Gli Stati Generali, Tavolo 2, hanno incontrato i detenuti AS a Parma di Giovanni Donatiello (detenuto nella Casa di reclusione di Parma) Ristretti Orizzonti, 16 novembre 2015 Eravamo nel mese di aprile e negli incontri della redazione di Ristretti Orizzonti si discuteva sugli "Stati Generali" delle carceri proclamati dal Ministro Andrea Orlando anche per cambiare le condizioni della vita detentiva. C’era un certo fermento, a dirla tutta poche aspettative, si temeva che questo evento fosse stato dettato dal bisogno di una certa visibilità, considerato che poi la presentazione era stata prevista a Bollate in concomitanza con l’Expo di Milano. Ciò nonostante ci si confrontava e si proponevano idee alternative, in modo particolare sul coinvolgimento dei detenuti in questo progetto. I nostri dubbi riguardavano la composizione dei tavoli e il metodo di lavoro che si sarebbe assunto. Spesso accade che, nell’elaborazione di nuove politiche, questi tavoli di discussione e ricerca sono formati dai soliti "intellettuali", luminari pronti a sfornare le loro teorie, anche interessanti e profonde, ma con scarse conoscenze sul campo. In tema di detenzione si deve toccare con mano e anche sporcarsi le mani, nel senso che venire a contatto con delle realtà carcerarie come Parma (dove sono stato trasferito a giugno di quest’anno), verificandone lo stato, le condizioni di detenzione e tutto il sistema di gestione consolidato nel tempo, dovrebbe indurre a impegnarsi per smuovere le cose, sporcandosi appunto le mani. Certamente lo avranno percepito i componenti del Tavolo nr. 2 degli Stati Generali, con i quali c’è stato un incontro il 30 ottobre, ascoltando i nostri interventi. Noi detenuti ci siamo alternati, a volte improvvisando, ma erano testimonianze vere con le quali sono state portate alla luce molte delle criticità presenti in questo Istituto, inoltre sono state fatte proposte riguardo il miglioramento della vita detentiva. Ci siamo trovati di fronte a persone attente, sicuramente luminari della esecuzione della pena, ma persone semplici, a partire dal coordinatore insieme agli altri sei componenti. Ecco che è venuto meno quel pregiudizio cui accennavo poc’anzi rispetto la composizione dei tavoli. Abbiamo interloquito in un clima molto pacato, all’interno della sala messa a disposizione per l’occasione, mentre all’esterno l’impressione è che qualcuno mal sopportava questa "intrusione". L’impressione è che in tante carceri ancora non si sia abituati al confronto, e qualcuno infatti ha lavorato per rendere l’incontro meno agevole e proficuo. Così diversi detenuti che volevano intervenire all’evento sono stati esclusi, nonostante avessimo preparato per tematiche gli interventi, ecco perché un po’di improvvisazione c’è stata. Anche lo spazio messo a disposizione riproduceva fedelmente, a mio avviso, il sistema Parma: una stanza con poche sedie, due scrivanie che sono state usate per sedersi e un assembramento di persone, all’incirca venti, stipate in pochi metri quadri e non per ultimo il divieto per noi detenuti di consegnare propria documentazione inerente la questione. L’immagine precisa che secondo me è emersa è quella del clima di Parma, denso di sospetto e pregiudizio. Pur condividendo l’opinione dei miei compagni sulla positività dell’incontro, ritengo però che sia stato un incontro monco, perché erano assenti nella composizione del tavolo nr.2 i funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ci sarebbe piaciuto che ascoltassero le nostre testimonianze e si confrontassero con il "sistema Parma". Avrei voluto chiedergli, in modo particolare, se una gestione del carcere di puro contenimento non sia incarnata perfettamente in questo Istituto, e se non sia ora di affrontare il problema o si preferisca invece avallare questo stato di cose. Ebbene, nonostante tutto noi eravamo presenti, consapevoli che con le nostre storie personali potevamo anche essere oggetto di critiche, ma proprio per questo non siamo mancati, ci siamo, in un certo senso, responsabilizzati. Peccato che fosse assente chi avrebbe dovuto rappresentare le Istituzioni direttamente coinvolte nella gestione degli Istituti di pena. Comunque le Istituzioni erano rappresentate nella forma più alta da persone che credono nella possibilità di cambiare quello che non funziona della vita detentiva, e dei circuiti in particolare. Ed in queste persone dobbiamo a nostra volta credere. Giustizia: per la sicurezza dobbiamo cedere parte delle nostre libertà di Franco Roberti (Procuratore nazionale antiterrorismo) huffingtonpost.it, 16 novembre 2015 Il Giubileo aumenta i rischi, attivati gli strumenti di prevenzione. "È da tempo che l’Isis lancia messaggi contro Roma, non è ieri la prima volta. Alfano è stato esplicito e chiaro: il pericolo esiste, ma non è concreto, non è circostanziato. Un pericolo oggettivo da cui guardarci, mettendo in campo tutti i mezzi di prevenzione che sono stati messi in campo. I nostri servizi di intelligence funzionano bene, gli organi di polizia giudiziaria funzionano". Lo afferma a "In mezz’ora", su Raitre, Franco Roberti, procuratore nazionale antiterrorismo, spiegando che "il Giubileo costituisce obiettivamente un aumento del rischio, ne siamo consapevoli. Ma sarebbe una rinuncia alla nostra capacità di darci obiettivi. Sarebbe veramente fare il gioco dei terroristi, così come lo sarebbe rinunciare alle nostre tante libertà". Possiamo stare tranquilli? "Assolutamente no, ma dobbiamo sapere che abbiamo la coscienza a posto di aver messo in campo tutti gli strumenti operativi e di intelligence per prevenire" attacchi in Italia. Per questo il procuratore afferma che "non dobbiamo spaventarci, dobbiamo continuare a vivere la nostra vita, coltivare i nostri interessi, difendere i nostri valori, sapendo che c’è un pericolo oggettivo". Quanto agli arresti recenti nel nord Italia e sulla possibilità che questi interventi abbiano potuto impedire attentati in Italia, Roberti spiega che "questo non possiamo dirlo e tenderei ad escluderlo, perché gli arrestati avevano come obiettivo la liberazione del mullah detenuto e volevano premere sul governo norvegese per la sua liberazione. Non rientrava nei piani di quella organizzazione transnazionale la realizzazione di attentati in Italia o Francia, in Paesi che non fossero la Norvegia". Ci dobbiamo preparare a leggi più stringenti per la nostra libertà personale? "Dopo gli attacchi di gennaio - dice il magistrato - il nostro Parlamento ha già rafforzato il quadro normativo contro il terrorismo. Non credo servano leggi speciali. Bisogna invece far funzionare bene la cooperazione internazionale a livello di intelligence e di polizia". Roberti aggiunge anche che "forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione". Giustizia: sicurezza, una merce sempre più cara di Paolo Graldi Il Messaggero, 16 novembre 2015 Dopo Parigi anche Roma, come minacciano i proclami del sedicente Califfato? E con Roma, Washington? La domanda davanti all’orrore sanguinario contro la capitale francese non è soltanto legittima ma opportuna. Si è andati avanti, nel tempo, con rassicuranti scenari: il rischio zero non esiste e tuttavia non ci sono allarmi particolari, segnali che impongono una stretta decisa e risoluta. Ci ha pensato una realtà improvvisa, in parte imprevista, comunque deflagrante nella sua spaventosa dimensione di morte a richiamare tutti ad un crudo realismo. Un manipolo di assassini kamikaze con il bottino di 129 morti e 350 feriti (cento gravissimi) ha fatto ripiombare la Francia, l’Europa, il mondo nell’incubo dell’assalto devastante sulla nostra vita quotidiana. Una partita di calcio - maledetto il pallone e chi lo gioca, inveiscono gli imam integralisti con una fatwa di condanna -, la musica moderna, sfrenata nella insana promiscuità del ballo che l’accompagna, i bistrot, i ristoranti, i ritrovi dove si beve, anzi si gozzoviglia divengono altrettanti paradisi di una felicità da annientare. Ecco allora riapparire, tra mille declinazioni, la paura, malefica tentazione a compiere un passo indietro, a immaginare una ritirata protetta, a rinchiudersi nel proprio fortino. Combattere la paura è indispensabile, adesso più che mai. La paura è l’anticamera della resa silenziosa e incondizionata. Se c’è (e non è per niente innaturale che ci sia) va elaborata, trasformata in una consapevolezza più alta. È come l’adrenalina che ci soccorre all’istante nel momento in cui il nostro organismo ha bisogno di una iniezione di forza lucida e ragionata. Il timore di restare coinvolti in agguati devastanti deve diventare un’arma in più nella determinazione che la nostra cultura è una barriera invalicabile e nessun nemico, per quanto subdolo e micidiale, può sperare di superarla. A proteggerci davvero occorre un fattore che ha solo un nome: sicurezza. La sicurezza è un bene, un prodotto, un elemento che può essere di alta, buona, media o scarsa qualità ed è la prova dei fatti che decide a quale categoria si appartiene. L’eccidio di Parigi ci dice che il terrorismo dell’Is va all’attacco con metodi che aggiungono elementi gravi e inquietanti alla sua naturale pericolosità. Si avvale di guerrieri addestrati, freddi, motivati, spietati fino all’inverosimile, portatori di una carica d’odio liquido che spargono come benzina al loro passaggio. E, in più, lasciano i loro covi mettendo al posto di giubbotti antiproiettile per proteggersi, cinture esplosive per lasciarsi spappolare a missione compiuta o nel caso di necessità. Qui sta il salto di qualità già visto impiegato su terreni di guerra aperta ma ora "importato" nelle nostre strade. Non più e soltanto combattenti fanatici e risoluti ma anche "martiri" che giocano la carta dell’auto annientamento. A gennaio, sempre a Parigi, dopo l’assalto alla redazione di Charlie Hedbo i terroristi cercano vie di scampo, di mettersi in salvo. Questa volta no. La serrata sequenza di riunioni al vertice della sicurezza nazionale, la decisione di innalzare il livello di allerta, il richiamo alle autorità periferiche per una revisione severissima delle protezione e della rete dei controlli almeno nei punti considerati sensibili e più esposti ha fornito con drammatica immediatezza la sensazione che un tale giro di vite derivasse anche da una valutazione dapprima non adeguata. I fatti nuovi, comunque, impongono un cambio di strategia. Ora il governo fa sapere che verranno aumentati gli uomini e sperabilmente anche i mezzi. Si sa che tra le forze di polizia il turn over è congelato da almeno quattro anni, che le risorse scarseggiano in ogni comparto e le lamentazioni s’infittiscono. I servizi di sicurezza, la nostra lodatissima intelligence, si è mostrata all’altezza delle migliori aspettative, specie nella delicata e oscura opera di prevenzione e monitoraggio delle minacce incombenti Ora si riconosce che i nuovi scenari d’attacco impongono anche su quel fronte una visione diversa che non può prescindere dalla disponibilità di risorse adeguate. L’imminente Giubileo della Misericordia, mancano appena ventidue giorni, ad al là delle analisi statistiche che spargono rassicurazioni, alzando gli occhi al cielo, avrà bisogno di un ripensamento che consideri non solo virtuali vanterie le minacce di attacchi anche da noi. Ma è anche vero che ciascuno, ogni cittadino, deve mettersi al servizio della propria incolumità divenendo esso stesso, culturalmente prima ancora che nei gesti quotidiani, un attento vigilante. governanti sono chiamati, insieme con li forze politiche, a scelte oculate, lucide, ancorché costose. Mestiere difficile perché costituito da un delicato equilibrio nel quale tutti debbono potersi riconoscere con convinzione. Parigi con le sue vittime innocenti ci dice che il sacrificio può essere altissimo e infatti la mirabile compostezza con cui hanno affrontato il day after rappresenta un esempio davvero esemplare. In questa temperie, purtroppo, i buoni sentimenti non bastano più. Giustizia: quel rapporto sempre difficile tra cittadini, politici e magistrati di Luciano Violante Gazzetta del Mezzogiorno, 16 novembre 2015 Circa un anno fa, il 23 ottobre 2014, parlando all’Associazione Internazionale dei penalisti, Papa Francesco ha affrontato il tema dell’abuso del diritto penale nelle società contemporanee, come questione lesiva dei principi fondamentali di una comunità civile. Le linee conduttrici dell’intervento sono state la difesa della dignità della persona e il dovere dei giuristi di garantire questo valore. Francesco non si é limitato a questi richiami. Ha denunciato che i sistemi penali sono fuori controllo e ha individuato la causa di questa degenerazione nel "populismo penale". È singolare che sia un Papa ad affrontare questi temi. Non deve stupire che il cittadino occidentale, sostenuto da un robustissima corrente di pensiero e di azione che fa capo in molti nostri Paesi, a costituzionalisti, magistrati e avvocati, ritengono più utile ricorrere al giudice piuttosto che ai politici per ottenere nuovi diritti o per meglio esercitare quelli esistenti, oppure per controllare meglio le attività della politica. Un recente sondaggio svolto in Francia pochi giorni prima della strage di sabato sera, ha rivelato che il 67% dei francesi riterrebbe opportuno che il governo politico venga sostituito da un governo di soli tecnici, mentre il 40% dei francesi sarebbe favorevole a un governo politico autoritario. D’altra parte i giudici, a differenza dei politici, devono comunque decidere, non possono rinviare; e i giudici, a differenza dei politici, non devono tenere conto dei costi finanziari delle proprie decisioni. Faccio un esempio. Molte autorità giudiziarie intervenendo sul cosiddetto caso Stamina, dal nome della poltiglia che un certo signore somministrava a spese del SSN e tramite gli Ospedali Riuniti di Brescia a malati gravissimi, hanno riconosciuto il diritto di accedere al trattamento a persone che una legge dello Stato escludeva esplicitamente dalla cura. La legge peccava di irragionevolezza perché ammetteva al trattamento solo chi lo aveva già iniziato, e quindi il giudice avrebbe potuto ricorrere alla Corte Costituzionale ottenendo così probabilmente una decisione valida erga omnes. Ma così non è stato e molti giudici hanno direttamente riconosciuto il diritto anche a chi non aveva ancora iniziato il trattamento, caricandone il costo sul Servizio Sanitario Nazionale. Se la stessa decisione fosse stata presa da un assessore alla Sanità, sarebbe giustamente scattata la sanzione della Corte dei Conti e forse un processo penale per abuso. In Occidente, alcuni studiosi, con riferimento al crescente peso politico dei giudici, denunciano volta a volta la penalizzazione della società, o la politicizzazione del Giudiziario o la giurisdizionalizzazione della politica. Gli studiosi anglosassoni hanno creato addirittura un neologismo, juristocracy, per segnalare il passaggio di poteri dalla politica ai tecnici del diritto, avvocati e magistrati. D’altra parte in Europa non c’è nessun governo e ben due organi giurisdizionali, la Cedu e la Corte di Giustizia. I fattori che hanno concorso alla crescita di questo fenomeno sono la crescente debolezza della politica di fronte alle domande dei cittadini e quella moderna versione del pensiero costituzionale che va sotto il nome di neo costituzionalismo. Lettere: Del Turco e la pena senza riscontri di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 16 novembre 2015 Adesso persino l’accusa, nel processo d’appello a Ottaviano Del Turco, ammette che non ci sono "riscontri" sulle presunte tangenti incassate dal governatore dell’Abruzzo costretto a dimettersi nel 2008, dopo essere stato arrestato nottetempo, come i peggiori malfattori: cioè, in parole povere, non si trovano, non si sa nemmeno se esistano. Ci arrivano adesso, meglio tardi che mai. Ma si sapeva già, lo sapevano tutti, bastava solo informarsi e non uniformarsi a priori ai bollettini stampa della Procura. Solo l’accusa, i giornali forcaioli e i giudici della sentenza di primo grado non se n’erano accorti: quelle tangenti non si trovavano, il presunto corruttore è stato creduto sulla parola, anni e anni di indagini non hanno scoperto niente, si è accusato un uomo di aver intascato tangenti mai trovate. Non c’erano "riscontri". Un uomo è andato in galera senza riscontri. Si è dimesso senza riscontri. All’indomani dell’arresto di Del Turco, il procuratore Trifuoggi, nella oramai rituale conferenza stampa (è la nuova moda) in cui chi conduce le indagini emette mediaticamente un verdetto preconfezionato di colpevolezza, aveva detto che quei riscontri c’erano ed erano addirittura "schiaccianti". Disse proprio così: "schiaccianti". Così schiaccianti che per trovare queste benedette tangenti hanno chiesto più volte supplementi di indagine: niente. L’accusatore si è fatto un video-selfie mettendo in evidenza il contante che avrebbe consegnato a Del Turco, ma poi si è dimenticato di accendere il registratore nel momento della consegna: anche qui mancano i riscontri, audio e video. Si dice che per condannare, occorre avere la certezza della colpevolezza di un imputato al di là di ogni dubbio. Ma la mancanza di "riscontri" è stata considerata una certezza e non un dubbio. Venerdì dovrebbe esserci la sentenza d’appello. L’accusa, appena ammessa la mancanza di "riscontri", cioè dell’oggetto stesso del reato, ha chiesto una riduzione della pena. Riduzione? Avremmo un primo caso di pena, ancorché ridotta, senza "riscontri". Certe cose non possono accadere? No, in Italia accadono. È accaduto a Del Turco che un magistrato, poche ore dopo l’arresto, abbia parlato di prove "schiaccianti". È accaduto che i media abbiano nella grande maggioranza fatto proprie le certezze senza "riscontri" dell’accusa. È accaduto che una Regione d’Italia abbia cambiato equilibri senza che il Pd spendesse una sola parola a favore di Del Turco. Questa sì, che è storia riscontrata. Sardegna: Pili (Unidos); tre detenuti morti in quindici giorni nelle carceri sarde Ansa, 16 novembre 2015 "Due morti a Uta, di cui una inquietante, e un decesso sconosciuto sino ad oggi nella colonia penale di Mamone. Si tratta di un’escalation senza precedenti che il Dap sta cercando in tutti i modi di coprire. Morti che vengono attribuite a cause naturali, vedasi il caso di Uta del 30 ottobre oppure quella tenuta nascosta di Mamone del 26 ottobre, venuta allo scoperto ieri durante una visita ispettiva nella colonia di Onanì". Lo denuncia il deputato di Unidos, Mauro Pili, dopo aver compiuto un sopralluogo nella colonia penale di Mamone e dopo aver riscontrato nelle ultime ore i fatti di Uta con fonti autorevoli legati alle famiglie dei detenuti deceduti. "Ci sono almeno due episodi che in queste ore stanno emergendo in tutta la loro gravità. Secondo fonti attendibili - afferma Pili - la morte del giovane di 30 anni del 30 ottobre nel carcere di Uta non sarebbe da attribuire a cause naturali come aveva dichiarato la direzione del carcere cercando di eludere la gravità della situazione. Sarebbe certa, invece, l’overdose. Con un quesito inquietante: chi ha fornito o somministrato quel cocktail letale al giovane sardo? E su questa domanda che sarebbero a lavoro gli inquirenti che hanno negato l’esito dell’autopsia anche alla direzione del carcere. È evidente che all’interno della struttura di Uta c’è stata una falla evidente, sia nella fase d’ingresso delle sostanze tossiche sia nel numero sempre più ridotto di agenti destinati al controllo e alla sorveglianza dei detenuti. A questo si aggiunge la notizia che ieri mi è stata confermata nella colonia penale di Mamone. Un decesso datato 26 ottobre. Tenuto anche in questo caso nel silenzio di quella sperduta colonia penale". Piemonte: chiusura degli Opg, l’unica struttura disponibile è una clinica privata a Bra di Alessandro Mondo e Noemi Penna La Stampa, 16 novembre 2015 Sui Rems, le Residenze regionali che avrebbero dovuto ospitare i pazienti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari, il Piemonte è fuori regola da 228 giorni. Oltre ad aver ricevuto la diffida del sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, dall’1 aprile ha speso più di 2,5 milioni di euro per tenere i pazienti nell’ex Opg di Castiglione delle Stiviere, di cui lo Stato non ha ancora approvato il rimborso (l’ultima copertura delle spese garantita è quella del biennio 2012-2013). Per disincentivare la permanenza, la Regione Lombardia ha innalzato le tariffe di soggiorno: la Regione Piemonte sborsa 300 euro al giorno per ogni detenuto psichiatrico piemontese, 450 euro se è stato internato dopo marzo 2015. A oggi l’unico Rems attivato in Piemonte è il San Michele di Bra: soluzione temporanea, in quanto clinica privata, dove per ogni paziente vengono rimborsati giornalmente 240 euro. Lì i posti dovevano essere 30, ma dopo lunghe trattative tra Regione e Comune, sono scesi a 18. Oggi è quasi a pieno regime: da Castiglione sono stati trasferiti in 17, di cui uno è scappato poco dopo l’arrivo ed è tutt’ora a piede libero. Rimangono quindi due dozzine di pazienti in attesa di trasferimento: dieci non sono sottoposti al vincolo di Rems, quindi potranno essere accolti dai servizi territoriali regionali; per gli altri non ci sono altre sistemazioni se non la detenzione in proroga nell’ex Opg lombardo, a caro prezzo. E pensare che a Grugliasco era tutto pronto. Il Rems della Regione sarebbe dovuto sorgere al Barocchio: 40 posti di cui 15 nella casa di cura già esistente, gli altri nella struttura adiacente di proprietà della Città Metropolitana, occupata da vent’anni dal centro sociale Squat. "Il progetto c’è, il bando per l’appalto pure: i lavori sarebbero dovuti iniziare questa settimana ma è stato tutto sospeso dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica della Prefettura", ricorda il dottor Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl To3. L’unico modo per iniziare i lavori è lo sgombero dei locali occupati: "Ora è tutto fermo. Anche se da parte nostra c’è massima disponibilità", dice il sindaco di Grugliasco, Roberto Montà. "Per i pazienti della comunità psichiatrica erano già state trovate altre sistemazioni per permettere i lavori. L’entrata in servizio del Rems era stata prevista per febbraio, e anche se venisse dato oggi il via libera saremmo comunque in ritardo di un anno: non credo che il Barocchio andrà in porto, anche se trovo assurdo che si preferisca tutelare una realtà illegale rispetto ad un servizio come questo - rincara Zanalda. In ogni caso bisogna trovare altre soluzioni. Il 10% dei pazienti è ritenuto "indimissibile", quindi per loro si potrebbero pensare degli spazi all’interno del braccio psichiatrico delle Vallette. Per gli altri esistono alcune strutture di proprietà delle Asl, censite lo scorso anno in vista della chiusura degli Opg, trasformabili in Rems: una è in provincia di Torino, due a Cuneo, un’altra a Biella". Situazione di difficoltà confermata, in un’ottica meno pessimistica, dalla Regione. "È vero. Avevamo già pronto il progetto per risistemare la parte dell’edificio oggi occupato dalla comunità terapeutica, rimandando ad una seconda fase l’utilizzo dei locali occupati abusivamente, ma nell’incontro con la Prefettura è emersa la preoccupazione di reazioni da parte degli squatter anche solo per portare a termine il primo step", spiega l’assessore alla Sanità Antonio Saitta. E adesso? "Ci è stato chiesto di predisporre un progetto unico, che tenga conto di tutti gli spazi della struttura: quando partiranno i lavori generali, scatterà lo sgombero. Il ministero è stato aggiornato". Resta l’incognita sulla tempistica dell’apertura del cantiere, contestuale all’allontanamento degli occupanti: fino ad allora, i pazienti piemontesi resteranno a Castiglione delle Stiviere. Non a caso, in Regione continua la ricerca e la valutazione di altre opzioni rispetto a Grugliasco. Bergamo: esperti a confronto "violenza sulle donne, il carcere da solo non basta" di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 16 novembre 2015 Convegno dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori: "senza un percorso di consapevolezza escono e sono gli stessi di prima". Nicolas, condannato a 6 anni perché "entrato nella stanza della ex fidanzata le usava violenze: "Così ti faccio capire che cosa ho provato da bambino". Michele, classe 1937, 5 anni per ingiurie e violenze alla moglie: "Premendole un cuscino sulla faccia le diceva: "Se provi a denunciarmi hai finito di vivere, sei un mio diritto". Roberta Cossia, magistrato di sorveglianza a Milano, legge alcuni dei bollettini di violenza che si ritrova per le mani tutti i giorni. Al convegno organizzato dalla sezione di Bergamo dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori parla a un pubblico di 300 studenti delle scuole superiori. Violenza sulle donne, qui la prospettiva è al rovescio rispetto alla solita: cosa fare con il violento? Punire, rieducare? Il dilemma ha riempito i testi di diritto e di criminologia. "Il problema è che in Italia l’unica risposta è quella carceraria - dice il magistrato -. Soddisfa il sentimento vendicativo, ma la maggior parte di queste persone non si sente responsabile. E non esiste recupero senza assunzione di responsabilità". Non si pensi che abbiano scritto in faccia "violento". Il sottobosco personale, inoltre, è molto più complesso. Lo sa bene Francesca Garbarino, criminologa nelle carceri. "L’83% di chi commette questi reati ha subìto violenze in famiglia. Il lavoro che si fa con queste persone è farle entrare in contatto con la loro sofferenza. Spesso sembrano tutte d’un pezzo". Come il detenuto sempre curatissimo che alla domanda "per lei le regole sono importanti?" risponde: "Certo, non ho mai preso una multa". O il perito chimico incontrato a Bollate dalla criminologa Barbara Moretti che si è laureato in Scienze politiche. Ha abusato delle nipoti di 14 e 16 anni. Pensa di essere stato istigato dal loro abbigliamento. Sia chiaro: "Siamo qui per capire e non per giustificare". Chantal Podio, psichiatra, mostra il video di Marco, 20 anni, che ha tartassato la sua ex di sms: "Ero innamoratissimo". "Il tema è non rendersi conto del bisogno dell’altro, che non si vuole lasciare andare. Chi agisce la violenza è il soggetto debole". E di Aldo, che a 56 anni incolpa la donna che l’ha lasciato: "Non sono uno stalker, ho il diritto di sapere perché una storia finisce". La violenza non ha età e forma. Simonetta Bellaviti, pm al tribunale dei minori di Brescia, parla ai giovani dei giovani. Come il sedicenne che per comprarsi la droga picchiava la madre: "Lo meriti perché non sei come le altre mamme". Per lui "la misura cautelare è stato l’inizio della guarigione". O come il branco che ha violentato e poi ucciso una coetanea: "È bastato il rifiuto contro uno di loro. E gli altri non si sono dissociati". Ma la violenza è anche quella "che una tredicenne ha compiuto su se stessa", mandando le sue foto, nuda, a un ragazzo, che le ha fatte circolare in rete: "Gliele ho mandate perché lui mi piaceva". Vercelli: "Impresa Carcere. Non solo sbarre", riabilitare i detenuti attraverso il lavoro La Stampa, 16 novembre 2015 La Casa circondariale di Vercelli è tra gli organizzatori della giornata "Impresa Carcere. Non solo sbarre". Il lavoro come mezzo per il recupero e la riabilitazione sociale delle persone in carcere. Se ne parlerà in un convegno promosso da Comune, Consulta per l’imprenditorialità giovanile della Camera di commercio, casa circondariale di Vercelli, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Camera penale e Ordine degli avvocati di Vercelli. L’appuntamento con "Impresa Carcere - Non solo sbarre" è per oggi dalle 14,30 nella cripta del Sant’Andrea. Interverranno, tra gli altri, il sindaco Maura Forte, l’assessore alle Politiche sociali Paola Montano, la direttrice del carcere di Vercelli Tullia Ardito e il magistrato di sorveglianza di Vercelli Sandra Del Piccolo. "I tempi sono maturi - sottolinea Montano - per considerare la realtà del carcere non come una struttura avulsa dal contesto della città, ma come una comunità a cui porre attenzione prima di tutto sotto l’aspetto sociale. Auspico che dai lavori del convegno emergano proposte concrete per consentire a chi si trova in carcere di lavorare in un’ottica "di mercato", e quindi di vedere acquistato ciò che produce, di trarne i frutti in termini di apprendimento professionale oltre a poter realizzare e veder crescere un’impresa vera e propria". Sulla creazione di un’impresa in carcere parleranno anche Lella Bassignana, presidente della Consulta per l’imprenditoria della Camera di commercio, e Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Regione. Prato: con "Il Varco Onlus" le opere dei detenuti in mostra nel palazzo della Provincia Il Tirreno, 16 novembre 2015 Al termine di un corso di pittura tenuto nella casa circondariale La Dogaia a Prato dai volontari dell’Onlus Il Varco sono stati organizzati una mostra ed un concerto in via Ricasoli 25. L’arte che riabilita. La Casa Circondariale di Prato, espone una mostra di pittura sostenuta dagli operatori del penitenziario e dai pittori detenuti. L’evento si svolgerà da mercoledì 18 novembre al 1 dicembre in una delle vie più prestigiose della città (via Ricasoli, 25) presso il palazzo della Provincia. Il 21 novembre si terrà un concerto di presentazione alle 20,30 al quale parteciperanno: Caterina Bevacqua (soprano), Mario Ruocco (oboe), Annalisa Carone (pianoforte) "La Bottega Della Dogaia". I detenuti dopo aver partecipato attivamente ad un corso di pittura tenuto dai volontari dell’associazione "Il Varco onlus" col maestro pittore Luigi Magnanimo e dal suo assistente Salvatore Zaccariello, utilizzando esclusivamente materiali di recupero, sono giunti ad un risultato di apprezzabile contenuto artistico. Lo scopo dei volontari è di promuovere la libera espressione dei detenuti, cercando di creare un gruppo di artisti che attraverso la pittura riesca a cogliere l’invisibile attraverso il visibile della realtà detentiva. L’arte come terapia svolge, funzioni di trasformazione, evoluzione e crescita dell’individuo. Queste impronte creative, e cioè i prodotti finali dell’espressione artistica, possono svolgere altre importanti funzioni. Prima di tutto rappresentano per "il creatore" una traccia di sé, la testimonianza della propria auto-affermazione e il ricordo delle esperienze vissute durante la sua produzione e, dunque, un punto di partenza per ulteriori riflessioni. Inoltre, in quanto proiezione simbolica del mondo interno del soggetto, rappresentano uno strumento privilegiato da adottare. O si fa l’Europa o si muore di Adriana Cerretelli Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2015 A furia di ripeterli, gli appelli all’unità europea, alla coesione e alla solidarietà, cioè a logica e buon senso, possono suonare inutili e triti, un po’ come le noiosissime prediche sui meriti di disciplina e profitto che all’inizio dell’anno scolastico i maestri infliggono a frotte di allievi disinteressati, regolarmente con la testa altrove. Dopo i massacri di Parigi però sarebbe molto pericolosa, anzi suicida, la reazione del business as usual. Questo, secondo il collaudatissimo binomio "emotività immediata alle stelle-successivi fatti concreti nelle stalle". Prima di tutto perché negli ultimi 15 anni questo atteggiamento non è servito a frenare il terrorismo islamico ma a farlo crescere e proliferare indisturbato. Secondo, perché con l’Isis il fenomeno ha fatto un deciso salto di qualità: non più lupi solitari pronti a immolarsi sognando il paradiso ma branchi ben addestrati e motivati, vere unità d’ assalto coordinate da una regia che combina fede, ideologia e organizzazione in un mix sempre più efficiente e micidiale. Terzo, perché le 132 bare (per ora) del 13 novembre sono il prodotto non del solito attentato nato e realizzato in un Paese, questa volta la Francia, ma del primo vero complotto trans- europeo, concepito e attuato sfruttando tutte le pieghe, le maglie deboli e le imperfezioni, troppe, con cui da sempre convive imperturbabile il progetto Europa. Uomini, kamikaze e mezzi e armi si sono mossi su una scacchiera estesa da Parigi a Bruxelles passando per le isole greche, Serbia, Croazia e Ungheria con tappa anche in Germania, per esportare con facilità a Parigi un piccolo duplicato delle violenze quotidiane a Damasco e Aleppo. Come dire che se l’Europa delle eterne divisioni interne è incapace di sfruttare i suoi potenziali punti di forza, che pure sarebbero molti, per battere il terrorismo, in compenso gli consente di navigare agevolmente in mezzo alle sue evidenti debolezze per massacrare indisturbato i suoi cittadini inermi. Dovrebbe far riflettere molto questo paradosso europeo: ha anche permesso di coniugare insieme, per la gloria del califfo, la determinazione dei jihadisti con la plateale indeterminazione della risposta europea all’emergenza rifugiati, trasformata in cavallo di Troia ad uso del terrore. Basterebbero queste banali constatazioni a obbligare l’Europa a un’immediata sterzata davvero unitaria. Se i suoi governi pretendono di essere gli insostituibili numi tutelari della sicurezza dei loro popoli non dovrebbero avere dubbi: le frontiere nazionali disordinatamente custodite, non l’aiutano ma servono ad altri per distruggerla. Ora è provato. Invece no, almeno per ora. Se non si correrà quanto prima ai ripari con azioni concrete, i macellai di Parigi riusciranno anche a far esplodere l’ordine di Schengen, la libertà di viaggiare senza passaporto, storica conquista europea almeno come la moneta unica. Insieme al confusissimo e riluttante embrione di una politica europea dei rifugiati. L’impalcatura scricchiola dovunque. Già una minima ripartizione per quote obbligatorie ha dovuto essere imposta ai Paesi dell’Est con voto a maggioranza. Un sistema permanente di quote resta un tabù per molti. La Polonia ora si ribella apertamente alla regola per non dover ospitare, dice, potenziali terroristi. Non sarà la sola, c’è da giurarci. Traumatizzato in settembre dal ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere in Austria e Germania, Schengen ormai boccheggia un po’ dovunque tra i muri eretti in Ungheria, Croazia e Slovenia e le porte chiuse ai confini di Svezia e ora anche di Francia e Belgio. Con quasi tutti i Paesi dell’Est arroccati su se stessi. Già Angela Merkel rischiava la carriera politica sull’apertura ai rifugiati: ora che la questione si complica per le involontarie ma provate collusioni con il terrorismo che stanno emergendo, la crisi in Germania potrebbe aggravarsi risucchiando il cancelliere nel ciclone. Con danni evidenti per l’Unione, visto che oggi Merkel è l’unico leader che offre il mercato europeo. "Siamo in guerra" ha detto chiaro il presidente francese François Hollande. Tutti, senza eccezioni. In guerra la routine non è più permessa. È vietata e bisogna fare in fretta quello che non si è mai voluto fare in tempo di pace: politiche unitarie e concrete. Ormai non ci sono alternative credibili: o si fa l’Europa o si muore. Sul serio. Almeno smettiamola con le chiacchiere di Fulvio Scaglione Famiglia Cristiana, 16 novembre 2015 Le guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali. È inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. È la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato "riconosciuto" dall’impronta presa da un dito, l’unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’esplosione della cintura da kamikaze che indossava. Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente. Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. È un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’Europa. Quando l’Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’hanno richiamato all’ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità. Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’alleanza militare che rappresenta l’Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni. Nel frattempo l’Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi "conto l’umanità") è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia. Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’di armi? No, al contrario l’abbiamo riempito, con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia. Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza. Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’Isis? È la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più. Attentati a Parigi, la battaglia culturale che dobbiamo lanciare (senza le solite ipocrisie) di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 16 novembre 2015 Se i moderati hanno le mani legate, bisogna stanare gli autoinganni e le falsità storiche che nutrono l’estremismo radicale. Come faccia il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione. Che invece non ci viene mai data dai tanti che pure ci ammoniscono con severità a tenere separate le due cose. L’unica spiegazione talvolta offertaci circa l’obbligo di tale separazione starebbe nel fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo suddetto - a Bagdad per esempio, o a Beirut o ad Aleppo o al Cairo - sarebbero in realtà proprio degli islamici. Il che è vero: peccato però che nessuno dei mille attentati commessi in quei luoghi sia mai stato rivendicato, che si sappia, con proclami a base di citazioni di "sure" del Corano e di relative maledizioni contro gli "infedeli": come invece è la regola quando nel mirino è ieri Parigi o in genere l’Occidente. In realtà, a Bagdad o a Beirut, l’impiego del tritolo o del kalashnikov corrisponde semplicemente al modo oggi più comune da quelle parti di regolare i conflitti politici con gli avversari. L’impiego ad uso bellico dei testi sacri, insomma, è riservato soltanto a noi. Dunque, smettiamola di nasconderci dietro un dito: la religione c’entra eccome. Innanzi tutto perché islamici ferventi e religiosamente motivati sono i terroristi, e poi per un’altra importante ragione. Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato - che senz’altro esiste ed è maggioritario - impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi. Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti. Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato matrimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad. Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion, con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso. Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento. Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco. Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista di Claudio Magris Corriere della Sera, 16 novembre 2015 La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato. In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati. Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile - anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene. È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb. A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo. È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare "Matteotti" di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. Quei dirigenti scolastici che hanno annullato per quel motivo la gita dovrebbero essere licenziati in tronco e messi in strada ad aumentare le file dei disoccupati, perché evidentemente non sono in grado di svolgere il loro lavoro, come dovrebbe essere licenziato un insegnante che in una gita scolastica a Granada vietasse ai suoi allievi di visitare l’Alhambra per non offendere la loro fede cristiana. La violenza va repressa con la violenza, ma anche - e sperabilmente - esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando pure nelle zucche più dure la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno. Solo Allah, ripetono i versetti sulle pareti dell’Alhambra, è il vincitore. Le stragi di Parigi e tutte le violenze dimostrano, purtroppo, che spesso l’imbecille violenza è più forte del Signore, comunque questi venga chiamato. "Resta l’emergenza", l’incubo di Parigi campo di battaglia di Bernardo Valli La Repubblica, 16 novembre 2015 Nervi a fior di pelle nella capitale francese, un allarme mette in fuga la folla. Le misure speciali in vigore per tre mesi. Ordinata la chiusura delle moschee radicali. Era una tattica ritmata da episodi terroristici spettacolari ma limitati, sporadici. E all’improvviso si è trasformata in una strategia con obiettivi ambiziosi. Per questo la capitale francese è diventata nella notte di venerdì un campo di battaglia. Daesh, lo Stato islamico, ha in sostanza aperto un altro fronte: ha esteso il suo raggio d’azione nel tentativo di allentare la stretta degli interventi aerei della coalizione guidata dagli americani e da quella guidata dai russi, accompagnati dalla fanteria curda. Ha deciso di aggredire quei lontani nemici nei rispettivi paesi, per dissuaderli dal continuare le incursioni nei cieli della Siria e dell’Iraq. Dove sono irraggiungibili, le milizie dello Stato islamico non disponendo di mezzi antiaerei adeguati. I francesi, gli occidentali in generale, sono più vulnerabili quando sono colti di sorpresa nelle loro contrade. L’apertura di un altro fronte è una svolta azzardata e ricca di incognite per chi l’ha promossa e per chi la subisce. La nuova strategia è scattata due settimane fa quando l’aereo russo con più di duecento passeggeri a bordo è esploso mentre sorvolava la penisola egiziana, e la "Provincia del Sinai dello Stato islamico" ha rivendicato la responsabilità. La motivazione dell’atto di terrorismo era evidente. La Russia era stata colpita per il suo intervento in Siria contro i gruppi ribelli impegnati ad abbattere il regime di Damasco: e gli aerei di Vladimir Putin non risparmiavano le basi dello Stato islamico, il più forte ed efficace nemico del suo alleato Bashar al-Assad. Pochi giorni dopo a Beirut decine di sciiti, vicini o militanti del movimento degli Hezbollah, alleati sul campo di Assad, venivano uccisi in un attentato. La capitale libanese non era certo nuova alle stragi e tuttavia il segnale era chiaro. L’assalto alla pacifica Parigi di fine settimana, quando ristoranti, caffè, teatri sono affollati, e la gente passeggia tranquilla sui boulevards, è stata l’azione più dimostrativa della nuova strategia di Daesh. Il quale non manca di simpatizzanti o di virtuali militanti tra i sei milioni di arabi che vivono in Francia, e che spesso ne hanno acquisito la nazionalità. I servizi di sicurezza pensano che i giovani frustrati delle periferie disponibili a diventare jihadisti siano millecinquecento al massimo duemila. È tra di loro che Daesh trova reclute pronte all’addestramento, più o meno serio, in quel terzo del territorio siriano o iracheno in cui si è radicato. Quasi tutti i protagonisti, per lo più morti ammazzati o suicidi, degli ultimi atti di terrorismo provenivano da quell’esperienza. Almeno in Francia, Daesh trova gli uomini per il nuovo fronte tra quei giovani con qualche precedente penale e un soggiorno in carcere dove hanno incontrato correligionari che li hanno indotti ad abbracciare la jihad. In Medio Oriente fatica a mantenere i collegamenti tra l’Iraq dove controlla Mosul,la seconda città del paese, e la Siria dove ha la sua capitale, Rakka. La città delle Mille e una notte è finita in cattive mani. E venti aerei francesi hanno bombardato un campo di addestramento nelle vicinanze. François Hollande aveva detto che sarebbe stato spietato. I curdi, appoggiati dall’aviazione americana, e a volte da quella russa, hanno reso impraticabili o quasi le vie di comunicazione dello Stato islamico. E i bombardamenti sui campi di petrolio, dai quali dipende la sua cospicua ricchezza, lo possono privare dei dollari che consentono di distribuire lauti stipendi ai guerriglieri. Dieci, venti volte superiori (da cinquanta a mille dollari al mese) a quelli dati dagli americani agli uomini dell’Esercito libero ormai ridotto a poca cosa. Daesh pensa che non limitandosi più a un terrorismo sporadico (attivato da "lupi solitari") ma passando a una più violenta strategia da guerriglia, come è accaduto a Parigi, europei e americani ripenseranno all’impegno mediorientale. I governi occidentali non nascondono la loro inquietudine, spesso sconfinante nello smarrimento, quando si rendono conto che Daesh dispone nella vicina Libia (dove c’è una sua "provincia di Tripoli") di basi ormai operative. Sulle quali l’aviazione americana ha compiuto un’incursione proprio venerdi notte mentre a Parigi era in corso il massacro. L’obiettivo degli Stati Uniti era Abu Nabil, conosciuto anche come Wissam Najm Abd Zayd al Zubaydi, un iracheno spostatosi in Libia dopo avere diretto per anni (2004-2010) Al Qaeda nel Nord del suo paese, e adesso, passato allo Stato islamico, di cui è uno dei suoi massimi dirigenti. Abu Nabil si sarebbe spostato in Libia per promuovere operazioni in Europa. Gli americani ritengono di averlo ucciso. Ma non c’è ancora la conferma. La nuova strategia di Daesh angoscia gli occidentali, ma potrebbe provocare conseguenze non sempre favorevoli a chi l’ha promossa. Il dialogo tra americani e russi, che guidano in Medio Oriente coalizioni non nemiche ma concorrenti, ha infatti compiuto progressi, lasciando prevedere una più intensa e comune azione contro i jihadisti. I contatti tra Obama e Putin in Turchia, durante la riunione del G20, sono stati utili. Il presidente russo, ferito, umiliato, dall’esplosione dell’aereo sul Sinai, si è dimostrato meno intransigente (anche se la questione è ancora irrisolta) sulla sorte di Bashar al-Assad, del quale il presidente americano vorrebbe la destituzione da capo del regime di Damasco. Il nemico di entrambi ha riavvicinato Washington e Mosca. Obama non ha risparmiato gli elogi all’intervento russo in Medio Oriente. E si profila un’intesa impensabile nel recente passato. La paura di Daesh fa miracoli. La paura tiene invece a fior di pelle i nervi dei parigini. Il timore di una nuova incursione assassina, annunciata da una voce incontrollata in seguito all’innocuo scoppio di un elettrodomestico, ha fatto fuggire nel pomeriggio la piccola folla raccoltasi su place de la République, vicino ai luoghi della strage di venerdi, per ricordare le vittime. Puntando sull’emozione e la possibilità di un nuovo imminente pericolo François Hollande ha chiesto all’opposizione di aderire a un’unione nazionale. Per questo ha invitato all’Eliseo l’ex presidente Nicolas Sarkozy, antagonista sconfitto dell’attuale capo dello Stato socialista nel 2002 e di nuovo suo probabile antagonista nel 2017. Sarkozy ha risposto all’invito ma lasciando l’Eliseo non ha nascosto di voler un maggiore sforzo da parte del governo per quanto riguarda la sicurezza. Si è altresì espresso in favore del rinvio della conferenza internazionale sul clima che, ai primi di dicembre, dovrebbe riunire a Parigi centinaia di delegazioni straniere. Ma François Hollande la terrà lo stesso. Sarà più severo con le moschee: chiuderà quelle radicali e, per placare Sarkozy, prolungherà fino a tre mesi lo stato d’urgenza che dà maggior potere ai prefetti e alla polizia mettendo in disparte la giustizia. Il pericolo dello "stato di emergenza" di Raffaele K Salinari Il Manifesto, 16 novembre 2015 È scattato a seguito degli attentati terroristici di Parigi lo "stato di eccezione". Una condizione che nelle democrazie occidentali è, e deve, restare una misura contingente, ma che rischia invece di diventare la modalità attraverso la quale non solo si cerca di governare l’avvenimento eccezionale ma si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale. L’istituto dello "stato di eccezione" è antico quanto il potere stesso; nell’impero romano esisteva già lo iustitium, cioè la sospensione del diritto durante il periodo che intercorreva tra la morte dell’imperatore e la nomina del successore. In quel periodo non c’era legge dato che era l’imperatore stesso ad essere la legge. Dunque un "momento extragiudiziario", come lo definisce Carl Schmitt nella sua Politische Teologie del 1922, il testo di riferimento per la Costituzione nazista che sugli stati extragiudiziari edificherà il Reich. Carl Schmitt identifica dunque lo "stato di eccezione" con la definizione stessa di potere sovrano. Sostiene Giorgio Agamben che l’essenziale contiguità fra "stato di eccezione" e sovranità, come viene definita da Carl Schmitt, non ha ancora portato a una vera e propria teoria dello "stato di eccezione", che dunque manca nel diritto pubblico, per cui i giuristi sembrano considerare il problema più come una quaestio facti che come un serio problema giuridico. Da parte sua, riferendosi proprio ai pericoli che implica questa mancanza definitoria, Jacob Taubes nel suo La teologia politica di San Paolo, argomenta in questo modo l’incipit della Teologia Politica di Carl Schmitt: "Il libro inizia con uno squillo di trombe: "Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione". Qui scrive un giurista non un teologo, ma non si tratta di un elogio della secolarizzazione, piuttosto del suo smascheramento. Il diritto statuale non sa ciò che dice poiché lavora con concetti il cui fondamento, le cui radici, gli sono ignoti… Su questa premessa Schmitt analizza la letteratura giuridica, poiché in effetti è un giurista e sa circoscrivere il proprio ambito. Alla fine del saggio scrive: ‘sarebbe prova di un razionalismo coerente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto dell’interesse scientifico. L’eccezione turba l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivista si trova spesso un simile modo di argomentare. Alla domanda su come si debba procedere in mancanza di una legge naturale, Anschutz risponde che ciò non costituisce affatto una questione giuridica". Continua Taubes: "Qui si palesa non tanto una lacuna nella legge, cioè nel testo della costituzione, quanto una lacuna nel diritto, che nessuna operazione concettuale della giurisprudenza è in grado di colmare. Il Diritto si ferma qui". E ancora Taubes commentando il passo di Schmitt: "Questo si legge nel testo di Anschutz il più grande giureconsulto della sua generazione, "Il diritto si ferma qui". Nel momento decisivo, egli sostiene, il diritto statutale non ha più nulla da dire, incredibile!". E prosegue con quella parte della citazione di Schmitt che più ci interessa: "Ma proprio una filosofia della via concreta non può tirarsi indietro di fronte all’eccezione ed al caso estremo, ma deve anzi dimostrare il massimo interesse nei suoi confronti. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, non in base ad un’ironia romantica per la paradossalità, ma con tutta la serietà di un giudizio che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che mediamente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. La normalità non comprova nulla, l’eccezione comprova tutto; non solo essa conferma la regola, ma la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale spacca la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione. Lo ha affermato un teologo protestante, dando prova dell’intensità vitale di cui la riflessione teologica sa essere capace nel XIX secolo: "L’eccezione spiega il caso generale a se stessa. E se si vuole studiare correttamente il caso generale è sufficiente ricercare una sua eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente dello stesso caso generale". Ecco allora il pericolo di dichiarare lo "stato di emergenza" in un momento così fragile per gli equilibri democratici non solo francesi ma europei. Bisogna che i democratici si preparino ad evitare che questa situazione venga estesa oltre i limiti del dovuto, cioè la necessità di individuare gli attentatori di Parigi, e non venga invece utilizzata come cornice extragiudiziaria per normalizzare altre libertà repubblicane, come la libera circolazione delle persone o gestire con mezzi eccezionali i flussi migratori e quant’altro attiene alla globalizzazione in un mondo di guerra permanente. Banlieue, nelle periferie fuori controllo di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 16 novembre 2015 A Courcouronnes dove è nato il kamikaze del teatro "Qui possiamo diventare solo spacciatori o soldati". Non amano i "barbuti", come chiamano i reclutatori islamici; ma odiano di più i poliziotti. "Nessun terrorista mi ha mai fatto questo" dice un ragazzo ivoriano mostrando sotto la camicia i segni delle manganellate. Dalla capitale si arriva a Courcouronnes in 40 minuti di treno. Qui è nato Ismail Mostefai, il kamikaze riconosciuto dal frammento del dito indice, qui ha commesso i suoi primi reati, qui ha avuto le sue otto condanne senza fare un giorno di prigione. Nel sobborgo di Bandoufle, al 48 di rue de la Faisanderie, in una villetta con nanetto in giardino e orchidea di plastica alla finestra, vive il fratello, con la moglie Sarah, due bambini di 4 e 3 anni e una bimba di 5 mesi. Racconta la vicina bionda che sono venuti a prenderlo all’alba: reparti speciali, volto coperto, tiratori sui tetti. "Ma lui è una brava persona, non vede Ismail da anni. Fa la guardia giurata. I suoi bambini giocano a calcio con i miei nipoti. Quando è arrivato, due anni fa, ci ha invitati per l’aperitivo. L’estate scorsa siamo andati insieme a veder passare il Tour de France". La signora è interrotta dallo stridio di un Suv. Ne escono un uomo e una donna, il viso nascosto da un cappuccio. Secondo la Procura di Parigi il fratello di Mostefai dovrebbe essere ancora in cella, ma quest’uomo ha le chiavi di casa, entra a prendere qualcosa, esce senza dire una parola. Gli faccio una domanda in francese, mi allontana con una mano, con l’altra stringe il cappuccio. Un collega americano gli parla in arabo, lui reagisce con un ruggito, poi salta in auto, sbanda, sparisce. Courcouronnes è un paese di piccola borghesia, con il ristorante italiano e il liceo Truffaut, circondato da "cité", cittadelle dai nomi evocativi - le Piramidi, il Canale, il parco delle Lepri, in realtà deserti urbani: 5 mila abitanti, neanche una panetteria. Tutti indossano vesti tradizionali fino ai piedi o tute da ginnastica. Tutti hanno gli auricolari a isolarli dal mondo. Non si dicono bonjour ma salam-aleikum, non si dicono au revoir ma inshallah. Qualcuno lavora ai mercati generali di Rungis, tra i cibi e le merci che i parigini ordinano al ristorante o comprano nei negozi; loro si limitano a scaricarle. Le altre fonti di reddito sono la droga e gli scippi, la voce popolare vuole che le squadre si siano divise i giorni - martedì e venerdì - e le specializzazioni: chi ruba i soldi a quelli che vanno al mercato, chi la spesa a quelli che tornano. Anche una vittima della strage era nata qui. Asta Diakité lavorava per un’associazione benefica: Barakacity, la città della grazia, simbolo una cupola con la mezzaluna. La sede è tutta bruciacchiata: ogni tanto gli islamisti le danno fuoco. Dem, di famiglia senegalese, era suo amico: "Una ragazza meravigliosa, che cercava una patria. Noi siamo francesi. Ma la Francia non ci vuole. Appena sentono il nostro accento, il posto di lavoro non c’è più; appena ascoltano il nostro nome, la casa è già affittata. Alle ragazze va anche peggio. Siccome portano il velo, nessuno le assume. In piscina non possono andare perché le obbligano a mischiarsi con gli uomini". Donne e uomini insieme: cosa c’è di male? "Non è la nostra cultura. I terroristi sono stupidi perché ora noi musulmani staremo ancora peggio. Hanno fatto un favore al Front National". Marine Le Pen nel frattempo esce dall’Eliseo, dove ha chiesto a Hollande di "disarmare le banlieue, perquisirle, svuotarle dai fondamentalisti". All’ora della preghiera, la moschea di Courcouronnes è quasi vuota. Il rettore, Khalil Merran, originario di Ceuta, Marocco, è anche il vicepresidente delle moschee di Francia. Gli hanno dato la scorta. Si fa fotografare con il vescovo e il rabbino in piazza dei Diritti dell’uomo, poi partecipa alla messa nella cattedrale di Evry. "Ismail? Qui si faceva chiamare Omar. Il ramo storto di un albero sano; la sua è una famiglia normale". Chi l’ha convertito alla jihad? "Un imam potentissimo". E chi sarebbe? "Google. Questi ragazzi non sanno nulla di religione. Sono schiavi di Internet, plagiati dalla rete. Io ho visto i siti islamisti. Sono fatti molto bene. Promettono denaro, donne, armi, potere e gloria imperitura. Ti fanno sentire parte di qualcosa". Proprio questo manca ai ragazzi di Courcouronnes e di Montreuil, la banlieue alle porte di Parigi dove, in rue Edouard Vaillant 14, davanti al murale con una donna africana, hanno trovato la Seat nera piena di kalashnikov usata dai terroristi. Forse qui avevano un covo, o un complice. Per terra restano pezzi di vetro scuro. Siamo a 800 metri dal supermercato ebraico attaccato a gennaio. Montreuil per metà vota comunista, per metà Front National. Tra le villette dei pensionati e i grattacieli degli immigrati c’è un antico muro, costruito per proteggere i frutteti del Re Sole, che ora torna utile a dividere le due comunità. I bastioni della Cité des Grands-Pêchers, città dei grandi peschi, si ergono come le torri del ghetto di Venezia: al numero 1 i maliani, al 2 i senegalesi, al 3 i maghrebini. È la Separazione divenuta visibile. Non entrano né tram, né bus, né auto della polizia, ma non per paura; nessuna strada la attraversa. Non si vedono i segni di cordoglio che mostra la tv; solo un display luminoso che sollecita "una reazione repubblicana e popolare". Nei cortili ci sono due gruppi: i nonni che sorvegliano i bambini, e i ragazzi che si fanno le canne. I nonni, gli integrati, sono dispiaciuti: "È un disastro. Stanno arrivando a migliaia dal Medio Oriente: e se ci fossero terroristi infiltrati?". Anche voi siete stati migranti. "No. Noi veniamo dall’Algeria. Dipartimento della madrepatria". I ragazzi, gli apocalittici, non hanno nulla da perdere. Sono originari del Mali. Tra loro non parlano francese ma una neolingua, chiamata appunto "montreuillois", nata incrociando gli idiomi delle periferie: gitani, africani, ebraici, arabi, kabyli. Qualcuno farfuglia con gli occhi persi. Gli altri si dividono tra i pochi convinti che la guerra dichiarata alla Francia li coinvolga, e i tanti che se ne chiamano fuori. Dieci anni fa le banlieue esplosero. A Clichy-sous-Boi, che è dall’altra parte della strada, due adolescenti in fuga dalla polizia, Zyed e Bouna, si nascosero in una cabina dell’elettricità e morirono folgorati. Venti giorni di scontri, 10 mila auto bruciate, stato d’emergenza. Da allora la Francia qui ha speso molto, anche per tenere testa ai finanziamenti legali che arrivano dal Qatar e a quelli illegali. I ragazzi riconoscono che le cose sono cambiate; ma in peggio. In mezzo c’è stata la crisi. Dice un nero altissimo, i capelli raccolti in uno chignon: "Mi piaceva la letteratura, ma in classe eravamo in 40 e non imparavo niente. Così ho smesso. Mio fratello ha fatto il lavavetri in Italia. Ho provato anch’io; ma ai semafori cercavano di mettermi sotto. Qui nessuno studia, nessuno lavora. Tranne Marcel". Chi è Marcel? "Un ex amico antillano, che si è arruolato nell’esercito. Soldati e spacciatori: questo possiamo fare. Le banlieue non sono rappresentate. Nessuno di noi è in politica, nessuno in tv, nessuno dei giornali. I registi vengono per girare i loro film, come Kassovitz, e se ne vanno. Dalla cima dei grattacieli vediamo Parigi. Si indovinano la tour Eiffel, la tour Montparnasse. Ma per noi è la città proibita". Si vorrebbe credere al titolo patriottico del reportage di Libération. "La Francia è in guerra e può contare sulle sue banlieue", ma non è questo il messaggio di Courcouronnes e di Montreuil: i luoghi dov’è nata e dove si è conclusa, per ora, la tragedia del 13 novembre. Un patto tra Obama e Putin "ora spazzeremo via l’Is" di Federico Rampini La Repubblica, 16 novembre 2015 Prove di coalizione nel faccia a faccia in Turchia. La svolta del presidente americano: "Importante l’intervento militare russo". E su Parigi: "Attacco al mondo civilizzato". L’orrore di Parigi monopolizza il vertice G20. E fa maturare una svolta impensabile poche settimane fa. È l’avvicinamento tra Barack Obama e Vladimir Putin per combattere lo Stato Islamico, che ora preferiscono chiamare Daesh. Contro il nemico comune, il pericolo numero uno, si delinea un’alleanza tra i due leader reduci da un lunghissimo gelo. Intanto la Francia passa all’azione: a Raqqa centra la base di comando dell’Is nella capitale siriana del gruppo, con raid che impegnano dieci jet, guidati dall’intelligence Usa e in coordinamento con gli americani. Nella pioggia di fuoco colpito anche il centro di addestramento e un altro per il reclutamento. "I cieli sono stati oscurati dall’orrendo attacco su Parigi - dice Obama al suo arrivo ad Antalya - è un attacco contro il mondo civilizzato. Il terrorismo non risparmia nessuno, è una minaccia per tutti noi. Raddoppieremo i nostri sforzi per eliminare Daesh". (Questo termine è preferito dagli alleati arabi perché ha un connotato spregiativo). Gli fa eco il padrone di casa, il presidente turco Erdogan, con una frase che diventa un impegno per tutto il G20: "Questo vertice è segnato da Parigi, da qui uscirà un messaggio forte". La novità più rilevante emerge dal colloquio informale, ai margini del summit, tra Obama e Putin. Un fuori programma denso di novità, e di conseguenze. Un colloquio lungo (35 minuti), intenso, quasi confidenziale, tra i due presidenti: seduti uno di fronte all’altro, chinati per essere più vicini, a sussurrarsi cose che solo gli interpreti possano udire e tradurre. Uno stretto collaboratore di Obama riassume così il contenuto: "È stata una discussione costruttiva, centrata sugli sforzi per risolvere la guerra in Siria, un imperativo reso tanto più urgente dall’orribile attacco terroristico di Parigi. Obama ha riconosciuto l’importanza degli sforzi militari che la Russia sta conducendo contro lo Stato Islamico in Siria. Ed ha espresso il suo profondo cordoglio per le vittime russe dopo la caduta dell’aereo sul Sinai". Novità di tono e di sostanza. L’ultima volta che Obama e Putin si erano visti era a fine settembre a New York all’assemblea Onu. Fu un colloquio gelido, teso, inconcludente. Subito dopo Putin lanciò i raid russi sulla Siria, attirandosi accuse dagli americani. Secondo Washington quei bombardamenti servivano solo a puntellare Assad, non colpivano lo Stato Islamico, prendevano di mira ribelli moderati e filo-occidentali. Ma da allora lo scenario è cambiato, costringendo tutti a rivedere le proprie posizioni. L’esplosione nei cieli del jet russo partito da Sharm el-Sheik è stata l’avvisaglia del prezzo che i jihadisti possono infliggere alla Russia. Putin - notano i consiglieri di Obama - non ha ancora ammesso davanti al popolo russo che quell’attentato appartiene a Daesh. Inoltre Putin sarebbe deluso dai risultati modesti della sua offensiva militare in Siria. A Vienna, i due ministri degli Esteri americano e russo, John Kerry e Sergei Lavrov, hanno trovato un accordo per una transizione a Damasco. Verso un governo di unità nazionale che includa Assad; cessate il fuoco da gennaio; elezioni sotto controllo Onu, nuova Costituzione. Assad se ne andrà, ma la priorità ora non è disfarsi di lui: è unire le forze contro i jihadisti. Infine Parigi: un colpo durissimo contro una nazione che partecipa in prima linea alla coalizione guidata da Obama. Una prova che l’intero Occidente è esposto. Un segnale che Daesh, proprio mentre subisce sconfitte militari nelle sue aree (la città di Sinjar in Iraq riconquistata dai peshmerga curdi), proprio mentre perde alcuni leader uccisi dai raid americani in Iraq e in Libia, porta la sua guerra all’estero, allarga il raggio d’azione. La Casa Bianca teorizza - e teme - che proprio le sconfitte sul terreno in Iraq e Siria spingano Daesh a "diversificarsi" nel terrorismo globale. Dal jet russo esploso in volo alla carneficina di Parigi, è la realtà a spingere Obama e Putin uno nelle braccia dell’altro. Mai prima d’ora Obama aveva dato atto che l’intervento militare russo in Siria è "importante". Lo fa sperando che i raid russi si concentrino sull’obiettivo giusto. In cambio l’America accetta che Assad sia parte della transizione verso un accordo di pace, che i suoi rappresentanti dal primo gennaio siedano a Vienna con gli esponenti dell’opposizione, in un tavolo di negoziato "benedetto" da Mosca e Washington. L’accordo Obama-Putin, di cui si fanno le prove generali qui al G20 di Antalya, è condizione necessaria ma non sufficiente, perché la coalizione contro Daesh passi ad una velocità superiore, moltiplichi la propria efficacia, fino a sconfiggere la centrale del terrore. Da Washington, dove la strage di Parigi è tema di campagna elettorale, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton esorta Obama a darsi come obiettivo proprio la sconfitta finale di Daesh, non il suo semplice "contenimento". Quali altri attori sono chiamati ad un ruolo più incisivo? La Francia ha già dimostrato che da questo momento aumenta molto i suoi raid aerei sulla Siria. Ma una lotta efficace contro Daesh deve coinvolgere le potenze regionali. A cominciare dalla Turchia che ha un vasto confine con la Siria a soli 500 km dalla sede di questo vertice. Erdogan non manca di sottolineare le gravi distrazioni di noi occidentali, quando ricorda a Obama che "prima di Parigi ci fuono stragi ad Ankara, Antep, Suruc, Diyarbakir". O Beirut. Ma per Erdogan non è solo Daesh il nemico, lui considera terroristi quei curdi che invece sono l’unica armata terrestre a sconfiggere regolarmente Daesh. Turchia, Arabia saudita, devono entrare nel gioco di Putin- Obama. Infine un messaggio agli europei, che la delegazione americana consegna ai margini di questo G20: dopo avere demonizzato lo spionaggio digitale made in Usa, le sconfitte dell’intelligence francese dovrebbero indurre un ripensamento su quel fronte. Shirin Ebadi: "il terrorismo si combatte parlando con i giovani musulmani" di Sara Ficocelli La Repubblica, 16 novembre 2015 Incontro con l’avvocato e pacifista iraniana all’indomani degli attentati di Parigi costati la vita a quasi 130 persone. "Dobbiamo trasmettere pacificamente il nostro moderno punto di vista alle nuove generazioni. Solo così eviteremo che i ragazzi si lascino sedurre dal fanatismo". "Dobbiamo parlare ai giovani. Aiutare i Paesi sottosviluppati a crescere e a uscire dal provincialismo. Nel mondo ci sono milioni di persone che vivono in villaggi poverissimi e sono ridotte alla fame: queste persone sono facilmente strumentalizzabili, non hanno niente da perdere. Gli intellettuali progressisti e non solo mettano il loro sapere al servizio delle nuove generazioni: solo così sconfiggeremo i fanatismi e sradicheremo la violenza". È un processo lungo, è un progetto ambizioso, quello di cui parla Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, prima iraniana e prima donna musulmana a ottenere questo riconoscimento. Ma lei ci crede davvero. Lei che per le sue idee liberali e per le sue battaglie favore dei diritti umani è stata perseguitata, privata di tutti i suoi beni e costretta ad abbandonare il suo amato Paese, l’Iran. Lei che ha pagato il peso scomodo delle proprie idee col carcere e col dolore di veder duramente picchiato il marito. Lei che è allergica alle generalizzazioni al punto da non voler sentir parlare di uomini e donne, ma di "esseri pensanti", perché "è col pensiero che si cambia la Storia, la biologia non c’entra". Abbiamo incontrato l’avvocato e prima donna magistrato in Iran - che oggi vive in esilio autoimposto tra Usa e Gran Bretagna, con il marito e il resto della famiglia ancora a Teheran - in occasione del 15esimo Summit dei Premi Nobel per la Pace, quest’anno a Barcellona il 14 e 15 novembre, organizzato in collaborazione con Mazda. Ebadi ha inaugurato la due giorni di conferenza insieme ad altri Nobel per la pace come Tawakkul Karman, la "madre della rivoluzione" in Yemen, Mairead Maguire, madrina della risoluzione del conflitto nordirlandese, Lech Walesa, l’uomo che ha dato la libertà al popolo polacco, e altre personalità che hanno cambiato nel segno della democrazia il corso della Storia. All’indomani degli attentati di Parigi, intellettuali e pacifisti si sono riuniti nel palazzo dei congressi della città catalana costretti a prendere atto, con sbigottimento, di quanta strada ancora l’umanità abbia da fare, e di quanti problemi culturali, economici e politici ci siano ancora da risolvere. Loro, che hanno dedicato la vita a una causa e che in nome di un ideale hanno rischiato di morire o hanno subito il carcere, persino loro sono rimasti impietriti di fronte all’efferatezza della strage che ha colpito la Francia, e alle 129 vittime hanno dedicato un minuto di silenzio, rinunciando a fare brindisi sia a pranzo che a cena per tutte e due le giornate del meeting. "Ma farsi travolgere dalla paura non ha senso. Non dobbiamo lasciarci intimidire - ha detto ancora Ebadi - piuttosto, cerchiamo di ragionare e di capire a fondo cosa sta succedendo. Ogni tipo di religione, in ogni periodo storico, è stata strumentalizzata in nome del fanatismo, sacrificando milioni di vittime innocenti in modo brutale. Pensiamo alle torture subite da Galileo Galiei, ad esempio, pensiamo alla Storia degli ultimi 500 anni in Europa. Oggi esistono due modi di interpretare l’Islam: uno più arcaico, che è quello dal quale io stessa vengo perseguitata, e uno più moderno, fatto di persone aperte, come me, mio marito, i miei amici. Generalizzare non serve, la religione non c’entra col terrorismo. Sono le persone, con i loro pensieri e le loro azioni, a scegliere la pace o la violenza". Shirin Ebadi non ci sta neanche a sentir parlare di "democrazia occidentale". Non le piace questa espressione, le sembra sottintenda una qualche presunta superiorità culturale. "Non esiste la democrazia occidentale o quella orientale, esiste la democrazia e basta. Parlare di democrazia occidentale è fuorviante, così come lo è dire che i diritti delle donne sono riconosciuti solo in occidente. Considerare una cultura superiore a un’altra, cercare di imporla: è questo l’errore più grande! Lottare per la pace e la democrazia significa prescindere da questi schemi mentali e pensare che esiste la democrazia, che esistono i diritti, e che è giusto perseguire questi obiettivi a favore di tutti e in tutto il mondo, senza badare alla geografia, senza porre o imporre etichette". Pochi giorni prima di volare a Barcellona, Ebadi è stata in Tunisia, Paese-simbolo di un Islam moderato, riuscito a portare avanti con coerenza, negli ultimi anni, i principi di libertà rivendicati in piazza con la rivoluzione dei gelsomini, e che proprio a causa di questa "evoluzione" democratica è stato colpito ripetutamente, quest’anno, dal terrorismo. "La Tunisia è un modello da seguire: sono molto grata al popolo tunisino per quello che ha fatto, la loro vittoria è un successo per tutti. Gli altri Paesi arabi guardino e prendano esempio. Io credo che prima o poi sconfiggeremo gli estremismi, il fanatismo e il terrorismo. Sarà il punto di arrivo di un grande processo culturale, i cui fiori già cominciano a sbocciare qua e là". Come i gelsomini, simbolo di primavera e vita che rinasce, oltre la morte e l’orrore.