La guerra in casa di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2015 La guerra è arrivata dentro casa, la nostra casa europea, la risacca sanguinosa dal Medio Oriente sconvolge il continente e cambierà forse anche le nostre vite. Parigi brucia. L’agenda del terrore oggi incrocia quella della diplomazia, dell’esistenza quotidiana e colpisce al cuore la Francia con un’altra strage immane dopo il massacro di Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso. Il presidente Hollande viene evacuato dallo Stade de France in quella Parigi dove domani, dopo la visita a Roma, è atteso se non cambierà programma il presidente iraniano Hassan Rohani. Potrebbe essere una coincidenza ma la geopolitica della guerra in Medio Oriente non lascia troppo spazio al caso: l’Iran sciita con la Russia di Putin è schierato al fianco di Bashar Assad, nemico giurato dei jihadisti sunniti, e oggi a Vienna si apre il secondo capitolo del vertice internazionale sulla Siria dove partecipa anche Teheran. Al G-20 di Antalya, che comincia domenica, Obama, Putin, Erdogan e tutti gli altri parleranno più di guerra che di economia. Se le ipotesi verranno confermate è evidente che più va avanti il conflitto siriano e mediorientale e maggiori diventano i rischi mortali del jihadismo europeo. Non basta fare secco con i droni americani Jihadi John, l’inglese di origine kuwaitiana che tagliava le teste degli ostaggi. Non poteva bastare a tranquillizzare gli animi neppure un successo come quello colto l’altro giorno dagli inquirenti contro una filiera islamica, per ritenere che si trattasse di un fenomeno sotto controllo, tanto meno in Francia. La prevenzione può funzionare ma le indagini durano anni e la guerra in casa avanza, ancora più insidiosa e devastante. La Francia è il Paese che produce più jihadisti in Europa. Un rapporto parlamentare afferma che nel 2015 erano già più di 1.500 i giovani legati al network islamista radicale coinvolti nella guerra di Siria e Iraq, il Siraq come ormai viene chiamato un conflitto che ha saldato due Paesi in disgregazione dove il Califfato si è esteso controllando un vasto territorio e milioni di persone. L’età media, dice il rapporto, è tra i 15 e i 30 anni e sono aumentati dell’80% rispetto all’anno precedente: questo è un dato inquietante e che fa riflettere. La propaganda jihadista, nelle sue molteplici forme, dagli imam estremisti al web, dalla rete informale dell’islamismo radicale al carcere, fa sempre più proseliti. Ma l’aspetto ancora più clamoroso è che l’arruolamento avviene dal basso verso l’alto: sono gli aspiranti jihadisti e non viceversa a contattare attraverso Internet i reclutatori. Jihadisti e mujaheddin si moltiplicano come probabilmente neppure poteva immaginare Osama Bin Laden, il fondatore di Al Qaeda. Sono loro i foreign fighters, la marea di ritorno che salda le guerre del Levante all’Europa: almeno 10mila gli occidentali che combattono sotto la bandiera nera del Califfato. Bin Laden, il "principe del terrore" e dell’11 settembre è stato ucciso cinque anni fa ad Abbottabad ma ormai si è arrivati alla terza generazione di jihadisti e il Califfo al Baghdadi ha fatto meglio di lui dando ai suoi seguaci anche un territorio, basi e addestramento come Al Qaeda non era mai riuscita fare. La prima generazione fu quella che si formò negli anni Ottanta durante la guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica; la seconda è stata calamitata dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003; la terza è quella che vediamo oggi, nata dalla guerra in Siria, che raccoglie le vecchie generazioni di combattenti islamiste e ne ha formata una assolutamente nuova che ha reclutato anche in Europa tra adepti che leggono il Corano a malapena ma sta facendo proseliti tra i giovani, delusi e abbandonati dalle vecchie ideologie che nell’Islam radicale hanno trovato una nuova concezione totalizzante del mondo. Il suo fascino deriva dal rifiuto della cultura occidentale per offrire convinzioni assolute sul bene e il male che sfociano nel terrore. E ora colpiscono nelle tenebre di un week end parigino spegnendo anche le luci della ragione. Parigi sotto choc si blinda di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 15 novembre 2015 Attentati a Parigi e Saint-Denis. Bilancio ancora provvisorio: 129 morti, 352 feriti (di cui 99 gravi). Daech rivendica. Appello di Hollande all’unità, ma ci sono già le prime crepe. Polemiche sui servizi. Parigi resiste. A due settimane dalla Cop21, che è confermata con la presenza di 118 capi di stato e di governo, a dieci mesi dagli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo e l’HyperCacher, la Francia è in lutto nazionale, per tre giorni. Un minuto di silenzio sarà rispettato lunedì a mezzogiorno. In tutto il paese c’è lo stato di emergenza. Lo ha decretato François Hollande, di fronte a "un atto di guerra preparato, pianificato dall’estero con complicità interne". Venerdì sera si sono susseguiti attacchi in sei luoghi diversi tra Saint-Denis e il centro di Parigi, iniziati nelle vicinanze dello Stade de France alle 20,20, tre fucilate successive tra le 20,20 e le 21,53, mentre all’interno c’era la partita amichevole Francia-Germania a cui assisteva anche Hollande, seguite da quattro fucilate nel X e XI arrondissement contro bar e ristoranti (rue Bichat, Avenue de la République, rue de Charonne, rue de la Fontaine au Roi). La conclusione è il massacro al Bataclan dove c’erano 1500 persone per un concerto del gruppo californiano Eagles of Death Metal. Dopo l’attacco alle 21,40, al Bataclan c’è stata una presa di ostaggi durata 3 ore, con l’assalto della polizia da mezzanotte e mezza all’una della notte tra venerdì e sabato. 129 persone sono state uccise, 4 nelle vicinanze dello Stade de France, 12 in rue Bichat, 5 nell’Avenue de la République, 19 in rue de Charonne e 89 al Bataclan, quasi tutti giovanissimi. I feriti sono 352, 99 molto gravi. 7 terroristi sono morti. Ieri mattina c’è stata la rivendicazione da parte di Daesh, con un doppio messaggio scritto e video, in francese e in arabo: viene fatto riferimento a "8 fratelli" che hanno preso "come bersaglio la capitale degli abomini e della perversione", con un attacco "minuziosamente preparato", che è "una risposta ai bombardamenti francesi in Iraq e in Siria", per punire la Francia che "resta un bersaglio privilegiato finché resterà in Medioriente", responsabile di "insulti fatti al profeta Maometto". Daesh avverte: "È solo l’inizio della tempesta". È la prima volta che lo Stato islamico rivendica un attentato in Europa. Nel gennaio scorso, gli attentati a Parigi erano stati rivendicati da Al Quaeda Penisola arabica-Yemen. Non è invece la prima volta, anche se la gravità aumenta, che vengono effettuati attacchi simultanei, complessi, con una modalità che si ispira alle tecniche adottate nelle guerre asimmetriche, in Afghanistan, Iraq o Siria. C’erano 8 assalitori venerdì sera, 7 kamikaze si sono fatti esplodere. I loro corpi sono stati reperiti perché spezzati in due dall’esplosione della cintura armata. L’esame delle impronte digitali su un dito di un terrorista morto nell’assalto al Bataclan ha rivelato che l’uomo era schedato "S", come islamista radicalizzato. Si tratta un francese di 30 anni, residente nel banlieue sud di Parigi, nel dipartimento dell’Essonne a Courcouronnes. Un passaporto siriano è stato trovato vicino al corpo di un assalitore allo Stade de France, appartiene a un profugo registrato in Grecia. Il Procuratore di Parigi, François Moulins, parla di tre commandos di terroristi, che hanno agito simultaneamente. Hollande ha denunciato un "atto di guerra preparato e pianificato dall’estero con complicità interne" commesso "da Daesh contro la Francia, contro quello che siamo". Ieri il volo Air France 1741 Amsterdam-Parigi è stato bloccato per un’allerta bomba. A Bruxelles, nel quartiere Mollenbeck considerato un feudo islamista, sono state fatte perquisizioni e ci sono dei fermi (erano già stati stabiliti dei collegamenti ai tempi dell’attentato al Museo ebraico di Bruxelles, realizzato da un uomo, Nemmouche, in contatto con Merah, responsabile del massacro alla scuola ebraica di Tolosa). Moulins ha parlato di una Seat e una Polo nera utilizzate dai terroristi. Le autorità invitano i cittadini a un’estrema prudenza. Dieci mesi fa, dopo Charlie Hebdo c’era stata la "replica" dell’HyperCacher due giorni dopo. Hollande ha convocato ieri, in meno di 24 ore, due Consigli dei ministri e un consiglio ristretto. Oggi riceve i leader dei partiti, Marine Le Pen compresa. Lunedì Assemblea e Senato saranno riuniti a Versailles in Congresso e Hollande informerà i parlamentari sulla situazione. Ieri, per alcune ore l’appello di Hollande "all’unità nazionale" è stato seguito. Ma sono già apparse le prime crepe. Il 6 e il 13 dicembre ci sono le elezioni regionali, confermate ieri, con un grosso rischio di una vittoria del Fronte nazionale in due di esse (Nord e Provenza). Sarkozy ha chiesto "modifiche importanti" al sistema di sicurezza, perché "niente puo’ essere come prima" dopo gli attentati di venerdì. In Francia circa 4mila persone sono schedate "S" e cresce la polemica sull’inefficacia dei servizi segreti, che si difendono affermando che seguire migliaia di persone è impossibile, anche a causa della diminuzione del personale. Laurent Wauquiez, di LR (il partito di Sarkozy) ha chiesto di "internare" le migliaia di persone schedate "S". Per Marine Le Pen, "la Francia e i francesi non sono in sicurezza". La leader dell’estrema destra è stata meno violenta di alcuni membri del Fronte nazionale, che, come Gilbert Collard, hanno chiesto le dimissioni del governo, fatto di "traditori e pagliacci". Il governo risponde alle critiche con un nuovo giro di vite: il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve ha dato ai Prefetti la possibilità di imporre il coprifuoco per ragioni di ordine pubblico. Cazeneuve ha anche annunciato la presenza di 1500 militari a Parigi, nei luoghi più esposti (Schengen era del resto già sospeso da venerdì, per un mese, a causa della Cop21). Interventi anche delle varie religioni, a cominciare dall’islam: il Consiglio francese del culto musulmano ha condannato "con il più grande vigore un atto che nulla può giustificare" in nome della comune appartenenza alla "comunità nazionale". Non ci sarà probabilmente una manifestazione gigante come dopo gli attentati del 7 e 9 gennaio scorso. Ma, dopo il lutto e le giornate di chiusure (ieri e oggi) di musei, biblioteche, palestre, grandi magazzini, e la Tour Eiffel spenta, a Parigi c’è anche una grande resilienza. Cazeneuve ha annunciato che lunedì scuole e università riaprono. Già nella notte di venerdì, ci sono state grandi manifestazione di solidarietà nei quartieri colpiti. La sindaca Anne Hidalgo ha evocato la "Parigi che amiamo, felice di condividere le culture del mondo" (è stato attaccato Le Petit Cambodge e anche la pizzeria Casa nostra). Ieri, il chiosco di place de la Républiche è stato decorato con la divisa di Parigi: "fluctuat nec mergitur". Molte persone, malgrado la proibizione delle manifestazioni, si sono riunite sui luoghi degli attacchi per rendere omaggio alle vittime. Un musicista è arrivato con un pianoforte su ruote di fronte all’entrata del Bataclan, ricoperta da un drappo bianco, per suonare Imagine di Lennon. Ma si è manifestato ieri anche il lato oscuro: a Lille e a Pontivy, in Bretagna, degli "identitari" hanno organizzato manifestazioni anti-immigrati. Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo disumano di Eugenio Scalfari La Repubblica, 15 novembre 2015 siamo di fronte, e non solo nella strage parigina di due giorni fa, ad una guerra globale che, almeno in apparenza, sembra una guerra di religione. Infatti, prima di uccidere le loro vittime, i terroristi dell’Is invocano il loro Dio: Allah è grande, gridano, e poi sparano a raffica o si fanno saltare in aria in mezzo alla gente che hanno scelto come agnelli da sacrificare. Muoiono essi stessi pur di uccidere. Sembra appunto una guerra di religione. E come tale i carnefici usano la strategia di colpire gli altri; non importa chi sono, giovani, vecchi, bambini; non importa in quale Paese: hanno colpito a New York, a Parigi, in Turchia, in Egitto, nel Bangladesh, in Pakistan, nelle Filippine, in Afghanistan, in Tunisia, in Iraq ed ora minacciano Roma e Londra. Tra le persone occasionalmente uccise ci potrebbero essere perfino musulmani. Quindi, sotto le apparenze della guerra di religione, la realtà è un’altra: c’è voglia di distruggere, in modo cieco, una barbarie che sogna la fine di un’epoca senza però un solo barlume d’una civiltà futura. Qualcuno ha paragonato questo terrorismo a quello che insanguinò l’Italia e la Germania negli anni Settanta del secolo scorso; da noi furono chiamati gli anni di piombo, ma è un paragone totalmente sbagliato. Quei terroristi conoscevano il nome e perfino l’indirizzo della vittima che avevano scelto; avevano ripudiato un passato che avevano vissuto e si proponevano un futuro, un’ideologia, un assetto diverso della società. I terroristi di oggi non si propongono alcun futuro e non hanno alcun passato sociale e politico da ricordare. Vivono soltanto un presente e alcuni di loro, ma certamente non tutti, vagheggiano forse un aldilà dove un Allah che soddisfi i loro desideri; non è quello dei veri musulmani che le loro sacre scritture hanno descritto. Non sono persone libere. Certamente hanno fatto liberamente una scelta che è quella che Etienne de La Boétie chiamò il servo arbitrio: loro hanno scelto di essere schiavi di chi li dirige, le cellule d’uno Stato che non ha confini stabili, non ha una sua Costituzione, ma ha un gruppo di comando, scuole di preparazione alla disumanità, campi dove si insegna il maneggio delle armi, le tecnologie necessarie, i modi di camuffarsi, le comunicazioni sofisticate tra loro e con il comando del gruppo e gli obiettivi da colpire. Questo è il gruppo di comando e i suoi soldati-schiavi hanno scelto di soggiacere ai loro padroni. Qui si pone la domanda del perché questa scelta l’abbiano fatta. La questione è assai complessa, riguarda la libertà, che cosa significa, da dove ci viene. Non mi pare oggi il giorno adatto ad esaminare uno dei concetti più complessi e più importanti della ricerca filosofica e perfino religiosa, ma qualche parola va detta per tentare di capire l’essenza di quanto sta accadendo e il modo con il quale reagire perché se d’una guerra si tratta, caratterizzata da modalità del tutto nuove, la questione della libertà e dell’arbitrio, libero o servo che sia, deve esser capita per poterla affrontare in modo appropriato e vincente. Ebbene, noi non siamo liberi se non per un istinto e per la natura che contraddistingue la nostra specie da quella degli altri animali. La nostra natura possiede la capacità di guardare noi stessi mentre viviamo. È questa capacità che ci fa diversi da tutti gli altri animali. Noi ci guardiamo agire, vivere, invecchiare e sappiamo anche di dover morire. L’istinto principale che abbiamo e che condividiamo con tutte le altre specie vitali, è quello della sopravvivenza. In più abbiamo la memoria, altro segno che ci distingue dalle altre specie viventi. Tutte queste caratteristiche fanno sì che il nostro istinto di sopravvivenza è duplice: vogliamo sopravvivere come individui e vogliamo anche sopravvivere come specie. All’individuo che ciascuno di noi ha scelto di essere abbiamo dato un nome che è il nome dell’Io che siamo. L’Io è una costruzione, è il nostro sentirci individui e c’è sempre, in qualunque momento, dalla nascita fino alla morte. Quindi la sopravvivenza e l’amore per noi stessi è automatico, fa parte della nostra natura. L’amore per la specie, o se volete chiamatela il prossimo, deriva anch’esso dall’istinto della sopravvivenza perché nessuno di noi può concepire d’essere il solo abitante umano del globo terrestre. Tuttavia il livello dell’amore per la specie oscilla fortemente da persona a persona. Ce n’è sempre una scintilla in ciascuno, ma può essere scintilla o fiamma o brace coperta di cenere. Le nostre scelte dipendono dal rapporto tra la fiamma che abbiamo per noi stessi e quella che abbiamo per gli altri e l’estensione di quell’amore. Una scintilla, l’ho già detto, c’è sempre, se resta soltanto tale vuol dire che quell’amore si restringe a pochi, a volte pochissimi, a volte una sola persona. Se tiriamo le somme di questo ragionamento la conclusione è che la barbarie dei terroristi attuali deriva dal fatto che non hanno alcun amore, anzi odiano, la specie cui appartengono, odiano tutti gli altri, mentre amano solo quei pochi che condividono con loro l’odio per gli altri e vogliono distruggerli. E qui appare il servo arbitrio: l’amore tra pochi si differenzia tra chi ha il talento per comandare e quelli che sentono verso di lui un sentimento di devozione quasi religioso e si mettono al servizio del suo talento e del suo carisma. Come si vede, la nostra libertà è pressoché inesistente ed è la natura che comanda. Si direbbe che la grande maggioranza delle persone è animata da caratteristiche diverse pur avendo in partenza i medesimi istinti. È certamente vero. I barbari sono pochi numericamente parlando, ma molti per le modalità del loro operare e stanno crescendo di numero. In Francia per esempio i musulmani sono 7 milioni. In gran parte moderati, ma pur sempre musulmani. I capi delle comunità sono, salvo pochi, desiderosi di inserirsi nella società dove hanno scelto di vivere; ma nelle loro file specie tra i giovani, il gusto dell’avventura, di imporsi, di valorizzare il loro esser "diversi", è diffuso. Questo modo di sentire si trova soprattutto nelle "banlieue" di Parigi e nelle grandi città non soltanto in Francia. Ci troviamo dunque di fronte ad un piccolo esercito, anzi piccolissimo, ma estremamente mobile e difficilmente individuabile prima che agisca. Aggiungo anche che questa guerra "sui generis" è la causa di due effetti assai pericolosi. Il primo è che la guerra contro i barbari impone vincoli molto stretti alla nostra vita privata. Il secondo è che dal punto di vista politico questa situazione rende molto più forti i movimenti e partiti di una destra xenofoba: guadagna terreno ed è un pericolo evidente per la democrazia. Concludo ponendomi una domanda: poiché bisogna sgominare l’Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere? Le nazioni aggredite ed i loro alleati debbono scendere sul terreno che sta tra Siria, Iraq e Libia, ma non solo con bombardamenti aerei ma con truppe adeguate. Ci vuole un’alleanza politica e militare che metta insieme tutti i membri della Nato a cominciare dagli Usa e in più i Paesi arabi, la Turchia (che nella Nato c’è già), la Russia e l’Iran. Credo che sia questo il modo di agire nell’immediato futuro. Se non si fa, la nostra guerra con la barbarie terrorista non vincerà. Molto tempo per decidere non c’è. Nel frattempo l’Europa federale dev’essere rapidamente costruita a cominciare dalla difesa comune e dalla politica estera. Sono questi i soli modi per difenderci dal terrore e dalla sua disumanità. Combattere uniti per difendere la civiltà di Roberto Napoletano Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2015 Potremmo dire siamo tutti francesi, ma non basterebbe. Potremmo dire siamo tutti europei, ma dovremmo subito prendere atto che nessuno ha avuto la dignità di dare a noi cittadini europei almeno un esercito. Potremmo ripetere, come dicemmo il giorno dell’attentato alla libertà di ridere di tutto, la "bestemmia" che costò la vita a donne e uomini della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi, che questa macchina del male non appartiene alla religione ma al terrorismo organizzato, una minoranza pericolosissima che vuole sfruttare le contraddizioni del mondo democratico e chiudere spazi vitali alla comunità musulmana che ha dentro di sé il Corano della tolleranza e della pace, conosce in profondità la sua identità ma vuole rispettare quella del mondo Occidentale e integrarsi con essa sia pure nella diversità. No, questa volta, diciamo che la "terza guerra mondiale che si combatte a pezzi" da troppo tempo è tornata a colpire Parigi, è arrivata dentro casa, nel cuore della casa europea, con la forza brutale dell’atto di guerra all’Occidente, qui la risacca sanguinosa del Medio Oriente si arma con un esercito di combattenti nati e cresciuti in Francia. Brucia Parigi, brucia l’Europa. Nulla, proprio nulla, sarà come prima. A questa guerra l’Occidente e i suoi alleati devono rispondere con altrettanta forza combattendo uniti senza se e senza ma il Califfato, lì dove è armato e organizzato, Siria, Iraq, Libia, e lì dove l’esercito dei suoi seguaci in casa nostra si è mobilitato. Il seme del male è cresciuto nella pancia del Medio Oriente, ma è penetrato e si è diffuso nella pancia dell’Europa tra l’ignavia dei più. L’Europa dormiente dei troppi egoismi e delle mille miserie ragionieristiche riscopra le ragioni ideali della sua civiltà e le difenda con la forza militare e con le armi della sicurezza e della coscienza perché i valori della vita e della convivenza civile non sono negoziabili, sono valori fondanti che abbiamo costruito nei secoli e appartengono al capitale umano più importante del mondo. Per questi valori, si combatte uniti e a viso aperto, c’è scritto nell’atto anagrafico costitutivo, a meno che si decida di sostituirlo con quello di morte. L’Europa dimostri di esistere almeno nelle tragedie, affermi con i fatti che è finita la stagione in cui ognuno combatte la sua guerra e chiude le sue frontiere, questa guerra la può combattere e vincere solo l’Occidente, tutto l’Occidente insieme, avendo la forza di distinguere tra alleati e nemici e chiamando a rispondere delle proprie responsabilità, di questi attentati contro l’umanità, di certo il Califfato, ma anche i troppi alleati nascosti di quel Califfato, in casa e fuori. La lezione della storia ci indica la strada da seguire, i 158 morti sulle strade di Parigi ci dicono che il tempo è scaduto e che senza l’intelligenza e la forza degli Stati Uniti d’Europa non riusciremo a superare il nostro 11 settembre. Si infiamma il dibattito sui migranti di Michele Pignatelli Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2015 Polonia pronta a rimettere in discussione gli impegni sulle quote, Merkel sotto pressione In un’Europa sempre più sotto pressione per l’ondata migratoria che l’ha investita dall’estate scorsa, gli attacchi di Parigi rischiano di accelerare le reazioni di chiusura se non di rigetto. Il segnale più eclatante è arrivato ieri dalla Polonia, pronta a rimettere in discussione gli impegni assunti in ambito europeo sulle quote di immigrati da ricollocare. "Gli attacchi - ha dichiarato Konrad Szymanski, futuro ministro per gli Affari europei del nuovo governo conservatore - implicano la necessità di rivedere profondamente la politica europea nei confronti della crisi migratoria. Noi accoglieremo i rifugiati solo se avremo garanzie sul fronte della sicurezza". In base al piano Ue, la Polonia dovrebbe accogliere 4.500 profughi, da aggiungere ai 2mila già accettati; l’impegno però era stato preso dal precedente esecutivo ed era già stato fortemente criticato dal partito Diritto e Giustizia, che ha poi trionfato alle elezioni. Anche in Germania - che pure questa settimana ha già annunciato un sostanziale dietrofront sulla politica della "porta aperta" inaugurata ad agosto, ripristinando i respingimenti alla frontiera dei siriani previsti dal regolamento di Dublino - cresce l’opposizione alla linea di Angela Merkel, considerata troppo morbida. Non solo da parte di Alternative für Deutschland, movimento tradizionalmente anti-immigrati, ma soprattutto da parte degli alleati bavaresi della cancelliera. "Gli attacchi di Parigi - ha twittato Markus Söder, figura di primo piano della Csu - cambiano tutto. Non possiamo permetterci un’immigrazione illegale e incontrollata". E i presidenti di Baviera e Sassonia hanno chiesto controlli più severi ai confini. Berlino, che aveva reintrodotto i controlli alle frontiere il 13 settembre, ha peraltro già esteso da due a sei mesi la sospensione degli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’area. E il governo, almeno per ora, non ha intenzione di cambiare radicalmente linea sui rifugiati: "Non dovremmo - ha dichiarato ieri il vice cancelliere Sigmar Gabriel, leader del partito socialdemocratico - far pagare a loro il fatto di arrivare da Paesi di provenienza del terrorismo". Una stretta sui controlli alle frontiere, in particolare quelle con la Francia, è stata intanto decisa da diversi governi: Belgio, Olanda, Gran Bretagna, Bulgaria, Svizzera. Misure restrittive sui movimenti migratori che si aggiungono a quelle che già alcuni Paesi avevano messo in atto di fronte ai flussi record degli ultimi mesi, per un mix di motivazioni ideologiche e cause di forza maggiore. Basti citare qui il muro costruito dall’Ungheria al confine con la Croazia, la barriera di filo spinato iniziata dalla Slovenia, sempre lungo la frontiera con la Croazia, quella annunciata dall’Austria al confine con la Slovenia; senza dimenticare la decisione di ripristinare temporaneamente i controlli alle frontiere di un Paese noto per la sua tradizionale politica di accoglienza, la Svezia, governato per di più da un partito socialdemocratico. Una decisione dettata da flussi divenuti ormai insostenibili: già 120mila migranti nel 2015, una stima di quasi 200mila in tutto entro la fine dell’anno, destinati a diventare 350mila entro il 2016. Troppo anche per le finanze di Stoccolma. Gli attentati di Parigi hanno poi, inevitabilmente, rafforzato le richieste dei leader populisti di tutta Europa di fermare i flussi migratori. La Francia riprenda il controllo permanente dei suoi confini - ha ammonito la leader del Front National, Marine Le Pen - e "annienti il fondamentalismo islamico". In Olanda il leader islamofobo del Partito della libertà (Pvv), Geert Wilders, ha invitato il governo a chiudere immediatamente i confini, accusando le autorità di negare i legami tra immigrazione e terrorismo. E il premier slovacco Robert Fico, nazionalista di centrosinistra contrario alle quote, ha esplicitato ciò che molti, non solo tra i partiti populisti, temono: il rischio che tra i tanti immigrati che hanno raggiunto l’Europa si siano infiltrati militanti dell’Isis. La sfida già difficile dell’immigrazione, dunque, si complica. Dalla risposta che i Paesi Ue sapranno dare dipendono il futuro di Schengen e delle politiche di accoglienza. Soldi e militari contro la paura Giubileo di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 novembre 2015 Renzi chiede unità nazionale. Alfano innalza il livello di sicurezza. E ora anche Roma si sente più fragile. L’assalto terroristico al cuore della Francia non era ancora iniziato quando, venerdì sera al termine della riunione bilaterale con Renzi, monsignor Fisichella, rincuorato dai finanziamenti governativi, aveva giudicato rassicuranti le misure di sicurezza adottate per il Giubileo, escludendo "particolari elementi per allarmare". In poche ore è cambiato tutto: ieri mattina, dopo aver riunito il prefetto Gabrielli e il commissario Tronca con i vertici dell’intelligence italiana, il ministro Alfano ha annunciato di aver elevato sul territorio nazionale "la sicurezza al secondo livello, che comporta la possibilità di coinvolgimento dei corpi speciali dell’esercito"; subito dopo c’è il livello massimo che scatta mentre è in corso un attacco. Strade, ferrovie, porti, aeroporti e frontiere, "in particolare quelle con la Francia", saranno sottoposti a "vigilanza strettissima". Perfino nelle carceri i controlli saranno "rafforzati per ridurre il rischio proselitismo". Ma è sulla Capitale che si concentra il maggiore sforzo: le minacce dell’Is contro Roma, "indicata dalla propaganda del Daesh come una metafora e un simbolo", "non possono essere sottovalutate", come sostengono i servizi e ripete il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Perciò, ha assicurato il titolare del Viminale, "tutti i servizi di sicurezza nella Capitale sono stati attivati per la massima allerta". E 700 militari, dei 1100 già promessi, saranno "immediatamente disponibili" per operare nell’area metropolitana. Alfano cerca di essere rassicurante: "Nessun Paese è a rischio zero", ma "il nostro sistema di intelligence ha tenuto e ha funzionato", dice snocciolando i numeri: 56.426 persone controllate nel 2015, 147 indagati, 325 espulsi o respinti alla frontiera, di cui 55 estremisti, "ancora stamattina un’altro" (ma dimentica il volo proibito dell’elicottero dei Casamonica su Roma, per esempio). "Il comitato analisi strategica antiterrorismo è riunito in permanenza", assicura ancora il ministro tentando perfino un distinguo con la più becera destra razzista: "Chi spara va arrestato, chi prega va difeso, a meno che non sia colluso. I musulmani devono sapere che nel nostro Paese c’è libertà di culto". Eppure l’orrore di Parigi ha sortito in parte l’effetto voluto dai terroristi, e la paura corre e si gonfia sui social network, dove impazza l’hashtag #stopGiubileo, e nelle associazioni civiche, con il Codacons, per esempio, che rivolge un "accorato appello" al Papa perché trasformi l’Anno santo "in un momento di preghiera al quale i fedeli possono partecipare dal proprio Paese, senza recarsi a Roma". Monsignor Fisichella è irremovibile nel suo no: "Anzi, davanti a fatti come questi, se il Giubileo non fosse stato programmato bisognava indirlo ad hoc". Ma anche il presidente del Pd, Matteo Orfini, invita a non rinunciare ai "nostri valori e la nostra vita", anche perché "abbiamo lavorato per garantire la sicurezza dell’evento fornendo risorse economiche e di personale". Eppure lo stesso Copasir avverte: "Chi dice che l’Italia è al sicuro sbaglia". Perciò Matteo Renzi ieri sera ha riunito a Palazzo Chigi tutti i capigruppo per lanciare un "appello alla responsabilità di tutti noi su come ci poniamo di fronte a questa nuova sfida che durerà anni. L’opinione pubblica è scossa e deve sentire l’Italia unita". "Non abbiamo minacce circostanziate - ha precisato il premier - ma l’attacco di Parigi costituisce un cambio di passo della minaccia terroristica in occidente". In ogni caso, il governo "sta seguendo ora per ora gli sviluppi della vicenda in stretto contatto con Hollande e gli altri leader". "Quello che sta accadendo è il tentativo di mettere in discussione un modello di vita", è l’analisi di Renzi. Che incita le forze politiche riunite: "Siamo un Paese forte che ha sconfitto il terrorismo interno e le stragi di mafia, vinceremo anche questa sfida". Unità nazionale, necessaria anche per agevolare uno stanziamento straordinario in arrivo per la sicurezza. "Bonifiche", espulsioni e censimento nelle carceri di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 novembre 2015 Una vera e propria bonifica dei luoghi dove maggiore è il rischio che si nascondano proseliti dell’Isis. Controlli che partono dai contatti su internet per concentrarsi nei posti dove più forte è il rischio che ci sia un’aggregazione di persone disposte a entrare in azione per rispondere all’appello del Califfato. Stranieri che saranno subito espulsi dal nostro Paese. È questo il salto di qualità nei servizi di prevenzione deciso il giorno dopo la strage di Parigi. I provvedimenti per allontanare dall’Italia i "sospetti" non dovranno più avere una motivazione collegata a un pericolo imminente o a una minaccia concreta. Anche un indizio minimo sarà ritenuto sufficiente per procedere. Sale la minaccia e inevitabilmente si abbassa il livello delle garanzie. Perché tra meno di un mese in Italia si apre il Giubileo e i timori per quanto potrà accadere sono altissimi. Preoccupazione per un attacco pianificato, molto più che per un’azione solitaria che avrebbe comunque la massima risonanza mondiale. E allora si potenzia il controllo del territorio, ma si intensifica soprattutto l’attività di prevenzione. Si cerca di arrivare alle celebrazioni dell’Anno Santo con il minor numero di persone che potrebbero essersi già radicalizzate oppure che siano intenzionate ad emulare quanto accaduto in Francia. Le moschee sono uno dei luoghi dove alta è l’attenzione di investigatori e agenti segreti, ma non sono in cima alla lista. Perché fanno più paura i centri meno esposti come strutture culturali, palestre e, in particolar modo, carceri. Qui si è deciso di effettuare un vero e proprio "censimento" dei detenuti nella convinzione che una saldatura per la creazione di piccole cellule possa avvenire dietro le sbarre e dunque bisogna verificare gli ingressi, i legami creati, le "uscite" di chi è stato liberato dopo aver scontato la pena. Il massacro di Parigi dimostra che per la causa della jihad possono saldarsi etnie diverse, unirsi persone che hanno storie diverse ma un unico obiettivo. E dunque le verifiche devono concentrarsi sugli spostamenti da uno Stato all’altro, ma anche sulla capacità di aggregazione di chi è già nel nostro Paese. Stranieri che si sono addestrati all’estero nei campi allestiti dai terroristi e sono poi rientrati proprio per mettere in atto i loro piani di morte. Per questo nelle prossime ore si chiederà all’Europa di approvare nel più breve tempo possibile la direttiva che consente a polizia e intelligence l’accesso immediato al Pnr, il codice di registrazione per chi prende l’aereo, in modo da ottenere informazioni, anche riservate, sui passeggeri: finora era stata bloccata proprio per resistenze politiche di alcuni governi legate alla tutela della privacy. E si procederà all’identificazione di coloro che viaggiano in treno attraverso l’analisi dei biglietti acquistati via internet o con carte di credito, ma anche con l’intensificazione dei controlli nelle stazioni e sui convogli. Il Dap: massima attenzione su materiale jihad, corrispondenza e colloqui di Eva Bosco Ansa, 15 novembre 2015 "Col Dipartimento amministrazione penitenziaria abbiamo deciso di rafforzare monitoraggio e controlli nelle carceri per ridurre il rischio proselitismo". L’annuncio arriva dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, al termine del Comitato per l’ordine e la sicurezza nazionale. Alla riunione ha preso parte anche il capo del Dap, Santi Consolo. Che le carceri possano essere luogo fertile per la jihad, è un fenomeno noto. Per questo dopo gli attacchi di Parigi il livello di attenzione è stato innalzato. "Nell’immediatezza ho dato indicazioni, per le vie brevi, per un’allerta mirata - spiega Consolo - e a questo è seguito un provvedimento circolare". Il documento, indirizzato a provveditori regionali, direzioni degli istituti penitenziari, direzione generale detenuti e trattamento, giustizia minorile, gruppo operativo mobile, esecuzione penale esterna, insomma a tutte le diramazioni del sistema penitenziario, chiede di proseguire l’attività per individuare eventuali segnali di proselitismo e radicalizzazione, prestando massima attenzione all’eventuale circolazione di materiale jihadista. E dispone di intensificare tutti i servizi di vigilanza compresi corrispondenza e colloqui, senza trascurare alcun segnale di pericolo, segnalando ogni informazione utile. "Iniziativa tempestiva e apprezzabile, spero non resti una dichiarazione d’intenti", commenta il segretario del sindacato Uil-pa penitenziari, Angelo Urso. Uno degli aspetti su cui si riflette è il nesso tra l’esercizio del culto e una possibile attività di proselitismo. Negli ultimi 10 anni, il numero delle "moschee" dietro le sbarre è esploso: nel 2009 erano 120 gli istituti dove non si pregava Allah, oggi che sono solo 18, ricorda sulla propria pagina Facebook Meteocarcere. "L’attività di culto - afferma Consolo - va garantita, se corretta e ben indirizzata. Anzi, in tal senso è anche un elemento di prevenzione". Sono oltre 17mila i detenuti extracomunitari nelle carceri italiane e più di 13.500 gli extracomunitari, secondo i dati del sindacato Sappe. Di questi, 5.700 quelli che all’ingresso si professano musulmani. Il sistema di detenzione si intreccia con i meccanismi di espulsione che scattano per i soggetti pericolosi. Nel 2015 gli espulsi sono stati 55, l’ultimo dei quali stamattina. E tra gli ultimi elementi espulsi dall’Italia da fine dicembre - ricorda Meteocarcere - c’è il tunisino Dridi Sabri, che aveva appena finito di scontare una pena del 2010 per terrorismo internazionale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: era detenuto a Rossano, carcere dove sono concentrati una decina di terroristi della guerra santa. Sappe: allarme fondamentalismo islamico nelle carceri italiane "Alzare i livelli di sicurezza in Italia dopo i gravissimi attentati in Francia è assolutamente doveroso e fondamentale. Ma è altrettanto doveroso e fondamentale denunciare le precarie condizioni operative che sono costrette ad affrontare ogni giorno, nel nostro Paese, gli operatori della Sicurezza per i continui tagli di bilancio al settore della sicurezza che i vari Esecutivi che si sono alternati in Italia negli ultimi anni hanno fatto ai danni del Comparto Sicurezza. "La sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli indiscriminati e ingiustificati. E la realtà è che con sei miliardi di tagli che i vari Governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno operato dal 2008 a oggi, i cittadini sono Meno sicuri perché ci sono Meno poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, Meno poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un numero di detenuti che sta tornado ad aumentare esauriti gli effetti "taumaturgici" della sentenza Cedu - Torreggiani, Meno forestali contro le agromafie e le ecomafie per la tutela dell’ambiente, meno vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico". È la denuncia del segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece, che è anche Presidente della Consulta Sicurezza (composta dai sindacati autonomi delle Forze di Polizia Sappe-Sap-SapAF e dei Vigili del Fuoco Conapo). Capece punta il dito anche sui rischi della radicalizzazione violenta e del proselitismo all’interno degli istituti penitenziari del fondamentalismo islamico: "Anche il carcere è luogo sensibile, da monitorare costantemente, per scongiurare pericolosi fenomeni di proselitismo del fondamentalismo islamico tra i detenuti presenti in Italia. La Polizia Penitenziaria, attraverso gruppi selezionati e all’uopo preparati, monitora costantemente la situazione, ma non dimentichiamo che oggi è ancora significativamente alta la presenza di detenuti stranieri in Italia. Rispetto agli oltre 52.400 presenti alla data del 31 ottobre scorso, ben 17.342 erano stranieri (più di 13.500 gli extracomunitari) e di questi circa 8mila di Paesi del Maghreb e dell’Africa". Il Sappe ricorda come "indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l’esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che anche noi come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria abbiamo denunciato in diverse occasioni. Tra questi fenomeni, vi è la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati. Un po’ come accadde ai tempi del terrorismo, quando la consistente detenzione di molti terroristi - in particolare delle Brigate Rosse - portò delinquenti comuni ristretti in carcere ad abbracciare la lotta armata in carcere". "Questo fa comprendere", conclude Capece, "il gravoso compito affidato alla Polizia Penitenziaria di monitorare costantemente la situazione nelle carceri per accertare l’eventuale opera di proselitismo di fondamentalismo islamico nelle celle, anche alla luce dei tragici fatti di Parigi. Ma per fare questo, servono anche fondi per la formazione e l’aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari nonché per ogni utile supporto tecnologico di controllo, fondi che in questi ultimi anni sono stati invece sistematicamente ridotti e tagliati dai Governi che si sono via via succeduti alla guida politica del Paese". In Italia allerta massima, controlli nelle carceri Il Tempo, 15 novembre 2015 "È un giorno di dolore e preghiera. Ciascuno di noi si sente francese, non bastano le lacrime". Il giorno dopo gli attentati di Parigi, Angelino Alfano annuncia di aver "alzato l’allerta al secondo livello", che consente l’assetto operativo dei reparti speciali e il loro intervento immediato in caso di necessità. L’allarme sicurezza in Italia dunque è altissimo. Anche perché due giorni fa in Francia c’è stata una sequenza non ordinata, passando da uno stadio e dei luoghi pubblici a un teatro. Sono stati quindi rafforzati "in maniera straordinaria" i controlli sul territorio e quelli alle frontiere, in particolare con la Francia, spiega Alfano, per evitare il passaggio di terroristi in fuga da Parigi attraverso il nostro Paese. È stato disposta inoltre "una intensificazione del monitoraggio interno delle carceri" con l’ausilio della polizia penitenziaria e l’uso di mediatori culturali che parlano arabo contro il rischio di proselitismo. Con la scelta di passare al livello secondo di allerta, tutti i reparti speciali sono pronti a intervenire a difendere gli italiani. Il responsabile del Viminale sottolinea che la tragedia francese dimostra che gli "obiettivi dei terroristi risultano imprevedibili". Lo sforzo di prevenzione non può con certezza arrivare, quindi, a eliminare il rischio, ma solo a ridurne i coefficienti. Non è un problema solo nostro, ma di tutte le altre grandi democrazie. L’obiettivo quindi è diminuire i coefficienti di rischio e presidiare nello stesso tempo "i luoghi maggiormente sensibili". Alfano snocciola i numeri del contrasto al terrorismo, spiegando che i lavoro di prevenzione dall’inizio del 2015 ha portato a 55 estremisti islamici espulsi dall’Italia mentre ci sono state 540 perquisizioni nelle abitazioni di presunti terroristi; 56.426 sono stati gli individui controllati, 147 gli arresti e 325 gli indagati. Alla luce degli attentati di Parigi, per Roma i servizi di sicurezza, annuncia il ministro dell’Interno, sono stati attivati per la "massima allerta" e solo nella Capitale sono stati messi a disposizione "700 militari in più". "Nessun paese è a rischio zero", ripete più volte Alfano che lancia un messaggio alla numerosa comunità islamica in Italia: "Noi non abbiamo mai provocato nessuno e mai lo faremo. Non abbiamo mai confuso la fede religiosa con chi spara e con gli assassini. Gli islamici devono sapere che il nostro è un grande Paese che riconosce la libertà di culto e di preghiera che noi difendiamo, ma chi sbaglia, viene espulso e arrestato". Poi l’elogio ai Servizi segreti: "La nostra Intelligence fino ad ora ha tenuto e ha funzionato". Quanto al Giubileo, "noi eravamo chiamati a proteggere il Papa a prescindere", sottolinea il Ministro, spiegando che "le minacce del Califfo e della sua organizzazione terroristica e criminale prescindevano dal Giubileo ed erano già arrivate prima". Negli Opg ci sono ancora 234 internati, "diffidate" 8 Regioni di Alessia Guerrieri Avvenire, 15 novembre 2015 Chiusi sulla carta da sette mesi, di chiuso per ora c’è ben poco. Di carta invece c’è un po’ di più, visto che il governo ha appena inviato la lettera di diffida a otto Regioni per il mancato rispetto della legge 81 del 2014 con la quale l’Italia ha messo ufficialmente fine all’era degli ospedali psichiatrici giudiziari. Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Puglia, dunque, sono a un passo dal vedersi arrivare un commissario per non aver saputo prendere in carico, nei tempi e nei modi previsti, i reclusi psichiatrici residenti sul proprio territorio. Uomini e donne finora detenuti nei manicomi di Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Ad oggi così ancora 234 persone restano rinchiuse nei cinque manicomi italiani. Al netto degli altrettanti che ora vivono a Castiglione delle Stiviere, un ex Opg ‘riconvertito’ in Rems (residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza). Le nuove strutture di accoglienza softper i malati mentali che hanno commesso reati - finora ne sono operative appena 17 su 35 previste dai piani regionali presentati - accolgono 208 persone. A fare il punto della situazione il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, presidente dell’organismo di coordinamento del processo di superamento degli Opg, incontrando il comitato Stop Opg, il cartello formato dalla maggior parte di associazioni che in Italia si occupano di salute mentale. C’è la ferma intenzione di "andare avanti con determinazione per superare la stagione indegna degli Opg", dice il sottosegretario che, spiegando i prossimi step dopo la diffida, annuncia "entro l’inizio dell’anno la nomina del commissario". Sempre che le otto Regioni (hanno tempi variabili dai quindici ai quarantacinque giorni) non daranno risposte soddisfacenti. Ma la questione è anche culturale, per questo "dobbiamo rafforzare i servizi territoriali e residenziali - conclude De Filippo - dare luoghi di cura adeguati per la salute mentale è una grande prospettiva di civiltà per il nostro Paese". A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, va detto che la popolazione internata è dimezzata negli ultimi anni e oggi si ferma a 673 unità (dato al 5 novembre). Ma è altrettanto vero, questa la prima denuncia di comitato nazionale Stopopg, "da un anno non cala il numero delle persone in misura di sicurezza detentiva". Nessuno si illudeva che il processo di superamento dei manicomi criminali sarebbe stato immediato all’indomani della scadenza delle proroghe, il 1 aprile 2015, anche perché il cronoprogramma delle Regioni prevedeva tempi di realizzazione delle Rems almeno fino al prossimo anno. E poco o nulla sui piani terapeutici individuali da attuare nei Dsm (dipartimenti di salute mentale). Tuttavia un percorso così ad ostacoli in pochi se lo aspettavano. Soprattutto perché i cinque Opg restano ancora aperti, principalmente per ospitare internati provenienti dalle Regioni in ritardo. "Chiediamo al governo di procedere immediatamente con la nomina del commissario, non facendo passare altro tempo" - dice il portavoce di Stop Opg Stefano Cecconi. E, inoltre, l’appello più generale "è non accontentarsi delle Rems, pensando ai percorsi terapeutici individuali e a misure di detenzione alternative", per cui si chiede al ministero l’attivazione di un monitoraggio. Ciò che non va dimenticato, infatti, "è che il luogo del recupero non sono né le Rems né gli Opg, ma la comunità"; un palcoscenico, prosegue Cecconi, ottimale sia per la riabilitazione dell’internato sia "sul fronte della sicurezza sociale". Nelle Rems, ad esempio, "c’è un eccesso di ingressi dovuti alle misure provvisorie stabilite dalla magistratura che - conclude Cecconi, chiedendo una norma che renda eccezionale questo invio - non sta applicando la legge come dovrebbe". Processo Yara: la battaglia sul Dna, un mese per il destino di Bossetti di Luca Telese Libero, 15 novembre 2015 Secondi. Solo pochi secondi dall’inizio dell’udienza e la Pm si infiamma: esattamente mentre scuote il ciuffo argenteo brizzolato e pronuncia la terza parola. È come quando in una partita di serie A, alla prima azione ci si picchia in area e tutti alzano le mani invocando il rigore. "Scusi Presidente, ma l’istanza della difesa non va bene! Non va bene proprio!". - In cosa, pubblico ministero?. - Fin dalla premessa! - E perché, cos’ha la premessa? Scusi Pubblico ministero, non capisco. - No, avvocato Salvagni, lei lo sa benissimo! Già nella premessa chiedete che "tutti" i dati grezzi relativi all’indagine siano consegnati alla difesa. Cosa vuol dire "tutti"? - (Braccia aperte, sorriso) Ehhhh… "Tutti" vuol dire "tutti"... - (La Ruggeri scuote la testa). Eh no! Questo non è possibile! - (Smorfia di Salvagni) Purtroppo mi aspettavo questa resistenza, da lei… Ma è necessario che sia fatto. E lo sa bene! - (la Ruggeri alza la voce) Non è necessario per niente, avvocato! - (Salvagni ora grida) È stato prescritto da questa Corte, lei lo sa. Ma me l’aspettavo! Me l’aspettavo! - Anche noi ce lo aspettavamo avvocato Salvagni! Tant’è vero che lei è arrivato a dirlo persino in televisione che voleva tutti dati. Ed è impossibile! - Non si permetta. Io sono la difesa e vado dove mi pare. Non si permetta di dirmi dove devo andare, chiaro? Cosa è possibile e cosa no, per fortuna, non lo decide lei! Di nuovo guerra sul Dna. Di nuovo i capitani dei Ris - quelli che hanno fatto l’esame più importante - che si ritrovano a fare scena muta, davanti alle richieste della difesa (e in parte anche della Corte). Di nuovo una proroga sulla richiesta di consegna dei dati (la terza!) questa volta sostenuta con forza, come avete visto, dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri. Sembra "Ricomincio da capo", quella meravigliosa commedia dove Bill Murray si sveglia tutte le mattine nella stessa sperduta cittadina di provincia, e rivive la stessa festa della marmotta. Mentre accusa e difesa si scambiano fendenti con il consueto sovrappiù di acrimonia, i due ufficiali, pietrificati nella stessa posa in cui si trovavano sette giorni fa, restano muti, senza proferire parola. Per un attimo li guardo negli occhi, i due capitani dei Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile, seduti e immobili sul banco dei testimoni: a dirla tutta mi sembrano più imbarazzati, che sollevati, per questa granitica difesa. Non dicono nulla. Fanno parlare la Ruggeri, ma si vede che la linea che la pm segue, evidentemente per prendere tempo, in qualche modo li imbarazza, perché la Pm deve lasciare intendere che i due non siano in grado di trovare i dati dei loro stessi esami, nei referti che essi stessi hanno fornito: "Presidente" dice infatti la Ruggeri, "voglio spiegare questo: per i due capitani, andare a recuperare tutti i dati grezzi è davvero impossibile!" (brusio dell’aula). La pm continua: "Ne hanno consegnato una parte alla difesa, nel dischetto. Ma non è escluso che ce ne siano altri…. che possano saltare fuori dall’archivio dopo la data che verrà fissata per l’udienza". Pausa. La Ruggeri tiene per ultima la cosa più importante: "Dovete sapere che i laboratori dei Ris svolgono un numero importante di analisi, di tanti diversi casi, e per questo motivo è difficile estrarre tutti i Raw data relativi a quel caso. I Ris custodiscono insieme i referti di oltre 16mila Dna!". Altra pausa, poi l’affondo: "Dunque chiedo che sia tolto questo aggettivo - "tutti" - dal documento della Difesa!". La richiesta della pm è questa: "Deve essere a cura e discrezione del laboratorio mettere a disposizione della Corte gli altri dati grezzi che eventualmente dovessero emergere". Perché è così importante questo ennesimo battibecco? Perché il venerdì prima la testimonianza dei due ufficiali dei Ris si era interrotta proprio su questo punto, quando Stati e Gentile, giunti al controinterrogatorio, avevano alzato le mani sostenendo che per rispondere alle domande che gli venivano poste dalla difesa, sarebbe stato necessario "uno sforzo mnemonico sovrumano". Mi era sembrata una scusa, e proferita - per di più - a denti stretti. Ieri, poi, per un puro caso, una ufficiale del reparto della polizia scientifica, la dottoressa Paola Asili, poco dopo, nel corso della propria testimonianza, esaltando con legittimo orgoglio l’efficienza del suo laboratorio, aveva involontariamente ridicolizzato le asserite difficoltà dei Ris: "Siamo uno dei quattro laboratori che ha il massimo accreditamento riconosciuto a livello internazionale", dice con legittimo orgoglio. "Ogni caso da noi diventa un fascicolo, di cui facciamo doppia copia, perché a ogni documento elettronico aggiungiamo una stampata cartacea". Non solo: "Abbiamo realizzato la tracciabilità totale di ogni reperto, ogni dato viene catalogato attraverso un software dedicato, attraverso un numero e un codice a barre". Fantastico. Ecco il quadretto: i cugini della polizia super efficienti, mentre due dei più stimati ufficiali scientifici di Parma non riescono a trovare tutti i dati richiesti nemmeno in sei mesi? Impossibile. Evidentemente la settimana prima di questo racconto picaresco, l’immagine dei dati del delitto Yara introvabili perché confusi con quelli degli altri casi, come nel retrobottega di una drogheria, era un male necessario: serviva a prendere tempo perché in quel momento gli avvocati stavano martellando sul nodo decisivo, il cosiddetto "campione G20", ovvero il campione preso sulla mutandina della ginnasta di Brembate dove è stata trovata la traccia di ignoto numero uno: è il reperto più importante, la chiave di volta di tutto il processo. Possibile che in quella udienza i Ris non ricordassero nemmeno quante volte avevano esaminato la traccia? Possibile che non potessero ricordarlo nemmeno ieri? Il perito della difesa, Marzio Capra, aveva letto nei "dati grezzi" che i Ris avevano fatto "solo" quattro amplificazioni sulla traccia di Ignoto numero uno. Il che - con i kit dell’epoca - a suo parere bastava a fare un esame, ma non una controprova di adeguato valore processuale. Ieri, mentre volavano questi fendenti (con tanto di battuta caustica sul fatto che Salvagni avesse auspicato pubblicamente in tv - secondo la Ruggeri in modo inopportuno - che i dati arrivassero senza intoppi), i capitani sembravano quasi rassegnati. Così, tra un colpo e l’altro deve intervenire la presidente, Antonella Bertoja. La presidente è una donna elegante, bionda, con le mani affusolate, gli orecchini d’oro e l’aria angelica di una dama ottocentesca. Che però, quando serve, tira fuori una grinta da sceriffo nel saloon: "Io desidero che in questo tribunale siano seguite fino in fondo tutte le regole della convivenza! Se sento un altro mormorio, di qualsiasi tipo, faccio svuotare l’aula e procedo a porte chiuse!". E poi, sulla contesa, dando per una volta ragione agli avvocati: "Quello che accade fuori da qui non ci interessa!". Prende la palla al balzo Salvagni: "Sono d’accordo con lei. Ma tutti noi" dice l’avvocato, "siamo rimasti sconvolti dalle affermazioni circa la conservazione precaria di questi dati, stupefatti dal caos totale che a detta della Pm regnerebbe nel laboratorio dei Ris! Questo" conclude, "è di una gravità assoluta. Non possiamo accettare che l’accusa produca i dati a rate! Vogliamo tutte le radiografie che spiegano i referti contenuti nella consulenza di Staiti e di Gentile!". L’atmosfera è così grave che si alza anche Paolo Camporini, l’uomo che tra i due avvocati è "il poliziotto buono". Camporini è un "proceduralista" convinto che non mette mai in discussione il processo. Stavolta il più adirato sembra lui: "Siamo" esordisce, "a una lesione gravissima del diritto di difesa! Abbiamo accettato una limitazione alle nostre domande. Abbiamo accettato, responsabilmente di circoscrivere le richieste a slip e leggins…". Camporini prende un respiro, come per rallentare il ritmo dell’invettiva: "Per ben cinque volte, cinque! - leggete a pagina 111 del verbale - a mia domanda specifica, i capitani hanno risposto che quelli erano tutti i dati! Tutti! Lo hanno detto loro, non io!". Anche l’avvocato si tiene un petardo per la fine: "Voglio credere che su questa traccia non sia possibile far apparire dati diversi. Se questo accadesse domanderemo una perizia per verificare i sistemi informativi. È chiaro?". Camporini prende un altro respiro: "La pazienza l’abbiamo avuta finora, adesso è finita!" (Gong). La Bertoja sospende ancora una volta l’udienza, per consultarsi. Presidente e giuria si ritirano in Camera di consiglio per pochi, lunghi minuti. Poi torna, con una nuova mediazione. I Ris dovranno rispondere solo alle domande sui campioni che contengono ignoto numero uno. Ma sulla consegna dei dati grezzi il suo tono non pare conciliante: "I consulenti si pronunceranno su tutti i dati, che allo stato attuale sono tutti quelli esaminati. Il loro ruolo di pubblici ufficiali imporrà loro di render noti tutti i dati che troveranno. La Corte giudicherà". A chi ha datto ragione? Lo scopriremo solo nell’udienza clou, perché da lei arriva anche la data dell’ultimo duello: "I capitani faranno in modo di consegnare la risposta alle domande della difesa per il nove dicembre. L’undici verranno controinterrogati". Così, tra poco meno di un mese, per la terza volta, i Bill Murray dei Ris si risveglieranno in Aula per rispondere sui loro esami. Se arriveranno nuovi Raw-data la difesa salirà sulle barricate e potrebbe impugnare i verbali delle testimonianze rese sotto giuramento, e contestare dati grezzi nuovi e quindi ai suoi occhi "sospetti". Ma questa volta sarà l’ultima, niente tempi supplementari. Una partita decisiva per il processo. Si attendono nuovi colpi di scena. Botte in famiglia, una sentenza senza umanità di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2015 Ci sono i referti del Pronto soccorso dell’ospedale di Genova. E sono tantissimi: botte, ustioni, schiaffi, pugni. C’è una donna - la chiameremo Anna - che dopo 24 anni di violenze ha trovato il coraggio di dire basta. E chiedere la separazione. Il marito, alcolizzato, l’ha picchiata per tutto il tempo del loro matrimonio. I servizi sociali sei anni fa le hanno portato via la figlia, oggi sedicenne, che non ha mai più voluto vedere suo padre. Il figlio più grande è finito in carcere. Le botte sono finite quando l’uomo è stato arrestato e Anna ha trovato rifugio in una casa protetta. Lì si è convinta a chiedere la separazione da quell’uomo che ha reso la vita della sua famiglia un incubo. E l’espressione non è per nulla enfatica. Dunque Anna ha chiesto la separazione per colpa. Secondo i tre magistrati, due donne e un uomo, Anna è "stata costretta a lasciare la casa coniugale per le continue percosse e minacce subite dal marito" che "arrivava a casa ubriaco, insultava e percuoteva la moglie". Hanno riconosciuto che "dopo anni di accessi al pronto soccorso la convivenza non poteva protrarsi oltre". Ma, dicono, non esiste un legame di causa - effetto tra le percosse e la decisione di abbandonare il marito. I giudici hanno scritto che "avendo essa stessa ammesso che tali condotte sono iniziate nell’anno 1991 subito dopo la celebrazione del matrimonio" ha "di fatto tollerato tali condotte". Dunque non ha diritto a nulla: niente indennizzo per quel che ha passato, niente assegno mensile di mantenimento. I giudici hanno ragione: Anna ha tollerato per un tempo lunghissimo le violenze sulla sua persona. Ha esposto i figli alla paura, a un’infanzia segnata dal terrore. Li ha fatti vivere all’erta, nell’attesa quotidiana della violenza. Doveva proteggerli, doveva proteggere se stessa. Così da madre ha fatto crescere i suoi bambini con un’idea terribile di famiglia. Però noi di Anna - che oggi ha una cinquantina d’anni - non sappiamo nulla. Non sappiamo perché non è scappata, perché ha sopportato. Non conosciamo la sua condizione economica, culturale, familiare. Se c’era qualcuno vicino a lei che le potesse dare coraggio, sostenere. Se si confidava con un ‘amica o un familiare. Con qualcuno che non la facesse sentire sola e troppo debole per reagire alle minacce. Ha sbagliato. Ha sbagliato per se stessa e per i suoi figli. Ma più di lei ha sbagliato suo marito. Perché è lui la causa di tutto questo, è lui che usava le mani non per accarezzare ma per picchiare. È lui che si ubriacava, lui che le procurava le ferite. Tra i tanti referti dell’ospedale di Genova, ce n’è uno per una bruttissima ustione a una gamba. Questa differenza è cruciale. E sembra che le sentenza di Genova non la voglia cogliere. Come se la sopportazione della violenza e la violenza fossero sullo stesso piano. Certo: questa non è una sentenza penale, non assolve da nulla il marito di Anna. E si può anche leggere come un monito alle donne, alle troppe donne, che sono vittima di violenze e soprusi dentro le mura di casa: non aspettate, non subìte. Ma è davvero una forzatura perché c’è qualcosa di profondamente disumano in quelle parole, "Ha di fatto tollerato". Nell’affermare che non esiste un legame di causa-effetto tra le violenze e la decisione di separarsi. Per via del tempo trascorso, quasi un quarto di secolo. E anche qui le obiezioni non mancano: cos’altro avrebbe determinato la decisione di porre fine alla convivenza? La routine? Anna ha perso tutto, e questa sentenza che non attribuisce colpe al marito, di sicuro la farà sentire ancora più in colpa. Abruzzo: Garante detenuti; Rita Bernardini in sciopero della fame con Marco Pannella cityrumors.it, 15 novembre 2015 Marco Pannella, Rita Bernardini e oltre trenta dirigenti e militanti del Partito Radicale in sciopero della fame dalla mezzanotte di ieri per la transizione verso lo Stato di diritto e affinché il Parlamento elegga i giudici della Corte Costituzionale, a rischio paralisi: i membri necessari a completare il plenum, infatti, mancano dal 2014, come non ha mancato di far notare il presidente Mattarella, compromettendo le capacità decisionali della Corte. "Una situazione analoga a quella del Garante dei detenuti in Abruzzo, figura istituita dalla legge regionale tre anni e mezzo fa e tuttora vacante nonostante la drammatica condizione delle carceri abruzzesi, secondo l’onorevole Bernardini, candidata al ruolo di Garante. "Un sistema giudiziario che fatica per l’immobilità degli organi esecutivi - ha dichiarato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. Nel sostenere questa iniziativa del Partito Radicale vogliamo mandare un messaggio di dialogo e di apertura anche ai consiglieri della Regione Abruzzo: chi si oppone alla candidatura di Rita Bernardini Garante dei detenuti non avendo un’alternativa concorrenziale di fatto non aiuta l’applicazione della legge, che è esattamente ciò di cui gli abruzzesi hanno bisogno". "Vogliamo riportare insieme la Regione nel quadro della legalità e del corretto funzionamento del sistema giudiziario, mediante l’eccellenza e la trasversalità che Rita Bernardini indiscutibilmente rappresenta. Anche in questi giorni, infatti, la candidata Garante ha denunciato episodi gravissimi nelle carceri italiane, che rivelano ancora una volta l’urgenza di un primo passo verso il ripristino dello Stato di diritto in Italia. Questo primo passo oggi può avvenire proprio qui, in Abruzzo: invitiamo perciò il Consiglio regionale a non perdere l’occasione", ha concluso Di Nanna. Campania: si scrive Rems, si legge "imbroglio" di Tiziano Tedeschi Quotidiano del Sud, 15 novembre 2015 Era stato il manager dell’Asl, Sergio Florio, d’accordo con il governatore Caldoro a "inventare" una diversa struttura. In provincia di Avellino sarà aperta una Rems (residenza esecuzione misura di sicurezza). Cos’è una Rems? Vi starete chiedendo. È una struttura che accoglie persone con disturbi mentali responsabili di reati. Una Rems mette in gioco per la sua importanza tre Ministeri: quelli dell’Interno, della Salute e della Giustizia. Una Rems deve garantire alle persone che vi alloggiano un percorso terapeutico riabilitativo ma con l’esecuzione di una misura di sicurezza. Questa tipologia di struttura è composta da un intreccio molto complesso fatto di giudici, magistratura di sorveglianza, settore penitenziario, igiene mentale ed altre figure ancora. Nessun entusiasmo per posti dì lavoro che si creeranno per O.S.A, O.S.S, infermieri etc., perché in questa residenza il personale dovrà essere di alta formazione, specializzata e preparata a stare accanto a persone che hanno perso la loro identità, ma non per questo non capaci di compiere un gesto inconsulto. Era necessaria questa struttura nel nostro territorio? La risposta è no. Allora perché è stata istituita? A volte per capire le vicende del presente bisogna tornare indietro e sfogliare le pagine del passato. Tutto inizia quando l’ultimo direttore dell’Asl di Avellino, ingegnere Sergio Florio, doveva costruire proprio lì a San Nicola Baronia - dove ora sarà aperta la Rems - un’altra struttura ossia una R.s.a (residenza sanitaria assistenziale). Per una semplice residenza assistenziale i fondi necessari h impiega solo l’Asl, per una Rems, invece, sì hanno importanti finanziamenti. Florio ha spostato la Rsa prevista in un altro luogo ed ha richiesto all’ex governatore della Campania, Stefano Caldoro di istituire una Rems a San Nicola Baronia in uno stabile dove un tempo c’era la sede di una vecchia Usl, nel pieno centro di un paese. Ecco dove è stato commesso l’errore; proporre in uno stabile centralissimo, un presidio delicato come la Rems. Ma Florio non ha pensato a questa assoluta inopportunità perché in tal modo ha ottenuto le sovvenzioni che risalgono all’incirca ad un milione di euro. Successivamente Florio ha lasciato l’Asl e la questione, errore compreso, è passata in mani dì altri. Addentrandoci nella "Psichiatria" va rilevato che con la direzione di Florio questo reparto è stato smantellato. In psichiatria l’obbiettivo primario deve essere il benessere del malato mentale, il trattamento, la competenza degli operatori, la riabilitazione: sono persone affette da disturbi mentali e soprattutto persone. Nella gestione Florio non era questo il centro dell’interesse visto che l’ex direttore ha stabilito la chiusura di quattro strutture che accoglievano malati mentali senza dimenticare la soppressione dell’ospedale di Bisaccia. Ritornando all’apertura della Rems, dunque, oggi non possiamo di certo assegnare la responsabilità di una tale scelta all’attuale commissario dell’Asl Mario Ferrante, che sì è ritrovato con questa patata bollente nelle mani. Ha dovuto eseguire il lavoro già prestabilito con sovvenzioni della Regione destinate solo a quello e lo ha dovuto fare con la pressione e la fretta dettate dalla chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Tutte le Rems stanno nascendo ora in Italia per questo motivo. E dottor Antonio Acerra che lavora al fianco di Ferrante per l’apertura questa struttura ci dice che "la nostra provincia non ha bisogno dì ima Rems, perché in Irpinia possiamo dichiarare di avere un gran numero di malati mentali, soggetti con disturbi psichiatrici ma non di certo autori dì reati". La Rems di San Nicola Baronia, infatti, non servirà solo il nostro territorio, ma un bacino molto più ampio che comprende Benevento e Napoli. Chi doveva occuparsi di questa faccenda sin da 4 anni fa? Florio nominò il dottor Emilio Fina direttore del dipartimento dì igiene mentale e lo definì una persona di fiducia. Fina non sì è preoccupato delle strutture che l’Irpinia richiedeva e richiede ancora oggi ad alta voce, non ha messo in atto in modo efficace e sicuro la costruzione della Rems vedendone meticolosamente tutti i dettagli, n reparto Psichiatria non è progredito con la sua gestione bensì impoverito. Antonio Acerra, oggi direttore dì dipartimento dì igiene mentale, si è sempre opposto alle modalità e ai programmi di Florio. Acerra dichiara che "una programmazione come quella precedente ha messo in ginocchio la Psichiatria". Oggi per questa Rems molti puntano l’indice su Mario Ferrante, l’attuale commissario, il quale in primo luogo ha sollevato Fina dal suo incarico. Per questa Rems era prevista un’apertura nel mese di Marzo 2015 e l’Asl di Avellino si ritrova morosa dal 30 Marzo con la Regione che a sua volta le ha dato un ultimatum. E, commissario dell’Asl, concentrato sullo sviluppo del reparto di Psichiatria, aveva preso sottogamba la questione della Rems. Sono diversi mesi che si lavora su questa struttura a doppia velocità. "Sto facendo il meglio - dichiara - per la sicurezza sia all’interno che all’esterno della Rems. Tutte le finestre sono anti-sfondamento. In genere è prevista una guardia giurata, io ne ho prescritte tre, una per ogni piano. Al piano terra voglio creare un teatro per definire un’area di arte-terapia per la riabilitazione mentale". E conclude: "Io ho a cuore sia questi malati che ho visto con i miei occhi sia la popolazione del paese". Intanto se non consegnasse la Rems alla Regione entro dicembre, il commissario Ferrante con ima certa probabilità perderebbe il suo incarico. Il direttore Acerra ci fa capire un concetto centrale ossia: Florio ha chiuso ciò che serviva per ì malati mentali e ha messo una struttura che proprio qui non serviva: inutile. Prima di andare via ha azzerato anche il dipartimento di Igiene Mentale di Avellino, città capoluogo, sempre per interessi politici, in questo caso per appoggiare l’allora consigliere regionale Sergio Nappi. Ecco perché è necessario andare a Monteforte per qualunque cosa. Abbiamo una città senza dipartimento!". Adesso saranno loro, gli psichiatri Russo ed Acerra, a decidere chi entrerà in futuro nella Rems, verificando i percorsi clinici assistenziali dei soggetti. Di certo si può comprendere la preoccupazione dei cittadini di San Nicola Baronia, ma non che la Rems sia diventata oggetto di speculazione politica nelle battaglie tra maggioranza e minoranza del comune. Speculare su questo, per propri interessi politici, è dare uno schiaffo ai diritti dei malati e di tutti. Comunque si sa: un lavoro che andava svolto in 4 anni, svolto in un solo anno non può avere gli stessi risultati. La nostra richiesta a tutta l’equipe che seguirà questa struttura - l’abbiamo vista, è elegante come un albergo - è prevenire qualsiasi rischio per ì cittadini. È di fondamentale importanza. La Rems deve essere sicura per le persone all’interno e per la popolazione all’esterno. Non aspettiamo "il caso" ma prevediamo e preveniamo. Napoli: dentro Poggioreale, se questo è un carcere di Roberto Saviano La Repubblica, 15 novembre 2015 Non vi convincerò. Lo so. Non riuscirò a farvi cambiare idea. Ma se anche solo riuscissi a farvi dubitare, a far vacillare convinzioni radicate, allora sarei felice come se vi avessi completamente convinti alla mia causa. Avete le vostre idee su Caino e non ritenete che Caino abbia dei diritti. Per voi il carcere è la risposta a molti problemi, è la risposta alla corruzione in politica, è la risposta alla clandestinità. Ma credere che punire rappresenti un percorso di crescita e che alla fine di questo tunnel ci sia la luce è quanto di più pericoloso esista. Credere che, a fronte di un delitto commesso, nella sofferenza inflitta possa esserci redenzione. Ed è pericoloso fare discorsi di carattere generale. Perché la giustizia, il reato, il processo, la detenzione, il carcere, la pena e la riabilitazione non sono concetti astratti, ma concretissimi. E soprattutto perché giustizia e carcere in Norvegia hanno un significato e in Italia ne hanno un altro. Perciò voglio parlarvi di carceri e di giustizia, ma non voglio farlo in astratto. Voglio parlare di Poggioreale, ma non voglio farlo solo pensando a ciò che è stato, ma immaginando quel che potrebbe essere. E voglio farlo partendo da immagini incredibili, quasi irreali: le foto che Valerio Bispuri ha scattato nel carcere di Poggioreale. C’è chi dice che le carceri siano la cartina di tornasole dello stato della democrazia di un paese. E allora lo stato della democrazia in Italia sta messo male. Pensate che chi ha sbagliato debba pagare? Non si paga in questo modo. Non si paga defecando e cucinando nello stesso metro quadrato. Non si paga vivendo senza acqua calda e riscaldamento. Non si paga perdendo dignità. Il carcere è per i poveri? Sì, queste foto ci dicono che il carcere è per i poveri. Il carcere è per i disperati? Sì, queste foto ci dicono esattamente questo: il carcere è per i disperati. I tempi della giustizia sono drammaticamente vergognosi e spesso questo sistema inefficiente è usato come grimaldello per convincere i detenuti a collaborare con la giustizia. Ben venga, dirà qualcuno, senza comprendere che è una scorciatoia che non fa bene a nessuno. Non alle indagini, non alla riabilitazione. I dati che riguardano le carceri italiane sono allarmanti, ma ormai allarmano solo gli addetti ai lavori e quei pochi che hanno voglia di prestarvi attenzione e che fanno ogni giorno tanto con poche risorse: sto parlando dell’Associazione Antigone e dei Radicali Italiani, unici nel tradurre in dati, parole e politica l’urlo di dolore che si leva dalle carceri italiane. Sono oltre 54mila i detenuti nei 205 istituti italiani. Tra il 2000 e il 2013 i morti in carcere sono stati 2.239, tra questi 801 i suicidi e non solo di detenuti ma anche cento agenti della polizia penitenziaria e un direttore. Nelle condizioni in cui versano le carceri italiane, lavorarci è tortura quasi quanto esservi recluso. Perdi umanità, perdi sonno, perdi aria. Perdi tutto. Sono d’accordo con Livio Ferrari che in "No prison" (edito da Rubettino) parla del fallimento del carcere, e del principio di punizione come ufficio stampa dello Stato: un paese che punisce e non riabilita è un paese che ha fallito la propria missione. Partire da queste foto è importante, così come è meritorio che Antonio Fullone, direttore di Poggioreale dal luglio dell’anno scorso, abbia consentito a Valerio Bispuri di entrare nel carcere e di fotografare senza censure. Partire da queste foto è importante per capire che è esattamente questo il paese in cui viviamo - un luogo in cui nello stesso metro quadrato cuciniamo e defechiamo - e che questo paese dobbiamo ricostruirlo, non fidandoci di chi ci invita a rottamare, a distruggere tutto per ripartire da zero. Poggioreale non si sottrae a quell’edilizia penitenziaria progettata per affliggere le persone, per non dar loro alternativa, per tenerle rinchiuse in pochissimo spazio senza alcuna attività possibile. Eppure non va distrutto, non va rottamato, ma reso vivibile. Impariamo dai detenuti che padiglione dopo padiglione quel carcere lo rimetteranno a posto. I padiglioni Genova e Torino sono chiusi perché in rifacimento, saranno pronti nel 2016. Poi toccherà al Venezia e al padiglione Italia (tra i peggiori). Il padiglione Milano lo stanno ristrutturando i detenuti, faranno lo stesso col Roma. Quindi guardiamo queste foto come guarderemmo un documento che presto diventerà storico, superato da un nuovo corso. Necessario e vitale. Ma sono foto che immortalano anche un viaggio, tra esseri umani dalle vite sospese, in un carcere che non è un carcere di mafiosi (ce ne sono, ma solo in percentuale bassissima). Queste foto ci raccontano non una, ma infinite storie. Provate a immaginare voi stessi chiusi in una stanza; provate a immaginare voi stessi senza alcun progetto o prospettiva; provate a immaginarvi poi ammassati in una cella. Ma perché provare a farlo? vi chiederete. Cosa abbiamo fatto di male, noi siamo onesti, sono loro i disonesti, loro quelli che hanno sbagliato, loro sono Caino. Pensiero lineare, pensiero che sembra ragionevole. Non lo è perché in carcere ci finisce chiunque, e questa è una verità che solo conoscendo profondamente la realtà giudiziaria italiana possiamo comprendere fino in fondo. In un sistema al collasso, gli errori giudiziari sono all’ordine del giorno e le carcerazioni preventive sono quasi la metà del totale. I tribunali sono gravati da una infinità di procedimenti, molti frutto di leggi proposte e approvate sulla scorta di ondate di securitarismo tanto incosciente quanto inutile. Non esagero se dico che chiunque lasci che il carcere sia quello descritto da queste fotografie, chiunque non si senta in dovere di lavorare perché questo carcere cambi, deve temere di poterne diventare una vittima - e delle più fragili, perché disarmata, perché convinta che quello in cui vive sia un sistema infallibile, che punisce i cattivi e salvaguarda i buoni. Un sistema inefficiente, come il nostro, è un sistema ingiusto, è un sistema che sbaglia. Non è purtroppo un caso che all’interno dei Tribunali di sorveglianza - ai quali è rimessa la disciplina della esecuzione delle pene - si annidino più forti i residui della cultura inquisitoria. Ma il carcere non deve essere più giusto solo per evitare che l’ingiustizia travolga i giusti, il carcere deve essere giusto soprattutto per i colpevoli, soprattutto per chi ha sbagliato. Non permettiamo che esistano tante Guantánamo, luoghi cioè dove il Diritto finisce e inizia l’arbitrio, la punizione giustificata dall’errore. In un paese civile il carcere deve essere il culmine dello Stato di Diritto. Il carcere deve essere dignitoso e umano; dev’essere lo specchio di una società ideale. Un carcere dignitoso è indice di una società dignitosa, un carcere che rieduca è conseguenza di una società empatica, che considera ogni individuo un cittadino con pieni diritti. Poggioreale ha il 33 per cento dei detenuti condannati o in attesa di giudizio per reati di droga: immaginiamo che effetti avrebbe su questi numeri la legalizzazione delle droghe leggere. Non si tratta di reati con aggravante mafiosa, quindi per lo più chi si trova qui sono piccoli spacciatori e tossicodipendenti. Detenuti che forse dovrebbero scontare la loro pena altrove, magari in comunità di recupero. Il 12 per cento è dentro per furto, il 25 per cento per rapina, il 5 per cento per omicidio e tentato omicidio. Un altro 5 per cento per associazione di tipo camorristico. Queste percentuali raccontano bene la disperazione di un territorio, e un carcere che non riesce a essere riabilitazione diventa accademia del crimine: più le condizioni carcerarie sono insopportabili, più il detenuto si rivolgerà alle organizzazioni criminali per ottenere ciò a cui avrebbe diritto. Viceversa, più nel carcere i diritti dei detenuti sono rispettati, più non ci sarà spazio per le organizzazioni criminali e per i loro sistemi di protezione. Il carcere deve smettere di essere il luogo in cui la società si libera dei propri "rifiuti" e deve diventare uno strumento che viene in soccorso alla società. La Norvegia ha sconvolto il mondo con il caso Breivik, che dopo il massacro di Utoya è stato condannato a una pena detentiva di 21 anni, e non rinchiuso in una cella in fondo al mare. Lo Stato vince quando non diventa un soggetto peggiore di colui che ha sbagliato, quando non utilizza le logiche criminali che sono logiche da legge del taglione. Punire e torturare non portano giustizia ma decuplicano sofferenze che spesso il detenuto ha già vissuto. Non si può educare alla legalità attraverso la coercizione e il carcere. La recidiva è altissima quando in carcere non si lavora, non si è impegnati, quando non ci si sente utili. Mi fermo qui. E se non vi ho convinto io lo faranno certo le foto di Valerio Bispuri e gli uomini e gli spazi che ritraggono. Parlano da sé e raccontano una utopia: una società, libera dalla necessità del carcere. Nonostante Caino. Reggio Calabria: i figli della ‘ndrangheta e il loro riscatto di Manuela Foti Corriere della Calabria, 15 novembre 2015 Forum in consiglio regionale sui minori nelle famiglie mafiose. Le strategie e i percorsi possibili. Irto: "Serve una legge". Nasone: "Stabiliamo le linee di intervento per tutelarli". Sono bambini a metà, privati della fanciullezza, di una identità e volontà propria. Sono i figli della ‘ndrangheta, i soggetti più deboli incardinati in un sistema fondato sull’odio, e sulla schiavitù morale ancor prima che fisica. Sono i minori attorno ai quali la società, le istituzioni preposte e le associazioni devono far quadrato individuando un percorso e interventi mirati in grado di tracciare un destino diverso da quello che le famiglie di origine hanno scelto per loro, ovvero quello criminale. Una sfida, oltre che una proposta, che riecheggia nel corso dell’incontro voluto dal laboratorio di partecipazione sociale insieme al Centro comunitario Agape, che si è svolto nella sala Giuditta Levato del consiglio regionale proprio per favorire un confronto su idee e strumenti da adottare. L’evento, realizzato con il patrocinio della presidenza del consiglio regionale della Calabria e della Camera minorile di Reggio Calabria, trae spunto dal libro "Bambini a metà: i figli della ‘ndrangheta" scritto dalla giornalista Rai Angela Iantosca, che è riuscito attraverso la ricostruzione delle azioni del Tribunale dei minori di Reggio a dare una luce di insieme sulla dimensione dei minori nel contesto familiare mafioso, partendo dalle singole esperienze fino ad arrivare a considerazioni più generali su responsabilità sociali e istituzionali. Per rilanciare la necessità di un impegno corale per aiutare i minori a sottrarsi ai disvalori della ‘ndrangheta, si sono confrontati nel corso dell’incontro, moderato dal presidente del Centro comunitario Agape Mario Nasone, numerosi relatori. I saluti sono stati affidati al presidente dell’assemblea regionale Nicola Irto, che ha manifestato la volontà di inquadrare le azioni di tutela dei minori in "un’iniziativa legislativa" da sottoporre al Consiglio. Sono intervenuti, poi, la stessa autrice del libro Angela Iantosca, il vice presidente della giunta regionale Antonio Viscomi, l’assessore regionale al Welfare Federica Roccisano, il presidente della commissione Antindrangheta Arturo Bova, il direttore della casa circondariale di Reggio Maria Carmela Longo, il magistrato del tribunale minorile di Reggio Patrizia Surace, il coordinatore regionale di Libera Mimmo Nasone e la pedagogista della coop sociale Centro giovanile "Italo Calabrò" Carmela Fotia. "Vorremmo che questo forum - ha affermato Nasone - si concludesse con l’elaborazione di un documento da affidare a tutti coloro che vorranno condividerlo per avviare un percorso che anche sotto il profilo legislativo definisca strumenti e linee di intervento a tutela dei minori delle famiglie di ndrangheta". Un impegno unanime e una sensibilità condivisa anche dall’amministrazione regionale, consapevole dell’importanza di investire in politiche sociali, educative, di prevenzione e recupero sociale. Ma non solo. "È necessario introdurre elementi di normalità nella vita di questi giovani - dichiara il vice presidente Viscomi, coniugando alle azioni di assistenza e di inclusione sociale altre leve come le politiche del territorio e gli interventi per migliorare i livelli occupazionali. Vogliamo costruire un modello di società che si affermi come alternativa al contesto criminale". Si è parlato a lungo del "protocollo" del presidente del Tribunale per i minorenni Roberto Di Bella, che non ha potuto presenziare all’incontro, che prevede l’allontanamento dalle famiglie per aiutare i minori a sottrarsi ai valori mafiosi e a un destino criminale. Un tentativo per provare a restituirli a una vita di normalità e di legalità che va sistematizzato e ricondotto in una cornice legislativa più efficace che sostenga il percorso anche dopo il compimento della maggiore età. Rovigo: Amidei (Fi) e Mantoan (Fdi) venerdì hanno fatto visita alla Casa circondariale rovigooggi.it, 15 novembre 2015 Una struttura obsoleta per i detenuti che vivono in spazi angusti ed in condizioni igieniche non sempre all’altezza. Questo è quanto è stato rilavato da Amidei e Mantoan che auspicano che il nuovo carcere, ancora da ultimare con gli arredamenti, possa finalmente diventar operativo garantendo così condizioni minime ed essenziali di sicurezza in primis agli operatori ma anche agli stessi detenuti. Hanno visto con i loro occhi e toccato con mano la situazione in cui versa il carcere di via Verdi a Rovigo, Bartolomeo Amidei e Valeria Mantoan. Il coordinatore provinciale di Forza Italia, nella tarda mattinata di venerdì 13 novembre, assieme al coordinatore polesano della costituente di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale hanno fatto visita alla casa circondariale anche a seguito dei fatti del 2 novembre scorso (leggi articolo) e dell’aggressione da parte di un detenuto ai danni di alcuni agenti della Polizia penitenziaria, per vedere l’ambiente di lavoro e lo stato dei locali. Con l’occasione, Amidei, in qualità di parlamentare, ha potuto vedere da vicino e discutere le condizioni in cui quotidianamente opera il personale e gli agenti di Polizia penitenziaria in servizio a Rovigo, nonché la situazione dei detenuti, accolto dal direttore Antonella Forgione. Spazi angusti, condizioni igieniche non sempre all’altezza oltre a una struttura ufficialmente dismessa almeno da una decina d’anni: questo il quadro generale offerto dalla casa circondariale che ha potuto constatare per la prima volta da quando è stato eletto a Palazzo Madama. Sullo sfondo, ormai da tempo, la questione del nuovo carcere, la cui prima pietra è stata posta nel lontano 2007, ufficialmente completato ma ancora in attesa degli arredamenti interni per esser consegnato, spesa destinata a far lievitare ulteriormente costi già alti con il rischio poi che la struttura non entri mai in funzione come peraltro accaduto nel caso della vicina Codigoro.Da Amidei e Mantovan è arrivato quindi un auspicio affinché "il nuovo sito possa finalmente diventar operativo garantendo così condizioni minime ed essenziali di sicurezza in primis agli operatori ma anche agli stessi detenuti, costretti come detto a far fronte a spazi inadeguati e mancanti, in una struttura ormai obsoleta oltre che pericolosa per via della sua posizione centrale". A margine della visita, fuori dalla struttura penitenziaria, i due coordinatori si sono incontrati e hanno ascoltato anche una delegazione mista di sindacalisti dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) composta dal segretario locale Paolo Malanchin, da quello regionale Gioacchino Lenaris e dal delegato nazionale Federico Stocco e il coordinatore rodigino dei Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale Demis Scarpecci. Padova: il Cappellano Marco Pozza "il Ladrone e la Maddalena nel carcere Due Palazzi" ilsussidiario.net, 15 novembre 2015 Don Marco Pozza non ha mai avuto paura di alcun "imbarazzo" o "agguato" (parole-chiave dei suoi due ultimi libri). Quando, prete appena consacrato, vedeva pochissimi giovani nella parrocchia della Sacra Famiglia di Padova, li ha inseguiti nelle viuzze della movida in centro. Non sfuggendo neppure alle telecamere di Mtv, ma mai col copione preparato prima, anzi. Neppure quando Papa Francesco ha indetto il Giubileo della misericordia, si è immaginato a tavolino una "narrazione" che coinvolgesse la sua parrocchia di oggi: la cappella del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Ci ha pensato un incontro inaspettato: quello con "don Claudio" Cipolla, il sacerdote mantovano che da poco più di un mese è vescovo di Padova. Cioè anche dei parrocchiani di don Marco: tutti quelli che abitano al Due palazzi, detenuti e non. Di chi è stata l’idea di portare il Giubileo padovano nella Cappella del carcere Due Palazzi: del vescovo - anzi "don Claudio" - o dei detenuti? "Come tutte le cose più belle e genuine, l’idea è nata spontanea a margine di un incontro: quello tra don Claudio e la nostra piccola comunità cristiana che vive dietro le sbarre del carcere di Padova. Appena diventato vescovo della città, ha scelto la "parrocchia" del carcere come prima comunità dalla quale iniziare la sua visita pastorale della Diocesi. Qualche giorno dopo è ritornato e vi è rimasto per un’intera giornata. Calandosi nell’inferno più nascosto del carcere - sovraffollato, disperato, inaridito - ha scoperto ciò che inferno non è, come direbbe Calvino: il volontariato, la compassione, la dedizione. Ha scoperto i loro volti: quelli degli uomini col passaporto di ferro e cemento. Da vescovo che si porta addosso l’odore delle pecore, mentre usciva mi ha confidato d’aver fatto due conti: se dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia, allora vorrei fare della vostra chiesetta una delle quattro chiese-giubilari di Padova. Pensavo fosse una battuta, magari per stemperare la tensione accumulatasi tra le celle: invece aveva tutta la serietà delle manovre divine. Imbarazzante, inaspettata, forse anche immeritata". "Imbarazzante e immeritata"?... "Proprio così. Il vescovo ha presentato e anticipato il conto ai detenuti stessi: "Da voi, quest’anno, mi aspetto moltissimo, perché quando si parla di misericordia voi capite bene di che cosa si parla". Un privilegio, dunque: ma anche una grossa responsabilità. Giocare al gatto e al topo con Dio quando si sa di essere il topo è assai pericoloso. E questi uomini lo sanno molto bene". Le altre tre Chiese Giubilari in diocesi di Padova richiameranno due grandi santi della città (Antonio e Leopoldo) e una forte devozione popolare per la Vergine della Misericordia: quale "santità", quale "fede" è indicata nella chiesa del Due Palazzi? "La fede di san Disma, il ladrone graziato da Cristo in punto di morte: è il nostro santo-patrono, il venerdì santo è la nostra festa-patronale. È il brigante che, scrutando il Dio trafitto, seppe leggerci dentro la regalità di Cristo. Consapevole delle sue scelte, non gli chiese un’amnistia: gli sarebbe bastato un semplice ricordo nelle preghiere. La consapevolezza, almeno in punto di morte, di avere qualcuno che si ricordasse di Lui. La sua fede sorpassò quella di tutti gli altri, apostoli compresi: si trovò compagno di viaggio del Cristo in giorno in cui s’inaugurò il Paradiso. Oltre lui, la Maddalena: la donna-di-strada alla quale il Risorto fece il dono della prima apparizione. È imbarazzante il mistero della Morte-Risurrezione: è incastonato tra un brigante e una peccatrice. Un insulto al buon senso, un inno impareggiabile della Grazia. La storia rocambolesca di questo santo un po’ bischero, c’insegna che mentre aspettiamo la risurrezione dei morti c’è tutta una risurrezione dei vivi che è possibile contemplare. Ancor di più: che è possibile favorire, senza mai giustificare il male ma cercando di comprendere il perché delle diavolerie dell’umano". L’8 dicembre è vicino: avete cominciato a "masticare" la misericordia di Papa Francesco’? "Papa Francesco ha indetto un Giubileo per riscoprire la misericordia come esperienza fondamentale di vita cristiana. Cos’è la misericordia dentro il carcere e sulla linea di confine fra il carcere e la comunità attorno? La misericordia è una grammatica che, mentre mi costringo ad impararla, mi procura mal di denti e forti emicranie: prima di imbattermi in questa frangia di umanità, ero pienamente consapevole che gli sbagli esistessero, che gli uomini sbagliati esistessero. Solo che a sbagliare erano sempre gli altri, l’uomo sbagliato non ero mai io. Andare a scuola di misericordia da queste parti è vedersi costretti a guardare l’altro con gli occhi di Dio: è lasciar fare qualcosa anche a Dio, accettare che la conservazione del bene sia per Lui più importante della cancellazione del male. Ammettere che grano e zizzania crescano assieme, convinti che alla fine non saranno la stessa cosa. Guardo a me stesso e misericordia significa ribaltare la mia visuale: non posso più pretendere di capire per decidere se amare o meno, ma devo imparare ad amare per poter un giorno sperare di capire. La logica del giudice Paolo Borsellino, un nome pesante dietro le sbarre: "Palermo non mi piaceva: ho imparato ad amarla perché sognavo un giorno di trasformarla". Amare, prima di ogni altra pretesa: la misericordia è una donna esigente da conquistare. Mica una tra tante". Alfredo, il sacrestano della tua parrocchia ai Due Palazzi, ha già previsto "delle belle" durante il Giubileo: quali "cose belle" prevedete o desiderate? "Uomini come Alfredo - una storia di delinquenza e di batticuore - hanno visto tutto nella vita: si sono permessi di veder tutto nella vita. Che uomini come loro dicano "ne vedremo delle belle" sarebbe altamente preoccupante se non fossimo nelle prossimità di Dio. La sua espressione, dunque, racconta che pur dentro la menzogna più cupa, loro a Dio sanno ancora riservare la capacità di sorprendere il mondo. Loro, uomini d’armi e di battaglie, a Dio riservano l’appellativo più bello: Dio-imprevedibile, non scontato, Dio-misericordioso. Qui dentro ci stanno pecore perdute che hanno scelto d’abbandonare il recinto. Sentirsi cercati da Dio è allarmante: desta il sospetto che a Dio queste persone manchino molto più di quanto Dio manchi a loro. Sapere che senza di loro Dio non è felice, li fa balzare un giorno dal torpore e dire: "Qualcuno mi ama così, rotto come sono. Ce gusto c’è cercare di fregarlo?" È delinquenzialmente provato, da queste parti, che dall’amore è impossibile fuggire. Anche queste sono storie d’amore con Dio: dissacranti e profonde, certamente mai scontate o prevedibili". In carcere convivono molte religiosità diverse e anche l’abbattimento di chi si sente lontano o addirittura abbandonato da Dio. Qual è la sua esperienza di parroco del Due Palazzi? "La mia parrocchia è un incrocio di sangui, di culture, d’accenti e di religioni. È la prova-provata che l’ecumenismo dell’amore arriva molto prima di quello della religione. Contemplando certe scene da dentro le celle, mi sembra d’assistere alle prove generali dell’Eternità: il lupo e l’agnello, la pantera e la pecora, il bambino e l’aspide, la misericordia e la verità, la giustizia e la pace. Io non sono un prete di strada, non esistono i preti di strada: o si è sulla strada o non si è preti. Dopo quattro anni m’accorgo che il mio dottorato in teologia si è impastato di fango, è inzuppato di strada, odora di miseria: è una teologia che ha addosso il gusto di Dio. La mia umanità è cambiata: gomito a gomito con loro, la perfezione non mi gusta più, è la verità di me stesso che m’interessa. La libertà d’ammettere gli sbagli, le imperfezioni, le inquietudini. È il dono più bello che questi poveracci m’hanno fatto: "Di un prete perfetto non sappiamo che farcene, cerchiamo un prete vero, umano, slabbrato". Non mi sono mai sentito libero come dentro il ventre di una galera: solo, con me stesso in pugno. Con Dio a tracciarmi la rotta dentro l’inferno". La misericordia verso chi ha commesso gravi reati appare spesso un muro invalicabile, una periferia troppo remota. Perché chi non è nel carcere è bene si misuri con chi, per qualche ragione, ci è finito? "Per guadagnare tempo prezioso: il carcere è molto più vicino a noi di quello che possiamo immaginare. Frequentarlo è avere l’occasione di amare la libertà, di gustarsi la vita, di assaporare l’umano. È imparare ad alzarsi la mattina e mettere in conto di sbagliare: ci si scopre più liberi d’agire, meno complessati, col guadagno di una maggior verità. Tutte cose che per me erano inimmaginabili fino a pochissimi anni fa". Gli ultimi due libri che ha scritto hanno due titoli che incuriosiscono e, forse, arrecano scompiglio: L’imbarazzo di Dio e L’agguato di Dio (San Paolo, 2014-2015). Perché quest’immagine di Dio? "Perché a me Dio è apparso così: tendendomi un agguato che mi ha messo l’imbarazzo addosso. La mia storia con Dio è dissacrante e profonda, il mio stile nel parlare di Lui è dissacrante e profondo, anche la mia testimonianza è così: mi piace andarmelo a cercare nell’inferno, nei posti più astrusi, mi piace sfidare la Grazia. Lui fa lo stesso con me: mi tende agguati, mi organizza dei tranelli, s’imbosca per sorprendermi. Sembriamo due bambini che giocano a nascondino: ci divertiamo assai. Io a cercare Lui, Lui a cercare me. Ogni tanto me ne combina qualcuna di grossa e viviamo separati sotto lo stesso tetto per un po’ di tempo. Poi, però, ci manchiamo a vicenda a torniamo a cercarci: ogni volta scopriamo d’esserci innamorati un po’ di più. Siamo una strana coppia io e il mio Rabbì". L’agguato più insopportabile che le ha teso? "Per chi, come me, fino a qualche anno fa sosteneva "chiudeteli in cella e gettate la chiave nel mare" e dava fiducia a chi predicava tutto ciò, non c’era agguato più atroce di quello di farmi spendere il mio sacerdozio nello sbaraglio delle galere. È stato il suo modo di essere misericordioso nei confronti di una testa calda come la mia: farmi scoprire che un conto è la letteratura del carcere, un conto è l’incontro con i carcerati. Quel giorno ho capito che la grandezza di un uomo non è quella di ostinarsi nelle proprie idee, ma anche di ammettere d’aver sbagliato a ragionare. Ho ammesso d’aver sbagliato traiettoria, ho chiesto scusa a modo mio e sono ripartito proprio da lì. Da dove si era imboscato per convertirmi il cuore, anche il pensiero. Il carcere è la mia porta di Damasco". Milano: oggi vado da papà (in carcere) e disegno con lui di Emanuela Zuccalà Io Donna, 15 novembre 2015 Nuvole nere, incidenti d’auto, pupazzi da film. Nel carcere di Milano Opera una Onlus fa dialogare i detenuti con i figli in modo creativo. Perché bastano carta e matita per superare la vergogna. Il tema di oggi è la rabbia e Daniela, bambinona di otto anni dai gesti delicati, ritrae il buffo personaggio rosso fuoco del film Inside Out. Poi, con la tempera avanzata, dipinge il palmo del padre Raffaele affinché personalizzi la composizione con un’impronta scarlatta. Davanti a lei Gaia, troppo cupa per i suoi tre anni, schizza di verde i tatuaggi sulle braccia del padre Angelo, che non smette di guardare la piccola come scrutando una stella irraggiungibile. Sarebbe un mosaico di banalità familiari, se la luce del sole che ha vinto sulla nebbia di stamani non finisse sui tavoli sfregiata dagli aloni delle sbarre. Siamo nella casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano sud: 1.400 detenuti, reati pesanti. Narcotraffico, omicidio, associazione mafiosa macchiano le fedine penali di alcuni fra gli uomini che oggi, in due stanze dalle pareti giallo pallido, giocano con i figli grazie a un laboratorio d’arte che si tiene due sabati al mese. Un progetto pilota per l’Italia che, oltre a liberare i sentimenti attraverso il disegno, permette a una ventina di bambini di trascorrere un paio d’ore soli con i padri, lontano dal grigiore dei colloqui regolamentari e senza mamme. Queste accompagnano i piccoli e vanno a riunirsi altrove, in fondo al corridoio, per condividere con due psicologhe le fatiche, a volte la vergogna, di restare madri all’ombra della galera. "Alcuni detenuti non si sono mai trovati soli con i figli, perché arrestati poco prima che nascessero" spiega Lia Sacerdote, psicoanalista che vanta (ricorda ridendo) 15 anni di carcere da presidente di Bambini senza sbarre, una Onlus molto attiva nei penitenziari milanesi e in altri cinque italiani. "Disegnare insieme dissipa l’imbarazzo, e per i padri è un’emozione, alla fine, portare i piccoli a lavarsi le mani e a fare pipì: atti normali, ma vissuti per la prima volta". Il ministero della Giustizia stima oltre 50 mila minori costretti a varcare i cancelli dei 197 penitenziari italiani, fra viaggi, perquisizioni e incontri troppo rapidi e spesso irrigiditi nel silenzio. I detenuti in Italia sono 52.294, con il record lombardo di 7.583. Tentare di alleviare il trauma dei loro figli, per Lia Sacerdote che con la sua Onlus conduce anche studi scientifici sulla genitorialità reclusa, non è stucchevole pietismo: secondo una ricerca europea, un terzo di questi minori rischia a sua volta la devianza, se non elabora il legame con il genitore che ha sbagliato. "Ma è soprattutto una questione di diritti umani" prosegue Lia. "Non dimentichiamo che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le condizioni delle carceri". Da un sondaggio di Bambini senza sbarre, risulta che appena un quarto dei nostri penitenziari ha spazi a misura d’infanzia. Solo il 13 per cento dispone di fasciatoi, e nel 95 per cento non c’è modo di scaldare un biberon. I fondi statali languono, si delega al privato sociale. "Ma, dal marzo 2014, con la firma del Protocollo fra noi, il ministero della Giustizia e il Garante nazionale per l’infanzia, qualche miglioramento c’è" aggiunge Lia. Il documento, unico in Europa, sancisce il diritto a mantenere le relazioni affettive nonostante la reclusione. Così, a Opera, oggi i bambini vengono a colloquio anche al pomeriggio e alla domenica, senza più saltare la scuola. E alcuni carcerati hanno ottenuto permessi per presenziare ai momenti più importanti: il primo giorno di scuola, la recita di fine anno, la prima comunione. "Io di Daniela mi sono perso tutto, fin dalla prima parola" confida Raffaele, fine pena 2024, alta sicurezza. Mohamed, giovane marocchino che uscirà nel 2032, non ha nemmeno visto nascere il figlio Marco, che oggi ha quasi nove anni. "Non mi piace venire qui, papà non fa niente" dice il bimbo, mostrandoci la sua lugubre pittura: una nuvola nera sovrastata da un ponte su cui si scontrano due auto. Alla riunione fra donne, ascoltiamo dalla madre che Marco, di quell’omone dietro le sbarre, sta ancora cercando di capire quale sia il ruolo nella sua esistenza. Laura, capelli rossi e sguardo insonne, ha detto alla figlia di cinque anni che il padre sta qui per lavoro: la piccola cerca i suoi abbracci mentre i fratelli più grandi, che sanno, tacciono disorientati. "Sono entrato un anno fa, per fortuna mi sono goduto un po’ i ragazzi" abbozza l’uomo, condannato per rapina. "Mi sono consegnato io ai carabinieri, per risparmiare ai figli di vedermi ammanettato sulla soglia di casa". Le due ore d’arte sono volate. È il momento della pizza, delle corse lungo il corridoio, dei congedi chiassosi, degli occhi lucidi dei padri. "Perché scrivi di noi?" mi chiede all’improvviso Vanessa, legata a un giovane che sconta il narcotraffico, mentre usciamo con le sue due piccole pesti. "Per la gente noi siamo feccia: il detenuto con tutta la sua famiglia". Ci prova Lia Sacerdote, a rispondere che può valere la pena di raccontare quanto un carcere umano, rispettoso degli affetti, abbia più probabilità di raggiungere un fine che ci riguarda tutti: restituire uomini liberi dalla voglia di far male. Milano: martedì 6 ottobre 2015 apre il teatro del carcere minorile "Beccaria" 24oreNews.it, 15 novembre 2015 Martedì 6 ottobre 2015 alle ore 18.30, a conclusione della seconda fase di ristrutturazione del Teatro interno al Carcere Minorile Cesare Beccaria di Milano, verrà presentata alla cittadinanza la sala teatrale totalmente ristrutturata, segnando l’inizio della stagione 2015/16. L’associazione Puntozero ha potuto raggiungere questo importante traguardo grazie al vitale contributo economico concesso al progetto dalla Fondazione Marazzina Onlus. Il Teatro alla Scala di Milano, che è accanto all’associazione dal 2005 e nel 2007 ha destinato al Teatro del Beccaria le poltrone dopo il restauro del Piermarini, ha fornito un sostegno fondamentale coordinando i lavori, con il coinvolgimento di Mapei che a sua volta ha contribuito con la fornitura gratuita dei propri prodotti e una donazione. Il Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, a seguito della recente firma della Convenzione con il Direttore Sergio Escobar, nel maggio 2016 realizzerà un workshop formativo sulla Commedia dell’Arte con Ferruccio Soleri, e nella stagione 2016/17, sulla scia del successo riscosso dallo spettacolo "Errare humanum est. Il carcere minorile spiegato ai ragazzi", presentato al Teatro Grassi nel novembre 2014, ospiterà di nuovo la Compagnia dei giovani attori creata dall’Associazione Puntozero dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano. Alla cerimonia del 6 ottobre saranno presenti il Capo Dipartimento della Giustizia Minorile Francesco Cascini, il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il Sovrintendente del Teatro alla Scala Alexander Pereira, l’Amministratore Unico di Mapei Giorgio Squinzi e il Piccolo Teatro di Milano. Sul palco si esibiranno i giovani attori detenuti e gli operatori Puntozero con alcune scene tratte da " Sogno di una notte di mezza estate" di W. Shakespeare con regia di Giuseppe Scutellà, come esito dei laboratori condotti da Puntozero all’interno dell’istituto. Il ripristino del Teatro interno al carcere minorile e l’inizio dell’attività teatrale permanente renderà tale luogo un nuovo punto di produzione culturale aperto ed accessibile all’intera cittadinanza, contribuendo ad arricchire l’offerta culturale della città di Milano e ad attenuare l’idea del carcere come istituzione punitiva, rompendo il "cono d’ombra" ed aiutare così a superare stereotipi e pregiudizi, facilitando la comunicazione tra "dentro" e "fuori" attraverso l’accessibilità della cittadinanza. Rilevante da un punto di vista sociale anche l’opportunità data ai giovani detenuti sia di calcare le scene in qualità di attori, sia di apprendere un mestiere teatrale (tecnico luci, macchinista teatrale, falegname, ecc.) spendibile anche in esterno per raggiungere una propria autonomia e determinare un proprio riscatto personale e sociale. Genova: dal Cineclub Nickelodeon il cinema coi detenuti, per ricominciare di Adriano Torti Avvenire, 15 novembre 2015 Una rassegna cinematografica "con" i detenuti e non "per" i detenuti. È questo lo spirito che anima l’iniziativa promossa da alcune associazioni ecclesiali e culturali di Genova tra cui il Cineclub Nickelodeon, cinema parrocchiale e sala della comunità della chiesa parrocchiale di N.S della Consolazione. Enrico Cimaschi è il vice presidente e spiega che "l’idea di un progetto culturale che coinvolgesse direttamente i detenuti e non li lasciasse solamente passivi spettatori è nata insieme ad altre realtà che operano nell’ambito sociale, come la Caritas e S. Egidio". Marco Arata, della Comunità di vita cristiana, ha sottolineato che "uno dei nostri obiettivi è di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni a considerare il carcere non come la fine di un percorso sbagliato intrapreso da alcune persone ma un momento dopo il quale poter ricominciare, per quanto possibile, una vita normale". Tecnicamente, ha spiegato ancora Cimaschi, la casa circondariale di Marassi ha selezionato alcuni detenuti con i quali vengono visionati alcune pellicole e vengono scritte le relative schede filmiche che poi verranno utilizzate durante la rassegna cinematografica vera e propria che avrà luogo in primavera e si terrà sia dentro che fuori dal carcere presso lo stesso cineclub. Tema della rassegna sarà l’auto aiuto, ossia l’aiuto che ciascuno di noi può trovare dentro se stesso per ricominciare a vivere dopo un momento difficile delle propria vita. Un tema sicuramente caro ai detenuti ma che, in un modo o nell’altro, può riguardare ciascuno di noi. Stati Uniti: i droni per contrabbandare droga e armi dentro le carceri zeusnews.it, 15 novembre 2015 Sin da quando hanno raggiunto prezzi abbordabili, i droni sono stati scelti dai criminali per svolgere discretamente alcune attività: per esempio per fungere da corrieri della droga o per rubare marijuana. Ora il Federal Bureau of Prisons (Bop), l’ente statunitense che gestisce le prigioni federali, ha iniziato a preoccuparsi per l’utilizzo dei droni come corrieri che consegnano droga, armi e altre merci di contrabbando all’interno delle carceri. Una Request for Information avanzata lo scorso 4 novembre mostra tutte le preoccupazioni dell’agenzia. "Dai piccoli dispositivi che pesano meno di mezzo chilo e possono riprendere immagini non autorizzate e svolgere compiti di sorveglianza fino ai sistemi più grandi che possono trasportare fino a 10 chilogrammi di merce di contrabbando, questi dispositivi rappresentano una sfida nuova e inedita per lo staff del BOP" scrive l’ente. Per questo motivo si richiede l’istituzione di un sistema di rilevamento e abbattimento dei droni, che sia in grado di individuare e colpire i piccoli veicoli che volano fino a 18.000 piedi (circa 5.400 m) e con velocità fino a 100 metri al secondo. Deve individuarli già a 1 miglio di distanza (circa 1,6 km) e intercettarli appena possibile, oltre a essere in grado di funzionare sia sotto supervisione umana che in autonomia.