Giustizia: depenalizzazioni, stop a 60 reati e migliaia di processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2015 Alla fine la depenalizzazione è cosa fatta. Il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare, i testi dei due decreti legislativi che, sul filo di lana (la scadenza era fissata per martedì), danno corso alla delega contenuta nella legge n. 67/14. In base alle stime fatte dal ministero della Giustizia sono una sessantina le fattispecie che escono dall’area della rilevanza penale per essere sanzionate solo in via amministrativa. Quanto all’impatto sui fascicoli, è difficile quantificarlo adesso, però da via Arenula, solo per il reato di omesse ritenute al di sotto della soglia di 10.000 euro si parla di migliaia e migliaia di fascicoli che non verrebbero più trattati sul piano penale e di 30.000 procedimenti al Gip per alcuni reati di competenza del giudice di pace (ingiurie, soprattutto, e poi sottrazione di cose comuni e appropriazione di cose smarrite). Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al termine del Consiglio dei ministri, ha fatto riferimento non solo all’alleggerimento dei carichi di lavoro per gli uffici, in particolare per le Procure alle prese comunque con un obbligo, sia pure temperato di esercizio dell’azione penale, ma anche alla riduzione del numero delle prescrizioni e al maggiore gettito per lo Stato. Su quest’ultimo fronte, in realtà, il mix è tra maggiori entrate che arriveranno dalla previsione dell’applicazione di una sanzione pecuniaria civile da affiancare in alcuni casi al risarcimento del danno e risparmi che arriveranno da un minore numero di procedimenti soggetti al patrocinio a spese dello Stato. Ma sulle questioni aperte il Consiglio dei ministri ha deciso di non decidere, rinviando per il momento alla discussione parlamentare l’approfondimento. Alla fine della quale, però, prima di licenziare definitivamente i testi, una scelta andrà fatta e sciolto in un senso o nell’altro il nodo della rilevanza penale da lasciare o cancellare agli attuali reati di clandestinità, mancato rispetto dell’autorizzazione alla coltivazione di piante da cui derivare stupefacenti e disturbo del riposo delle persone. Con il primo decreto legislativo si provvede a depenalizzare i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria contenuti in leggi speciali e di alcuni previsti dal Codice penale (per esempio gli atti osceni, che verranno puniti con un massimo di 30mila euro invece dei tre anni di carcere, e quelli contrari alla pubblica decenza, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni, l’abuso della credulità popolare, le rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive). Prevista la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi, da 5.000 a 30.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno, da 10.000 a 50.000 per i delitti e le contravvenzioni puniti con un pena detentiva superiore ad un anno. Nel secondo decreto trova spazio l’abbinamento della misura pecuniaria civile al risarcimento del danno per una serie di reati. La persona offesa potrà così ricorrere al giudice civile per il risanamento del danno. Il magistrato, accordato l’indennizzo, per alcuni illeciti stabilirà anche una sanzione pecuniaria che sarà incassata dall’erario dello Stato. Il catalogo degli illeciti civili comprende l’ingiuria, il furto del bene da parte di chi ne è comproprietario e quindi in danno degli altri comproprietari, l’appropriazione di cose smarrite: per questo gruppo di illeciti la sanzione va da cento a ottomila euro. Raddoppia, invece, la sanzione civile prevista per gli illeciti relativi all’uso di scritture private falsificate o la distruzione di scritture private. Giustizia: i detenuti negli Istituti Penali Minorili sono venti volte di meno rispetto al 1940 di Marzia Paolucci Italia Oggi, 17 novembre 2015 Antigone ha presentato il terzo rapporto sugli Istituti Penali Minorili. Ci sono 37mila procedimenti penali aperti davanti a gip e gup a carico di minori ma oggi i detenuti in custodia cautelare o espiazione di pena in carcere sono 20 volte di meno rispetto al 1940: 8521 allora, 449 oggi segno che la detenzione è una scelta sempre più residuale per i minori in esecuzione penale. Numeri e casi del rapporto in collaborazione con l’Isfol presentato nei giorni scorsi a Roma da Antigone che è entrata con i suoi osservatori in 16 istituti penali minorili. "Strutture sotto lo standard di accettabilità e spazi da ripensare", secondo la calzante definizione di Mauro Palma del Comitato di coordinamento degli Stati generali dell’esecuzione penale intervenuto alla giornata di presentazione del rapporto a cui ha partecipato anche Francesco Cascini, nuovo capo dipartimento della giustizia minorile e di comunità. Edifici in parte riadattati, in qualche caso ancora inseriti in strutture penitenziarie per adulti come per l’Ipm di Treviso, spesso lontani e isolati dal nucleo sociale cittadino dove gli agenti penitenziari girano senza divisa e in cronica carenza di spazio. Pochi i corsi di formazione riconosciuti dalle regioni e senza un monte ore sufficiente con maggiore frequenza dei laboratori professionali, perlopiù artigianali. Luoghi dove anche l’istruzione è senza. Senza docenti: i volontari rimpiazzano quelli di ruolo e per loro non c’è una formazione specifica visto che il più lo imparano sul campo contando su due nude aule al massimo per istituto, senza sussidi didattici e tantomeno laboratori linguistici, tecnici o scientifici. Alla faccia dell’istruzione che così facendo, diventa un fattore premiale al punto tale che i corsi di scuola secondaria superiore sono attivi solo in sette dei sedici istituti penali minorili presenti sul territorio e solo in tre è possibile seguire corsi universitari. Emblematico ciò che accade negli Ipm di Roma e Nisida: se a un ragazzino arriva una sanzione disciplinare, con quella si interrompe anche la frequenza scolastica. Come se fosse un torneo di calcetto o una pizza in compagnia. Il rapporto di Antigone sugli istituti penali per minori - Ipm - si chiama Ragazzi fuori: "Un titolo scelto al nostro terzo anno di pubblicazione perché siamo convinti che l’istituto di pena debba essere una realtà sempre più residuale per i minori", ha esordito la curatrice del rapporto, Susanna Marietti, sostenitrice del cambiamento. Ed ecco una fotografia più dettagliata dell’utenza degli Ipm: gli stranieri rappresentano il 45% del totale dei detenuti mentre i reati commessi sono per lo più contro il patrimonio, 713, 159 contro la persona e in 80 casi per violazione della legge sugli stupefacenti. In calo anche gli ingressi ai centri di prima accoglienza dove il minore resta in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida: i 1.548 minori in ingresso nel 2014, oltre a segnare una diminuzione rispetto ai 2 mila del 2013, sono usciti per l’80% dei casi in seguito all’applicazione di una misura cautelare: permanenza in casa, comunità o custodia cautelare in carcere, questa, comminata più a stranieri che a italiani. E veniamo alla formazione curata con maggiore attenzione nel Sud Italia e al lavoro. Qui, a fronte dei casi virtuosi di Milano, Torino e Palermo con i rispettivi laboratori di panificazione, cioccolato e biscottificio e i loro punti vendita aperti anche all’esterno, i casi di lavoro interno sono centellinati, quasi inesistente il lavoro esterno. Nell’unico Ipm femminile del nostro paese, a Pontremoli, paesino della Lunigiana, ci sono solo due corsi di formazione professionale e nessun lavoro interno o esterno all’istituto, stessa cosa per Caltanissetta con un solo corso di formazione professionale e nessuna attività lavorativa prevista. Sorpresa anche per Bologna e Bari dove mancano del tutto i corsi di formazione professionale e quindi anche il lavoro. "Siamo nel mezzo di un percorso riformatore del settore", ha dichiarato Marietti, "servirebbe un codice penale minorile ma intanto ci attendiamo una riforma dell’ordinamento penitenziario oggetto del ddl passato alla Camera il 23 settembre scorso che regolamenti specificatamente gli Ipm". Giustizia: più controlli in carcere e celle aperte agli imam contro la radicalizzazione di Francesco Grignetti La Stampa, 17 novembre 2015 Contro il terrorismo islamista c’è un "fronte delle carceri" da tenere sotto controllo. I fondamentalisti, infatti, fanno spesso proseliti nelle celle, più che nelle moschee o sul web. In Spagna è accaduto che sia stata sgominata una cellula islamista che progettava attentati e che era nata dietro le sbarre. Immediatamente dopo gli attentati, anche in Francia è cresciuto il livello di controllo sulle carceri. E ne hanno parlato ieri al ministero della Giustizia, presente il ministro Andrea Orlando. La conclusione è che se serviranno più soldi per investigatori, tecnologie, e interpreti dall’arabo, i soldi arriveranno. Il direttore dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, dopo gli attentati di Parigi ha già innalzato il livello di allerta nelle nostre carceri. Quello che accade tra i detenuti, specie quelli di religione islamica, ovviamente viene controllato da tempo. Una nuova circolare, però, tre giorni fa è stata diramata a tutti i penitenziari: si chiede ai direttori, agli educatori e agli agenti della polizia penitenziaria la massima attenzione ai fenomeni di radicalizzazione tra i musulmani, specie quelli più sradicati dal tessuto d’origine e dalla famiglia. I soggetti più fragili, quelli più sensibili all’indottrinamento dei fondamentalisti. Secondo la circolare vanno scrutati i comportamenti di ogni detenuto islamico - ce ne sono in carcere circa 8 mila - per verificare che non chiuda i rapporti con gli altri detenuti, con le famiglie, con gli imam autorizzati e con il resto del mondo, in un percorso di progressivo isolamento ed autoesaltazione. Al contempo, proprio per evitare che la religione possa diventare uno schermo dietro cui si nascondono discorsi di propaganda per la Guerra Santa, e un argomento di vittimizzazione, nelle carceri italiane inizieranno ad entrare gli imam dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia). È fondamentale - annota Consolo - che la preghiera sia guidata da un vero imam e non da un detenuto qualsiasi. Attualmente sarebbero 52 le moschee di fortuna ospitate dalle carceri, dove in assenza di un vero imam si aprono pericolosi spazi di autogestione della preghiera. Il tema è molto studiato a livello europeo. Giusto un mese fa a Bruxelles si è tenuto un vertice al massimo livello tra criminologi, ministri della Giustizia, magistrati e direttori di penitenziari sui modi di prevenire la radicalizzazione dei detenuti. In Italia, per esempio, si fa in modo che nessuno dei circa 100 condannati per terrorismo internazionale entri in contatto con i detenuti comuni. "È documentata, però - racconta Donate Capece, direttore del sindacato autonomo Sappe - la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, che pure non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere. Si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati". Per impedire questi processi, il Dap chiede alla polizia penitenziaria di vigilare. Secondo il Sappe, invece, sarebbe necessario "sospendere il sistema della "vigilanza dinamica" che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici ed occasionali". Giustizia: Stato di diritto nell’Ue; infrazioni pendenti, il governo si dia obiettivo preciso di Riccardo Magi (Segretario dei Radicali italiani) Il Manifesto, 17 novembre 2015 L’Italia ha già subìto dalla Corte quattro condanne pecuniarie per gli aiuti a favore dell’occupazione; sulle 198 discariche abusive; sulla cattiva gestione dei rifiuti in Campania e sugli sgravi concessi a una serie di imprese di Venezia e Chioggia. Il nostro è il paese Ue che ha pagato le multe più salate: ben 152.585.000 euro, contro gli 88.520.850 della Francia e i 53.900.000 della Spagna. Grazie a un’iniziativa intrapresa dal Governo durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, oggi il Consiglio Affari Generali si riunirà a Lussemburgo per discutere della condizione dello stato di diritto nell’Ue: un fronte da presidiare con forza e convinzione ancora maggiori alla luce degli attentati di Parigi. L’affermazione di diritti e democrazia a partire dai nostri Paesi è infatti la prima fondamentale risposta alla minaccia del terrorismo, ma è anche la base per una reale integrazione politica, senza cui l’Unione europea non sarà mai all’altezza delle sfide globali che ne insidiano sicurezza e rilancio economico. Quello di oggi, dunque, è un appuntamento importante, se gli Stati membri lo affronteranno con la volontà politica all’altezza del tema. Per l’Italia può essere un’occasione per fare il punto sulla grave posizione del Paese in Europa e avviare un percorso, non più rinviabile, di rientro nella legalità e di riaffermazione del primato del diritto europeo su leggi e regolamenti nazionali. L’impegno annunciato dal sottosegretario Sandro Gozi, e in parte già avviato dal Governo su questo tema, è indubbiamente un segnale positivo. Tuttavia i "piani di rientro" sono efficaci solo se prevedono obiettivi espliciti in tempi certi sui quali misurare i risultati. Per questa ragione crediamo che il Governo debba assumere maggiori impegni affinché l’Italia abbandoni il sistematico e triste primato sia di procedure d’infrazione ancora pendenti, sia di condanne della Corte di Giustizia; un record che danneggia seriamente la nostra reputazione, se è vero che la credibilità nei confronti degli altri Stati si misura anche dall’osservanza del diritto europeo. Nel 2014, con 89 procedure di infrazione pendenti, l’Italia ha raggiunto nuovamente, insieme alla Grecia, la testa della classifica dei contenziosi aperti dalla Commissione europea; una leadership non invidiabile che il nostro Paese detiene sin dal 2002 e che si è vista sottrarre solo in due occasioni dalla Francia. Anche la graduatoria delle condanne della Corte di Giustizia Europea vede l’Italia in cima con 34 collezionate dal 2010 al 2014 e ben 72 dal 2005 al 2009 su 117 deferimenti. L’Italia, inoltre, ha già subìto dalla Corte quattro condanne pecuniarie per le cause sugli aiuti concessi per interventi a favore dell’occupazione; sulle 198 discariche abusive; sulla cattiva gestione dei rifiuti in Campania e sulle riduzioni e sgravi dagli oneri sociali concessi a una serie di imprese di Venezia e Chioggia. Dai dati della Commissione europea, forniti il 30 settembre 2015, emerge poi che il nostro è il paese Ue che ha pagato le multe più salate: ben 152.585.000 euro, contro gli 88.520.850 della Francia e i 53.900.000 della Spagna. Questi numeri, allarmanti, non testimoniano l’inosservanza di norme burocratiche o astratte, ma incarnano la violazione sistematica dei diritti fondamentali su questioni che - dall’ambiente, alla salute, ai servizi - incidono profondamente sulla qualità della vita (e sulle tasche) dei cittadini. In vista della riunione del Consiglio Affari Generali, come Radicali Italiani abbiamo chiesto al Governo di fissare alcuni obiettivi precisi e significativi come la chiusura, entro la fine del 2016, di almeno la metà delle procedure di infrazione ancora pendenti e l’osservanza delle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea che, ancora oggi, prevedono il pagamento di multe e di quelle che, se non rispettate, comporterebbero nuovi deferimenti e quindi il rischio di ulteriori e ingenti sanzioni economiche. Riteniamo inoltre necessario che il Governo renda pubblici tutti i documenti ufficiali relativi alle varie fasi di contenzioso con la Commissione europea, così da permettere ai cittadini di monitorare lo stato delle procedure e il lavoro per il rientro nella legalità. Solo attraverso impegni puntuali, chiari e concreti sarà possibile intraprendere un percorso reale ed efficace verso lo Stato di diritto. Giustizia: processo Mafia Capitale; oggi udienza a Rebibbia, in aula i detenuti La Presse, 17 novembre 2015 Si è aperto oggi alle 9, nell’aula bunker di Rebibbia, vicino al carcere romano, la seconda udienza del maxi processo su Mafia Capitale. Durante il dibattimento verranno affrontate le questioni legate alla costituzione di parte civile in merito alle 55 istanze presentate lo scorso 5 novembre. Dei 46 imputati nel processo saranno presenti in aula almeno una parte di quelli ai domiciliari e i detenuti nel carcere che avevano partecipato in videoconferenza all’apertura del processo: tra di loro l’ex amministratore delegato dell’azienda romana dei rifiuti (Ama) Franco Panzironi, e l’ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio Luca Gramazio. Saranno invece in video conferenza l’ex nar Massimo Carminati, ritenuto dai pm il principale artefice del mondo di mezzo, i suoi sodali Riccardo Brugia e il manager Fabrizio Franco Testa; e l’imprenditore delle cooperative romane Salvatore Buzzi. Il primo è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Parma. Mentre Brugia, Testa e Buzzi sono rispettivamente nei centri di detenzione di Terni, Secondigliano (Napoli) e Tolmezzo (Udine). La richiesta di trasferimento nel carcere di Rebibbia arrivata dai legali dei tre affinché potessero seguire dal vivo il procedimento è stata rigettata per motivi di sicurezza. All’interno del complesso, adiacente all’aula bunker, già teatro di processi storici come quelli su Ustica, P2, Brigate Rosse e via Poma è stata creata una struttura per i giornalisti: sono un centinaio, tra italiani e stranieri, quelli accreditati perseguire le udienze. Giustizia: la verità di Cutolo "pronto a collaborare, svelerò i segreti del sequestro Moro" di Paolo Berizzi La Repubblica, 17 novembre 2015 L’ex capo della Nuova Camorra Organizzata, 13 ergastoli, da 23 anni in regime di 41 bis, ha iniziato a parlare da due mesi. E le sue rivelazioni si annunciano esplosive. Nessun pentimento ("solo davanti a Dio" ). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre - 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis, Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l’ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto - a sorpresa - di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni - il verbale è stato secretato - le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all’inizio di settembre: l’Italia e l’Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell’unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L’ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: "Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato", dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. "Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare", lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a "don Raffaele" affinché potesse prendere in considerazione l’idea - sempre parole di Roberti - di fare "seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete". Perché, è il ragionamento, "la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...". Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel 1994 - morta sul nascere - l’ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive - di persona o attraverso il proprio legale - al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l’avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all’interrogatorio richiesto dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla - dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest’ultimo appena trasferito in Sardegna), il "Nero" Massimo Carminati e Marcello Dell’Utri - Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all’ufficio di presidenza. Si legge nell’elenco: "Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all’escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015". Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 21-09-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c’è un particolare che balza all’occhio: il verbale relativo all’interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l’unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l’ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di totale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito "usato e abbandonato"? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell’ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato - secondo una sentenza passata in giudicato - "alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo". Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un’intervista a Repubblica nel 2006: "Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio". No all’omicidio colposo se il medico sbaglia "seguendo" i colleghi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2015 Niente omicidio colposo per il medico a domicilio che sbaglia la diagnosi, appiattendosi sulle conclusioni dai colleghi che avevano osservato il paziente nel corso di un ricovero. La Corte di cassazione, con la sentenza 45527, amplia il raggio d’azione della legge Balduzzi, che depenalizza la colpa medica lieve, estendendola anche ad addebiti diversi dall’imprudenza, precisando che "pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia" può essere applicata anche quando in discussione sia la diligenza. Del principio beneficia qui un medico di continuità assistenziale (l’ex guardia medica), che, nel corso di una visita a casa non aveva inviato al pronto soccorso un paziente con dolore al torace che si irradiava al braccio. L’uomo era morto per una sindrome coronarica acuta la sera stessa. L’esito fatale non aveva impedito al Gip di assolvere il sanitario per l’assenza dell’elemento soggettivo della colpa, con la formula "perché il fatto non costituisce reato", applicando di fatto, la "legge Balduzzi" (189/2012) un mese prima della sua entrata in vigore. Secondo il giudice per l’udienza preliminare, l’imputato si era "fidato" delle valutazioni effettuate pochi giorni prima, nel corso di un ricovero, dal quale il paziente era uscito con la diagnosi di "sospetta colica addominale". Per i giudici di appello, che lo avevano condannato, il medico avrebbe dovuto sentirsi svincolato dai precedenti giudizi e procedere ad una autonoma valutazione dei sintomi, considerato anche che la vittima era stata dimessa contro la volontà dei sanitari e prima che fossero ultimati gli accertamenti. Ma la condanna non è abbastanza motivata. La Cassazione sottolinea che è illogico parlare di imperizia senza tenere conto che alla base della diagnosi c’è un’attività di anamnesi che comprende la storia clinica del paziente, precedenti ricoveri compresi. Correttamente dunque il giudice di primo grado aveva tenuto in debito conto il peso che le valutazioni dei colleghi avevano avuto nel depistare l’imputato. La Corte d’appello ha poi sbagliato a non considerare la possibilità di applicare, la depenalizzazione Balduzzi anche quando è in discussione la diligenza e non solo l’imperizia. Il medico del servizio di continuità assistenziale, come sottolineato dal giudice di primo grado, si era "conformato ai princìpi di scienza medica rapportati agli elementi e alle risorse disponibili". L’iniziativa di mandare il paziente al pronto soccorso, in presenza degli stessi sintomi, avrebbe costituito quindi "un eccesso di prudenza". Per la Cassazione la legge Balduzzi deve essere considerata uno "scudo" contro istanze punitive non giustificate da errori gravi rispetto al "sapere codificato". Ora i giudici di appello sono chiamati a rivedere il verdetto. Depenalizzati gli obblighi antiriciclaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2015 La depenalizzazione investe anche gli obblighi antiriciclaggio. Non li lascia privi di sanzione, ma la converte dall’ambito penale a quello ammnistrativo. Uno dei due schemi di decreto legislativo messi a punto dal ministero della Giustizia e approvati in via preliminare dal Consiglio dei ministri di venerdì, infatti, tocca anche alcune fattispecie previste dalla normativa antiriciclaggio, il decreto legislativo 231/2007. Il decreto prevede che i reati previsti dalle leggi speciali e sanzionati con sole pene pecuniarie rimangono puniti ma unicamente sul piano amministrativo sulla base di tre scaglioni a seconda dell’importo della multa o dell’ammenda originarie. La Giustizia ha espressamente indicato non tanto una lista di reati depenalizzati, quanto piuttosto aree di delitti che rimangono puniti sul piano penale, dall’ambiente alla sicurezza. L’antiriciclaggio risulta così compreso a pieno titolo nell’operazione, in particolare sono tre le condotte a essere sottratte al penalmente rilevante. Tutte comprese nell’articolo 55 del decreto 231/07. Vediamo quali. Innanzitutto, le condotte di chi (intermediari, professionisti, revisori) è tenuto alla verifica della clientela. Obbligo che, per i professionisti, per esempio scatta: • quando la prestazione professionale ha per oggetto mezzi di pagamento, beni o utilità di valore pari o superiore a 15mila euro; • quando eseguono prestazioni professionali occasionali che comportano la trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15mila euro; • tutte le volte che l’operazione è di valore indeterminato o non determinabile. La seconda condotta depenalizzata è quella di chi è obbligato alla registrazione e alla conservazione della documentazione che è servita per la verifica e l’identificazione della clientela. Obbligo che impone, almeno ai professionisti, l’istituzione di un archivio digitale dentro il quale collocare i dati su cliente e operazione, entro non più di 30 giorni dall’accettazione dell’incarico i dati. Ultima condotta traghettata dal penale all’amministrativo è quella sugli obblighi di trasmissione degli intermediari per rendere possibile le operazioni di registrazione. Queste tre condotte sono accomunate dal medesimo trattamento sanzionatorio: la legge antiriciclaggio prevede infatti oggi una pena pecuniaria, nella forma della multa, compresa tra un minimo di 2.600 e un massimo di 13mila euro. Lo schema di decreto legislativo, invece, le tiene sempre collegate, visto il medesimo range punitivo, e le incasella all’interno dello scaglione mediano di misura amministrativa, quello che prevede una sanzione da 5mila a 30mila euro per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a 20mila euro. Mettendo così a confronto le differenti risposte sanzionatorie, salta immediatamente all’occhio come, a fronte di una perdita di rilevanza penale che oggi colpisce i professionisti più nella reputazione che nel portafoglio, si arriva alla previsione di una misura che, sul piano economico, potrebbe essere facilmente superiore agli importi attuali, con un massimo possibile che può raggiungere più del doppio dell’importo adesso previsto. Nella depenalizzazione non possono invece essere inserite le altre fattispecie previste all’articolo 55 del decreto 231/07: per queste, infatti, insieme alla pena pecuniaria è contemplata anche una misura detentiva. Sequestro preventivo se la volumetria determina un incremento di opere e infrastrutture di Michele Viesti Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 23 ottobre 2015 n. 42717 Si configura incidenza sul carico urbanistico che giustifica il sequestro preventivo di un manufatto anche nel caso in cui lo stesso, pur essendo utilizzato in conformità alle destinazioni di zona, presenti una consistenza volumetrica tale da determinare un incremento delle esigenze di opere e infrastrutture correlate. Lo hanno ribadito i giudici della terza sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 42717 del 23 ottobre scorso, tornando a pronunciarsi in materia di aggravio del carico urbanistico e in linea con quanto precedentemente affermato sul tema. Il fatto - La vicenda trae origine dalla realizzazione, in zona a destinazione agricola e sottoposta a vincolo paesaggistico, di due manufatti, un capannone di cubatura eccedente di oltre mille metri cubi quella assentibile e un’altra opera di dimensioni minori, e dalla completa pavimentazione dell’area con conglomerato bitumoso. Viene disposto sequestro preventivo delle opere ed è successivamente respinta la richiesta di revoca del sequestro stesso. I proprietari propongono congiuntamente ricorso per cassazione, sostenendo in sostanza l’assenza, a immobile ormai ultimato, di ogni aggravio del carico urbanistico, in considerazione del fatto che l’opera avrebbe destinazione a deposito, coincidente con quella assentibile nella zona e insistendo pertanto per l’accoglimento del ricorso. Il ragionamento dei giudici - La Cassazione, nella disamina della questione, ricorda innanzitutto la propria precedente giurisprudenza in tema di aggravio del carico urbanistico. In materia si è affermato il principio per cui l’incidenza di un intervento edilizio sul carico urbanistico va considerata con riferimento all’aspetto strutturale e funzionale dell’opera ed è rilevabile anche in ipotesi di concreta alterazione dell’originaria consistenza di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o all’effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento delle esigenze urbanistiche (Cass., n. 36104/2011). Quanto alla diversa situazione di interventi eseguiti in zona sottoposta a vincoli, la Corte ha chiarito che, ai fini della legittimità del sequestro preventivo, rileva la sola esistenza di una struttura abusiva che integra il requisito dell’attualità del pericolo, indipendentemente dall’essere stata l’edificazione illecita ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio e all’equilibrio ambientale perdura in connessione all’utilizzazione della costruzione ultimata, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio (Cass., n. 42363/2013). I giudici di Piazza Cavour richiamano poi le conclusioni del giudice d’appello che ha evidenziato come l’immobile sequestrato sia, per destinazione, cubatura e collocazione in area sottoposta a vincolo, negativamente incidente sul carico urbanistico per le mutate esigenze di opere e infrastrutture determinate dal maggior flusso di persone e merci. E aggiungono che, pur considerando l’opera in questione pienamente compatibile con la destinazione di zona, la realizzazione di una volumetria che supera di oltre mille metri cubi quella urbanistica comporta un’incidenza negativa sul carico urbanistico: se anche il manufatto fosse utilizzato come deposito per attività agricole, infatti, ne sarebbe incrementata la capacità di stoccaggio dei prodotti e la superficie utilizzabile, con ripercussioni in termini di presenza umana, circolazione di mezzi di trasporto, esigenze di infrastrutture. La decisione - La Suprema corte, ritenendo sussistenti i presupposti per il mantenimento della misura del sequestro con riferimento alle violazioni delle norme urbanistiche e di tutela del paesaggio, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio. Nessun bordello in galera ma recupero dell’affettività di don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova Il Mattino di Padova, 17 novembre 2015 L’hanno bollata all’istante come una squallida questione di "bordelli a luci rosse nelle galere": è la solita manovra di abbassare il peso di una questione capitale a livello di pancia-pisello, così da ridicolizzare un tema umanamente delicato come quello dell’affettività in carcere. L’audizione che qualche giorno fa si è tenuta in Commissione Giustizia in parlamento, e che ha visto collegati via skype un gruppo di detenuti dal carcere di Padova, aveva come intento tutt’altra cosa dal legalizzare il sesso sfrenato dentro le galere: a tema c’era la questione dell’affettività nel periodo in cui una persona sconta la sua pena. Non tanto la gestione dell’apparato riproduttivo maschile, quanto la delicata richiesta di poter fare uso appieno di un altro organo: il cuore, per l’appunto. Chi ama confondere questi due piani - sotto il solito nome patronale della "certezza della pena" - offende prima di tutto la sua capacità intellettuale: la sessualità è un aspetto dell’affettività, l’affettività è molto più vasta. È lo stesso rapporto tra la caldaia di casa propria e l’intero stabile: ragionare sulla caldaia da cambiare è un conto, mettersi a disquisire sulla gestione dell’intero immobile è tutt’altra cosa. Lo percepisce chi ogni giorno, libero di non entrarci affatto, decide da sé di varcare la porta delle galere per scommettere nella risurrezione dei viventi, invece che attendere con le mani-in-mano la risurrezione dei morti. A costoro appare chiaro che la dimensione affettiva è rimasta l’ultima grammatica capace di parlare a delle storie deragliate e inariditesi nel lungo tempo delle detenzione. Perché battersi per gli affetti in carcere significa battersi per cose così piccole per cambiare le quali non serve un referendum, basterebbe un po’ di logica: la possibilità di ricevere un bacio dalla propria donna, di poter telefonare a casa quando il cuore ne avverte la necessità, di fare in modo che i figli possano crescere sapendo di poter contare sulla presenza di un padre, che i colloqui familiari siano svolti in una maniera degna di un paese civile, che una madre abbia tutto il diritto di appartarsi con suo figlio e di parlargli con i gesti folli dell’amore bambino. Piccole cose che, però, possono cambiare totalmente la vita delle persone condannate ad una pena. Non per nulla la paternità di questa battaglia così ostica nasce dal cuore di una donna, Ornella Favero, quasi a dire che per capire certi meccanismi occorra nascere donna: solo chi cammina quotidianamente nel fango assieme ad un popolo potrà un giorno liberare quel popolo dalla schiavitù. Lei il carcere lo conosce molto bene, sa di cosa parla quando parla, legge lo strazio di figli-maschi ai quali è tolto il diritto alla tenerezza. Anche a lei devo la conversione del mio sguardo: l’aver imparato ad accorgermi che dietro le sembianze di un carcerato c’è una famiglia carcerata, la sua: il padre può essere responsabile di un gesto delittuoso, ma ad un bambino piccolo non è umano accollare il peso di una colpa non cercata. Perché, dunque, battersi per il diritto all’affettività di questa gente? Per due piccoli motivi. Il primo: solo l’affetto può mettere una persona nelle condizioni migliori che le permettano di decidere con serenità del proprio futuro. La seconda, per chi ama vendicarsi sui cattivi: amare l’uomo quando meno se lo merita - e riservargli un trattamento d’uomo quando lui per primo non s’è comportato da uomo - è quella vendetta amorosa che, sola, è capace di far crollare un intero sistema umana di cattiveria. Due motivi così piccoli che, da soli, potrebbero un giorno far uscire dal carcere una persona diversa da quella che era entrata: più educata, meno rabbiosa, più affettuosa verso la società. Continuare a confondere il diritto all’affettività con l’uso della genitalità più che mancanza di rispetto è una forma di cretineria intellettuale. Per uomini-slogan. La gratitudine dei carcerati per un direttore innovatore di Mario Pace (detenuto al Due Palazzi) Il Mattino di Padova, 17 novembre 2015 Il saluto del guerriero delle istituzioni. Un uomo, che ha dato speranza al diritto, ha "lasciato" (per motivi che non ci è concesso conoscere) anticipatamente il suo incarico ricoperto per tanti anni con competenza, rispettabilità e correttezza. Il dottor Salvatore Pirruccio, direttore della Casa di reclusione del Due Palazzi, ha salutato la "sua creatura" cresciuta a colpi di rinnovamento, applicazione della Carta Costituzionale e possibilità di reinserimento per coloro che dagli errori hanno tratto insegnamento attraverso lo scontare la pena in maniera costruttiva e non oziosa. Ha diretto, con la professionalità che l’ha sempre distinto, un luogo che per tanti dovrebbe essere solo un lazzaretto dove tenere gli appestati lasciandoli a vegetare, riportando la dignità laddove i reati e le condanne l’avevano bandita ridando "agli uomini sbagliati", la possibilità di potersi riprendere la propria vita ed essere così nuovamente parte della società, di quella società che hanno offeso e verso la quale sono debitori. È proprio grazie a "pezzi" di Istituzioni come il dottor Pirruccio che il carcere ha smesso di essere solo un luogo di pena, di sofferenza e di spreco di vite. Egli ha trasformato il tempo "morto" dei detenuti in attività, creando convenzioni con le scuole, licei e università; con cooperative che danno lavoro a più di un centinaio di detenuti; corsi di lingue straniere, di sport e di formazione al lavoro. Tutto questo, con il supporto dei tanti collaboratori che hanno creduto in lui e nei suoi progetti, aiutandolo a trasformarli in fatti. Potrebbe sembrare assurdo, ma è proprio così! I detenuti del Due Palazzi sono amareggiati per questa perdita e, pur dando il benvenuto al suo successore, manifestano il loro disappunto (per quello che, purtroppo, può valere!) e, con civiltà e rispetto dei ruoli, si permettono di apporre delle firme su un documento che attesta la stima professionale che il dottor Pirruccio si è "guadagnato!", chiedendone un possibile reincarico. Mentre gli altri parlavano, il dottor Pirruccio agiva, e se oggi il Due Palazzi è una effettiva realtà di modernità e prototipo da copiare, ebbene, dobbiamo dargliene atto: il merito è suo. Porre dei limiti (siano essi di età o di altra natura) a dei rinnovatori, significa mettere il bavaglio al progresso e l’uomo vive per migliorarsi e migliorare il suo habitat. Anche la neve quando cade fa rumore come tutto ciò che si muove, ma in compenso ci dona uno spettacolo fantastico adornando i paesaggi con il suo bianco candore. Ovunque lei sia stato destinato, le auguriamo di portare avanti le sue idee, dottor Pirruccio, come così diamo il benvenuto al nuovo Direttore augurandogli un buon lavoro. Non confondere chi prega con chi spara di Angelino Alfano (Ministro dell’Interno) Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2015 L’elaborazione di una ferma capacità di risposta nei confronti della dottrina integralista e di chi predica l’odio utilizzando la fede come scudo per legittimare le proprie efferatezze non può prescindere dal rafforzamento del dialogo e del confronto con quella parte del mondo musulmano - largamente maggioritaria - che alla spietata legge della violenza contrappone il rispetto delle regole della convivenza tra culture e religioni. Ne sono convintissimo. Per questo ho più volte interagito con i rappresentanti delle principali comunità e associazioni islamiche presenti in Italia, con i quali è stato attivato un tavolo di consultazione per approfondire i diversi aspetti legati alle problematiche della radicalizzazione, alla garanzia della sicurezza dei cittadini, alla tutela delle libertà civili, sociali e religiose nel rispetto della Costituzione e delle leggi italiane. Li ho incontrati al ministero dell’Interno il 23 febbraio 2015. Li guardavo in volto e cercavo nei loro occhi, prima e più che nelle loro dichiarazioni, il consenso alle mie parole: voi pregate in uno Stato democratico che riconosce già nel suo ordinamento costituzionale il vostro diritto, ma a voi chiediamo di eliminare ogni zona grigia, ogni margine di dubbio, di schierarvi dalla parte delle nostre Istituzioni, soprattutto dalla parte di quelle divise che rischiano la vita per proteggere gli italiani - e non solo gli italiani - dalla follia di chi dice di credere nel vostro stesso Dio e di uccidere in suo nome. Mi risposero che no, il loro Dio è un Dio di pace, di amore e di concordia. La loro religione è espressione di quel Dio. Mi sembrarono sinceri, ed era mio dovere fidarmi. Ma era, e resta mio dovere, chiedere ai nostri uomini di monitorare e vigilare sui luoghi di culto, dove la radicalizzazione è sempre possibile. Perché non si può dire che le moschee italiane abbiano ogni volta applicato criteri di trasparenza, per esempio sui contenuti dei sermoni e sulla lingua in cui vengono pronunciati. È bene ricordare che anche nel nostro Paese esistono luoghi di culto riconosciuti, come la moschea di Roma, guidata dal segretario generale Abdellah Redouane, e altri meno strutturati a cui sarebbe più appropriato dare il nome di centri islamici. Sottili differenze per qualcuno, ma non per il milione e mezzo di fedeli musulmani che vivono in Italia. Il nostro obiettivo è quello di non confondere chi prega con chi spara, vogliamo separare chi si nutre di rigetto dei nostri valori da chi promuove integrazione e rispetto. Chi prega deve essere tutelato, a chi spara non va concessa tregua. Chi prega ha il diritto di esercitare il suo credo, di dire che sta dalla parte della legge italiana, di vivere nelle nostre città, dove coesistono chiese e moschee, sinagoghe e palazzi delle Istituzioni. Ma chi prega deve assumersi delle responsabilità. È nel suo interesse togliere fiato agli "impostori della fede", è suo compito - se prega - respingere con forza e determinazione ogni sfumatura legata all’estremismo, è suo dovere ricercare la nostra collaborazione per costruire, insieme, solidi argini contro le infiltrazioni, denunciando i fattori di rischio e le dinamiche che potrebbero ostacolare le ragioni della convivenza, della tolleranza, del diritto, ossia quei princìpi che garantiscono un’armonica inclusione nel nostro tessuto sociale. E che rendono più ricca la nostra democrazia. Impegni riferibili non soltanto ai musulmani di casa nostra. Non si può essere tiepidi. Serve una reazione netta della "maggioranza silenziosa" islamica per vincere "questa battaglia della nostra generazione", ha spiegato il premier inglese David Cameron in un discorso tenuto a Birmingham il 20 luglio 2015, nel corso del quale ha posto l’accento sulla necessità di difendere le giovani speranze per il futuro - i nostri figli, occidentali e musulmani - dalla fascinazione velenosa del fondamentalismo e da chi professa una visione distorta del mondo. Quanto a noi, non dobbiamo regalare facili alleati a chi vuole seminare odio e violenza, non possiamo cedere alla tentazione di vivere la "diversità" come una minaccia, associandola a una generica volontà di nuocere alla nostra sicurezza. Solo lavorando insieme a chi prega sarà più facile debellare il germe dell’intolleranza e disarmare chi spara. Sardegna : decessi in carcere, il Dipartimento amministrazione penitenziaria replica a Pili Ansa, 17 novembre 2015 I tre decessi avvenuti negli ultimi 15 giorni nelle carceri sarde "sono stati immediatamente comunicati dalle direzioni interessate alla Sala Situazioni del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, che ha avviato, come da protocollo, tutte le procedure per accertarne le cause". È quanto afferma il Dap in una nota rispondendo alle affermazioni del deputato di Unidos, Mauro Pili, che ieri aveva segnalato i tre casi parlando "di un’escalation senza precedenti che il Dap sta cercando in tutti i modi di coprire". "È destituita di ogni fondamento l’ipotesi che il Dap abbia potuto minimizzare, trascurare o, addirittura, omettere le informative e le necessarie procedure per accertare le cause dei decessi", si legge nella nota che dà conto dell’iter relativo alle singole vicende. "Le informative sui decessi dei detenuti Maycol Ronald Giudice e Simone Olla, avvenuti rispettivamente a Cagliari il 15 ottobre e il 31 ottobre 2015, corredate da relativa documentazione - spiega il Dap - sono state comunicate dalla direzione dell’istituto di Cagliari alle autorità competenti, ovvero all’Ufficio per l’attività ispettiva del Dap, alla Procura della Repubblica, al Magistrato di Sorveglianza, alla Direzione Generale dei detenuti e del trattamento e al Provveditorato regionale di Cagliari. Nel caso del decesso del detenuto Maycol Ronald Giudice, la comunicazione è stata inoltrata anche al sindaco di Cagliari. Per entrambi i decessi, la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento ha, nell’immediatezza, incaricato il Provveditorato regionale di Cagliari di espletare attività ispettiva per accertare le cause" "Per il decesso del detenuto Najib Barakas, avvenuto il 25 ottobre nella colonia di Mamone Lodè, la direzione dell’istituto ha inviato la comunicazione alla Procura della Repubblica di Nuoro, alla Direzione Generale Detenuti e Trattamento, all’Ufficio per l’Attività Ispettiva e del Controllo, all’Ufficio di Sorveglianza di Nuoro, al Provveditorato Regionale di Cagliari, all’Ufficio Esecuzioni Penali di Genova, al Sindaco di Onanì, al Comando Stazione Carabinieri di Bitti, al Procuratore della Repubblica di Roma e all’Ambasciata algerina in Roma. Anche per questo evento il Provveditorato regionale di Cagliari è stato incaricato di attività ispettiva. Il Dipartimento è in attesa di ricevere gli esiti delle tre relazioni ispettive". Campania: chiusura in ritardo per l’Opg di Aversa, il ministero diffida Asl e Regione di Nicola Rosselli Il Mattino, 17 novembre 2015 Anche la Campania è in ritardo sull’applicazione della legge che cancella gli Opg. Per questo la Regione è tra i destinatari della lettera di diffida spedita dal ministero della Salute nei confronti degli enti territoriali inadempienti. La vicenda è seguita personalmente dal sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. A quanto risulta al ministero, nei cinque manicomi giudiziari "superstiti" (Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto) dopo sette mesi dall’entrata in vigore della legge, risultano ancora internate 234 persone. Altre 231 persone (di cui 42 donne) sono internate nelle Rems di Castiglione delle Stiviere. Nelle altre Rems attivate gli internati detenuti sono 208 (di cui 25 donne). Complessivamente, la popolazione internata in misura di sicurezza detentiva è di 673 persone (nel 2011 superavano le 1.400 persone). Oltre alla Campania la diffida è partita anche per Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Calabria e Puglia. Da Aversa arrivano parole di distensione. "L’ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito chiuderà definitivamente i battenti non prima del prossimo autunno" aveva affermato al primo aprile scorso la direttrice della struttura aversana, il più antico manicomio criminale d’Italia, la dottoressa Elisabetta Palmieri. Almeno per quanto riguarda i pazienti campani per i quali si preannunzia il trasferimento definitivo verso le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di destinazione entro la metà del prossimo mese di dicembre. Rimangono, però, i pazienti laziali che non hanno ancora un posto presso le Rems della loro regione. Insomma, ad oltre sette mesi dalla dismissione, si dovrà continuare nelle attività di dismissione che non potranno non tenere conto di quanto fatto o da fare da parte delle Asl di origine degli attuali ricoverati. Ricoverati che nell’ultima settimana di marzo passarono da 103 a 96 a seguito di alcune dimissioni/scarcerazioni di detenuti/pazienti da parte dell’autorità giudiziaria. Di questi 96 pazienti, stando ai dati forniti dalla dirigenza del Saporito, 35 erano di competenza della Regione Campania, mentre i rimanenti 61 provenivano da Lazio, Abruzzo e Molise. Da allora ad oggi la situazione è sensibilmente migliorata. Queste ultime due regioni hanno incamerato i propri pazienti. Al momento vi sono in totale 42 ospiti di cui 20 laziali e 22 campani. Laziali che sono stati assegnati alla Rems di Palombara Sabina, che, però, non ha posto per loro. Insomma, come sottolineato dagli addetti ai lavori, si è dato il via alle dismissioni senza predisporre le strutture alternative, facendo un discorso praticamente al contrario di quello che doveva essere secondo logica. Per quanto riguarda i campani, ad essere interessate sono due province: Caserta e Avellino. In Terra di Lavoro vi sono state due Rems provvisorie a partire dal pruno aprile, a Statigliano, nel comune di Roccaromana, con 20 posti e a Mondragone con 8. Ad esse si deve aggiungere una Rems provvisoria in provincia di Avellino a Bisaccia che, però, ha curato solo i nuovi ingressi a far data proprio dal primo aprile. A metà dicembre si avrà una Rems definitiva a Calvi Risorta con 20 posti letto (era prevista per agosto) e a San Nicola Baronia, in provincia di Avellino ad inizio dicembre (era prevista per maggio scorso). Altri 12 posti, come preannunziato dal commissario dell’Asl di Caserta Gaetano Danzi, dovrebbero essere reperiti in tempi brevi a Vairano Patenora, dove da qualche giorno si sono intensificate le attività per l’ultimazione nel rispetto della normativa. Sicilia: agricoltura quale strumento per il riscatto ed il reinserimento sociale dei detenuti Italpress, 17 novembre 2015 Firmato protocollo d’intesa tra Provveditorato Dap e Confagricoltura. È questa l’idea alla base del protocollo d’intesa, firmato ieri a Palermo, tra il Dipartimento Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e la Confagricoltura Sicilia. "L’amministrazione penitenziaria - ha evidenziato il provveditore regionale del Dap, Maurizio Veneziano - ha tra le sue finalità quella del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. La partecipazione a corsi di formazione per la gestione delle colonie agricole e dei tenimenti di pertinenza degli istituti penitenziari ha dimostrato, nel corso di precedenti esperienze, la validità di questi percorsi didattici e formativi. Con questa firma - ha concluso il provveditore Veneziano - intendiamo dotare le nostre strutture provinciali di un nuovo strumento per la valorizzazione, anche economica, delle superfici agricole gestite direttamente dagli istituti penitenziari". Il protocollo, tra le varie iniziative perseguibili, prevede anche la possibilità di riservare parte delle produzioni ottenute agli stessi detenuti ed al personale impegnato nella sorveglianza. "Siamo molto soddisfatti - ha commentato il presidente della Confagricoltura siciliana, Ettore Pottino - perché con questo accordo emerge con chiarezza la funzione sociale che il settore primario è in grado di svolgere. Peccato che sotto l’aspetto economico l’agricoltura continua ad essere mortificata come sta avvenendo con il prezzo del latte o l’olio extra vergine d’oliva. La nostra visione di agricoltura - ha precisato il presidente degli agricoltori siciliani - rispettosa dell’ambiente, moderna, innovativa, sana e pulita, la porteremo all’interno dei progetti esecutivi che, siamo certi, aiuteranno la popolazione carceraria ad apprezzare e coltivare principi fondamentali per la società quali rispetto della natura, biodiversità, libertà d’impresa e rapporti interprofessionali". Ora la palla passa alle rispettive strutture operanti sull’intero territorio siciliano per mettere in pratica quanto definito dalla convenzione regionale. Il protocollo prevede la costituzione di una cabina di regia con il compito di coordinare, programmare, verificare, sostenere e supervisionare le attività progettuali da realizzare. In Sicilia operano ventitré istituti penitenziari alcuni dotati di tenimenti agricoli ed altri di appositi spazi da utilizzare per piccole coltivazioni. Non mancano poi, sempre all’interno degli stessi istituti di pena, iniziative già avviate nel campo del florovivaismo e per la coltivazione delle piante aromatiche. Genova: allarme Isis; blitz nelle celle, la Francia segnala tre complici del commando di Matteo Indice e Tommaso Fregatti Secolo XIX, 17 novembre 2015 I controlli sono scattati negli ultimi due giorni. Quando gli agenti della polizia penitenziaria si sono presentati in una decina di celle del carcere di Marassi. Una prima, concreta, risposta dopo l’attacco dell’Isis alla Francia. Obiettivo: cercare tracce di contatti e appartenenze alla matrice fondamentalista dell’Islam, fare uno screening dei soggetti potenzialmente "radicalizzati". Gli accertamenti hanno riguardato detenuti stranieri di religione islamica, alcuni di questi anche convertiti di recente, che potrebbero essere deragliati verso posizioni estreme. I poliziotti, all’interno delle celle hanno cercato scritti, documenti, elementi che testimoniassero questa vicinanza, sebbene allo stato non sia emerso nulla di eclatante. L’allarme del Viminale. Il blitz all’interno della casa circondariale di via del Piano è stato deciso dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo l’allarme lanciato dal Viminale. Il ministero dell’Interno, alla luce dei fatti di Parigi, ha segnalato proprio le carceri come "possibile luogo di aggregazione in grado di favorire il radicamento dell’estremismo islamico". Secondo la nostra intelligence (da giorni sono state avviate alcune intercettazioni preventive su islamici radicali anche in Liguria) c’è la necessità a Genova di verificare e documentare i rapporti che avvengono dentro le celle. E poi gli ingressi, i legami creati durante la permanenza all’interno del penitenziario, il percorso di chi ha lasciato il carcere dopo aver scontato la pena. D’altronde proprio in carcere si era avvicinato alle posizioni più estremiste Sahbri Chriaa, il franco-tunisino di 37 anni che venne espulso nel febbraio scorso da Genova, dopo un arresto per reati comuni, perché segnalato dalle autorità francesi come un potenziale fondamentalista. La città come crocevia. A Genova, dopo i fatti di Parigi, l’allerta è massima. Il capoluogo ligure è tenuto in considerazione dai nostri 007 per la vicinanza al confine transalpino. Ed esiste su questo aspetto una collaborazione molto stretta tra la gendarmerie d’Oltralpe e la polizia genovese. Ieri mattina proprio i francesi hanno diramato, oltre a quella relativa alla fuga di Abdeslam Salah, uno dei terroristi direttamente coinvolto nella mattanza di venerdì sera, una seconda allerta. All’interno di questo documento, arrivato sulla scrivania dei dirigenti di polizia e carabinieri, ci sono i nomi, cognomi e fotografie di altri tre presunti fiancheggiatori, sospettati di aver aiutato i macellai francesi a preparare il raid dei giorni scorsi. Caltanissetta: il carcere di Gela, inaugurato nel 2011, ora è a rischio di chiusura Ansa, 17 novembre 2015 "Tra le carceri che l’amministrazione penitenziaria intende chiudere nel territorio nazionale c’è anche la casa circondariale di Gela". Lo afferma in una sua nota Rosario Di Prima, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria, Osapp, che ha chiesto un incontro urgente con il procuratore di Gela Lucia Lotti. "La notizia cade come un fulmine a ciel sereno - scrive Di Prima - non per le scelte politiche che potrebbe fare il governo attraverso l’amministrazione penitenziaria ma per la individuazione di una struttura penitenziaria fortemente voluta dal territorio, proprio per l’importanza e il significato che si è dato in un’area che necessitava maggiormente la presenza dello Stato oltre che, per il presidio di legalità costituito a suo tempo". La casa circondariale di Gela, inaugurata il 28 novembre 2011, dopo 50 anni di attesa e dopo una sanguinosa guerra di mafia, è dotata di 48 celle per un totale di 96 posti ed ospita detenuti che devono scontare pene brevi e di basso livello di pericolosità. Alla luce della annunciata chiusura, l’Osapp si dice "fortemente preoccupata, nella convinzione che tale operazione risulterebbe oltremodo strano oltre che enormemente penalizzante per il territorio" e perché non terrebbe conto delle giuste esigenze del personale che vi opera". Secondo Di Prima verrebbe meno "uno dei presidi di legalità necessari, l’indotto creato e lo snellimento delle attività proprie della polizia penitenziaria a supporto della magistratura". Per l’Osapp, "una simile decisione ci farebbe ritornare indietro di vent’anni". Sala Consilina (Sa): un appello del Codacons per scongiurare la chiusura del carcere Giornale del Cilento, 17 novembre 2015 "Dopo la notizia della soppressione della Casa Circondariale di Sala Consilina, facciamo un appello alla Chiesa e alla buona politica (non quella che in questi giorni ha spudoratamente continuato a fare il solito gioco delle tre carte)". È quanto chiesto, in forma di interrogazione al ministro della Giustizia, dal responsabile Codacons del Vallo di Diano, Roberto De Luca. "Facciamo un’unica raccomandazione circa l’utilizzo del presente documento - spiegano - i parlamentari italiani, che ne volessero liberamente adottare il testo, non siano membri delle forze politiche che sostengono l’attuale governo. Perché da oggi questo territorio dovrà prendere piena consapevolezza di quali forze politiche sostengono il futuro sostenibile di questa vallata e di quali vogliono che essa sia solo terra di conquista da parte di multinazionali e di politici senza scrupolo e senza pudore". Poi l’appello alla Chiesa: "Si spera che anche la Chiesa voglia farsi carico del problema, sensibilizzando i propri massimi livelli. Infatti, quei quaranta fratelli detenuti in via Gioberti saranno presto trasferiti in altri istituti carcerari italiani, dove - notoriamente - le condizioni di vita non sono quelle descritte (e documentabili) in questo comunicato. Perché in questo lembo di terra, dove molte cose ci sarebbero da cambiare, c’era una realtà che doveva essere difesa con tenacia; quella stessa tenacia che i nostri amministratori hanno mostrato in occasione del trasferimento della gestione idrica a una S.p.A. di Vallo della Lucania, in occasione della costruzione di due zone industriali in altrettante aree acquitrinose (ma di pregio ambientale), oppure in occasione della recente eliminazione di alberi in alcuni centri cittadini". La lettera al ministro della giustizia Si premette che la Casa Circondariale di Sala Consilina, un ex convento mantenuto in buono stato, ha ospitato detenuti in celle di grandi dimensioni che avevano dai 4 ai 6 letti a castello. Il bagno, con normale porta divisoria, era presente in tutte le celle. In passato, nella stessa Casa Circondariale, sono state messe in cantiere attività volte alla partecipazione dei detenuti alla vita sociale, culturale e ricreativa. Infatti, si sono organizzati corsi per la lavorazione dell’argilla e per il riciclo della carta e attività teatrali con attori scelti tra i detenuti stessi. Nel carcere di Sala è stato per lungo tempo in vigore il regime delle celle aperte e i detenuti potevano trascorrere in media otto ore fuori dalla cella. Erano circa 40 i posti a disposizione dell’istituto e si poteva (e si doveva, forse) pensare di avere più spazio con investimenti minimi per rendere la struttura compatibile con i criteri di economicità previsti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nonostante negli ultimi anni non si siano segnalati eventi critici, questo quadro ottimale non è stato, evidentemente, sufficiente a scongiurare la soppressione dell’istituto da parte del Ministero della Giustizia. Si ricorda che, in applicazione della legge di riordino della geografia giudiziaria, l’ex-tribunale di Sala Consilina è stato già trasferito in una regione limitrofa, la Basilicata. Si chiede di sapere se non sia economicamente e - soprattutto - socialmente più conveniente mantenere in vita la struttura, ampliandone la capacità ricettiva, piuttosto che eliminare un altro punto di presenza dello Stato Italiano nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno, nella regione Campania. Taranto: corso di formazione per i volontari che assisteranno i figli dei detenuti cronachetarantine.it, 17 novembre 2015 Un corso di formazione per aggiungere alla innata voglia di donarsi con spirito di gratuità che anima il volontariato, quel know how indispensabile per approcciare minori che vivono un profondo disagio, come quello di dover visitare un genitore detenuto in carcere. Al via il corso di formazione per i volontari che assisteranno i figli dei detenuti. Recentemente l’associazione di volontariato Anteas (Associazione Nazionale Tutte le Età Attive per la Solidarietà) di Taranto è entrata a far parte del partenariato del Progetto "Giochiamoci… su" che è realizzato dall’Associazione "La Mediana", capofila, con l’Ufficio della Consigliera di Parità della Provincia di Taranto, il Club Soroptimist di Taranto, la sede di Taranto dell’Università degli Studi di Bari "Aldo Moro" e, grazie alla disponibilità della direttrice Stefania Baldassarri, con la Casa Circondariale di Taranto. Elvira Mazza, presidente Anteas Taranto, ha spiegato che "scopo principale del progetto "Giochiamoci… su" è di fornire assistenza psicologica e sostegno ai bambini, figli di detenuti, in occasione delle loro visite presso la Casa Circondariale per incontrare un loro genitore: si calcola che siano circa 400 i piccoli che ogni settimana si recano in visita presso la Casa Circondariale di Taranto". "È un’attività - ha poi detto Elvira Mazza - che necessita di una idonea formazione, indispensabile quando ci si deve approcciare a soggetti che vivono un profondo disagio: a tal fine l’Anteas ha organizzato un corso di formazione a favore dei propri volontari che, tenuto dalla docente psicoterapeuta Maria Concetta Guzzi, ha lo scopo di fornire le conoscenze psicologiche e tecniche relative all’accompagnamento e al sostegno di bambini che, da 0 a 14 anni, sono in attesa di incontrare il proprio genitore detenuto". Il corso, della durata complessiva di 20 ore e articolato in sette incontri settimanali, dalle ore 15.30 alle ore 18.30, inizierà nel pomeriggio di domani (martedì 17 novembre) presso la sede dell’Anteasdi Taranto (corso Umberto n.144 - info: 099 459.53.62, cell. 335.7475349). Il corso prevede la formazione teorico-pratica degli operatori, anche con l’affiancamento degli operatori sul campo, nonché lavoro d’equipe e attività in rete nell’ambito del partenariato di "Giochiamoci… su"; si insegneranno anche l’osservazione sistematica sul campo, la raccolta di dati sensibili, la supervisione e il monitoraggio delle attività promosse dai volontari, la valutazione finale degli interventi e del progetto nel suo complesso. Nell’ambito del progetto "Giochiamoci…. Su", al fine di contenere le tensioni e le emozioni naturalmente presenti in tali circostanze, nella Casa circondariale è stato allestito il cosiddetto "corner ludico", uno spazio dedicato ad attività ludiche e ricreative dove, con personale opportunamente formato, vengono organizzati laboratori che favoriscono le capacità sensoriali e motorie dei piccoli; è un luogo protetto dove i piccoli ospiti vengono educati al rispetto delle regole, si ascoltano i loro bisogni e, attraverso l’osservazione, si costruiscono dinamiche che facilitino la gestione degli stati emotivi. Più in generale, il progetto "Giochiamoci… su" vuole anche favorire la relazione genitore-figli all’interno del nucleo familiare al fine di valorizzare in modo costruttivo e creativo le potenzialità del singolo genitore e, inoltre, aumentare il livello di attenzione ai diritti dei minori da parte delle istituzioni e della comunità. Il progetto intende facilitare l’incontro col genitore recluso che continua a rappresentare una fonte affettiva importante, solo temporaneamente sospesa nella sua fisicità, ed osservare lo scambio relazionale e comunicativo per permettere di mantenere salda la funzione genitoriale. Forlì: "A scuola di libertà", un incontro alla scuola media Piero Maroncelli forlitoday.it, 17 novembre 2015 I lavori della giornata di riflessione proseguono con il concorso letterario promosso dagli organizzatori. In occasione della Giornata Nazionale "A scuola di libertà" promossa da Ristretti Orizzonti e dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, lunedì l’associazione "Con…tatto" ha organizzato un incontro alla media Piero Maroncelli. Hanno partecipato tre classi terze che da due anni seguono il progetto "Rifletti la Parola" e approfondiscono tematiche legate al carcere. L’incontro nasce dalla volontà di avvicinare due mondi, scuola e carcere, per conoscersi e confrontarsi con il tema della pena, dell’illegalità e per scardinare luoghi comuni e pregiudizi. L’evento ha avuto inizio con i saluti del dirigente scolastico, Luigi Abbate, che ha ricordato "l’importanza dei momenti di riflessione e di conoscenza", invitando gli alunni presenti "a mantenere viva la loro curiosità nei confronti del mondo che li circonda e a sviluppare ed approfondire sempre la consapevolezza che hanno delle cose e delle situazioni per diventare adulti attivi e responsabili". A seguire Laura De Marsiliis, volontaria di Con…tatto, ha aperto i lavori avviando una riflessione sul tema del diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, "un diritto riconosciuto da tutti fondamentale e sostenuto da leggi e consensi, ma non pienamente applicato, quindi meritevole di tutela". Successivamente, Claudia, Martina e Marco hanno presentato gli ideali che hanno condotto alla formazione di "Con...tatto" ed i progetti e le iniziative che l’associazione porta avanti da anni a sostegno e a mantenimento dei legami affettivi delle persone ristrette e dei loro cari. La parola è passata ai ragazzi, che hanno rappresentato su cartelloni il concetto di affettività: sostegno, condivisione, legame, speranza, amore, alleanza e solidarietà sono solo alcune delle riflessioni che questi giovanissimi hanno collegato al tema della giornata. Per finire Lisa Di Paolo ha raccontato il punto di vista di "Con...tatto": "la necessità di dare valore ai legami affettivi, accrescendo e migliorando le possibilità offerte dai vari istituti penitenziari, nella duplice convinzione che un giusto e corretto sviluppo dell’affettività possa condurre alla formazione di individui responsabili, e che un corretto reinserimento della persona reclusa possa passare solo attraverso il mantenimento di relazioni positive con le famiglie". I lavori della giornata di riflessione proseguono con il concorso letterario promosso dagli organizzatori. Roma: premio letterario "Goliarda Sapienza", ieri cerimonia finale della Quinta Edizione 9Colonne, 17 novembre 2015 Si è tenuta ieri a Roma nella Casa circondariale di Regina Coeli, la cerimonia finale della quinta edizione del premio letterario Goliarda Sapienza "Racconti del Carcere", ideato e curato da Antonella Bolelli Ferrera. Sarà Serena Dandini a presentare la cerimonia che vede come madrina Dacia Maraini e come presidente della giuria Elio Pecora. Presenti i 25 finalisti i cui racconti sono presentati nel libro "All’inferno fa freddo. Racconti dal carcere" (Rai Eri), in libreria da oggi e che riceveranno in premio pc portatili ma anche menzioni che prevedono un premio in denaro, grazie al sostegno di Siae, principale sostenitore dell’iniziativa sin dalla prima edizione. Ognuno dei finalisti sarà accompagnato dal tutor che lo ha sostenuto nel corso del suo lavoro letterario: Luca Zingaretti, Eraldo Affinati, Alessandro D’Alatri, Paolo Di Paolo e Walter Veltroni per i cinque finalisti minorenni mentre si sono dedicati ai 20 finalisti adulti: Luca Argentero, Marco Buticchi, Pino Corrias, Emilia Costantini, Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni, Erri De Luca, Marco Franzelli, Carlo Maria Grillo, Massimo Lugli, Silvana Mazzocchi, Federico Moccia, Antonio Pascale, Andrea Purgatori, Roberto Riccardi, Fiamma Satta, Gloria Satta, Salvo Sottile, Cinzia Tani, Andrea Vianello. Dalla collaborazione con il Premio Goliarda Sapienza è nato il progetto "I corti del Premio Goliarda Sapienza", voluto da Rai Fiction, che vede ogni anno la realizzazione di un cortometraggio tratto da uno dei racconti dal carcere finalisti del concorso: quest’anno il cortometraggio "Fuori" ha come protagonista Isabella Ragonese e la regia di Anna Negri. "Fuori" è stato proiettato ieri in anteprima al Roma Fiction Fest con la partecipazione di Agnese Costagli, autrice del racconto a cui è ispirato il film e sarà trasmesso questa sera, su Rai 3, dalle ore 20,10, con replica in seconda serata. Il primo cortometraggio della serie, "Mala Vita", con Luca Argentero nel ruolo di protagonista, ha ottenuto diversi riconoscimenti: vincitore festival Corto Sordi 2015, vincitore menzione speciale a Cortinametraggio 2015, vincitore festival Sedicicorto 2015, selezionato al Valdarno Cinema Fedic 2015 e alla nona edizione del premio "L’anello debole" 2015, selezionato all’Asti Film Festival che si terrà dal 9 al 12 dicembre. Roma: intervista a Luca Argentero, tutor del Premio letterario Goliarda Sapienza di Jessica Chia wuz.it, 17 novembre 2015 Ancora una volta Luca Argentero ha partecipato al progetto letterario in collaborazione con le carceri italiane, il premio Goliarda Sapienza. Racconti dal carcere, ideato e diretto da Antonella Bolelli Ferrera. Il suo ruolo è stato quello di tutor scrittore per la sezione minori e giovani adulti. Argentero non è un neofita del progetto; nel marzo 2015, insieme con Francesco Montanari, ha recitato nel cortometraggio Mala Vita liberamente ispirato al racconto di Giuseppe Rampello, "Pure in galera ha da passà a nuttata", vincitore del Premio Goliarda Sapienza 2013. Diretta da Angelo Licata, la pellicola è stata realizzata da Rai Fiction in collaborazione con la Presidenza del Consiglio e dei Ministeri di Giustizia, Turismo e Beni culturali. Mala Vita racconta l’esperienza di Antonio, detenuto che entra ed esce dal carcere. Ormai affezionato alla sua solita cella, Antonio chiede di poter tornare in quella che ormai rappresenta "casa sua": ma questa volta si troverà come compagno Rocco, boss della camorra arrogante e violento, che cerca di rendergli la vita impossibile. Abbiamo chiesto a Luca Argentero di raccontarci di questa sua esperienza umana e professionale. Cos’ha significato per lei quest’esperienza a stretto contatto con la realtà del carcere? "Mi ha sicuramente fatto comprendere che bisogna fare di tutto per non finirci dentro... la privazione della libertà è concettualmente una delle mie più grandi paure. In ogni caso non posso sapere cosa significa fino in fondo perché noi abbiamo girato in un carcere non più operativo, quindi ho potuto solo immaginare". Mala Vita è un cortometraggio di grande emozione: come si è preparato a questo lavoro? Qual è stata la sua ispirazione? "Più che altro ho lavorato sui dialetti perché il centro del personaggio era la sua capacità di trasformarsi a seconda delle persone e delle situazioni con cui veniva in contatto. Non mi sono però ispirato a nulla in particolare, ho cercato di immaginare una versione inedita di un furfante trasformista". Alleviare la pena attraverso la cultura è un messaggio di grande ricchezza umana. Secondo lei, questo corto può servire a toccare l’interesse di chi vive all’esterno? "Io non credo che al pubblico debba arrivare un messaggio, lo spettatore deve godersi la visione anche senza sapere il percorso che ha portato alla realizzazione del film. Credo invece che sia una bellissima iniziativa, sicuramente una declinazione positiva del concetto di rieducazione, un’opportunità per approfittare in modo creativo di un’immobilità mentale forzata. Il carcere può limitare la possibilità di movimento ma può consentire di continuare a viaggiare con la mente e con il pensiero". Migranti: Unicef "700 bimbi morti nel 2015 nel Mediterraneo" Ansa, 17 novembre 2015 La crisi dei rifugiati e migranti in Europa è una crisi che colpisce drammaticamente i bambini: da gennaio più di 215.000 minorenni - 700 al giorno - hanno cercato asilo nell’Unione europea e circa 700 bambini sono morti nel 2015 attraversando il Mediterraneo. Le stime sono di Unicef Italia, che lancia una petizione per i diritti dei bambini in pericolo. "Dall’inizio del 2014 - afferma il presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera - circa 30 milioni di bambini hanno lasciato le proprie case a causa di guerre, violenza e persecuzioni. Più di 2 milioni di bambini rifugiati hanno trovato riparo in Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Turchia. In Iraq, 1,3 milioni di bambini sono sfollati, 2,3 mln nello Yemen dove ne sono stati uccisi 573 negli ultimi 6 mesi. In Sud Sudan più di 1 milione di bambini sono sfollati a causa del conflitto. In Nigeria, Camerun, Niger e Chad, 1,4 milioni di bambini sono stati costretti a lasciare il loro paese a causa del gruppo armato di Boko Haram. Questi bimbi, come i nostri figli, hanno diritto a crescere sani, a giocare, ad andare a scuola, ad avere un futuro". Per difendere i diritti di questi bambini, Unicef Italia lancia la petizione "Indigniamoci!", che è possibile firmare sul sito dell’organizzazione. La petizione viene lanciata in occasione della celebrazione della Giornata Internazionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, il prossimo 20 novembre e rilancia la campagna "Bambini in pericolo" che proseguirà fino a Natale. L’obiettivo dell’Unicef Italia è richiamare l’attenzione sul dramma dei bambini e adolescenti esposti a ogni pericolo ogni giorno, minacciati da guerre e malattie, malnutriti e derubati dell’infanzia. E tutti i bambini migranti, profughi e rifugiati sono prima di tutto bambini in pericolo. Nella petizione, l’Unicef chiede al Governo italiano di garantire per questi bambini e adolescenti migranti e rifugiati: il rispetto del superiore interesse e dell’ascolto dei bambini e degli adolescenti quando vengono prese delle decisioni che li riguardano; strutture di accoglienza a misura di bambino e bambina e accesso ai servizi, alle cure mediche e all’istruzione, senza alcuna discriminazione; protezione da violenze, abusi e sfruttamento; certezza che nessun bambino e adolescente sia detenuto a causa del suo status legale o di quello dei sui genitori; l’unità familiare; viaggi sicuri e visti umanitari per i bambini e le proprie famiglie; l’intensificazione delle operazioni di ricerca e salvataggio; maggiori fondi per i bambini migranti e rifugiati in Europa; un impegno per affrontare le cause alla radice dell’enorme movimento di bambini migranti e rifugiati, intervenendo nei paesi d’origine. A Natale la petizione sarà presentata con le firme raccolte al presidente del Consiglio Matteo Renzi, "perché il giorno di Natale possa essere per questi bambini l’inizio di un futuro libero dalla paura, dalla fame, dal freddo e dalle malattie". Se il concetto di umanità cambia tra Parigi e Beirut di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 17 novembre 2015 "Un attacco all’umanità e ai nostri valori universali". Così Obama ha commentato l’attentato di Parigi. Ma le sue parole sono stata aspramente criticate in un articolo del New York Times molto cliccato nei social media. Non sono forse esseri umani quelli sterminati qualche giorno prima nella strage di Beirut? E che dire delle tante stragi che trovano spazio marginale nei media? Viene da pensare che ci siano ranghi diversi di umanità. Quel concetto, che prometteva di essere universale, sembra disgregarsi. I corpi mutilati, che un’impietosa telecamera ci mostra sul selciato di Beirut, o per le vie di una sconosciuta città della Siria, non ci inquietano come i feriti e i morti intravisti nel buio della notte di Parigi. Per giustificarci potremmo dire che dove riconosciamo un volto, l’umanità ferita suscita in noi compassione e sdegno. In quelle strade di Parigi avremmo potuto trovarci anche noi; ci immaginiamo al posto dell’altro, vittima inerme. E l’immaginazione diventa la spinta per l’etica. Se invece l’umanità ci appare lontana, anonima, senza volto, il nostro sentire si inceppa. Diventiamo quasi analfabeti emotivi, mentre quelle persone scadono a non persone. Ecco perché è così importante il ruolo dei media. Tuttavia dobbiamo ammettere che continuiamo a dividere l’umanità per ranghi (non sta forse qui la fonte del razzismo?) e che anche dove razionalmente riconduciamo gli essere umani a un concetto universale, riguardiamo l’umanità di quegli "estranei" come se fosse diversa dalla nostra, non dello stesso rango. L’umanità, così spesso invocata nel discorso pubblico, si rivela un concetto troppo astratto, quasi vuoto, che richiede di essere ripensato. A partire dal volto di ciascuno. Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 17 novembre 2015 La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva. Due domande ritornano in molti commenti angosciati dopo la strage di Parigi. La prima riguarda il futuro delle libertà nell’Europa aggredita. Ci diciamo che sono proprio le nostre libertà, levatrici di un modo di vivere che dal loro punto di vista è corrotto e blasfemo, che i terroristi islamici vogliono distruggere, e anche per questo dobbiamo difenderle. È giusto ma, purtroppo, ciò che è vero in linea di principio fatica ad esserlo anche in pratica. Nessuno sa come conciliare libertà e sicurezza nel momento in cui la sicurezza subisca un vulnus così pesante. Nelle guerre convenzionali del passato anche le democrazie erano costrette a ridurre l’area delle libertà (censura, controllo degli spostamenti e della corrispondenza, coprifuoco). Solo quando la guerra finiva si poteva invertire la tendenza. Le leggi antiterrorismo approvate in Francia e quelle in via di approvazione in molti Paesi europei, ci dicono che andiamo verso restrizioni sensibili della libertà. Dopo Parigi, è difficile che questo processo possa essere bloccato: l’Europa dell’età del terrorismo sarà purtroppo meno libera di quella che abbiamo conosciuto. Si spera almeno che alla limitazione delle libertà imposta dai governi non si affianchino anche movimenti "spontanei" nella stessa direzione. La paura fa brutti scherzi, spinge al conformismo. Dopo il dolore e lo sgomento dei primi momenti, c’è il rischio che mass media, intellettuali, educatori, scelgano di imporre il silenzio sui temi che più scottano: il contrario di quella battaglia culturale che, giustamente, Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di ieri) ritiene indispensabile per contrastare le menzogne dell’estremismo islamico. La Francia, d’altra parte, prima della strage, aveva già dato prove di disponibilità al conformismo (i processi per islamofobia ne sono un esempio). La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva. La seconda domanda è collegata alla prima. Avremo la coesione necessaria per fronteggiare coloro che ci hanno dichiarato guerra? Di "guerra" ha parlato il presidente Hollande dopo la strage. Prima di allora (anche dopo l’attentato di Charlie Hebdo ) nessun leader europeo si era arrischiato a usare quella parola. Guardiamo ai fatti. Ci si rallegra giustamente perché al vertice del G20 in Turchia, americani e russi sembrano avere trovato un accordo per contrastare lo Stato Islamico. E anche perché nei colloqui di Vienna fra le parti interessate sia iniziato un percorso - che tutti sanno comunque in salita - per trovare una soluzione diplomatica alla questione siriana. In tempi di disperazione è giusto aggrapparsi a qualunque cosa. Ma non si possono nascondere le difficoltà. Sulla carta, la posizione di Obama è giusta: lo Stato Islamico (sunnita) deve essere sconfitto soprattutto dai sunniti. Se fossero le potenze occidentali più la Russia, più l’Iran sciita, a distruggerlo, sarebbe difficile non antagonizzare i sunniti, che sono maggioranza nel mondo islamico. In pratica, è però difficile, ad esempio, che l’Iran accetti di svolgere un ruolo secondario. Altrettanto difficile è che certi Stati sunniti (come la Turchia, nemica di quei curdi che, unici sul terreno, combattono il Califfato) si impegnino a fondo in questa guerra. La coalizione militare è troppo ampia e troppo diversificati sono gli interessi. Forte resta anche, come sempre nelle coalizioni ampie, la tentazione dello "scaricabarile" (spostare su altri il peso della guerra). Senza contare che oggi lo Stato Islamico è, grazie a un’inerzia durata troppo a lungo, molto più forte di ieri. E la sua gramigna si è diffusa in molti luoghi. Se la grande coalizione anti Stato Islamico resta più fragile di come la si vorrebbe, che dire poi di quel vaso di coccio che è l’Europa? Hollande, consapevole che Obama non è disposto a fare molto più di quello che sta facendo, con una mossa a sorpresa, anziché appellarsi all’articolo 5 della Nato (che impone ai membri dell’alleanza di soccorrere militarmente l’aggredito) ha richiamato per la prima volta una norma europea (l’articolo 42 del Trattato) chiedendo l’aiuto (militare) dei partner dell’Unione. È difficile pensare che ciò possa avere un seguito. Ad esempio, né la Germania né l’Italia, verosimilmente, sono pronte a un impegno di quella portata. Prima di pensare a una cosa del genere, occorrerebbe ottenere (ma è assai difficile) una maggiore coesione non solo fra gli Stati europei ma anche all’interno di ciascuno di essi. È più probabile che l’Europa, in breve tempo, sia di nuovo pronta a dividersi fra due fronti ugualmente insensati; da un lato, il fronte di chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, prendersela con tutti i musulmani (sarebbe un favore allo Stato Islamico, getterebbe fra le sue braccia anche gente che avrebbe fatto altro) e, dall’altro lato, il fronte di chi pretende di trattare l’estremismo terrorista come un fatto estraneo all’islam e comunque isolato. Come la prima, anche questa seconda posizione si risolve in un favore per gli estremisti: impedisce di mettere a nudo, e combattere, le affinità cultural-ideologiche fra la minoranza jihadista e settori più ampi del mondo musulmano. Se quelle affinità non ci fossero, ad esempio, non ci sarebbero stati (come osservava Giles Kepel sul Corriere di ieri), i tanti consensi registrati a suo tempo nel mondo islamico per l’azione contro Charlie Hebdo. Né certi giornali del mondo arabo avrebbero potuto permettersi in questi giorni di pubblicare vignette satiriche contro la Francia aggredita. Dallo scontro fra due insensatezze non nasce nulla di sensato. L’Europa, se non vuole essere sconfitta, deve imparare ad essere più intelligente di così. "Siamo in guerra l’Europa aiuti la Francia", Patriot Act di Hollande per sfidare il terrore di Bernardo Valli La Repubblica, 17 novembre 2015 Il leader francese, socialista, insegue le tracce del conservatore Bush jr. Più fondi ai militari, soldati nelle strade, più poliziotti, gendarmi e magistrati. Davanti ai due rami del Parlamento il presidente ha chiesto di "far evolvere la Costituzione" per rafforzare le misure eccezionali dello stato d’emergenza. È un Patriot Act alla francese. Meno costrittivo di quello adottato negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ma nella sostanza abbastanza simile. Il socialista François Hollande insegue in queste ore (quasi) le tracce del conservatore Bush jr. Il confronto col terrorismo azzera le differenze. La strage parigina del 13 novembre ha condotto il presidente francese a ricalcare metodi adottati dopo la tragedia newyorchese delle Torri gemelle. Rivolgendosi al Congresso, dove si riuniscono per i grandi eventi, a Versailles, i due rami del Parlamento, ha assunto toni da capo di guerra. È stato asciutto, concreto. Ha avanzato la necessità di "far evolvere la Costituzione" della Quinta Repubblica. La situazione, a suo avviso, esige che lo Stato di emergenza, già in vigore, sia integrato nell’articolo 36 riguardante lo stato d’assedio. Quest’ultima è una misura estrema che trasferisce il potere all’autorità militare. Un aspetto al momento non d’attualità. Quella in corso non è infatti un conflitto convenzionale, non è materia per Stati maggiori. Coinvolge soprattutto l’intelligence e in generale la polizia e i magistrati. E tuttavia è necessario uno strumento efficace per imporre, nel rispetto delle libertà repubblicane, misure eccezionali, attraverso i prefetti e le autorità di polizia, senza passare provvisoriamente attraverso le procedure giudiziarie troppo lente. Cosi le detenzioni amministrative saranno più facili e veloci, quindi più efficaci. I poteri dei magistrati saranno estesi nei casi di terrorismo. Le persone con la doppia nazionalità (come molti arabi) implicate o gravemente sospette potranno essere private di quella francese. Le espulsioni di cittadini stranieri indesiderabili saranno agevolate. Hollande ha chiesto al Parlamento di approvare al più presto, domani, anche una legge che prolunghi di tre mesi lo stato d’emergenza. Il quale, benché ampliato con prerogative simili a quelle dello stato d’assedio, viene gestito dal potere politico e dai servizi che da esso dipendono. I militari non saranno però lasciati nelle caserme. Diecimila di loro saranno dispiegati nell’Ile de France con il compito di proteggere i possibili obiettivi dei terroristi. Alle forze armate non saranno ridotti i finanziamenti come previsto. E gli effettivi della polizia, della gendarmeria e della magistratura saranno aumentati di ottomila cinquecento unità. Il patto di stabilità imposto dall’Unione europea ne soffrirà. Ma la Francia ha bisogno di un patto di sicurezza. La contabilità nazionale passa in secondo piano. Hollande era teso, la faccia segnata dalla stanchezza, quando è arrivato davanti al Parlamento riunito in seduta straordinaria. La prova che doveva affrontare era doppia. Da un lato rassicurare il paese. dall’altro tentare di creare un’unione nazionale, vale a dire prevenire, rendere vane le critiche dell’opposizione. Nei drammi il presidente più impopolare della Quinta Repubblica assume una indubbia dignità. È veloce nelle decisioni. È presente nei luoghi colpiti. Si rivolge costantemente al paese con toni calmi. Nelle tragedie, come accadde in gennaio per Charlie Hebdo, cambia carattere. Di solito almeno in apparenza impacciato, acquista sicurezza. A Versailles ha esordito con un lapidario "siamo in guerra" e ha proseguito annunciando iniziative, che hanno tolto l’iniziativa alla destra, in particolare a quella estrema del Front National. Ha informato l’Assemblea di avere chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza per decidere un’azione internazionale contro Daesh. Che è "la più grande fabbrica di terroristi" ed è il nemico contro il quale la Francia intensificherà le operazioni. Già la notte scorsa dodici caccia bombardieri hanno colpito con venti missili il comando e i centri di addestramento di Daesh in Siria, con l’aiuto degli Stati Uniti che hanno indicato gli obiettivi. Inoltre nelle prossime ore la portaerei Charles de Gaulle salperà e una volta in Medio Oriente, consentirà di triplicare le incursioni aeree francesi. Prima della fine di novembre incontrerà Obama e Putin per cer- care di varare un’azione comune delle coalizioni che adesso operano indipendenti una dall’altra, e spesso puntando su obiettivi diversi. Gli aerei russi colpiscono di rado le basi di Daesh e si interessano agli altri gruppi ribelli, finora a quelli aiutati dagli americani. Lui, Hollande, si prodigherà per favorire la già avviata intesa tra Obama e Putin, dopo l’incontro al G20 in Turchia. In quanto all’Europa, chiede con solennità che i membri dell’Unione si dimostrino solidali con la Francia, citando la clausola 42.7 del Trattato. Le sue parole sono risuonate a Versailles come un appello. Le misure di sicurezza destinate a combattere il terrorismo e a rassicura il paese avevano anche lo scopo di creare un’atmosfera favorevole a un’unione nazionale. Molti dei provvedimenti annunciati potevano essere condivisi anche dalla destra e dall’estrema destra. L’applauso intenso, prolungato di tutti i settori della platea versagliese (ad eccezione di due esponenti del Fronte nazionale), era un’ovazione rituale ma sentita in un momento difficile della nazione, in quel momento incarnata dal capo dello Stato. La Marsigliese poi cantata da deputati e senatori ha aggiunto un tocco patriottico necessario. Ma il consenso corale, anche se inevitabilmente passeggero, era dovuto anche alla meticolosità con cui François Hollande ha saputo raccogliere e riassumere le istanze della frastagliata società politica francese. Le critiche, a conclusione della seduta del Congresso di Versailles, non sono mancate. Marion Le Pen, nipote di Marine, presidente del Front National ha deplorato che Hollande non abbia condannato l’ideologia islamista dei terroristi. Ma sul delicato, sensibile argomento della religione, il presidente aveva abilmente sorvolato. Evitando soprattutto di soffermarsi sul problema dei migranti, provenienti dalla Siria, e destinati a ingrossare la presenza musulmana in Europa. Tra breve ci saranno in Francia le elezioni regionali, le ultime prima di quelle presidenziali del 2017. Il trauma subito dal paese dovrebbe tradursi in un aumento dei voti islamofobi, attribuiti al Front National, nei sondaggi già saliti al trenta per cento nei mesi successivi all’assassinio dei giornalisti di Charlie Hebdo. L’ondata dei profughi e la simultanea strage di venerdì tredici novembre, pur non essendoci alcun nesso tra i due avvenimenti, possono contribuire a un’ulteriore crescita di quegli imbarazzanti voti virtuali destinati, non è escluso, a diventare reali. A Versailles François Hollande doveva garantire la sicurezza dei francesi e rassicurarli, e prevenire nei limiti della decenza, con un discorso civile e decoroso, una frana politica. "Libri non bombe", quel cartello che ora illumina Parigi di Adriano Sofri la Repubblica, 17 novembre 2015 Sul monumento della République c’è un foglio che sembra riassumere quel che è successo e lo spirito della Francia Viaggio nel quartiere delle librerie dove però non tutti la pensano proprio così. Sul monumento della République c’è un foglio su cui qualcuno ha scritto "books not bombs", "Libri non bombe", e benché l’idea vada da sé, sono due giorni che ci penso su. Penso a tre variazioni. 1: Libri non bombe. 2: Bombe non libri. 3: Libri e bombe (o il suo risvolto, Né libri né bombe, che accantoniamo). E siccome sono a Parigi, e a Parigi vale la pena anche solo per le sue librerie, vado dai librai. Del resto, non avevo scelta: interpellare fabbricanti e commercianti di bombe è troppo complicato. È il secondo di tre giorni di lutto, e molte librerie sono chiuse. A Rue de l’Odéon "Le coupe papier" ha messo sulla sua vetrina antiquaria una pagina scritta a mano, con una grafia ammirevole (traduzione mia): "La libreria resterà chiusa oggi. Vogliate scusarmene, ci sono dei giorni così, e specialmente dei giorni dopo". Poco più avanti è aperta "Amélie Sourget", e la giovane signora cui chiedo che cosa pensi del motto è gentilmente interdetta. Naturalmente, dice, io vivo di libri, e di bombe si muore. Esistono anche libri cattivi? Certo. E bombe buone? Non so, forse necessarie. Spicca in vetrina una prima versione (1791) di Thomas Paine, Théorie et pratique des droits de l’homme. Paine abitava di fronte, come ricorda la lapide che lo dichiara "inglese di nascita, americano d’adozione, francese per decreto", e lo cita: "Quando le opinioni sono libere, la forza della verità finisce sempre per prevalere". Là sotto c’è la libreria Guénégaud, specializzata in caccia, manieri e castelli e storia locale, sono il primo del giorno e non sono nemmeno un cliente. Il signore che mi riceve è decisamente all’altezza delle tradizioni custodite dai suoi scaffali, e si sbriga: "Tanto i libri non li legge più nessuno, qualche vecchio come lei e me. E le bombe sono mera gesticolazione". Se vendessi bombe invece che libri, dice, gli affari andrebbero a gonfie vele. Certo che i libri possono essere pericolosi, dice, e fa un elenco in cui il Mein Kampf è surclassato da Stalin e Mao e Fidel. Direi che non diffidi delle bombe, quanto dei bersagli troppo lontani, dal momento che "i terroristi sono francesi, li abbiamo in casa". In altre librerie si diffida delle mie domande, ciò che è comprensibile, e forse c’è una reticenza a esporsi. Sul magazzino Gallimard sono appiccicate con lo scotch fotocopie di un brano "algerino" di Camus: "È per questo avvenire ancora inimmaginabile, ma prossimo, che dobbiamo organizzarci e sostenerci a vicenda. Assurdo e straziante nella tragedia che viviamo è che, per affrontare un giorno le prospettive a misura del mondo intero oggi noi dobbiamo riunirci poveramente, in pochi, per chiedere solo che sia risparmiato su un punto solitario del globo un pugno di vittime innocenti. È il nostro compito, e per oscuro e ingrato che sia dobbiamo affrontarlo con decisione, per meritare un giorno di vivere da uomini liberi, cioè da uomini che rifiutano insieme di esercitare e di subire il terrore". È chiusa la libreria scientifica che espone le opere di Muhammad Ibn Musa Al-Khwarizmi, cui Oriana Fallaci riconobbe di aver dato il nome all’algoritmo, ma negò l’invenzione dello zero… Al Luxembourg, il libraio di "Thierry Margo" pensa che i libri facciano del male quando i loro autori sono malvagi. Dei bombardamenti su Raqqa non sa dire che efficacia abbiano, ma sa che sganciare libri su una banda di invasati che ti assaltino non è una gran risorsa: "Il libro può proteggerti solo quando abbia una rilegatura solida, e stia nella tasca interna, proprio all’altezza del cuore". La conversazione più fervida ci aspetta naturalmente dai bouquinistes del Lungosenna. Mi infilo in una discussione in corso fra intenditori, si direbbe: citano il ponte d’atterraggio troppo corto della portaerei Mistral, i favolosi contratti di vendita dei Rafale all’Egitto che non ha un soldo per pagarli… Loro sono convinti che di libri e di bombe ci sia bisogno, e "peggio per i tempi in cui c’è sempre più bisogno di bombe, come i nostri". La riprova?, dice un Guillaume. "Guarda come sono crollati i prezzi dei libri, e come crescono i prezzi delle bombe". Manuel, cui i lunghi pomeriggi di molto vento e pochi clienti hanno ispirato pensieri sistematici, trova che il mondo è infeudato agli americani fin dal Giappone degli anni ‘30, e che "la Francia è sempre indietro di una guerra". Libri non bombe è un programma ideale, dice la signora di un "Gibert Joseph": c’è un’umanità che ama i libri, e una che si tramuta in bombe per farsi esplodere e uccidere l’altra umanità. Ho l’impressione, dico, che le bombe cui il cartello pensa siano quelle "occidentali". Quelle di Raqqa di ieri. "Sì, credo di sì. Si fa fatica a rassegnarsi all’uso delle armi, e i bombardamenti aerei sembrano la quintessenza della violenza". E le bombe che fermarono lo Stato Islamico che faceva strage di yazidi e cristiani e arabi renitenti? Non ne so abbastanza, dice. Fa paura l’espressione "danni collaterali", ma i civili colpiti per errore (quando è un errore, e non un crimine, come per l’ospedale di Kunduz) sono altra cosa dalla scelta dei terroristi: per loro i giovani del Bataclan, le persone del Petit Cambodge, non sono vittime collaterali, sono il bersaglio scelto e cercato. D’altra parte è persuasa che esistano i cattivi libri, e non solo i cattivi usi dei libri. Il Mein Kampf che esce dal vincolo dei diritti è citato da tutti i miei interlocutori, e del resto quei vincoli non gli hanno impedito di essere, insieme agli infami "Protocolli degli Anziani di Sion", uno dei rarissimi testi occidentali avidamente letti nei dispotismi islamici. Vorrei chiederle altre cose, e magari parlarne con chi ha compilato quel foglio: "Books not bombs". Anche l’espressione "religioni del Libro" è largamente equivoca, non trova? E andrebbe completata con quella "religione dei libri", con la minuscola, non trova? Perché non diventi superstizione di un libro solo, e lo legga senza immaginargli un contesto? Il Corano tenuto alto mentre l’altra mano impugna il coltellaccio è più vicino a un libro o a un’arma? La terza versione allora? "Libri e bombe?" Preferirei di no, li terrei separati: se non altro per l’evocazione di quel losco precetto per l’italiano, cioè il fascista, perfetto, "Libro e moschetto". Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso di Antonio Polito Corriere della Sera, 17 novembre 2015 La cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che "se uno offende mia madre gli dò un pugno". Con le idee del Novecento non comprendiamo più ciò che sta accadendo, e non capiamo come reagire. Perfino la ragazza del secolo scorso per antonomasia, Rossana Rossanda, ha confessato al Corriere che stavolta "una linea non ce l’ho". Il problema è che gran parte delle idee democratiche, delle idee progressiste, delle idee di sinistra, sono del Novecento. E che gran parte della nostra élite si è formata su quelle idee, e oggi dispone di una cassetta degli attrezzi inutilizzabile, fatta di classi sociali e di divisione internazionale del lavoro, mentre il mondo di oggi sembra fatto apposta per stupirci, e si spacca su linee di frattura che avevamo date per spacciate, sepolte dalla Storia, come la religione. Sfogliamo il dizionario delle parole d’ordine che hanno rassicurato tante generazioni dal dopoguerra a oggi. Il pacifismo resta una nobile opzione morale, ma non è più una risposta realistica di fronte a chi ci dichiara guerra, o a chi ci chiede, come il socialista Hollande, di aiutarlo in guerra. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che "se uno offende mia madre gli dò un pugno". E se ammazzano i nostri cugini francesi? Essere pacifisti in un mondo così bellicoso, mentre sono in corso una cinquantina di conflitti e mentre le vittime di molti di quei conflitti sbarcano ogni giorno sulle nostre spiagge, non è una opzione politica. Quando la guerra era un metodo di risoluzione delle controversie internazionali, l’abbiamo ripudiata. Ma che facciamo se diventa una necessità di autodifesa, se abbiamo bisogno come oggi di qualcuno che contempli l’uso, proporzionato e legittimo quanto si vuole, della forza militare contro chi arma gli uomini-bomba? Oppure prendiamo l’internazionalismo, vero discrimine tra sinistra e destra fin dal loro sorgere nel fuoco della Rivoluzione francese, valore poi sconfinato in un sogno irenico di cosmopolitismo, nell’utopia di società europee così multiculturali da non rendere più distinguibile la cultura degli indigeni. Onestamente, non è discorso proponibile a opinioni pubbliche sconvolte dalla paura, scioccate dalle proporzioni delle migrazioni, preoccupate di veder sparire le loro radici e il loro stile di vita in un magma indistinto di relativismo culturale, nel quale anche esporre un crocifisso può diventare offensivo. Emblematica, da questo punto di vista, è la polemica in corso sul Giubileo, che pure dovrebbe essere l’apoteosi dell’universalismo cattolico, ma che tanti vorrebbero rinviare per quieto vivere, anche se non penserebbero mai di rinviare una partita di calcio della Nazionale o un concerto di musica rock solo perché sono stati obiettivi dei terroristi a Parigi. E infine soffre la retorica del ponte sul Mediterraneo, verso l’Africa e il Medio Oriente, tra Nord e Sud del mondo, del ruolo che tante volte ci è stato indicato come vocazione storica per il nostro Paese e tanto più per il nostro Mezzogiorno. Che fare, come scrive Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno, quando invece "dal Sud del mondo viene la guerra", e non richieste di dialogo, di apertura culturale, di comprensione reciproca? Di fronte alla vetustà di questo armamentario ideale, è facile gioco per le idee di destra apparire più moderne, più calzanti al mondo di oggi, e soprattutto più popolari. Anche quando non sono praticabili, o non sono accettabili, o non sono risolutive. Nazionalismo, nostalgia dei muri e delle frontiere, rifiuto del diverso, egoismo al posto del solidarismo; possono, di fronte alla doppia minaccia delle migrazioni di massa e del terrorismo islamista, provocare un vero e proprio riallineamento verso destra delle opinioni pubbliche europee, come accadde negli Usa dopo la frattura del Sessantotto. Il pensiero democratico che teme questo sviluppo non può dunque limitarsi a deplorarlo, quando non a irriderlo, o ad attribuirlo a pura ignoranza manipolata. È la cultura progressista che deve piuttosto ripensare se stessa, adeguarsi alla realtà del mondo così com’è; a partire dal binomio pace-guerra, perché pace non è lavarsene le mani, per continuare sul crinale laicità-religione, perché c’è religione e religione, fino alla riscoperta di un concetto di sovranità nazionale compatibile con un nuovo internazionalismo. Altrimenti avrà perso la guerra culturale scatenata nell’Occidente dall’offensiva islamista, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015. "Bombardare non è tabu". L’unità che vuole il governo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 novembre 2015 Camera. Fuori dall’aula i ministri cantano la Marsigliese. Dentro la sinistra attacca: anche durante il G20 qualcuno bombarda le file curde in lotta contro Daesh. Renzi dalla Turchia: "Serve una risposta equilibrata" Gentiloni: a fianco dei fratelli francesi. La ministra della Difesa spiega che la partecipazione dell’Italia ai bombardamenti contro il Daesh "non è un tabu", il presidente del Consiglio invita ad evitare reazioni istintive, preferisce "una risposta strategica, saggia, equilibrata". Forza Italia chiama a una nuova battaglia di Lepanto, un fronte cristiano contro il mondo islamico da stringere stavolta con la Russia, mezzo millennio dopo. E tutti invocano l’unità nazionale di maggioranza e opposizione di fronte al terrorismo. Di fronte al terrorismo la politica italiana non esce dalla trappola della campagna elettorale continua. Il ministro dell’Interno che non vuole cadere nella trappola del Califfo, precipita in quella del segretario della Lega nord e gli scappa di accusarlo di tifare per gli attentatori. Poi davanti al parlamento fa i conti di poliziotti, carabinieri, finanzieri e militari delle forze armate che sono o stanno per arrivare a Roma, e raggiunge quota 30mila. Che significa otto divise per chilometro quadrato nell’intero territorio cittadino, per tre turni 24 ore su 24. Ma il Movimento 5 stelle esige nuove assunzioni per le forze dell’ordine "sotto organico", vuole che vengano richiamati i militari dall’Afghanistan per schierarli "a difesa del nostro territorio" e suggerisce la creazione di "corpi d’élite nei servizi segreti". Qualcosa, adesso, sarà aggiunto nella legge di stabilità. Davanti all’ingresso della camera dei deputati, parlamentari di maggioranza e opposizione, ministre e ministri, si fermano in silenzio in piedi ad ascoltare la Marsigliese, Fratelli d’Italia e l’Inno alla gioia. Poi, nell’aula di Montecitorio, c’è un ultimo minuto di silenzio prima delle comunicazioni del governo. Sostiene il ministro degli esteri Gentiloni che l’Italia risponderà agli attacchi di Parigi "insieme ai fratelli francesi". Che per il momento sono insieme a turchi, australiani e americani e in Siria bombardando. Dice Gentiloni che "la forza del terrorismo sta anche negli errori che ha fatto l’occidente nel passato", che in Siria "serve una transizione politica per allontanare il dittatore Assad senza creare un vuoto che sarebbe riempito da Daesh". E i russi "possono essere fondamentali". Dice Renzi dal G20 di Antalya, in Turchia, che "il terrorismo non è un problema che si risolve con uno schiocco delle dita. Il principio italiano, riportiamo la Russia al tavolo della discussione, sta finalmente portando risultati". Dice il capogruppo dei deputati di Forza Italia Brunetta, dall’aula della camera, che non basta, "l’Italia deve promuovere la rinuncia unilaterale dell’Unione europea alle sanzioni contro la Federazione russa". C’è una polemica anche nel lutto: "Oltre alla Marsigliese, io ho cantato in cuor mio l’inno russo in ricordo delle vittime dell’aereo abbattuto sul Sinai, anche quello dai terroristi dell’Isis". Mentre il suo ministro dell’Interno si accapiglia con Salvini, tra radio televisioni e hashtag, Renzi aggiunge che "dire che in Italia stanno arrivando troppi immigrati è una banalizzazione. Qualcuno sta facendo l’equazione facile rifugiati uguale terroristi, ma il punto è che la quasi totalità dei rifugiati sta scappando dagli stessi terroristi in azione nelle nostre città". Poi, lui che guida un governo di già larghe intese, ripete il suo invito all’unità nazionale: "Rinnovo l’appello alle forze politiche perché su questo tema non ci siano divisioni e litigi". Forza Italia risponde con le sue condizioni per "una nuova Lepanto" e con un’altra formula politica: "Unità critica nella verità". In concreto il governo preferisce non chiedere nessun voto al termine delle comunicazioni, nessuna mozione nell’aula della camera. Niente conta, niente divisione. Al capogruppo del Pd Rosato sfugge un ragionamento complicato - il successo dell’Expo avrebbe dimostrato la capacità italiana di proteggersi dai terroristi - e una polemica a cui proprio non può rinunciare con i 5 Stelle che (la famosa uscita di Di Battista) sembrarono giustificare i terroristi. Grillini e opposizione di sinistra non pensano neanche per un attimo che l’invito all’unità possa riguardi. Però rinunciano anche loro a presentare mozioni che si sarebbero dovute votare. Il capogruppo della nuova Sinistra italiana Scotto fa notare che proprio in Turchia "mentre oggi si firmavano carte importantissime al G20, qualcuno bombardava le file curde in prima linea nella lotta al Daesh". Il 5 Stelle Sorial aggiunge che l’Italia dovrebbe "interrompere ogni rapporto con le monarchie del Golfo che finanziano l’Isis. Mentre Renzi è andato a Riad solo qualche giorno fa". Bisogna rimettere la pace al centro dell’agenda politica di Etienne Balibar Il Manifesto, 17 novembre 2015 In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle "due sponde" del Mediterraneo diventano ostaggi. Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto. Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta? Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili. Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come "Daesh"). Guerre civili nazionali e transnazionali. Guerre fra "civiltà", o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasi del XXI secolo, che in futuro - ammesso che se ne esca vivi - sarà paragonata a modelli antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la "guerra civile europea" fra il 1914 e il 1945. Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici affondano anche nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale: Iran, Arabia saudita, Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele - finora l’unica potenza nucleare. In una violenta abreazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di fornitura di armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni avverse. Il peggio, forse, è che essa riattiva "odi teologici" millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro fra i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo chiaramente, ha le sue cause nella religione stessa: c’è sempre un "substrato" di oppressioni, conflitti di potere, strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo grandi miserie. Ma quando il "codice" della religione (o della "contro-religione") se ne appropria, la crudeltà può eccedere ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono nati mostri di barbarie, che si rafforzano con la follia della loro stessa violenza - come Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori culturali dell’umanità. Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più "razionali", come la "guerra dei droni" del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è assodato, uccide nove civili per ogni terrorista eliminato. In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle "due sponde" del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi. I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste dell’Europa sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi: terrore di Stato, jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere. Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di protezione civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni terroristiche o contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici. Ma, ciò facendo, esigere dagli Stati "democratici" la vigilanza massima contro gli atti di odio nei confronti dei cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o anche abitudini di vita, sono indicati come il "nemico interno" dagli autoproclamatisi patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati che, nel momento in cui rafforzano i propri dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi che fondano la loro legittimità. Gli esempi del "Patriot Act" e di Guantánamo mostrano che non è scontato. Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così difficile. Dico la pace, non la "vittoria": la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e compromessi, o di contro-terrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i quali vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali. Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo. Ma non vedo in quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative politiche di resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi. Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità delle Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione fra umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla "governance" del capitalismo globalizzato, dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre dunque resuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che presuppone una rifondazione dell’Organizzazione - certamente a partire dall’Assemblea generale e dalle "coalizioni regionali" di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che si neutralizzano reciprocamente o si alleano solo per il peggio. Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le contrapposizioni fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in primo luogo poterle esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve essere imposto come punto di vista unico, perché per definizione la verità non preesiste all’argomentazione e al conflitto. Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e quali mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non musulmani) del Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del "Nord", un tempo dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E soprattutto, occorre che gli "occidentali" e gli "orientali" costruiscano insieme il linguaggio di un nuovo universalismo, assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la regione, questa è già la guerra civile. Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve onorare malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi rimedio, nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma tutti insieme i paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini. Dopo la "crisi finanziaria" e la "crisi dei rifugiati", la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra. È questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e cercare nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una nuova forma di opinione pubblica. Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere quel che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo. Francia, il fallimento dell’opzione militare di Alain Gresh (Giornalista, animatore della rivista online OrientXXI?.info) Il Manifesto, 17 novembre 2015 È tempo di interrogarsi sull’uso sistematico della guerra. Mai, nella sua storia, la Francia ha subito, in una sola sera, attentati così devastanti: oltre 125 morti e un centinaio di feriti gravi; mai si erano verificati attentati-suicidi. Contrariamente all’attacco contro il settimanale Charlie-Hebdo e contro il supermercato kosher a gennaio del 2015, sono stati presi di mira luoghi pubblici, scelti non per il loro carattere simbolico, ma perché erano, di venerdì sera, molto frequentati e perché si poteva provocare il maggior numero di vittime. Che l’emozione domini in tali circostanze, è normale, ma questo non deve impedirci di riflettere e di analizzare quel che è successo con la necessaria distanza. Il clima politico interno rischia tuttavia di impedire questa riflessione. Diversamente dal momento degli attacchi contro Charlie-Hebdo, l’appello all’unità nazionale non funziona. Una escalation si è innescata nel campo della destra, segnatamente in vista delle regionali di dicembre: che rischiano di vedere il Front National di Marine Le Pen impadronirsi, per la prima volta, della presidenza di alcune di queste. Altri dirigenti "scivolano" a loro volta nell’islamofobia. Philippe de Villiers, presidente del Mouvement pour la France, non ha esitato ad attribuire questo "immenso dramma di Parigi", al "lassismo e alla "moscheizzazione" della Francia". Quanto al numero 3 del partito Les Républicains (il partito di Nicolas Sarkozy), Laurent Wauquiez, ha chiesto un Patriot Act alla francese e la reclusione di "4.000 persone schedate per terrorismo" nei "centri d’internamento". L’aggravarsi dell’islamofobia, la messa in questione delle libertà fondamentali costituirebbero però una vittoria degli autori degli attentati. Un’altra dimensione degli avvenimenti riguarda la politica estera di Parigi su cui sarebbe necessario avere un dibattito franco e sereno. Se la Francia è particolarmente presa di mira, è perché, insieme agli Stati uniti, è la più impegnata militarmente all’estero, dal Mali alla Siria, dal Centrafrica all’Iraq. Ora, il bilancio della "guerra al terrorismo" scatenata dopo l’11 settembre e rilanciata dopo la conquista di Mosul da parte dello Stato islamico (Isis), nell’estate del 2014, è disastroso. Il suo fallimento è evidente: mai sono stati commessi tanti attentati, spesso negli stessi paesi musulmani - negli ultimi mesi soltanto, l’attentato di Ankara, l’attacco contro l’aereo russo sopra il Sinai o gli attacchi suicidi a Beirut in una periferia popolare, per non parlare dei numerosi attentati in Iraq. E mai così tante persone, soprattutto giovani, si sono arruolate nei gruppi estremisti, che si tratti di al-Qaeda o dell’Isis, convinte di participare alla resistenza contro un’aggressione internazionale diretta al mondo musulmano. Non è tempo di interrogarsi sull’uso sistematico della guerra? Se è necessario sradicare l’Isis, al di là dei bombardamenti spesso inefficaci, non si dovrebbe privilegiare l’azione politica per ricostruire un Medioriente trascinato in una spirale di caos, in particolare dopo l’intervento nordamericano in Iraq del 2003? Non sarebbe tempo di promuovere un’azione coordinata delle potenze regionali che, ognuna alla loro maniera, hanno aggravato il conflitto siriano? La riunione di Vienna del 14 novembre che ha visto la partecipazione di tutte le potenze segna, forse, un passo nella giusta direzione. È più che mai arrivato il tempo di spingere realmente per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che passa per la fine dell’occupazione israeliana. Rifiuto dei tentativi di dividere la popolazione francese - tra musulmani e non musulmani, tra immigrati e francesi -, priorità alla politica e alla diplomazia sulle bombe in politica estera, questa dovrebbe essere la strategia della Francia. Arabia Saudita: altre cinque decapitazioni in pochi giorni La Repubblica, 17 novembre 2015 L’organizzazione umanitaria Nessuno Tocchi Caino, rende noto lo stato di cose relativo alla pratica delle esecuzioni capitali nel mondo. Eccone un estratto che riguarda l’Arabia Saudita, dove dall’inizio dell’anno sono state decapitate 147 persone; il Pakistan e gli Stati Uniti. Arabia Saudita, altre cinque decapitazioni in pochi giorni. L’organizzazione umanitaria che si batte contro la pena di morte, Nessuno Tocchi Caino, rende noto, attraverso uno dei suoi bollettini on line lo stato di cose relativo alla pratica delle esecuzioni capitali nel mondo. Eccone un estratto aggiornato al 13 novembre. Arabia Saudita. Altri cinque prigionieri sono stati decapitati in Arabia Saudita, negli ultimi giorni. Si tratta di tre cittadini iraniani sono stati giustiziati l’8 novembre dopo essere stati riconosciuti colpevoli di traffico di droga. Lo ha reso noto il Ministero degli Interni saudita, secondo cui i tre avrebbero tentato di "introdurre nel Paese un’ingente quantità di hashish attraverso il mare". Le esecuzioni dei tre iraniani sono state effettuate nella città portuale orientale di Dammam. Un altro uomo è stato decapitato il 9 novembre per aver ucciso un poliziotto. Ayed al-Jahdali - cittadino saudita - avrebbe sparato ad un poliziotto che procedeva al suo arresto per traffico di droga. L’esecuzione dell’omicida è stata effettuata nella regione occidentale di Makkah. Giovedi scorso, un altro uomo è stato decapitato, dopo essere stato riconosciuto colpevole di omicidio. Nasser al-Qahtani, anche lui cittadino saudita, era stato condannato a morte per aver ucciso un connazionale. Con quest’ultima decapitazione, giungono a 147 le persone giustiziate nel paese arabo dall’inizio dell’anno. Nel 2014 i prigionieri messi a morte nel Regno sono stati 87. Pakistan. Il 12 novembre un detenuto è stato impiccato, al mattino presto, nel Nuovo Carcere Centrale di Bahawalpur, a circa 600 chilometri a Sud di Islamabad. Si tratta di Nadeem alias Nadeemi Pathan, che era stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di Mir Zaheerul Hassan Tirmizi, commesso nel 1997. Il corpo di Nadeem - che era membro di un’organizzazione fuorilegge - è stato riconsegnato alla sua famiglia. Dal 17 dicembre 2014, quando si è conclusa la moratoria di fatto sulla pena capitale, almeno 293 persone, tra cui ventisei condannati per terrorismo, sono state impiccate in varie prigioni del Pakistan. Stati uniti. il Federal Bureau of Investigation (Fbi) ha pubblicato il suo tradizionale "Rapporto sulla criminalità" negli Stati Uniti, con i dati aggiornati al 2014. Si tratta dei dati raccolti da oltre 18.000 corpi di polizia locale e nazionale e copre circa 318 milioni di abitanti, compresi 3,5 milioni di Puerto Rico. Nel Crime in the United States, 2014 si rileva che il tasso di omicidi negli Usa rimane lo stesso dello scorso anno: 4,5 omicidi ogni 100.000 abitanti. Si tratta di un leggero ma costante calo rispetto agli anni precedenti: nel 2012 e nel 2011 era 4,7. Il tasso era 4,8 nel 2010, 5,0 nel 2009, 5,4 nel 2008, 5,7 nel 2007 5,8 nel 2006, fino alla prima rilevazione del 1993 che era del 9,5. Come numero totale, gli omicidi (esclusi gli omicidi colposi) nel 2014 sono stati 14.249. Nel 2013 erano stati 14.319 (questo dato è stato corretto rispetto al rapporto dello scorso anno, che lo stimava in 13.716 rilevati, aumentati a 14.196 stimando una percentuale di omicidi sfuggiti al computo ufficiale. Il calo dei delitti nel 2012. Nel 2012 erano stati 14.349. Rispetto al 2013 gli omicidi sono calati dello 0,5%. Nel corso degli ultimi 5 anni invece gli omicidi sono calati del 3,2%, e del 14,9% nel corso degli ultimi 10 anni. Non si può non notare che il calo degli omicidi è avvenuto mentre nel paese calavano le esecuzioni: dal 2014 al 2013 le esecuzioni sono calate del 10,2%, rispetto agli ultimi 5 anni del 23%, e rispetto agli ultimi 10 del 41%. Ai 14.249 omicidi propriamente detti devono essere aggiunti i cosiddetti "omicidi giustificati", ossia quelli compiuti dalla polizia nello svolgimento delle proprie funzioni, o da privati cittadini per quella che viene considerata legittima difesa. La polizia nel 2014 ha ucciso 444 persone (461 nel 2013, 410 nel 2012). Privati cittadini hanno ucciso, rispettando la legge, 277 persone (281 nel 2013, 310 nel 2012). L’FBI contestata nei numeri. Il dato degli omicidi compiuti dalla polizia è stato contestato nei mesi scorsi da alcune banche dati online compilate da volontari (tra cui "Fatal Encounters" e "Killed by Police") che stimano in circa 1.100 l’anno le vittime della polizia. Il FBI riconosce l’incompletezza dei propri dati, spiegata dal fatto che le polizie locali non hanno l’obbligo di fornire tutti gli aggiornamenti relativi a questo tipo di "crimine". Il rapporto divide gli Usa in 4 zone. Il tasso di omicidi più basso (3,3 casi ogni 100.000 abitanti) si registra nel Northeast (Connecticut, Maine, Massachusetts, New Hampshire, New Jersey, New York, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont,). L’anno scorso il tasso del NE era del 3,5. Il secondo tasso più basso (3,9) si registra nel West (Alaska, Arizona, California, Colorado, Hawaii, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Oregon, Puerto Rico, Utah, Washington, Wyoming). Nel 2013 era 4,0. Il terzo tasso (4,3) è quello del Midwest (Illinois, Indiana, Iowa, Kansas, Mi chigan, Minnesota, Missouri, Nebraska, North Dakota, Ohio, South Dakota, Wisconsin). Era 4,6 nel 2013. Il tasso di omicidi più alto (5,5) è quello del Sud (Alabama, Arkansas, Delaware, District of Columbia, Florida, Georgia, Kentucky, Louisiana, Maryland, Mississippi, North Carolina, Oklahoma, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia, West Virginia). Era 5,3 nel 2013, e ancora 5,5 nel 2012. Nel Nonrd Est Usa meno esecuzioni e meno omicidi del 22%. Come è noto, il Northeast è la zona degli Usa dove il ricorso alla pena di morte è tradizionalmente molto minore rispetto alle altre aree del paese. È una costante che in epoca moderna il Nordest registri la più bassa percentuale di omicidi del paese. Discorso opposto per il Sud, che da solo registra l’82% delle esecuzioni Usa, ma continua ad avere il più alto tasso di criminalità violenta del paese. Secondo una aggregazione di dati realizzata dal Death Penalty Information Center, nel complesso gli stati che non utilizzano la pena di morte hanno un tasso omicidiario del 3,8 mentre gli stati che la usano sono al 4,7. Gli stati senza pena di morte hanno cioè un tasso di omicidi che è del 22% più basso rispetto agli stati con la pena di morte. Gli stati con il tasso di omicidi più alto sono Puerto Rico (isola caraibica considerato territorio USA) con il 19.2, il Distretto di Columbia (la parte centrale della città di Washington) con 15.9, la Louisiana (10.3) e il Mississippi (8.6). I tassi più bassi sono in New Hampshire (0,9) Maine, Minnesota e Vermont (1,6). Nel complesso nella nazione si stima siano avvenuti 1.165.000 reati violenti. Rispetto al 2013 la diminuzione è dello 0,2%. Nell’arco degli ultimi 5 anni la diminuzione dei reati violenti è stata del 6,9%, mentre negli ultimi 10 anni del 16,2%. Nel 2014 le forze dell’ordine stimano siano stati arrestate poco più di 11,2 milioni di persone, esclusi gli arresti per violazioni stradali ma inclusi gli arresti per "DUI", ossia guida sotto l’influsso di alcolici o droga. Il numero maggiore di arresti, oltre 1,5 milioni, è stato per reati di droga, 1,2 per furto, e 1,1 per guida "DUI". Per omicidio sono state arrestate più di 10.571 persone. La popolazione detenuta. La popolazione detenuta è composta da 516,900 maschi neri (37%), 453,500 maschi bianchi (32%), e 308,700 maschi ispanici (22%). Il 7% della popolazione detenuta è composta da donne. Tra loro, il 50% è bianco, il 21% nero. Confrontando questi numeri con il totale della popolazione, quasi il 3% dei maschi neri sono in carcere con pene superiori ad 1 anni, l’1% dei maschi ispanici, e lo 0,5% dei maschi bianchi. Un maschio nero ha circa 7 volte più probabilità di finire in carcere rispetto ad un maschio bianco, e circa 2,3 volte più probabilità rispetto ad un maschio ispanico. Il 50% dei detenuti nelle carceri federali e il 16% nelle carceri statali è stato condannato per reati di droga. Tra gli ispanici, il 26% è stato condannato per reati legati all’immigrazione. 131.000 detenuti provenienti da 30 stati e dal circuito federale sono tenuti in carceri gestite da privati. Il numero è di 2.100 unità inferiore all’anno precedente. Il rapporto Prisoners in 2014 (NCJ 248955) non contiene i dati sulle prigioni locali. In un rapporto più completo del 2013 ("Correctional Populations In The United States, 2013") ai 1.560.000 detenuti nelle carceri federali e statali andrebbero aggiunti oltre 730.000 detenuti nelle carceri locali, 3.9 milioni sottoposti a controlli periodici (libertà vigilata), e oltre 850.000 persone in libertà condizionale. Entrambe questi rapporti sono a cura del BJS (Bureau of Justice Statistics), un’agenzia federale. Svizzera: lavorare in carcere pensando al "dopo" di Gabriele Botti Giornale del Popolo, 17 novembre 2015 Il riscatto sociale prende corpo all’interno della prigione e da se stessi. Il direttore del penitenziario della "Stampa" Stefano Laffranchini ci spiega com’è organizzato il lavoro e qual è il suo significato. Qual è il significato della parola "lavoro" all’interno di un carcere? "Di significati ne ha molti: è un obbligo, certo, ma è anche un piacere, una via di rilancio e di crescita personale, un mezzo per avere una minima autosufficienza. Credo sia anche una fortunata possibilità e un’occasione per costruirsi il proprio futuro, questo almeno per la maggior parte dei detenuti. Inoltre, lavorare sottrae i detenuti alle conseguenze negative dell’ozio che, in un contesto come il nostro, rappresenta un vero e proprio pericolo. Posso aggiungere anche che cosa non deve essere il lavoro: una punizione". Il lavoro accomuna tutti i reclusi? Ovvero: esistono regole generali che valgono per tutti? "No. Va specificato che presso le strutture carcerarie cantonali, così come nel resto Svizzera, esistono tre tipologie di carcere: in ognuna il lavoro è connotato in modo differente. Partiamo dal carcere giudiziario: si riferisce a chi è in attesa di processo, ai cosiddetti prevenuti, che rimangono da noi per un breve periodo (in media 3 mesi). Per loro, considerata appunto la loro breve permanenza, non vige l’obbligo del lavoro. C’è poi il carcere penale e qui si parla di detenuti in senso stretto, di persone che sono state giudicate. Qui il lavoro assume un ruolo centrale in vista, nelle migliori delle ipotesi e secondo i nostri intendimenti, di un reinserimento sociale. Infine, c’è la Sezione aperta del carcere penale (Stampino), l’ultimo step prima dell’espiazione della pena detentiva: si lavora anche all’esterno, in squadra e ci si prepara al ritorno alla vita "normale". Qual è la risposta del carcerato? Come vive un carcerato la possibilità di lavorare all’interno di un contesto comunque molto particolare? "Sostanzialmente bene. Diciamo che 6-7 detenuti su 10 lavorano con almeno una discreta motivazione, mentre per altri si tratta di una noiosa scocciatura. Comunque, non esistono eccezioni: tutti, salvo ovviamente motivazioni legate alla salute, devono lavorare. Guardi, il carcere è spesso lo specchio della società: una minima parte dei carcerati è fatta di scansafatiche irrimediabili, esattamente come all’esterno. Ma anche per loro vale la regola dell’obbligo al lavoro e pertanto chi si oppone viene sanzionato. Come? Si parte da un ammonimento, poi si sale". Chi invece lavora è mosso da quale motivazione? "Chi lavora è motivato da tre fattori: prima di tutto dalla paga che riceve, poi dalla soddisfazione personale e infine dalla possibilità di diventare un punto di riferimento per gli altri, aspetto che in un carcere non è secondario. La voglia di mostrare le proprie qualità c’è". Quali sono i lavori che si possono svolgere? "L’elenco è lungo: si può lavorare in cucina, in lavanderia, in stireria, ci si può occupare di piccola manutenzione o essere inseriti nella squadra di lavoro esterna. C’è il laboratorio manuale, la falegnameria (dove si producono i mobili delle celle, ma anche bare, soprammobili, moschiere, arnie), la legatoria, la stamperia. Le possibilità sono molteplici". Come avviene il passaggio dallo status di carcerato a quello di lavoratore e come vengono abbinate le persone ai lavori da svolgere? "Il principio è semplice: si considera l’obiettivo da raggiungere, non tanto la competenza del singolo. Si cerca di capire cosa davvero può essere utile per il carcerato e quale sia la sua reale motivazione. I posti a disposizione sono circa 140, mentre i detenuti che in teoria dovrebbero lavorare 170: c’è quindi qualcuno che resta fuori e che si mette in lista d’attesa, ecco perché è fondamentale che ogni posto di lavoro sia assegnato in modo ponderato a chi davvero dimostra di volerlo. Anche in carcere c’è la disoccupazione e anche in carcere ogni posto di lavoro è prezioso". Stati Uniti: cinque detenuti di Guantánamo trasferiti negli Emirati Arabi, ne restano 107 Askanews, 17 novembre 2015 Gli Stati Uniti hanno trasferito negli Emirati Arabi Uniti cinque detenuti dalla Base di Guantánamo. Lo ha annunciato il Pentagono, con un altro provvedimento nell’ambito del più volte ritardato piano di chiusura del carcere militare di massima sicurezza. Con questo provvedimento sono 107 i detenuti che restano nella Base di Guantánamo, ha spiegato il Pentagono in un comunicato, in cui ha aggiunto di essere "grato al governo degli Emirati Arabi Uniti per la sua disponibilità a sostenere i perduranti sforzi statunitense per chiudere il carcere di Guantánamo". Il trasferimento riguarda detenuti di "basso livello" di nazionalità yemenita, dietro le sbarre da quasi quattordici senza alcuna formale incriminazione. Il Pentagono ne ha diffuso i nomi: Ali Ahmad Mohammed al-Razihi, Khalid Abd-al-Jabbar Mohammed Uthman al-Qadasi, Adil Said al-Hajj Ubayd al-Busays, Sulayman Awad Bin Uqayl al-Nahdi e Fahmi Salem Said al-Asani. Lo ha scritto il New York Times. In passato gli Emirati Arabi Uniti hanno preso in consegna solo un ex detenuto di Guantànamo - un suo connazionale - nel 2008.