di membri delle Br con ambienti ndranghetisti al fine di acquisire armi in favore dei terroristi". Armi da utilizzare per l’assalto di via Fani, dove Moro fu rapito dopo una carneficina nella quale rimasero uccisi i cinque uomini della scorta. La ‘ndrangheta, dunque, dice Cutolo. Un inedito. Già. Perché se erano sin qui noti - con la vicenda del sequestro e della liberazione di Ciro Cirillo - i collegamenti di quegli anni (siamo tra il 1978 e il 1981) tra le Brigate Rosse (in particolare la colonna napoletana diretta da Giovanni Senzani) e la camorra (capeggiata da Cutolo), nulla si sapeva di una connessione tra i brigatisti e le cosche calabresi. Il link - stando al racconto di Cutolo - sembra dunque ruotare intorno al caso Moro. "Avrei potuto salvarlo - ha riferito l’ex boss della Nco. Così come feci tre anni dopo con Cirillo, quando lo Stato mi chiese di intervenire. Ma per Moro non andò così. Avviai delle trattative coi brigatisti in carcere, ma a un certo punto Vincenzo Casillo mi disse: "leva ‘e mani" (togliti di mezzo, ndr). Seppi poi che Casillo lavorava anche per i servizi". Basta tirare i fili per avanzare ipotesi. Lo faranno, ora, i magistrati della commissione Moro. Viene da chiedersi: la collaborazione del 74enne Cutolo continuerà, o è stata solo episodica? Altro dubbio: possibile sia finalizzata a ottenere una riduzione delle misure di pena? "Se ha deciso di dare una mano per ricostruire una vicenda drammatica e oscura - dice il suo legale, Gaetano Aufiero - conoscendolo escludo lo abbia fatto per fini reconditi o per passare all’incasso. Lo avrebbe fatto molto prima, se avesse voluto". La simulazione di reato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2015 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’attività giudiziaria - Simulazione di reato - Denuncia - Nozione. La falsa denuncia che integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’articolo 367 cod. pen. può essere formulata con qualunque atto idoneo a provocare investigazioni, anche in assenza di una iniziativa spontanea del denunciante. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 17 aprile 2015 n. 16277. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’attività giudiziaria - Simulazione di reato - Elemento soggettivo - Dolo - Sufficienza - Movente del delitto - Rilevanza - Esclusione. Per l’integrazione dell’elemento soggettivo del delitto di simulazione di reato è sufficiente il dolo generico, ovvero la coscienza e volontà di affermare falsamente l’avvenuta consumazione di un reato, risultando invece irrilevante il movente del delitto. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 4 dicembre 2014 n. 50944. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’attività giudiziaria - Simulazione di reato - In genere - Ritrattazione - Efficacia sulla punibilità - Condizioni - Limiti. Il delitto di simulazione di reato può essere scriminato dalla ritrattazione solo se questa si verifica nel medesimo contesto della denuncia, in quanto solo la resipiscenza realizzata in un continuum rispetto al comportamento anteriore, in modo da escludere anche la possibilità di investigazioni ed accertamenti preliminari, fa venir meno il carattere lesivo della condotta simulatoria, dando luogo ad un reato impossibile per inidoneità dell’azione ex articolo 49 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 30 ottobre 2014 n. 45067. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’attività giudiziaria - Simulazione di reato - Denuncia - Nozione - Comunicazione telefonica - Sufficienza. La falsa denuncia che integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’articolo 367 cod. pen. può essere formulata con qualunque atto idoneo a provocare investigazioni, ed è quindi sufficiente anche una comunicazione telefonica. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 dicembre 2012 n. 48440. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’attività giudiziaria - Simulazione di reato - Denuncia - Nozione. La denuncia rilevante ai fini della configurabilità dell’elemento oggettivo del reato di cui all’articolo 367 cod. pen. può essere presentata in qualsiasi forma e modo, ivi compreso il mezzo telefonico. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 17 settembre 2012 n. 35543. Sardegna: Sdr; il Dap nega a un ergastolano ritorno nella regione di origine dopo 11 anni Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2015 "Ancora una volta il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nega la territorialità della pena a un detenuto sardo, ergastolano, lontano dall’isola da undici anni. In questo modo l’umanizzazione della carcerazione e la risocializzazione restano un’utopia". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento al caso di Sebastiano Demontis, 60 anni, originario di Buddusò, che nonostante le numerose istanze inoltrate al Dap per ottenere un trasferimento in Sardegna, continua a permanere nel carcere di Prato dopo aver peregrinato in diversi Istituti della Toscana. "L’ultima istanza che ho presentato a maggio - ha scritto in un’accorta lettera all’associazione - ha avuto esito negativo. A luglio ne ho inoltrato un’altra, ma poiché fino ad ottobre non ho ricevuto risposta, ha presentato un sollecito tuttavia ancora nulla". Nell’istanza di sollecito, Sebastiano Demontis chiede di poter essere trasferito a Nuoro, Tempio Pausania o Sassari per un avvicinamento ai familiari che possa consentirgli di fruire di regolari colloqui, attualmente assai sporadici a causa della distanza e per le notevoli spese da sostenere per il viaggio. Nella domanda viene altresì precisato non solo che manca dalla Sardegna da oltre 11 anni, ma che ha mantenuto nel corso della detenzione una costante regolare condotta. "Sebastiano Demontis, che è ristretto da 20 anni senza avere mai subito un rapporto disciplinare, negli ultimi cinque ha effettuato un solo colloquio con i parenti. Non chiede la libertà ma di poter fruire di un diritto. L’anno scorso ha conseguito la maturità e partecipa attivamente alle iniziative tratta mentali. Risulta quindi incomprensibile - rileva la presidente di Sdr - negargli la possibilità di tornare nell’isola e fruire degli incontri con i familiari. Il Dap, anche nel rispetto delle circolari disposte dal Capo del Dipartimento, dovrebbe favorire la regionalizzazione della pena. Sembra invece sempre più deciso - conclude Caligaris - a trasferire nell’isola cittadini privati della libertà di altre regioni, e spesso extracomunitari, negando a chi lo chiede un avvicinamento alla famiglia. Una scelta contraria alla finalità di una pena umana e riabilitativa indicata chiaramente dalla Costituzione, dalla legge sull’Ordinamento Penitenziario e perfino da Protocolli sottoscritti dal Ministero della Giustizia e dalla Regione Sardegna". Calabria: troppi ritardi sulle Rems, il governo diffida la Regione di Emilio Enzo Quintieri (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2015 Sono soddisfatto che il Governo abbia finalmente diffidato la Regione Calabria per la mancata attuazione degli obblighi previsti dalla Legge n. 81 del 2014 in merito alla definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Purtroppo credo che, come al solito, la diffida resti "lettera morta" e che quindi occorra subito nominare un Commissario. Lo afferma il radicale calabrese Emilio Quintieri, già membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani. Nei giorni scorsi, infatti, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri è stata inviata anche al Presidente della Regione Calabria On. Mario Oliverio, una lettera con la quale è stato diffidato ad ottemperare, entro e non oltre 45 giorni, agli obblighi di legge e, più precisamente, ad attivare le Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) e prendersi in carico gli internati psichiatrici residenti sul proprio territorio La proposta di diffidare la Regione Calabria, unitamente al Veneto, al Piemonte, alla Toscana, all’Abruzzo, al Lazio, alla Campania ed alla Puglia, era stata sollecitata con una nota congiunta dai Ministri della Salute e della Giustizia On. Beatrice Lorenzin e On. Andrea Orlando. Già lo scorso aprile - continua il radicale Quintieri - avevo denunciato sulla stampa locale e nazionale, l’inadempienza continua della Regione Calabria chiedendo alla medesima di attivarsi per l’apertura immediata delle strutture residenziali di Santa Sofia d’Epiro e Girifalco al fin di evitare ulteriori disagi ai cittadini calabresi pazienti/internati ed ai loro congiunti e per evitare la pessima figuraccia del commissariamento da parte del Governo affinché provvedesse - in via sostitutiva - a dare attuazione a quanto stabilito dal Parlamento. Ad oggi, nonostante siano trascorsi circa 7 mesi, non è stato fatto nulla. Anzi, il Commissario del Governo per la Sanità Ing. Massimo Scura, con Decreto n. 27 del 28/04/2015 ha approvato un Protocollo d’Intesa tra la Regione Basilicata e la Regione Calabria per l’accoglienza dei pazienti residenti in Calabria presso la Residenza per la Esecuzione della Misura di Sicurezza (Rems) di Tinchi, una ex Casa Mandamentale (mai utilizzata) sita nel Comune di Pisticci in Provincia di Matera, completamente ristrutturata in soli 101 giorni. Era stato il Presidente Oliverio con una lettera inviata il 03/03/2015 a chiedere (anche) alla Regione Basilicata di ospitare una quota dei 30 pazienti calabresi internati non dimissibili dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto e dei residui pazienti dimissibili sino all’effettivo trasferimento in struttura territoriale della Regione Calabria. Il Governatore della Basilicata Marcello Pittella e poi la Giunta Regionale, con Deliberazione n. 391 del 27/03/2015, esprimeva la propria disponibilità ad ospitare presso la propria Rems di Pisticci solo n. 5 pazienti con le modalità temporali ed economiche stabilite nel "Protocollo d’Intesa" entrato in vigore il 01/05/2015 e valevole fino al 31/12/2015 e rinnovabile automaticamente salvo disdetta formale di una delle parti. La Regione Calabria si è impegnata a riconoscere alla Regione Basilicata un rimborso spese su base giornaliera pro-capite che sarà pari alla tariffa massima complessiva pro-capite sostenuta attualmente dalla Regione Basilicata per singoli casi complessi, e comunque non inferiore a 250 euro giornaliere pro-capite, che saranno pagati dalla Regione Calabria direttamente alla Regione Basilicata in base alle giornate di presenza registrate. Restano a carico della Regione Calabria gli eventuali costi straordinari non riferibili alle prestazioni ordinariamente erogate nella Rems ospitante. La Regione Calabria - prosegue l’esponente radicale - riconoscerà in ogni caso un rimborso spese minimo su base annua, indipendentemente dalle presenze registrate, corrispondente al 50% del rimborso spese complessivo per la saturazione dei posti (equivalente a 228.125,00 Euro). E per il periodo dall’1/5/2015 al 31/12/2015 la suddetta somma è stata ridefinita in dodicesimi in 152.083,00 Euro. Attualmente, sulla base delle informazioni fornite dall’Ufficio VI - Misure di Sicurezza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risultano n. 4 pazienti calabresi nella Rems di Pisticci (Mt) in Basilicata nonché n. 1 paziente calabrese nella Rems di Roccaromana (Ce) in Campania, n. 2 pazienti calabresi nella Rems di Naso (Me) in Sicilia e n. 1 paziente calabrese nella Rems di Capoterra (Ca) in Sardegna. Non c’è più altro tempo da perdere, conclude il radicale Emilio Quintieri, occorre che il Governo nomini immediatamente il Commissario nelle Regioni inadempienti affinché venga rispettato quanto stabilito dalle Camere. Emilia Romagna: la Garante Desi Bruno "contro il fondamentalismo imam nelle carceri" Adnkronos, 18 novembre 2015 "Abbiamo bisogno che venga assicurato il diritto di culto all’interno delle carceri, e per farlo servono imam riconosciuti, che conoscano e riconoscano la nostra Costituzione e le nostre leggi, non possiamo permetterci di correre il rischio di affidare queste persone a guide spirituali improvvisate". Questo l’appello della Garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna, Desi Bruno, lanciato in occasione della presentazione della seconda edizione di "Diritti doveri solidarietà", il progetto educativo dedicato ai detenuti musulmani, per favorire un dialogo tra Costituzioni e culture, promosso all’interno del carcere della Dozza di Bologna dalla Garante insieme al Centro per l’istruzione degli adulti negli istituti penitenziari di Bologna (Cpia). "L’iniziativa, unica e prima nel suo genere in Italia, - ha spiegato l’avvocato Bruno - è importante per migliorare il dialogo tra culture diverse e per affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, sia libero che detenuto". "Questa prova al dialogo tra Costituzioni, che tiene conto dei tentativi recenti di alcuni Paesi arabi a darsi regole finalmente democratiche, - ha aggiunto la Garante - aiuta a far sentire meno soli i detenuti stranieri e può costituire un argine al diffondersi di sentimenti e ideologie fondamentaliste, che possono attecchire proprio nei luoghi di privazione della libertà personale". Dalla Costituzione italiana alle nuove Costituzioni arabe, dal contrasto tra leggi degli uomini e leggi di Dio alla libertà religiosa, dall’uso di alcool e droghe nel mondo islamico al giusto processo. Questi e altri i temi delle lezioni della Dozza che ora si apprestano ad arrivare anche sul grande schermo con "Dustur (Costituzione)", il documentario realizzato dal regista Marco Santarelli durante gli incontri dell’edizione 2014-2015 di "Diritti doveri solidarietà". Il documentario, inoltre, sarà in concorso al 33esimo Torino film festival, con la prima in programma domenica 22 novembre. Ma sull’esperienza dello scorso anno è stato anche stampato un volume, un vero e proprio diario di bordo scritto sull’esperienza passata, disponibile on line sul sito del Garante regionale dei detenuti. A presentare il nuovo ciclo di appuntamenti, in conferenza stampa in Regione, anche la presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna Simonetta Saliera. "Dialogo, interrelazione, confronto: è questa - ha detto - la ricetta per conoscere il diverso da sé e creare quella rete di convivenza che accompagna il nostro vivere civile e che distingue la comunità dai branchi". Non è un caso, quindi, che "il lavoro della Garante regionale si basi proprio su un carcere che nulla abbia a che vedere con le fredde celle dei sotterranei medioevali, ma sappia porre le basi della ricostruzione della persona e della sua dignità: il cammino è cominciato e cercheremo in tutti i modi che ciò non venga interrotto". Il progetto "è di stretta attualità" ha sottolineato il dirigente di Cpia Emilio Porcaro, spiegando che l’obiettivo è "la ricerca di vie di confronto con persone di fede islamica all’interno di un carcere, dove i rischi di radicalizzazione su base religiosa sono elevatissimi. "Solamente un’attività formativa ed educativa di taglio realmente interculturale - ha concluso - può svolgere un ruolo significativo nella rielaborazione di coscienze aperte alla diversità e alla convivenza pacifica". La prima lezione del nuovo ciclo è in programma domani e tratterà del Premio Nobel per la Pace di quest’anno assegnato al Quartetto per il dialogo in Tunisia, protagonisti della stagione delle primavere arabe. Si proseguirà fino al 4 maggi per un totale di 12 appuntamenti da due ore l’uno. Fra gli argomenti trattati ci sono la Costituzione italiana (23 dicembre), i diritti fondamentali della persona umana (9 dicembre), le nuove Costituzioni arabe (13 gennaio), uguaglianza e solidarietà (17 febbraio), uomo, donna, famiglia (6 aprile). Lega Nord: richiesta garante è pericolosa e impossibile "Il diritto di culto è sancito dalla Costituzione ma l’appello di Desi Bruno, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, oltre che pericoloso, è impossibile da attuare". Lo scrive in una nota il consigliere regionale della Lega Nord Emilia-Romagna, Daniele Marchetti, rispondendo alla proposta della Garante regionale delle persone private della libertà personale di far accedere imam nelle carceri per impedire estremismi tra i detenuti. "La religione islamica - si legge - non ha siglato un’intesa con lo Stato, è quindi impossibile identificare un’autorità o un istituzione formalmente legittimata a certificare Imam teologicamente formati e ideologicamente non pericolosi, ammesso che esistano. Ricordo inoltre alla Garante che non c’è alcuna relazione tra formazione degli Imam e la loro interpretazione più o meno violenta del messaggio coranico". "Al-Baghdadi, Califfo dell’Isis, e con lui altre migliaia di predicatori - aggiunge Marchetti - possono vantare i più prestigiosi titoli di studio e dottorati in teologia islamica e in forza di queste conoscenze predicano, con grande successo, l’odio e l’intolleranza". Pisa: la deputata Carrozza (Pd) visita il carcere Don Bosco "è una struttura inadeguata" Ansa, 18 novembre 2015 Visita in carcere a Pisa, ieri per la deputata del Pd ed ex ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, che ha pubblicato poi le sue riflessioni in un lungo post sul sito internet del Pd pisano. "Ho visitato - scrive Carrozza - la sezione femminile, maschile, penale e giudiziaria e ho potuto incontrare gli insegnanti volontari che insegnano ai detenuti". Molti invece i problemi dell’edificio visto che, ha sottolineato la parlamentare, il Don Bosco "è una struttura inadeguata". "I locali - spiega Carrozza - avrebbero bisogno di una profonda ristrutturazione. L’impegno della direzione e del personale è tangibile, così come alcuni lavori eseguiti di recente, ma è chiaro che rimane una struttura inadeguata. A questo impegno andrebbero unite donazioni di privati che, tra l’altro, non mancherebbero neanche, ma queste operazioni sono amministrativamente e burocraticamente difficili e complesse. È un settore nel quale intervenire perché la semplificazione sarebbe molto importante e sarebbe importante anche l’Agenda digitale, basti pensare che tutte le autorizzazioni passano per moduli cartacei". Infine, gli spazi di svago: "Dalla ristrutturazione del campo di calcetto, alla donazione di attrezzature per la palestra, che potrebbe permettere ai detenuti di svolgere attività motorie e sportive, fino alla donazione di libri recenti e romanzi. Non mancano bei progetti, che sono fermi in attesa di finanziamento, come quello che sostiene il teatro in carcere. Qui c’è lavoro per tutti: per la politica locale e per il Governo, per chi vuole fare il volontario e per chi vuole fare donazioni. Pisa non si deve dimenticare di questo mondo". Brescia: carcere di Verziano, il 30% dei detenuti soffre di problemi psichiatrici bsnews.it, 18 novembre 2015 "Oggi molti detenuti hanno gravi problemi psicologici e psichiatrici. Dovremo fare una riflessione e vedere cosa fare, anche nella logica della trasformazione degli ospedali psichiatrici giudiziari in residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria". Così il presidente della Commissione Carceri di regione Lombardia Fabio Fanetti ha dimostrato la propria preoccupazione al termine della visita all’istituto penitenziario bresciano di Verziano. Sono 118 i detenuti, uomini e donne, che stanno scontando la propria pena a Verziano di cui il 30% soffre di problematiche psicologiche che nei mesi scorsi sono sfociate anche in due episodi di autolesionismo. "Lavoreremo perché nella seconda parte della legge di riforma della Sanità si introducano nuovi strumenti e risorse per far fronte alla trasformazione della popolazione carceraria e delle sue necessità", ha aggiunto il consigliere della Lega Nord, Fabio Rolfi. Bologna: "Diritti doveri solidarietà", ciclo di 12 lezioni rivolte ai detenuti musulmani sassuoloonline.it, 18 novembre 2015 Dalla Costituzione italiana alle nuove Costituzioni arabe, dal contrasto tra leggi degli uomini e leggi di Dio alla libertà religiosa, dall’uso di alcool e droghe nel mondo islamico al giusto processo: ritorna, dopo il successo della prima edizione, "Diritti doveri solidarietà", il progetto educativo dedicato ai detenuti musulmani - per favorire un dialogo tra Costituzioni e culture - promosso all’interno del carcere della Dozza di Bologna dalla Garante regionale delle persone private della libertà personale insieme al Centro per l’istruzione degli adulti negli istituti penitenziari di Bologna (Cpia). E le lezioni della Dozza si apprestano ad arrivare sul grande schermo: "Dustur (Costituzione)", il documentario realizzato dal regista Marco Santarelli durante gli incontri dell’edizione 2014-2015 di "Diritti doveri solidarietà" sarà in concorso al 33esimo Torino film festival, con la prima in programma domenica 22 novembre. Ma sull’esperienza dello scorso anno è stato anche stampato un volume, un vero e proprio diario di bordo scritto sull’esperienza passata, disponibile on line sul sito del Garante regionale dei detenuti. A presentare il nuovo ciclo di appuntamenti, in una conferenza stampa nella sede dell’Assemblea legislativa, a Bologna, la presidente dell’Assemblea, Simonetta Saliera, la Garante Desi Bruno e il dirigente del Cpia, Emilio Porcaro. La prima lezione è in programma domani, mercoledì 18 novembre, e tratterà del Premio Nobel per la Pace di quest’anno assegnato al Quartetto per il dialogo in Tunisia, protagonisti della stagione delle primavere arabe, l’ultima il 4 maggio: si tratta, in totale, di 12 appuntamenti da due ore l’uno. Fra gli argomenti trattati, la Costituzione italiana (23 dicembre), i diritti fondamentali della persona umana (9 dicembre), le nuove Costituzioni arabe (13 gennaio), uguaglianza e solidarietà (17 febbraio), uomo, donna, famiglia (6 aprile) (allegato il programma completo degli incontri). "L’Assemblea dei diritti passa anche dalla giustizia e dalla solidarietà, come testimoniato da questa valida pubblicazione, realizzata grazie alla passione e all’impegno della Garante- spiega la presidente Saliera-. Dialogo, interrelazione, confronto: è questa, come si evidenzia nelle pagine del volume ricavato dall’edizione passata, la ricetta per conoscere il diverso da sé e creare quella rete di convivenza che accompagna il nostro vivere civile e che distingue la comunità dai branchi". Non è un caso, quindi, che "il lavoro della Garante regionale si basi proprio su un carcere che nulla abbia a che vedere con le fredde celle dei sotterranei medioevali, ma sappia porre le basi della ricostruzione della persona e della sua dignità: il cammino è cominciato e cercheremo in tutti i modi che ciò non venga interrotto". "L’iniziativa, unica e prima nel suo genere in Italia, è importante per migliorare il dialogo tra culture diverse e per affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, sia libero che detenuto- spiega Desi Bruno. Questa prova al dialogo tra Costituzioni, che tiene conto dei tentativi recenti di alcuni Paesi arabi a darsi regole finalmente democratiche, aiuta a far sentire meno soli i detenuti stranieri e può costituire un argine al diffondersi di sentimenti e ideologie fondamentaliste, che possono attecchire proprio nei luoghi di privazione della libertà personale". La Garante coglie poi l’occasione per lanciare un appello: "Abbiamo bisogno che venga assicurato il diritto di culto all’interno delle carceri, e per farlo servono imam riconosciuti, che conoscano e riconoscano la nostra Costituzione e le nostre leggi- sostiene-, non possiamo permetterci di correre il rischio di affidare queste persone a guide spirituali improvvisate". Come racconta Emilio Porcaro, "si è trattato di un esperimento pilota, credo il primo di questo genere, in un ambito oggi di elevato interesse e stretta attualità: la ricerca di vie di confronto con persone di fede islamica all’interno di un carcere, dove i rischi di radicalizzazione su base religiosa sono elevatissimi. Solamente un’attività formativa ed educativa di taglio realmente interculturale - chiude il dirigente del Cpia - può svolgere un ruolo significativo nella rielaborazione di coscienze aperte alla diversità e alla convivenza pacifica". Genova: Uil-Pa; carcere di Marassi, agente aggredito e preso a morsi da un detenuto genova24.it, 18 novembre 2015 "Oggi pomeriggio, verso le 15 circa, presso la Casa Circondariale di Marassi si è verificata l’ennesima aggressione ai danni della Polizia Penitenziaria, un episodio che ha visto pagare fisicamente un agente. Un detenuto magrebino ha prima tentato di aggredire il poliziotto con una lametta, poi l’ha preso a morsi e solo grazie all’intervento del personale di Polizia Penitenziaria si è impedito un triste epilogo". A darne notizia è Fabio Pagani, segretario regionale Uil Penitenziari. "Ancora una volta è la dimostrazione delle condizioni di insofferenza che caratterizzano Marassi, non solo per la cronicità del sovraffollamento, ma soprattutto per le modalità di gestione dei detenuti". Il poliziotto ferito, che è stato in primis visitato dal medico del carcere, ora si trova al Pronto Soccorso del San Martino per ulteriori accertamenti. Pagani augura una pronta guarigione al ferito e conclude dicendo che "Fino a quando le circolari e le disposizioni ministeriali, ormai non più nuove, non vengono totalmente recepite dal territorio, si rischia che l’episodio di oggi venga considerato l’ennesimo di un perenne contatore di eventi critici". Sondrio: con il cappellano don Ferruccio Citterio la misericordia entra in carcere di Cirillo Ruffoni Settimanale della Diocesi di Como, 18 novembre 2015 L’impegno di don Ferruccio Citterio nella Casa circondariale del capoluogo, dove il vescovo Diego aprirà il Giubileo il 21 dicembre prossimo. I carcerati occupano un posto speciale nel cuore di papa Francesco. Egli, infatti, nella lettera a monsignor Rino Fisichella con la quale concede l’indulgenza in occasione del Giubileo, scrive: "Il mio pensiero va anche ai carcerati che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono. Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Persino le celle del carcere, quindi, assumono in questa circostanza una valenza di sacralità. Per questo, come illustra il cappellano del carcere di Sondrio don Ferruccio Citterio, il vescovo monsignor Diego Coletti lunedì 21 dicembre farà visita al carcere del capoluogo per l’apertura ufficiale dell’Anno della misericordia. "Sarà una semplice liturgia che non prevede la celebrazione della Messa - continua don Ferruccio, perché la maggior parte dei 28 carcerati è di religione musulmana" Ciò non toglie che il Giubileo abbia un particolare significato anche per loro, come scrive il Pontefice al punto 23 della Misericordiae vultus: "La misericordia possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio". Oltre alla celebrazione ufficiale di inizio, l’anno giubilare avrà poi altre iniziative che sono allo studio, ad esempio quella di chiedere ai sacerdoti del Vicariato di andare a turno nel carcere per le celebrazioni liturgiche. Tutte queste attività, che sono molto innovative per la realtà carceraria, sono rese possibili dal nuovo clima portato dalla direttrice Stefania Mussio, grazie alla sua presenza continua e soprattutto alla sua attività molto propositiva. L’anno giubilare dedicato alle carceri si concluderà poi nel mese di novembre del prossimo anno, a Roma, con una giornata speciale le cui modalità saranno definite in seguito. Nei loro periodici incontri, i cappellani della carceri lombarde hanno formulato altre proposte, alcune delle quali molto concrete, affinché l’anno giubilare non costituisca un evento limitato, ma abbia una continuità nel tempo. In alcune province, ad esempio, per un anno intero sarà dato uno stipendio a cinque detenuti. Naturalmente è proprio a questi aspetti concreti che va l’attenzione dei carcerati. Molti infatti chiedono al cappellano se ci saranno anche dei provvedimenti di amnistia o di indulto per accorciare i periodi di detenzione e non è facile spiegare loro che, nel nostro ordinamento statale, l’ambito religioso è separato da quello civile. Non è escluso, però, come si augura papa Francesco, che il Giubileo sia accompagnato anche da provvedimenti di amnistia, come era nel significato originario dell’evento presso il popolo ebraico. Nella sua costante attività con i detenuti, infine, il cappellano si trova spesso a dover venire loro incontro per problemi economici, che possono essere la ricarica del telefono o un piccolo contributo per chi esce e non ha nemmeno i mezzi per affrontare il viaggio e le prime spese. Come nelle precedenti feste natalizie, perciò, don Ferruccio Citterio fa appello al buon cuore della popolazione (che ha sempre risposto con generosità) con un’iniziativa chiamata, un po’ spiritosamente, Perdono divino. Consiste nella vendita di bottiglie di buon vino valtellinese, il cui ricavato andrà appunto a sostenere le opere a favore dei detenuti condotte dal cappellano. 2015: l’anno dei muri contro poveri e migranti di Mario Pierro Il Manifesto, 18 novembre 2015 Diritti globali. Pubblicato il XIII rapporto sul "nuovo disordine globale": l’oscena piramide della disuguaglianza in cifre e scenari. Materiali per la lotta contro l’austerità. Il 2015 è stato l’anno della guerra. Guerra contro gli indesiderabili e i fuggiaschi; guerra contro il popolo greco, oggi contro i civili inermi a Parigi; criminalizzazione e guerra contro i poveri del mondo e quelli delle città occidentali. Guerre per il cibo, per l’acqua, per la terra con il land grabbing; guerre neocolonialiste. Sono alcuni dei capitoli di quel mondo terribile definito da Papa Francesco "Terza guerra mondiale" che trova oggi un resoconto realistico nel 13° Rapporto sui diritti globali presentato ieri a Roma nella sede nazionale della Cgil in Corso Italia. Pubblicato da Ediesse e realizzato dall’Associazione Società in Formazione di Sergio Segio, con associazioni come Arci, Antigone, Legambiente o Gruppo Abele, il rapporto rappresenta un bilancio consolidato del mondo post-guerra fredda già descritto, in una precedente edizione, come "prima guerra mondiale della finanza". L’Europa è al centro del nuovo volume di oltre 400 pagine. Sul vecchio, cupo e insicuro continente, viene condotta un’analisi con dati, schede, scenari e interviste che chiariscono gli scenari geopolitici di una continua frammentazione dell’unione Europea e quelli geoeconomici imposti con il Trattato transatlantico "Ttip". Oggi l’Europa è uno "sgangherato esperimento di una moneta senza Stato e di una federazione di nazionalismi bancari senza politica" che trova un denominatore comune nell’opzione militare all’esterno e di polizia all’interno, mentre la politica si identifica con gli stati di emergenza dei "grandi eventi" Expo o Giubileo. Lo si è visto con la capitolazione imposta dalla Troika alla Grecia di Tsipras a luglio: con le parole di Luciano Gallino o di Yanis Varoufakis, si è trattato di un "colpo di stato senza eserciti". L’Europa ha dato poi il peggio di sé nelle liti sulle "quote" per ridistribuire i rifugiati siriani tra i paesi membri. L’iniziale slancio umanitario della Cancelliera Merkel, operazione politica intelligente per recuperare consenso dopo il pugno di ferro contro la Grecia a luglio, oggi la sta logorando. Nella chiamata alle armi di Hollande contro l’Isis, l’Europa si spinge sempre più a destra, tra stati di emergenza permanenti, modifiche costituzionali e "Patriot Act" alla francese. Gli attacchi di Parigi stanno unendo l’Europa dell’Est contro il suo piano sui rifugiati. Quel continente che Merkel pensava di governare con il suo imperialismo ragionieristico la sta travolgendo. Questa è "l’Europa del filo spinato e quella di Enavfor Med - la missione antiscafisti" si legge nel rapporto. Altro capitolo, denso e polemico, della ricerca è la "guerra ai poveri". "Ad agosto li hanno fatti sparire in Italia - ha detto Don Luigi Ciotti (Libera e Gruppo Abele) intervenuto alla presentazione romana - Ho chiesto al governo: ma scusate che fine hanno fatto 2 milioni di persone che risultavano a luglio? Ci hanno detto che hanno modificato i parametri per conteggiarli". L’aneddoto restituisce l’atteggiamento del governo Renzi: nascondere i danni della crisi - la "guerra sociale" dell’austerità, la "lotta di classe dei ricchi" - e parlare di "ripresa". Contro queste diseguaglianze si fanno solo operazioni di facciata con dosi omeopatiche di pietà. Il resto viene governato attraverso la "criminalizzazione della povertà", l’ideologia del "decoro" e il carcere. "La povertà, le guerre, le ingiustizie sono inaccettabili - reagisce Don Ciotti - C’è un obbligo morale a cambiare la storia, non a subirla schiacciati da rapporti globali tremendi". Nel rapporto ampio spazio è dedicato all’analisi delle politiche economiche e occupazionali europee, e italiane in particolare con la legge di stabilità 2016. Al centro della polemica c’è l’aumento del tetto del contante a 3 mila euro voluto ad ogni costo da Renzi. "Lo ha annunciato nel momento in cui la Francia l’ha riportato a mille - ha ricordato il responsabile Cgil delle politiche economiche Danilo Barbi - I due commi che aboliscono la tracciabilità rivelano che questa norma è un regalo alle mafie". "Questa politica difende i grandi interessi finanziari. Con la sua politica votata alle esportazioni, l’Europa oggi è una potenza che produce un disordine mondiale". "Bisogna recuperare l’obiettivo della piena e buona occupazione - ha detto il segretario della Cgil Susanna Camusso. Per farlo, però, è necessario abbandonare l’ideologia del laissez-faire e riprogettare l’intervento pubblico in economia". I rischi dei poteri speciali di Sergio Romano Corriere della Sera, 18 novembre 2015 La legislazione francese sullo stato d’urgenza conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali. Lo stato d’urgenza, proclamato dal presidente francese la sera del 13 novembre e confermato nel suo discorso al Congresso di fronte alle Camere riunite, non è il Patriot Act voluto da George W. Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. La legge americana conteneva misure repressive e inquisitive che l’apparato poliziesco degli Stati Uniti chiedeva da tempo; e fu l’occasione per la più brusca svolta illiberale del sistema di sicurezza americano dai primi anni della Guerra fredda. La legislazione francese sullo stato d’urgenza, invece, conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali. Sono previsti tra l’altro il coprifuoco, l’interdizione di soggiorno, le perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e il coinvolgimento della giustizia militare; ma è un provvedimento eccezionale destinato a durare, probabilmente, non più di tre mesi e già adottato per i disordini nelle banlieue parigine durante la presidenza di Jacques Chirac nel novembre del 2005. È probabile che François Hollande non potesse fare diversamente. Un presidente scolorito, frequentemente punito dai sondaggi e alla vigilia di importanti scadenze elettorali doveva rappresentare se stesso al Paese come un uomo forte e deciso, capace di fare fronte alla minaccia islamista. Mi chiedo tuttavia se sia altrettanto consapevole dei rischi che si nascondono nella proclamazione dello stato d’urgenza. L’Isis è certamente il più barbaro e crudele dei movimenti jihadisti degli ultimi decenni. Ma non è privo di una strategia. La sua principale esigenza, non meno importante delle armi e del denaro, è il reclutamento. Negli ultimi quindici mesi, secondo alcuni analisti, avrebbe perduto, insieme a una parte del territorio conquistato, non meno di 20.000 combattenti, fra cui parecchi ufficiali. Può continuare a reclutare soltanto se riesce a infiammare l’immaginazione dei suoi giovani "martiri" con lo spettacolo e la narrazione delle sue gesta più audaci e crudeli. Ha colpito Parigi perché nella capitale francese esiste il più grande serbatoio europeo di potenziali volontari. Ha agito spietatamente perché una tale sfida, lanciata al nemico nel suo territorio, suscita ammirazione in molti giovani che vanno alla ricerca di una causa in cui affogare la rabbia e le frustrazioni accumulate nei ghetti delle banlieue di Parigi. La proclamazione dello stato d’urgenza punta il dito inevitabilmente contro le comunità musulmane e i loro quartieri, fa di ogni maghrebino, in molte circostanze e in alcune ore della giornata, l’individuo sospetto che sarà legale fermare, interrogare, perquisire, trattenere. Non tutti hanno dimenticato la caccia all’uomo nelle strade di Parigi il 17 ottobre 1961 quando alcune migliaia di algerini erano scesi in piazza per protestare contro un decreto del prefetto di polizia che "sconsigliava" ai francesi musulmani di Algeria (come erano chiamati allora) di circolare nelle strade di Parigi fra le 20.30 e le 5.30. La violenza con cui furono trattati dalla polizia e da molti parigini rese la loro indipendenza, un anno dopo, ancora più inevitabile. La guerra, comunque, si vince soltanto in Siria e in Iraq. L’Isis non è uno Stato, secondo le regole e le convenzioni dell’Occidente, ma ha un territorio, caserme, banche, uffici pubblici, e soprattutto sudditi che attendono con ansia la loro liberazione e che diverranno verosimilmente, il giorno dopo, i migliori alleati dei loro liberatori. Serve una cultura di pace, oggi è minoritaria di Guido Viale Il Manifesto, 18 novembre 2015 Guerra. Coloro che invocano un altro conflitto europeo in Siria e in Libia resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di "quinte colonne" e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, "a pezzi". Questa guerra, o quel suo "pezzo" che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti. Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di Usa e Ue; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da Usa e Ue, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche. A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto. La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione. Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue "province" vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una "islamizzazione" feroce e fasulla. Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace. Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. "Si ammazzano tra di loro" viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità. È di fronte a quel disprezzo che si formano le "quinte colonne" di giovani, in gran parte nati, cresciuti e "convertiti" in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali). Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci. Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la "fortezza Europa", dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. È anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra. Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’Ue, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il "peso" dell’accoglienza. Eppure, fino alla crisi del 2008 l’Ue assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile? Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale. Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste. Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli "scafisti" di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai servizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine. Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria. Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio. Strategia del caos made in Usa di Carlo Freccero e Daniela Strumia Il Manifesto, 18 novembre 2015 Guerra e media. La strategia è disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Ma qualcosa ormai è sfuggita di mano. Usciamo da una total immersion mediatica nei fatti di Parigi e la prima impressione non è buona: un misto tra retorica, buoni sentimenti, privato delle vittime, ma anche un appello ai nostri istinti peggiori. Hollande chiama l’Europa ad una guerra di religione. L’immagine del mussulmano sanguinario svolge oggi nell’immaginario collettivo europeo lo stesso ruolo che ai tempi del fascismo era interpretato dall’Ebreo. Dall’antisemitismo all’antislamismo in nome dei valori della cultura occidentale: democrazia, libertà, giustizia. Ed intanto questi stessi valori sono già sacrificati sull’altare della sicurezza. Per la prima volta nella sua storia la Francia sospende per tre mesi libertà essenziali in nome di quello stato di eccezione che la guerra porta con sé. Siamo in guerra e ne siamo le vittime. Perché l’attacco di Parigi viene percepito da tutti come una provocazione dell’Islam nei nostri confronti, non come una risposta ai bombardamenti francesi in Siria? I media non fanno che rafforzare nell’opinione pubblica la sindrome della vittima innocente, perché ci hanno sistematicamente taciuto le premesse che ci hanno portato sin qui. Oppure se ne hanno parlato, sterilizzandone però le conseguenze reali. La prima guerra del Golfo è stata un puro videogioco, con quei bombardamenti scientifici e coreografici capaci di schivare rigorosamente i civili per colpire unicamente i collaboratori del barbaro dittatore. I droni di Obama, sono oggi capaci di uccidere selettivamente i terroristi identificandoli all’interno della popolazione civile. Ed infine chi potrebbe condannare il bombardamento giusto e sacrosanto di quegli incivili dell’Isis che sgozzano il nemico, riducono in schiavitù le donne ed applicano la Sharia sfortunatamente grazie ai finanziamenti dell’Occidente e dei suoi alleati? La Fallaci aveva previsto tutto, finanziamenti occidentali a parte. Comunque vogliamo valutare lo stato delle cose in atto, siamo di fronte ad una tragedia, un evento epocale come quell’11 settembre, che ha cambiato definitivamente la nostra percezione delle cose, traghettando il nostro immaginario dall’edonismo tardo reaganiano del consumismo, all’economia di guerra e di crisi di oggi. Una frattura profonda nella nostra percezione della realtà, il passaggio dall’ambiente amichevole dell’emporio alla paranoia dell’insicurezza permanente. Un evento così meritava rispetto, inchieste rigorose, ricerche delle cause. Invece, almeno in televisione ha prevalso un genere consolidato di successo: la mozione degli affetti, la cronaca come spettacolo atto a colpire la pancia e non la testa degli spettatori. La cosa peggiore non sono stati i talk show, ma i telegiornali. Un talk show fa il suo mestiere per raccogliere audience. E poco importa se al delitto di Cogne si sostituisce la strage di Parigi. Dai telegiornali ci aspettiamo sobrietà ed informazione. Ed abbiamo assistito invece alla generale "talkshowzizzazione" dei telegiornali, tutti tesi a drammatizzare emotivamente gli eventi. I truci terroristi contro la vittima italiana, volontaria di Emergency, con alle spalle una storia esemplare di impegno personale. Tutto vero, ma marginale rispetto alla domanda fondamentale: perché è successo tutto questo? Pensavamo che i giornali potessero fare di più. Leggiamo (ieri) sul manifesto un articolo di Balibar, che, per quelli della mia generazione rappresenta un punto di riferimento. Una testimonianza che non chiarisce. È un appello ai buoni sentimenti, non cedere all’odio, preservare la nostra libertà. Balibar sostiene che il male di oggi affonda le sue radici lontano, dagli imperi coloniali in poi. Non si coglie il punto inedito: la guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché affonda le sue radici nel caos. Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. È una ben precisa strategia bellica. Pensiamo ai "teocon" e alle loro pretese di instaurare un secolo americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq, è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam. Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos. Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella salvaguardia dei diritti umani. Tutto questo era moralmente accettabile perché giustificato da ideali e da principi. E perché avveniva altrove. Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. È normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi. Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: "l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano". Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga? Dopo la strage di Parigi la Germania chiude le porte ai migranti di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 18 novembre 2015 Il governo progetta nuovi centri "speciali". Il 15% di elettori della Linke vira verso posizioni xenofobe. Il 15% degli elettori della Linke nelle braccia di Pegida, l’Spd d’accordo sui limiti al movimento dei profughi, Angela Merkel in guerra contro "illegali e clandestini". Tre istantanee dopo il massacro di Parigi restituiscono la fotografia della Bundesrepublik in balìa degli estremisti. E segnalano che la Germania si unisce ma a destra e la Grande coalizione si ricompatta però solo grazie a check point, difesa delle frontiere europee e "supporto" degli Usa in Afghanistan. Reazione, in tutti i sensi: passa per i 5 nuovi centri "speciali" per migranti (di cui due subito a Bamberga e Manching) progettati dal governo e la chiusura della politica della porta aperta fin qui perseguita. Di fatto è la risposta agli attacchi Isis basata sul controllo di chi da loro fugge; anche la socialdemocrazia in formato ridotto spinta al limite di leggi federali e convenzioni internazionali. Diritti recintati in nome dell’emergenza "per garantire la sicurezza" a dimostrazione che dietro al "Wir schaffen das" (possiamo farcela) della cancelliera c’è un muro. Solido almeno quanto quello sulla rotta della sinistra. Qui deflagra il sondaggio Ard che registra il pezzo consistente di elettorato Linke in marcia verso le posizioni xenofobe dei patrioti europei contro l’"islamizzazione dell’occidente" (Pegida). Il 16 novembre a Dresda sono scesi in piazza ricordando ancora una volta a Berlino il loro temibile "malumore". Un quadro inquietante quanto lo slogan di "passare al fare" di Björn Hocke, leader in Turingia di Alternative für Deutschland, terza forza politica nei sondaggi post-Parigi secondo Bild. Un problema politico non secondario per la sinistra, al pari dell’autorevole dissidenza al "buonismo" della nuova direzione Linke da parte di Oskar Lafontaine: dalla Saar l’ex presidente chiede di "limitare l’afflusso di rifugiati per il ricongiungimento familiare" in netto contrasto con la linea seguita dai due leader del partito Katjia Kipping e Bernd Riexinger. Per la maggioranza al Bundestag invece la soluzione - politica e provvisoria - è il "patto" sui migranti tra Cdu, Spd e Csu chiuso all’inizio di novembre dopo un mese di litigi e rivendicato come vittoria da Merkel, dal leader Spd Gabriel e dal capo della Csu Seehofer. Nessuna vera e propria prigione come chiedevano i socialdemocratici, zero libertà di circolazione per volontà dei democristiani, niente ventre molle alla frontiera meridionale secondo il diktat dei bavaresi. Misure di pronto impiego in attesa della riforma della legge sull’asilo, necessarie per contrastare la "valanga" di profughi in arrivo. Dice proprio così il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble sempre poco allineato al corso ufficiale: "I rifugiati sono una valanga sull’orlo del precipizio o già arrivata a valle". Parole incendiarie per il governo e uscita a gamba tesa come quella del ministro dell’interno Thomas de Mazière sulla limitazione del ricongiungimento anche per le famiglie siriane. Posizioni personali "non concordate" tengono a precisare gli alleati di governo, comunque sintomatica del fuoco amico sul fronte conservatore. Per questo si accelera la costruzione dei "centri di accoglienza speciali" che dovrebbero velocizzare le accoglienze e soprattutto i respingimenti e si aggiorna la procedura anche sul fronte burocratico con il divieto di reingresso e di reitero delle domande per chi non è supportato da documenti di identità validi. Difficile da applicare per chi arriva dall’Afghanistan, terzo Paese di provenienza dei profughi in Germania dopo Siria e Albania e ben prima dell’Iraq. Da qui la collaborazione attiva con gli Usa per "stabilizzare il Paese" con il prolungamento della missione della Bundeswehr fino al 2016, previsto nell’accordo rosso-nero. Intanto gli uffici federali certificano il numero "aggiornato" dei rifugiati registrati (758.000) mentre rimbalza la stima di un milione e mezzo di persone. Dati pericolosi a sentire il ministro dell’interno preoccupato che la diffusione di numeri si trasformi in un "invito supplementare a venire in Germania". Insomma è "l’inizio di nuova era", conferma il ministro delle finanze bavarese Markus Söder, perché "Parigi ha cambiato davvero tutto". Lo scrittore Eraldo Affinati: "i giovani immigrati ci insegnano a capire la guerra" di Luca Fazio Il Manifesto, 18 novembre 2015 Parla lo scrittore Affinati, insegnante in una scuola di italiano per stranieri. "Ogni tanto porto i ragazzi milanesi da Mohamed e gli altri. A quell’età si intendono subito". Con quali parole raccontare ai ragazzi l’orrore di Parigi? Domanda sbagliata se rivolta allo scrittore Eraldo Affinati: i "suoi" ragazzi già sanno. Sono loro che raccontano. Affinati è anche insegnante, di storia e italiano in un istituto professionale di Roma, e fondatore della Penny Wirton, una scuola di italiano per stranieri. Ci lavorano numerosi insegnanti volontari, le lezioni non prevedono classi, si privilegia il contatto a tu per tu con duecento adolescenti stranieri che hanno perso tutto, tranne la vita. Sono minorenni che scappano dalle guerre, giovani profughi scomparsi nelle statistiche. Stanno imparando e hanno tanto da insegnare ai "nostri" ragazzi, è quando si incontrano che si tiene la lezione più vitale di tutte. Si capisce dal titolo di un suo libro da che parte sta il prof. Affinati, "Elogio del ripetente" (Mondadori, 2013). Con i più deboli. A scuola si parla di Parigi? "Sanno perfettamente di cosa parliamo, sono adolescenti che fuggono dal terrorismo, dalla povertà e dalle guerre, molti di loro avrebbero potuto essere reclutati dai talebani in Afghanistan. Sanno già, dicono che questa è la tragedia da cui sono scappati. Molti ragazzi hanno perso i genitori". Cosa accade quando incontrano gli studenti italiani? "Metterli in relazione con le nostre ragazze e i nostri ragazzi è l’obiettivo. Li porto spesso alla Penny Wirton e li trasformo in insegnanti di italiano, si conoscono e così cadono i pregiudizi. Marco e Giovanni capiscono Parigi quando ascoltano Mohamed. Gli adolescenti tendono a essere meno ideologici, fanno presto ad uscire dallo schema bene/male, amico/nemico. Un liceale romano e un egiziano se la raccontano subito, a 15 anni è più facile che a 30. Il confronto è utile per il migrante che si sente legittimato e per l’italiano che impara a conoscerlo direttamente". I ragazzi italiani come hanno reagito alla strage? "Il rischio che si faccia confusione tra profugo e terrorista c’è, potrebbe prevalere un atteggiamento di paura e rifiuto degli immigrati. Non tutti i ragazzini però sono uguali, dipende dai genitori, dal contesto sociale in cui vivono, nelle periferie possono prevalere certi pregiudizi, abitare a Ponte Galeria o in corso Francia non è la stessa cosa. Proprio per questo penso che sia fondamentale mettere in relazione le persone, i ragazzi devono incontrarsi per raccontare la loro storia, per conoscersi". Funziona sempre? "Sì. Basta poco. L’altro giorno Mohamed è venuto a scuola con una maglietta della Roma, abbiamo parlato di Salah e ci siamo detti che è lo stesso nome del terrorista ricercato in tutta Europa. La tragedia era presente nel discorso, ma ci siamo incontrati sulle cose che abbiamo in comune, in questo caso la passione per la squadra di calcio". Gli adolescenti sono molto auto centrati e forse hanno già gli anticorpi per difendersi da questo orrore. Oppure servono parole nuove per raccontare quello che è accaduto? "I problemi degli adolescenti sono eterni, ma oggi c’è un problema specifico che si chiama esperienza. Hanno molte informazioni e una quantità di stimoli impressionanti ma spesso sono privati dell’esperienza diretta delle cose, manca il contatto umano, dietro a uno schermo si sentono invulnerabili e alle prese con la realtà rivelano tutta la loro fragilità. E la non conoscenza diretta genera pregiudizi. La scuola potrebbe giocare un ruolo importantissimo, ma è ancora strutturata su uno schema ottocentesco, lezioni frontali, voti, promozione, bocciatura". Per tornare allo choc di Parigi e ragionare sui meccanismi inconsci di rimozione, non è che forse i ragazzini per gioco hanno già visto e rivisto troppe volte immagini di massacri virtuali? "Questi giochi violenti di simulazione rischiano di farti perdere il contatto con la realtà, una cosa è entrare in un bar e litigare, fare esperienza di un episodio violento, spaventarsi e poi ragionare su cosa è successo, un’altra è terminare un’esperienza con la scritta game over sullo schermo. Le relazioni umane vanno costruite, bisogna portare i ragazzi dentro i contesti, è uno spettacolo vedere come una persona si trasforma quando sente un’esperienza come vera. Accade anche per una lezione a scuola". Intende dire che è sempre meglio giocarsela con l’incontro? "Proprio così. L’altro giorno Aziz, un ragazzo afghano, mi ha chiesto qualcosa che non riuscivo a capire. Voleva pregare e non sapeva dove mettersi, mi ha chiesto il permesso e abbiamo cercato insieme un luogo dove stendere il tappetino. Si è messo dietro la porta di un’aula rimasta socchiusa e io sono rimasto lì a proteggere la sua concentrazione. Questo episodio mi ha comunicato una sensazione molto forte, questo ragazzo ha espresso un desiderio e siamo riusciti a intenderci senza che intorno a noi ci fosse alcuna morbosità. Dobbiamo avere più fiducia nel confronto fra esseri umani, sapendo che a volte può anche essere rischioso. Ma è un approccio ineludibile, credo anche per battere il terrorismo". Droghe: canapa legale in Ohio, no all’oligopolio di Marco Perduca Il Manifesto, 18 novembre 2015 Con il 64 per cento dei voti contrari e il 36 di favorevoli, il 3 novembre scorso gli elettori dello stato degli Usa dell’Ohio hanno votato contro una proposta referendaria che avrebbe legalizzato la marijuana medica e "ricreativa". Una batosta in controtendenza con quanto avvenuto negli anni scorsi in Colorado, Oregon, Alaska, Washington e nel District of Columbia ma che, a ben vedere, conferma la consapevolezza dell’opinione pubblica relativamente alla regolamentazione legale delle sostanze proibite. L’iniziativa in Ohio si era dimostrata controversa fin dall’inizio, il testo era scritto in modo farraginoso, a detta di alcuni inutilmente complicato, e andava a creare un meccanismo che avrebbe concentrato in pochi operatori la produzione della pianta proibita. Per quanto l’opinione pubblica dell’Ohio fosse, e comunque resti, generalmente a favore della legalizzazione, anche nelle città note per una vita notturna vivace, ha pensato bene di non limitare i possibili sviluppi futuri dell’impresa né di proibire la coltivazione personale. Contrariamente a quanto accaduto in altre iniziative statuali, dove la spinta al cambiamento è sempre venuta dal basso, l’iniziativa dell’Ohio, denominata "Numero 3", era la prima finanziata quasi interamente da "investitori" che, una volta vinto, avrebbero goduto di un vantaggio economico esclusivo derivante dal voto popolare. Il testo avrebbe infatti limitato la produzione commerciale a un numero fisso di siti riconducibili ai principali promotori dell’iniziativa. La confusione elettorale era inoltre accresciuta dalla presenza di un’altra proposta, promossa dall’assemblea generale dello stato, e denominata "Numero 2?, che voleva includere nella costituzione dello Stato la proibizione dei monopoli. Ethan Nadelmann, direttore della Drug Policy Alliance - da sempre a favore di riforme in materia di sostanze illecite negli Usa - sostiene che "la sconfitta in Ohio non rallenterà lo slancio per porre fine alla proibizione della marijuana. Sapevamo che gli elettori, compresi quelli che avrebbero voluto vedere la marijuana legalmente regolata e tassata, erano contrari alle parti della proposta relative all’oligopolio". Nadelmann ha inoltre chiarito sul suo blog che "nessuna delle iniziative statuali a favore della legalizzazione degli anni scorsi conteneva una tale disposizione. Stesso dicasi per quelle che verranno messe al voto nel 2016." Altri commentatori hanno ricordato come in Ohio per la legalizzazione del gioco d’azzardo ci siano voluti venti anni proprio per gli stessi motivi. In alcuni testi al voto l’anno prossimo si fa tesoro dei problemi incontrati a Denver nei primi mesi di transizione dalla proibizione alla legalizzazione. Nei dibattiti televisivi per le primarie dei Democratici e dei Repubblicani c’è sempre una domanda sulla marijuana, la maggioranza degli americani conferma un’opinione favorevole alla legalizzazione e là dove esiste la marijuana terapeutica non ci sono movimenti contro-riformatori. Questi cambiamenti, lungi dallo scardinare il proibizionismo alla radice, dimostrano come sia concretamente possibile passare, e anche in poco tempo, da un sistema in cui niente è lecito a un contesto in cui lo Stato di diritto viene utilizzato per governare un fenomeno che accompagna la vita di milioni di persone. In questi giorni in Ohio stanno preparando una nuova proposta per il 2016, pare che il testo abbia caratteristiche radicalmente opposte a quella rigettata l’altro giorno, a conferma che la legalizzazione non può che andar a braccetto con la promozione di tutte le libertà.