Giustizia: depenalizzazioni, primo step di Giovanni Galli Italia Oggi, 14 novembre 2015 Depenalizzazione dei reati per i quali come pena è prevista una multa, come l’omesso versamento di contributi e ritenute da parte del datore di lavoro, purché sotto i 10 mila euro annui. Con alcune eccezioni, relative a reati non marginali: edilizia e urbanistica; alimenti e bevande; ambiente, territorio e paesaggio; sicurezza pubblica e dei luoghi di lavoro; giochi d’azzardo e scommesse; armi e esplosivi; finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale e industriale. Disco verde a nuove sanzioni amministrative cosi determinate: sanzione amministrativa da 5 mila a 15 mila euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fi no a sei mesi, da 5 mila a 30 mila euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno, da 10 mila a 50 mila euro per i delitti e le contravvenzioni puniti con un pena detentiva superiore a un anno. Lo prevede lo schema di dlgs sulle depenalizzazioni approvato ieri dal Consiglio dei ministri nell’ambito di un pacchetto di misure in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67. Nel pacchetto, due schemi di decreti delegati, uno recante appunto disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2 della legge 67, l’altro con disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, sempre della legge 67/2014 (si veda altro articolo in pagina). Tre gli obiettivi indicati dal ministero della Giustizia: avere innanzitutto sanzioni più rapide, incisive ed efficaci, producendo quindi entrate che vengono effettivamente incassate dallo Stato e risparmi per i costi dei tanti procedimenti; decongestionare la giustizia penale da migliaia e migliaia di procedure lunghe, spesso inutili e costose; assicurare una più efficace repressione dei reati socialmente più gravi. "Abbiamo un diritto penale praticamente sconfinato: si parla di oltre 50 mila reati previsti dall’ordinamento. "Abbiamo deciso", ha spiegato il ministro della Giustizia Andrea Orlando al termine della riunione, "che tutto quello che finisce con una multa lo facciamo passare attraverso un’attività amministrativa, anziché fare tre gradi di giudizio, penale o civile". Sulla depenalizzazione del reato di clandestinità, inizialmente prevista nella bozza di decreto, l’esecutivo ha invece deciso di attendere. "Questo reato", ha detto il Guardasigilli, "non è depenalizzato: immaginiamo che nelle Commissioni si svilupperà una discussione che credo sarà importante rispetto alla decisione finale che assumerà il Governo. È una previsione politica che faccio". Secondo Orlando, dal pacchetto sulle depenalizzazioni ci saranno "varie ricadute positive: innanzitutto si decongestionano gli uffici, inoltre con il passaggio amministrativo si realizzeranno le sanzioni. Non vorrei che si racconti che stiamo rendendo meno duro il modo di intervenire dello Stato, anzi per la prima volta facciamo pagare gli illeciti. Tutto quello che finora veniva punito con la multa", ha precisato Orlando, "diventa di competenza amministrativa. Spesso questo tipo di reati cadevano in prescrizione, oppure si arrivava a una condanna soggetta alla sospensione condizionale della pena, quindi la multa non veniva mai pagata. Ora la sanzione si realizzerà". Le depenalizzazioni L’obiettivo della riforma, spiega una nota del dicastero, è quello di trasformare alcuni reati di assai lieve entità (nessuno dei quali prevedeva il carcere) in illeciti amministrativi sia per rendere più effettiva e incisiva la sanzione, assicurando al contempo una più efficace repressione dei reati più gravi, sia anche per deflazionare il sistema processuale penale. Lo schema del decreto riprende le proposte della commissione ministeriale (costituita con dm 27 maggio 2014) presieduta dal professor Francesco Palazzo, ordinario di diritto penale a Firenze, e si articola in interventi sia sul codice penale che sulle leggi speciali. Il criterio generale seguito è quello di depenalizzare i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda previsti al di fuori del codice penale e una serie di reati presenti invece nel codice penale. Il ministero segnala in particolare, "per i suoi benefici effetti sui tempi della giustizia penale", la riforma del reato di omesso versamento delle somme trattenute dal datore di lavoro come contributi previdenziali e assistenziali e a titolo di sostituto di imposta, ove l’importo non superi euro 10 mila annui. Ciò consentirà, nelle previsioni di Via Arenula, di deflazionare migliaia e migliaia di procedimenti penali che intasano le aule dei tribunali. Il datore di lavoro non sarà punito nemmeno sul piano amministrativo nel caso provveda al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione. Reciproco riconoscimento. Il consiglio dei ministri ha anche approvato una serie di decreti legislativi che prevedono l’attuazione di alcune decisioni prese in sede di Consiglio "Giustizia e affari interni" (Gai) come, tra l’altro, l’applicazione tra gli Stati membri dell’Unione europea del principio del reciproco riconoscimento di sanzioni, sentenze e sequestri e l’istituzione di squadre investigative comuni. "Avevamo una serie di atti europei che dal 2002 al 2009 avevano costruito una giurisdizione europea, ma da allora non avevamo mai dato attuazione a questa norma", ha spiegato il ministro Orlando. Con i Dlgs approvati ieri "la pronuncia di un tribunale italiano o l’ordinanza di un giudice vengono riconosciute anche dagli altri giudici europei e viceversa. Per la prima volta inoltre si prevedono squadre investigative multinazionali contro i reati: non c’è più la cooperazione tra i singoli uffici, ma ci sono squadre di magistrati di vari paesi. È un passo importante contro la minaccia del terrorismo internazionale e contro le criminalità organizzate", ha concluso il guardasigilli. Giustizia: depenalizzazioni. Il ministro Orlando "da reati non puniti a multe sicure" di Francesco Grignetti La Stampa, 14 novembre 2015 Erano reati di minima entità, di quelli che secondo il codice penale si possono sanzionare non con il carcere, ma con una ammenda. Il governo intende ora depenalizzarli, trasformando un’aleatoria sanzione pecuniaria in una multa sicura. Il trasferimento dal versante penale a quello amministrativo - ha spiegato ieri il ministro Andrea Orlando, al termine del consiglio dei ministri - ha l’obiettivo di sanzioni "più rapide, incisive ed efficaci, producendo quindi entrate che vengono effettivamente incassate dallo Stato e risparmi per i costi dei tanti procedimenti; decongestionare la giustizia penale da migliaia di procedure lunghe, spesso inutili e costose; assicurare una più efficace repressione dei reati socialmente più gravi". Una misura molto richiesta sia dai magistrati, sia dagli avvocati. La Lega Nord è però immediatamente insorta: "È l’ennesima decisione infame di un governo che premia nuovamente criminali e delinquenti", dice il capogruppo in commissione giustizia alla Camera, Nicola Molteni. "Populismo giudiziario", li liquida l’Unione delle Camere penali. Ma il ministro Orlando si attendeva polemiche: "Non vorrei che qualcuno raccontasse che stiamo rendendo meno duro questo tipo di illeciti. Al contrario, per la prima volta le sanzioni saranno effettive. Spesso questi reati cadevano in prescrizione, oppure si arrivava a una condanna soggetta alla sospensione condizionale della pena e la multa non veniva mai pagata. Ora la sanzione si realizzerà". Un esempio, per capire la portata del provvedimento: depenalizzando il reato di omesso versamento di contribuiti previdenziali e assistenziali, ove l’importo non superi 10mila euro annui, saranno annullati migliaia di procedimenti. Il datore di lavoro non sarà punito nemmeno sul piano amministrativo nel caso provveda al versamento delle ritenute entro 3 mesi dalla contestazione. Altrimenti scatta anche la multa. Resteranno reato penale gli illeciti in materia dì edilizia e urbanistica, di ambiente, di alimenti, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, di sicurezza pubblica, di giochi d’azzardo, di armi ed esplosivi, di elezioni e di finanziamento ai partiti, di proprietà intellettuale e industriale. Rinviato al dibattito parlamentare il quesito, non sciolto dal governo, se abrogare anche il reato di immigrazione clandestina. Giustizia: resta (per ora) il reato di clandestinità, Alfano canta vittoria L’Unità, 14 novembre 2015 La proposta del ministro Orlando e del Pd bloccata dal leader Ncd. Resta (per ora) il reato di immigrazione clandestina. L’ipotesi di depenalizzazione caldeggiata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal Pd, non passa. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera a due schemi di decreti legislativi che prevedono la depenalizzazione di una serie di condotte di lieve entità, nessuna delle quali, va detto, prevedeva il carcere, ma solo multa o ammenda. Si va dall’ingiuria al furto del bene da parte di chi ne è comproprietario, all’appropriazione di cose smarrite, per fare degli esempi. La filosofia di fondo, come chiesto da magistrati e avvocati, è che si ritiene abbia più forza di prevenzione una punizione certa in tempi rapidi che la minaccia di un processo penale lungo e costoso. Restano fuori dal pacchetto alcuni reati che pur prevedendo solo la pena di multa o ammenda tutelano interessi importanti in materia di urbanistica, ambiente, alimenti, salute nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo, elezioni, armi ed esplosivi, finanziamento ai partiti, proprietà intellettuale e industriale. Ma la notizia sta soprattutto nel dato politico che il reato di immigrazione clandestina - una delle bandiere della destra e della Lega, spesso al centro di scontro - resta al suo posto. Nel testo che ora sarà trasmesso alle competenti commissioni delle Camere per le valutazioni, non c’è. Così come non c’è la depenalizzazione dei reati legati alla cannabis e quella delle condotte di disturbo della quiete pubblica. Più volte Orlando aveva parlato di reato "inefficace", da superare. Ma il Cdm si è diviso, con il ministro Alfano a guidare il fronte del no, mentre anche i ministri Delrio e Martina sostenevano l’abolizione. Il premier Matteo Renzi ha così deciso di superare l’impasse e ha mediato. "Complessivamente è passata l’idea che in questo momento non fosse bene dare un segnale di questo tipo", spiegano da Ncd. C’è la consapevolezza del peso che continuerà a scaricarsi sulle procure più esposte, "le procure degli sbarchi" che con questo reato dovranno continuare a fare i conti, ammette lo stesso ministro dell’Interno Angelino Alfano. E "questa è l’altra faccia della medaglia". Ma secondo Ncd una depenalizzazione dell’immigrazione clandestina poteva prestare il fianco a strumentalizzazioni politiche. Ora la parola passa alle Camere. "Abbiamo lasciata aperta la finestra per far decidere il Parlamento", sintetizza infatti Orlando. C’è qui lidi la volontà di "coinvolgerei! Parlamento prima di una decisione finale" spiegano per il Pd i deputati Walter Verini, e Khalid Chaouki, mentre sul versante opposto per Forza Italia parla Maurizio Gasparri: "Ci schiereremo decisamente perché tale ipotesi rimanga come reato penalmente perseguibile". Una scelta perfettamente in linea con la sottomissione di Berlusconi al nuovo leader del centrodestra Matteo Salvini. Dal decreto sulla depenalizzazione approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri - come si apprende nel comunicato di Palazzo Chigi - sono esclusi oltre i reati di immigrazione clandestina, quello disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone e, in materia di stupefacenti, la violazione delle prescrizioni impartite con l’autorizzazione alla coltivazione delle piante da cui si estraggono le sostanze. Giustizia: Mattarella concede grazia parziale a Monella, condannato per aver ucciso un ladro di Marco Birolini La Stampa, 14 novembre 2015 Il 54enne era stato condannato in via a definitiva a 6 anni e 2 mesi di reclusione. Ora potrà essere affidato in prova ai servizi sociali. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso oggi la grazia parziale di due anni ad Antonio Monella, l’imprenditore di Arzago d’Adda, nella Bassa bergamasca, in carcere dall’8 settembre 2014 perché condannato in via definitiva per omicidio volontario a 6 anni e due mesi di reclusione per aver ucciso, il 6 settembre 2006, l’albanese diciannovenne Ervis Hoxa, che gli stava rubando il suv posteggiato nel giardino di casa. Monella aveva chiesto la grazia a Giorgio Napolitano lo scorso anno, pochi giorni dopo la sentenza definitiva del 25 febbraio. Intanto gli era stato concesso un differimento di 6 mesi della pena, che però era scaduto a fine agosto. Nonostante oltre diecimila firme raccolte a sostegno della richiesta di grazia e l’impegno di Roberto Calderoli a ritirare i suoi 600mila emendamenti al ddl Boschi se fosse stato firmato il provvedimento di clemenza, dal Quirinale non arrivò alcun segnale, per cui il procuratore di Bergamo avrebbe dovuto dare esecuzione alla pena, facendo dunque scattare l’arresto. Ma l’imprenditore, accompagnato dal figlio ventiseienne Alberto e dal suo legale, Enrico Mastropietro, si presentò spontaneamente al carcere di Bergamo. "Non avevamo mai perso la speranza - commenta ora l’avvocato, che ha difeso l’imprenditore insieme al collega Andrea Pezzotta - e lo stesso mio assistito non l’aveva mai persa". La decisione del Capo dello Stato tiene conto del parere favorevole formulato dal ministro della Giustizia a conclusione della relativa istruttoria. Con la grazia di due anni, a Monella restano da scontare meno di tre anni, visto l’anno e i due mesi già scontati e che vanno a loro volta sottratti ai 6 anni e due mesi di condanna. Sotto i tre anni è prevista l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale, come dispone l’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario. Nel valutare la domanda di grazia, Mattarella ha tenuto conto del comportamento positivo tenuto dal condannato durante la detenzione e della circostanza che il percorso di educazione sino a ora compiuto potrebbe utilmente proseguire (se la competente Autorità Giudiziaria ne ravvisasse i presupposti) appunto con l’applicazione di misure alternative al carcere. La sentenza di condanna della Corte d’Assise d’Appello di Brescia è del 29 giugno 2012, poi confermata il 25 febbraio dello scorso anno. "Ora potremo appunto chiedere, e lo faremo, l’affidamento ai Servizi sociali - ha aggiunge l’avvocato -. Quella della grazia parziale era tra l’altro la nostra richiesta: non avevamo mai chiesto una grazia totale". "Ringraziamo tutte le persone che si sono date da fare, indistintamente - ha concluso -. Sono stati davvero tutti bravi. Abbiamo fatto bene io e il collega Andrea Pezzotta a tenere un profilo basso e a non fare sparate sui giornali. Il Presidente Mattarella si è dimostrato molto sensibile e un grande giurista". Giustizia: ma il Quirinale non sposa l’autodifesa illimitata di Ugo Magri La Stampa, 14 novembre 2015 Il caso molto controverso di Antonio Monella, l’imprenditore di Arzago D’Adda da oltre un anno in carcere per avere sparato a un giovane ladro albanese, uccidendolo, su cui la Lega aveva montato una campagna di protesta in nome della libertà di difendersi, ha trovato ieri una soluzione con il provvedimento di grazia firmato dal Capo dello Stato. Monella potrà presto tornare a casa. Ma non si tratta di un via libera alla giustizia fai da te, una legittimazione di ronde, sceriffi e cittadini che impugnano le armi: prendere a fucilate dal balcone di casa i malviventi che tentavano di rubargli il suv, come fece l’imprenditore nel 2006, rimane un reato gravissimo, punito come tale. Contrariamente a quanto sostengono, stranamente concordi, una certa destra e una certa sinistra, l’atto di clemenza presidenziale non lo giustifica minimamente. Prova ne sia che Mattarella ha condonato solo due dei rimanenti cinque anni da scontare dietro le sbarre, quanto basta perché il Tribunale di sorveglianza sia messo nella condizione di applicare (sempre che lo ritenga opportuno) l’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Se il presidente avesse considerato Monella nel giusto, o addirittura un eroe del nostro tempo come ama presentarlo Salvini, glieli avrebbe scontati tutti e cinque. Ma non è andata così. Fonti vicine al Colle segnalano che la grazia, come si è detto parziale, Mattarella l’ha concessa alla luce di circostanze che la legge nella sua astrattezza non può sempre prevedere in anticipo. All’epoca dei fatti Monella era una brava persona incensurata, si era immediatamente pentito del suo gesto, aveva risarcito i familiari del diciannovenne Ervis Hoxa, durante il processo non aveva mai tentato la fuga o altro, confidando sempre nella giustizia. Inoltre ha già scontato in carcere una parte della pena e, durante la detenzione, ha mantenuto un comportamento irreprensibile. In tal senso si è espresso con apposita relazione il giudice di sorveglianza, interpellato dal ministero della giustizia che ha svolto l’istruttoria richiesta dalla legge. Il Presidente ha firmato il provvedimento di grazia solo dopo che ieri mattina il ministro Orlando aveva dato il suo via libera. Insomma: Monella potrà tornare libero solo ed esclusivamente in ragione della sua condotta esemplare, non per effetto delle minacce di Salvini ("Per liberarlo occuperemo le prefetture") che anzi, secondo chi frequenta il Colle, nelle scorse settimane aveva rischiato addirittura di diventare controproducente per Monella, in quanto la troppa insistenza poteva creare l’impressione sbagliata che la grazia venisse concessa dal Quirinale per quieto vivere, o addirittura come forma di cedimento alle pressioni "padane". La formula di clemenza adottata da Mattarella è tale che non giustifica affatto l’esultanza (abbastanza sguaiata) della Lega. Per certi versi, anzi, ne sgonfia la propaganda perché va incontro a certi stati d’animo presenti soprattutto al Nord, dove la paura per la delinquenza è tanta, però al tempo stesso taglia la strada alle proposte di legge che mirano ad allargare le maglie della legittima difesa. Accoglie quanto è di buon senso, respinge tutto il resto in nome di un calcolo politico che, se esistesse, sarebbe sottile e raffinato. Ma di cui sul Colle negano l’esistenza, pure con toni piuttosto netti. Si assicura da quelle parti che Mattarella ha ragionato da giurista quale egli è, mettendo nel conto le polemiche poi puntualmente esplose, però nella più totale osservanza della legge e appellandosi al foro interiore della propria coscienza. Di qui il primo atto "sovrano" del suo settennato. Giustizia: si può estendere la legittima difesa? di Carlo Bertini La Stampa, 14 novembre 2015 Comincia alla Camera la discussione della proposta di legge leghista: chi spara per difendere dai ladri casa o negozio non deve dimostrare la propria innocenza. I partiti alla prova sul sensibilissimo tema. Il Pd e il governo però frenano. Esulta Salvini per la grazia ad Antonio Monella, proprio mentre alla Camera Nicola Molteni, il front man della battaglia leghista sulla legittima difesa, spiega la proposta di legge che terrà banco alla Camera dalla prossima settimana in Commissione Giustizia; legata però soprattutto agli ultimi casi di cronaca che hanno scatenato polemiche. Che sia il tema che il Carroccio cavalcherà per tutta la campagna elettorale, Salvini lo ha fatto capire chiaramente. Ieri ha provato a stoppare la polemica di un’Italia trasformata in "un paese di sparatori. No, il modello è la Svizzera, non gli Stati Uniti. Hanno 4 milioni di armi su 8 milioni di abitanti. Non è che si prendano a pistolettate a Zurigo". E che questa sia una delle sfide difficili da fronteggiare per il governo lo dimostra la dialettica interna all’esecutivo, dove Ncd preme per aggiornare le norme e il Pd frena. Certo i dati aiutano i leghisti: in dieci anni i furti in appartamento più che raddoppiati, gli ultimi numeri del Censis di febbraio 2015 fotografano un boom di un fenomeno, (oltre 250 mila furti denunciati nel 2013), che investe soprattutto il Nord-Ovest, il 20% sono nelle tre province di Milano, Torino e Roma. E se a questi si somma la crescita del 200% delle rapine in casa, cioè i furti "con violenza o minacce ai proprietari", si capisce perché gli ultimi episodi che hanno fatto clamore sono solo un tassello del problema che si pone all’esecutivo: che non a caso ha aumentato le pene per furti in casa e rapine. La proposta leghista Cosa chiede la Lega? Che ci sia sempre la presunzione di legittima difesa per chi protegge la propria abitazione o negozio dai ladri, spiega Molteni. Tradotto, l’inversione dell’onere della prova. Un solo articolo che introduce una norma aggiuntiva all’art. 52 del Codice penale. "Si presume che abbia agito per difesa legittima colui che compie un atto per respingere l’ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un’abitazione privata, o in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale". E cosa dice il governo? Chi ha parlato col ministro Orlando dice che "lui frena". Invece Enrico Costa, sottosegretario alla Giustizia di Ncd, che seguirà in commissione l’iter, dalle audizioni ai voti, definisce quella leghista una proposta "troppo estrema". Ma spiega che "la criminalità negli anni ha cambiato pelle, un volta c’era il topo di appartamento che entrava d’estate, oggi ci sono bande pronte a neutralizzare i proprietari e la percezione dello stato d’ansia e paura conta". Dunque? "La normativa va calata sull’attualità e verificheremo come le singole situazioni dove si invoca la legittima difesa vengono applicate nei tribunali". Insomma, bisogna "tutelare chi reagisce in stato d’ansia, ma non pensare di legittimare la vendetta e pensare di dare licenza d’uccidere". Tradotto, Ncd non chiude la porta a modifiche. Giustizia: una spinta a rivedere la legittima difesa di Paolo Graldi Il Messaggero, 14 novembre 2015 Sullo scottante, dibattutissimo tema della "legittima difesa", interviene il presidente della Repubblica. Prerogativa esclusiva del capo dello Stato, Mattarella concede la grazia (parziale) a un condannato, un imprenditore che ha ucciso a fucilate un giovane che stava rubandogli il Suv. Antonio Monella, 54 anni, da un anno in carcere, condannato in via definitiva a sei anni, due mesi e venti giorni di carcere, con la grazia che taglia la pena di due anni potrà lasciare il penitenziario. Insomma Monella, imprenditore di Arzago d’Adda, va ai servizi sociali e ritrova una vita che assomiglia alla libertà e si lascia alle spalle una vicenda travagliatissima che risale a dieci anni fa (ah, i tempi della giustizia), la notte del 6 settembre 2006. Fu allora, nella notte, che Monella senti l’armeggiare dei ladri nel corrile della sua abitazione: in due o tre stavano forzando una portiera per portarsi via il Suv ch’era lì parcheggiato. Un moto d’ira irrefrenabile, un impulso aggressivo e tuttavia motivato da quell’intrusione: bastò un attimo per armarsi di fucile e sparare laggiù nella penombra. Ci lasciare la pelle Ervis Hoxha, albanese di 19 anni, poco più di un ragazzo. Omicidio volontario l’imputazione che ha retto in tutti i gradi di giudizio trascinando con sé la pesante pena che si è detto, più un risarcimento ai familiari del morto di 150 euro. Chiamatela pure tragedia ma anche qualcosa di più e peggio. Una vita freddata in un baleno; un’altra vita che si spezza, rinchiusa tra le sbarre, infilata in un percorso infinito e doloroso. È nata così l’idea, sostenuta orizzontalmente dai partiti, di chiedere la grazia per l’imprenditore, un uomo senza precedenti penali, padre di famiglia, domanda presentata a Giorgio Napolitano e, come vuole la legge, istruita dal Guardasigilli. Il ministro Andrea Orlando, da via Arenula, ha dato parere favorevole. Intorno al caso, alimentata dalla Lega in particolare, si è molto discusso e anche con toni forti tanto che il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, a fine agosto, in piega bagarre parlamentare sulla riforma costituzionale si era offerto di fermare la valanga di emendamenti elaborati da un algoritmo se la macchina della grazia si fosse mossa in fretta. Non sarebbe corretto trarre un nesso tra le profferte del senatore leghista e la mossa del presidente della Repubblica, sarebbe anzi arbitrario. E tuttavia altri più recenti fatti criminali e di risposta anche violenta dei cittadini (il pensionato che spara e uccide un ladro sulle scale della sua villetta è solo l’ultimo di una lunga sequenza) hanno imposto al dibattito politico un generale ripensamento della legislazione sulla materia della legittima difesa. Si cavalcano opposte soluzioni, come ha scritto su queste colonne Carlo Nordio con esemplare chiarezza e lucidità giuridica: si esige da parte dello Stato il diritto alla vita, all’incolumità, alla proprietà ma poi, nei fatti, ci si imbatte in comportamenti che travalicano i confini della legge per sconfinare nelle praterie del Far West, dove la legge non c’era e ognuno se la faceva con la propria Colt. La legge attuale ripropone, come puntualmente ricordava Nordio, il principio secondo il quale lo Stato afferma: fin qui e non oltre, solo lo Stato può decidere fino a che punto tu possa difendere i tuoi diritti ( vita, proprietà). La riforma della materia ha ormai dieci anni e la storia ha abbondantemente dimostrato che, costruita male e in fretta, mostra oggi più crepe che certezze. Ed è vasto il movimento anche tra magistrati e giuristi di chi chiede un aggiornamento, una rilettura critica, una presa d’atto che le circostanze, pur con tutte le cautele del caso e dei casi, sono cambiate e si fa forte la richiesta di un segnale che rimarchi il valore della vita e della proprietà. Non certo per accettare e condividere il concetto sbandierato e secondo il quale "chi entra in casa mia senza il mio permesso è un uomo morto", come si sente gridare in certe piazze con la claque di partì politiche assetate di populismo, ma per organizzare un pensiero giuridico ed insieme etico che sappia chiedere allo Stato di compiere il proprio dovere fino in fondo nel difendere l’incolumità dei cittadini e ai cittadini di non dover temere la galera per aver risposto ad una aggressione criminale. Su tutto, purtroppo, una certezza: dovremo tornare spesso e malvolentieri sul tema. Ce lo imporrà la cronaca dei fatti. Di sangue. Giustizia: il Csm "condanna" quarantasei magistrati in dieci mesi di Claudia Fusani L’Unità, 14 novembre 2015 Il Disciplinare ha medie molto alte da 2-3 anni. "La giustizia interna è rigorosa" In dieci mesi ne sono stati puniti 46. Quattro, cinque magistrati ogni mese, da gennaio a fine ottobre, sono stati raggiunti da provvedimenti disciplinari e sanzioni pesanti decise dalla sezione Disciplinare del Csm. Un rigore che è difficile riscontrare in altre amministrazioni dello Stato. E che può significare due cose: il Csm funziona aldilà delle facili accuse circa la chiusura corporativa; anche la magistratura soffre, non è immune, dalla "patologia che ormai ha colpito molti settori della pubblica amministrazione", dai migliori politici ai più illustri funzionari dello stato. Anche ieri è stata una giornata pesante al Consiglio superiore della magistratura. Non è ancora finito il bubbone Palermo - l’inchiesta per corruzione che ha tagliato la testa del delicatissimo ufficio di misure di prevenzione presieduto da Silvana Saguto coinvolgendo altri quattro magistrati - e già si apre un altro caso, quello del giudice di Napoli Anna Scognamiglio. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini è "preoccupato" così come il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è definito "rammaricato per quello che sta accadendo nella giurisdizione". L’Associazione nazionale magistrati ha avviato l’indagine interna. E il Consiglio superiore non perde tempo. Ieri mattina la Prima Commissione, competente per le incompatibilità delle toghe a restare in un determinato distretto, presieduta dal laico Renato Balduzzi, ha chiesto all’unanimità l’apertura di una pratica a carico del giudice Anna Scognamiglio. Che nel pomeriggio è stata subito ratificata dal Comitato di Presidenza del Csm. "Valutiamo l’incompatibilità ambientale e funzionale a suo carico" ha voluto precisare a metà pomeriggio il vicepresidente Legnini prima di salire al Quirinale. L’incontro con il presidente Mattarella era in agenda ma la magistratura sempre più attraversata da scandali è "questione preoccupante" che ha occupato buona parte del colloquio. Sul caso Napoli la Prima commissione avvierà l’istruttoria già la prossima settimana. Saranno richiesti gli atti a Napoli e a Roma perché, "quelli a nostra disposizione sono ancora molto frammentati e non comprendono le intercettazioni pubblicate oggi sui giornali" ha detto Balduzzi. Il relatore sarà il togato di Area Piergiorgio Morosini. "In 24 ore - ha detto -abbiamo tracciato un percorso e con tempestività e rigore deciso i passi successivi per restituire serenità agli ufficio giudiziari di Napoli". Legnini tiene aggiornatala statistica delle cause chiuse dal Disciplinare (a cui approdano anche i provvedimenti decisi dal ministro della Giustizia e dal Pg della Cassazione). "Da qualche anno-ha evidenziato il numero 2 del Csm- le condanne dei magistrati decise dall’organo disciplinare sono superiori alle assoluzioni". Dal primo gennaio al 30 ottobre 2015 la speciale sezione del Csm ha deciso 46 sentenze di condanna a fronte di 38 assoluzioni. Il mese di novembre, con il caso Palermo, sta alzando la media. "Una tendenza che si conferma da due, tre anni, a prescindere quindi dall’introduzione della responsabilità civile, e che dimostra come la giustizia interna sia esercitata con tempestività e rigore" commentano a palazzo dei Marescialli. Si tratta per lo più di procedimenti per il ritardo nel deposito delle sentenze, detenuti tenuti in carcere più a lungo del dovuto e poi condotte all’interno e al di fuori della giurisdizione. Altra cosa sono le pratiche aperte in Prima commissione dove spesso e volentieri vengono decise "condotte incolpevoli" ma sufficienti a pretendere il trasferimento del magistrato. La magistratura non nasconde più le sue mele marce. Lo fa con orgoglio. E a sua tutela. Giustizia: nuovo codice antimafia, un giro di vite sul caporalato di Andrea Mascolini Italia Oggi, 14 novembre 2015 Inasprimento delle norme sul "capolarato"; più efficaci e tempestive le misure di prevenzione patrimoniale; "giro di vite" sulle nomine degli amministratori giudiziari; prevista la confisca se il patrimonio dell’autore del reato è sproporzionato rispetto al reddito, nuove norme sul controllo giudiziario sulle aziende. Sono queste alcune delle misure contenute nel testo del disegno di legge approvato mercoledì dalla camera recante le modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione che adesso passa all’esame dell’altro ramo del Parlamento. Il provvedimento - che si compone di 30 articoli, suddivisi in 7 capi - apporta numerose modifiche al Codice antimafia (dlgs 159/2011), ad esempio introducendo un nuovo articolo 34-bis sul controllo giudiziario (da uno a tre anni) delle aziende, che riguarda l’ipotesi in cui l’attività di impresa sia volta ad agevolare l’attività di soggetti destinatari di una misura di prevenzione personale o patrimoniale ovvero di soggetti sottoposti a procedimento penale per i delitti indicati dall’articolo 34 del codice. In tali casi è stabilito che il tribunale disponga, anche d’ufficio, il controllo giudiziario delle attività economiche e delle aziende, se sussiste il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività. Vengono introdotte misure di contrasto al "caporalato" con l’inserimento dell’articolo 603-quater del codice penale che impone la confisca obbligatoria (compresa la possibilità di confisca allargata) delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (previsto all’articolo 603-bis), che verrà inoltre inserito tra quelli in relazione ai quali viene adottata l’informazione antimafia interdittiva e tra i reati per i quali sussiste responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Prevista anche l’assegnazione in affitto degli immobili confiscati alla mafia al personale delle Forze di polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco che, a proprie spese, potranno provvedere alla loro ristrutturazione, se le amministrazioni assegnatarie non dispongano delle risorse. Viene rivista la disciplina delle misure di prevenzione personali, con l’inserimento degli indiziati dei reati contro la pubblica amministrazione (dal peculato alla concussione, alle varie forme di corruzione) tra i soggetti destinatari delle misure. Si mira inoltre a rendere più efficace e tempestiva l’adozione delle misure di prevenzione patrimoniale: il procedimento di prevenzione patrimoniale deve avere trattazione prioritaria ed è prevista una disciplina sulle misure di prevenzione patrimoniale relative a partecipazioni sociali. Si estendono i casi già previsti di confisca allargata, disposta - pur in mancanza di un nesso tra bene e reato - quando viene accertato che il patrimonio dell’autore del reato è sproporzionato rispetto al reddito e quando il condannato non è in grado giustificare la provenienza di tali beni. Vengono poi inserite disposizioni per assicurare una maggiore trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari, con garanzia di competenze e rotazione negli incarichi (viene previsto anche il divieto di nomina non solo ai parenti ma anche ai "conviventi e commensali abituali" del magistrato che conferisce l’incarico). Un particolare rilievo hanno poi le norme destinate a favorire la ripresa delle aziende sottoposte a sequestro, in particolare con la previsione di uno specifico stanziamento per il credito alle aziende sequestrate e con ulteriori misure dirette a sostenere la prosecuzione delle attività e la conseguente salvaguardia dei livelli occupazionali. Giustizia: chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, c’è ancora da lavorare superando.it, 14 novembre 2015 Come procede il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) a oltre sette mesi dalla data fissata dalla Legge 81/14? C’è ancora da lavorare, secondo il Comitato Stop Opg, in particolare per far sì che non siano le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), a diventare la norma, come dei "mini Opg", ma lo diventino invece le misure alternative alla detenzione, rinforzando i servizi sociosanitari nel territorio, a partire dai Dipartimenti di Salute Mentale. Come procede il progressivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) - cinque sono quelli ancora sopravvissuti, ovvero Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze) e Reggio Emilia - a oltre sette mesi dalla data fissata dalla Legge 81/14 (il 31 marzo di quest’anno)? A riferirne è il Comitato Stop Opg - organismo che conduce ormai da anni una dura battaglia in questo settore - dopo un recente incontro con il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, presidente dell’Organismo di Coordinamento del Processo di Superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. "Oltre ad apprezzare l’azione del Sottosegretario e la disponibilità al confronto - si legge in una nota diffusa dal Comitato - abbiamo sollecitato innanzitutto l’immediata nomina da parte del Governo di un Commissario nelle Regioni inadempienti (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto), il quale proceda per il trasferimento nei territori di appartenenza degli internati ancora negli Opg, così da chiuderli in via definitiva. Bisogna inoltre, come chiediamo da sempre, che il Commissario stesso agisca soprattutto per garantire che le misure alternative alla detenzione siano la norma e non l’eccezione, in piena attuazione della Legge 81/14, ciò che sarà possibile solo rinforzando i servizi sociosanitari nel territorio, a partire dai Dipartimenti di Salute Mentale. Riteniamo infatti preoccupante il fatto che nelle Rems, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, che dovrebbero essere invece l’eccezione e non la norma, compresa quella di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, ove ci si è limitati a cambiare la targa del precedente Opg, siano state internate ben 164 persone provenienti dalla libertà". Sempre sulla stessa linea, quindi, il Comitato Opg ha chiesto "che il Ministero della Salute attivi il monitoraggio sui Progetti Terapeutico Riabilitativo Individuali (Ptri) e svolga funzioni di garanzia circa il loro svolgimento: la Legge 81/14, infatti, prevede che essi siano inviati alla Magistratura e al Ministero stesso entro 45 giorni dall’ingresso nelle Rems e prevede anche che i Ptri siano esplicitamente finalizzati a soluzioni diverse dalle Rems. Serve dunque anche l’approvazione di un atto che impedisca - o renda appunto eccezionale - l’invio della misura di sicurezza provvisoria nelle Rems, ove stanno aumentando le presenze, quando dovrebbero essere del tutto residuali. Per questo è necessario attivare un monitoraggio per conoscere quante siano le persone destinatarie di una misura di sicurezza diversa dall’internamento in Rems e ciò per verificare se la misura alternativa è effettivamente la norma e non l’eccezione, per garantire la cura e la riabilitazione delle persone, come prescritto dalla norma. Un analogo monitoraggio, inoltre, dovrà riguardare le persone dimesse per il raggiungimento dei termini massimi di internamento (anche nelle Rems), per evitare proroghe della misura di sicurezza detentiva". E ancora, tra le ulteriori richieste del Comitato al sottosegretario De Filippo, vi è stata quella "di esplicitare alle Regioni che è vigente la facoltà, contenuta nella Legge 81/14, di riconvertire le risorse e i progetti di attivazione delle Rems, a favore dei Dipartimenti di Salute Mentale nel territorio". Dal punto di vista, infine, degli obblighi istituzionali, è stata chiesta "la presentazione di una Relazione Trimestrale al Parlamento sul superamento degli OPG e di organizzare un appuntamento istituzionale su tale processo". Giustizia: intesa Dap-Polizia di Stato per determinare la nazionalità dei detenuti stranieri poliziapenitenziaria.it, 14 novembre 2015 Ieri mattina, presso l'aula "Girolamo Minervini" del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, si è svolto un tavolo tecnico per presentare l'applicazione Sidet Web 2 per l'identificazione del detenuto immigrato. Tale evento è frutto della attuazione del protocollo sottoscritto tra i Ministeri dell'Interno e quello della Giustizia e riguarda quei detenuti nei cui confronti deve essere eseguito un provvedimento di rimpatrio e che possono, se non rimpatriati, costituire un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica. Direttamente interessate al rilascio di Sidet Web 2 sono la Direzione generale detenuti e trattamento del Dap (Ministero della Giustizia) e la Direzione centrale dell'immigrazione e della Polizia delle frontiere del Dipartimento della pubblica sicurezza (Ministero dell'Interno). Molti stranieri che commettono reati e vengono privati della libertà nel nostro Paese, sono tuttora non completamente identificati ed è difficile individuare il loro Paese di origine. Indipendentemente dal periodo trascorso in carcere, per coloro i quali deve essere eseguito un provvedimento di rimpatrio, è di fondamentale importanza individuare l'effettiva nazionalità. Le nuove procedure individuate dal protocollo prevedono che, all'atto dell'ingresso in carcere del cittadino straniero, l'istituto penitenziario lo segnali all'Ufficio immigrazione della Questura competente per territorio. L'amministrazione penitenziaria, invece, si impegna a fornire agli Uffici immigrazione delle Questure, elementi utili per determinare la nazionalità dei detenuti, attraverso l'implementazione di alcune voci nell'applicazione informatica Sidet del Ced Interforze. Alla riunione hanno presenziato il Direttore della Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia delle Frontiere il Dott. Giovanni Pinto del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il Cons. Roberto Calogero Piscitello Direttore della Direzione Generale detenuti e trattamento del Dap ed il Direttore dell'Ufficio per lo sviluppo e la gestione del Sistema informativo automatizzato del Dap il Generale Vincenzo Costantini. La presentazione è stata effettuata dall'Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Eduardo Casu dell'Ufficio per lo sviluppo e la gestione del Sistema informativo automatizzato che ha mostrato la procedura informatizzata già realizzata e funzionante, ma ancora non resa "pubblica" agli Uffici Matricola degli Istituti penitenziari. Con l'avvio e il funzionamento a regime delle nuove funzionalità, verranno superati gli elenchi cartacei degli stranieri presenti in Istituto che gli Uffici Matricola devono fornire quindicinalmente alle Questure. Nelle prossime riunioni verranno individuati gli ulteriori sviluppi per automatizzare al meglio le procedure e i report statistici con il supporto dell'Ufficio per la Statistica del Dap per fornire elementi conoscitivi tali da ridurre il tempo di permanenza di detenuti non identificati negli istituti e fuori di questi, e non incorrere nelle sanzioni del Comitato di prevenzione della tortura, emanazione della Commissione europea. Il Generale Costantini ha rimarcato l'impegno profuso dal personale dell'Ufficio Sgsi che, in tempi brevissimi, ha elaborato e reso operativo una procedura che porterà concreti vantaggi operativi e di efficienza alle Amministrazioni dell'Interno e della Giustizia. Giustizia: inchiesta Mafia Capitale, così il "mondo di mezzo" si abbatte sugli ultimi di Marco Carta Left, 14 novembre 2015 Così l’inchiesta Mafia Capitale travolge tutto il terzo settore, mescolato nello stesso calderone del sistema Buzzi-Carminati. Senza nemmeno la possibilità di difendersi in aula. Poteva essere una storia nuova e invece rischia di trasformarsi nel resoconto di una disfatta, che insieme a criminali e corrotti trascina con sé gli incolpevoli e gli ultimi. Dai migranti di Tor Sapienza ai rom di Castel Romano, poveri, emarginati e senza casa, lavoratori in cassa integrazione e cooperative sull’orlo del fallimento: un intero mondo, quello del terzo settore, tradito dalle istituzioni e mescolato nello stesso calderone del "Mondo di mezzo", senza nemmeno la possibilità di difendersi in aula. Le mafie a Roma non si accontentano di gestire il mercato della droga e reinvestire i capitali in immobili o attività economiche, ma tentano la scalata a uno dei piatti più ricchi, quello dei servizi pubblici e alla persona: accoglienza migranti, verde pubblico, rifiuti, gestione delle spiagge, emergenza abitativa. Tre distinte inchieste giudiziare, quella di Mafia Capitale, l’operazione Luna Nuova ad Ostia, e quella sulla raccolta degli abiti usati (dove pur non essendo stato riscontrato il reato di associazione mafiosa, compaiono esponenti del clan camorristico Cozzolino), mostrano come Roma fosse luogo di sperimentazione per le mafie, che si sono spartite appalti e bandi pubblici. Il maxiprocesso Mafia Capitale, iniziato il 5 novembre nell’aula Occorsio del Tribunale di Roma, riscriverà probabilmente la storia degli ultimi anni della città, che all’alba di poco meno di un anno fa scoprì di essere avvolta da un cartello guidato da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, in grado di influire sulle scelte dell’amministrazione capitolina. Il rischio è che "alla fine di tutto" nessuno si ricorderà di quella parte sana della cooperazione che ogni giorno offre servizi senza lucrare sul disagio e che rischia di scomparire insieme alle inchieste che hanno fatto crollare quel sistema emergenziale basato su proroghe e somme urgenze. Nato durante la giunta Alemanno, con il quale il sodalizio criminale agiva in sintonia, il "sistema" è proseguito, attraverso la corruzione, anche con l’arrivo in Campidoglio di Ignazio Marino, come evidenzia la relazione del prefetto Marilisa Magno. "Quando sono arrivato - racconta a Left il magistrato Alfonso Sabella, assessore alla Legalità dal dicembre 2014, dopo la prima ondata di arresti - la situazione dentro il Comune era fuori controllo: la maggior parte degli affidamenti, circa 12mila, avveniva senza gara ad evidenza pubblica, anche attraverso un uso distorto delle somme urgenze, mentre solo 7 procedure erano state svolte con gara europea. In un capitolato per un servizio di portierato sociale, ad esempio, erano previsti da 0 a 7 a punti per il "grado di emozionabilità" della commissione giudicatrice: una cosa mai vista. Quando mi sono reso conto della situazione, ho semplicemente posto una serie di paletti e requisiti per adeguare Roma alle normative vigenti e offrire un contrasto reale alla corruzione". Non è un caso, assicura l’ex assessore, che la ditta che si stava per aggiudicare il primo appalto per il Giubileo sia stata subito bloccata. La rivoluzione della trasparenza fatica tuttavia ad essere compresa dal terzo settore, maggiormente coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale, anche a causa della "delibera criminogena - come la definisce Sabella - di Alemanno, che riservava dal 5 al 15% degli affidamenti alle coop sociali di tipo B, "consigliando" alle amministrazioni di frazionale artificiosamente gli appalti in modo che potessero essere assegnati sotto la soglia (prevista dalla legge) dei 200 mila euro, e garantendo così un’autostrada al crimine di Buzzi e Carminati o della Domus Caritatis". Un regolamento, prosegue Sabella, "era già pronto", ma non è mai stato approvato dalla giunta, gettando ancor di più nello sconforto un mondo che da diversi anni annaspa con risorse sempre più ridotte (solo nel dipartimento delle Politiche sociali si è passati dai 241 milioni di euro del 2012 ai 165 del 2014). "Speravamo che con l’inchiesta si potesse fare finalmente chiarezza, separando chi faceva veramente co operazione da chi si nascondeva dietro la cooperazione per fare esclusivamente business. Invece si è preferito buttare il bambino con l’acqua sporca", denuncia Carlo De Angelis, portavoce del Roma Social Pride, coordinamento del mondo dell’associazionismo, della cooperazione e del volontariato cittadino. "La legalità e la trasparenza sono state ristabilite in maniera distorta. Le società al centro dell’inchiesta, guidate da un amministratore giudiziario, vengono ora percepite come pulite, mentre le altre che non sono state neanche sfiorate dalle indagini si ritrovano in una fase di incredibile incertezza, accentuata dalle nuove norme". De Angelis spiega che ora si prevedono bandi europei anche per la prosecuzione di progetti da poche migliaia di euro, senza tener conto delle specificità delle politiche sociali a Roma, gestite da piccole coop o associazioni radicate nel territorio. "Paradossalmente, le nuove norme favoriscono lo sviluppo di holding come quella di Buzzi. Intanto, la paura dei burocrati di fare errori comporta il blocco di numerose attività e la chiusura di servizi, come i centri per giovani e migranti, o i progetti sulle tossicodipendenze, ormai azzerati". Circa mille persone rischiano ora di rimanere senza lavoro, in un settore che fino al 2014 contava a Roma oltre 6.300 occupati. Anche quando i servizi vengono riaffidati in base alle nuove norme, il risultato è grottesco, come nel caso della scolarizzazione dei rom, dove senza la mediazione sociale, esclusa, i pulmini della Multiservizi arrivano davanti ai campi nomadi, ma i bambini non salgono. Guglielmo Micucci, direttore generale di Amref Italia e fondatore dell’associazione Prime per l’integrazione dei rifugiati contesta che "non si è fatto un ragionamento sulla qualità dei servizi, ma si è intervenuti solo sul piano legale e amministrativo, senza quel cambio culturale che era necessario dopo Mafia Capitale. Il rischio è che fra due o tre anni ci si ritrovi nella medesima situazione, magari con distorsioni e interpreti diversi". Con buona pace delle mafie. Giustizia: il Papa riceverà l’ergastolano innocente Gulotta "a Tortora andò peggio di me" di Jacopo Jacoponi La Stampa, 14 novembre 2015 Ventun anni di galera, poi scagionato: "Dallo Stato? Solo silenzio". La prima scena di questo film è agghiacciante, e devi immaginare dì esser tu, il protagonista. Hai poco più di diciott’anni, sei un ragazzo normalissimo, come può essere un diciottenne italiano dì una provincia del sud della fine degli anni settanta. Ti svegliano nella notte, ti ammanettano, ti mettono un cappuccio in testa. Non sai esattamente dove ti stanno portando, e soprattutto, perché, perché tu non hai fatto niente. Potresti urlare, chiamare aiuto, rivolgerti ai carabinieri. Ma sono loro quelli che ti stanno prendendo. E loro - ma questo lo sapremo solo alla fine dì questa storia, ci vorranno 36 anni, ventun anni di ingiusto carcere e nove processi - quelli che dopo l’ingiusto arresto falsificheranno le prove della colpevolezza. Ma questo non è un film, anche se ci assomiglia, assomiglia all’incubo di "Fuga dì mezzanotte". Il protagonista, Giuseppe Gulotta, è un uomo vero, la storia è vera, e Gulotta, piccolo particolare, non è mai voluto fuggire, fino a quando, il 13 febbraio 2013, trentasei anni dopo il primo arresto, la Corte d’assise d’Appello di Reggio Calabria, nella revisione del processo, lo ha riconosciuto completamente innocente per l’accusa terribile che gli fu addossata quella notte: aver ucciso due carabinieri della caserma di Alcamo Marina, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, la notte del 29 gennaio 1979. La notizia è che tra pochi giorni - il 18 novembre - Gulotta sarà il primo ex ergastolano a esser ricevuto da un Papa, Francesco I. E il 25 novembre è attesa la sentenza civile di risarcimento danni, e sarà una sentenza record della storia repubblicana, la difesa ha chiesto 59 milioni dì euro. "Sì, è curioso che sia il Papa a ricevermi e dallo Stato non sia arrivato mai niente, solo un silenzio assordante. Ora provo un’emozione fortissima, sono in fibrillazione. Non so neanche se riuscirò a dire una parola, davanti al Pontefice", ci dice Gulotta. La battaglia di Gulotta è diventata in questi anni simbolo garantista e una battaglia miliare dì giustizia (negata) italiana: "Sono stato più fortunato di Tortora, lui è morto, io almeno posso raccontare". Quando viene arrestato, Gulotta ha 18 anni. Assieme a luì sono accusati due minorenni, e un modesto bottaio di 32 anni. Ad accusarli dopo un giorno dì torture (scariche elettriche ai genitali e acqua e sale calati in gola) è un ragazzo dì 24 anni, Giuseppe Vesco, psicologicamente instabile e privo di una mano. A operare le torture un nucleo d’élite dei carabinieri comandato dal colonnello Giuseppe Russo. Gulotta e gli altri vengono torturati, arrestati illegalmente (i verbali risulteranno contraffatti), minacciati, fin quando confesseranno. Assolto in primo grado (il bottaio invece viene condannato all’ergastolo, morirà in carcere e solo recentemente è stato assolto post mortem nel processo di revisione: la prova che lo incastrava era stata falsificata), Gulotta sarà condannato in appello all’ergastolo. "Io non volevo fuggire, volevo giustizia". Una specie di Socrate contemporaneo. La vicenda sì riapre per miracolo nel 2009: un carabiniere testimone delle torture decide di raccontare tutto. Sa che i quattro sono innocenti, e racconta. La storia simbolo della strage della caserma Alkamar (da cui Gulotta ha scritto con Nicola Biondo il libro omonimo per Chiarelettere) diventerà, presto, anche un film, ultimo mistero dell’Italia della strategia della tensione. Genova: carcere di Pontedecimo, sopralluogo del vicepresidente della Regione Sonia Viale genova24.it, 14 novembre 2015 Genova. Ieri mattina la vicepresidente e assessore regionale alla salute e alla sicurezza Sonia Viale ha effettuato una visita al carcere di Pontedecimo, unico istituto in Liguria destinato alla detenzione femminile. "Ho trovato una struttura dignitosa, locali e laboratori sanitari efficienti - ha detto la vicepresidente Viale - grazie alla professionalità degli agenti e del personale che lavora a contatto con i detenuti. È nostra intenzione mantenere i patti di sussidiarietà per il 2016 in materia di progetti per attività di recupero dei detenuti". Nel corso della visita l’assessore Viale ha incontrato il capo ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Catia Taraschi, la direttrice del carcere Maria Isabella De Gennaro, il comandante della polizia penitenziaria del carcere Stefano Bruzzone e numerosi agenti di polizia penitenziaria. Il carcere di Pontedecimo ospita attualmente circa 100 detenuti e 65 detenute. Torino: agenti aggrediti da due detenuti, volevano sequestrare i loro telefonini di Federico Genta La Stampa, 14 novembre 2015 È di due agenti ricoverati in ospedale il bilancio dell’aggressione giovedì sea all’interno del carcere delle Vallette. Due giovani detenuti di nazionalità colombiana, sono stati trovati nella loro cella con un telefono cellulare. Questo era stato nascosto dentro a degli slip. Di fronte al sequestro, la coppia ha reagito con violenza. Un poliziotto è stato spinto a terra, riportando la frattura del setto nasale. Il secondo, invece, è stato ferito a una mano, molto probabilmente con una lametta da barba. A segnalare l’episodio è l’Osapp, che ormai da mesi segnala i pericoli che gli agenti devono affrontare ogni giorno all’interno delle carceri, torinesi e italiane. Biella: detenuto si occuperà della pulizia delle aree verdi negli Istituti Scolastici newsbiella.it, 14 novembre 2015 Il percorso era iniziato quando l’Ente Provinciale ed il Carcere di Biella avevano firmato un protocollo di intesa volto a coinvolgere i detenuti nei lavori di manutenzione delle aree verdi Stanno giungendo al termine gli adempimenti burocratici legati alla prestazione di manodopera da parte di un detenuto della Casa Circondariale di Biella a favore della collettività. Dopo la firma del protocollo d’intesa Tra Provincia e Carcere sono partite tutte le procedure volte a tradurre in pratica quanto sottoscritto dalle parti: dall’individuazione del soggetto idoneo da parte del Responsabile della Formazione della Casa Circondariale, alla fornitura dei dispositivi di protezione individuale e l’individuazione del tutor. L’iter procedurale giungerà al termine il 19 novembre p.v., dopodiché il detenuto affronterà i suoi primi giorni di lavoro presso l’I.I.S. "G. e Q. Sella" dove, coadiuvato da un operatore provinciale, si occuperà della pulizia e sistemazione delle aree verdi di pertinenza dell’Istituto. "Sono davvero soddisfatto perché ancora una volta grazie all’impegno del sottoscritto - ha esordito il Presidente Ramella Pralungo - nel Biellese, per la prima volta, si avvia un progetto di cooperazione tra la Provincia ed il Carcere che ha risvolti molto positivi sia per la collettività che per il detenuto stesso. Forse ci abbiamo messo un po’ di tempo ma alla fine l’idea, non senza sforzi, è diventata realtà e questo dimostra che le cose si possono fare e a volte parlare poco e lavorare tanto paga. Credo infatti che sia evidente il beneficio che la collettività possa trarre dal lavoro prestato da un detenuto, affinché venga considerato una risorsa e non un peso per la società, come è altrettanto evidente il beneficio che colui che ha sbagliato e sta pagando la propria pena, possa farlo rendendosi utile e attivandosi in prima persona per cominciare il proprio reintegro nella società. È fondamentale infatti - ha chiosato Ramella Pralungo - che queste persone che, sì hanno sbagliato, ma stanno pagando, possano essere ed essere viste come risorse utili e pertanto è basilare prevedere dei progetti che si occupino del loro reintegro, e questo accordo con la Casa Circondariale va proprio in quella direzione." "A seguito della sottoscrizione del Protocollo con l’Amministrazione provinciale per l’impiego di detenuti in lavori socialmente utili - così la Direttrice del Carcere Antonella Giordano - l’impegno degli operatori è stato quello di individuare detenuti in possesso dei requisiti per l’ammissione al lavoro all’esterno. Il Progetto condiviso con l’Amministrazione Provinciale va a dare senso al percorso di avanzamento e di responsabilizzazione della persona detenuta nel saper cogliere l’offerta trattamentale impegnandosi nella restituzione sociale." Espressioni di soddisfazione anche da parte del Consigliere Provinciale Giuseppe Faraci: "Non appena insediati, esattamente un anno fa - ha dichiarato - era già mia intenzione lavorare a questo progetto, che di concerto con la Dott.ssa Giordano, direttrice del Carcere, abbiamo fortemente voluto. Ringrazio innanzitutto la Dott.ssa Giordano per l’opportunità che ci rende protagonisti assieme a loro del progetto, ed esprimo grande soddisfazione per la messa in atto del protocollo d’intesa che vedrà impegnati i detenuti della Casa Circondariale di Biella, in attività di restituzione sociale mettendo in atto ciò che la nostra Costituzione prevede, la pena rieducativa. A mio avviso poco importa per il contributo materiale che i detenuti coinvolti nel progetto daranno, ma ciò che però voglio evidenziare è il grande valore sociale del progetto, un messaggio chiaro per i nostri giovani e per la comunità tutta, la rieducazione e la restituzione sociale della pena. Come amministratori ci siamo impegnati per seguire ciò che è già dettato dalla nostra Costituzione. L’articolo 27 recita infatti: "La responsabilità penale è personale. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". È dovere di chi governa e quindi di noi amministratori fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità perché la rieducazione sia un dovere nei confronti dell’autore del reato, che deve avere in ogni caso l’opportunità di trasformare la pena in riscatto. Un dovere costituzionale, etico ed anche, più banalmente, un’aspirazione dell’intera collettività per evitare il rischio che il detenuto si trasformi in un soggetto ancora più pericoloso in quanto abbrutito da una condanna senza prospettive. Daremo il via al progetto prossima settimana con la speranza e l’impegno di costruire la strada che avvicini la realtà biellese, per quanto possibile, a quella del Carcere di Bollate. Esempio ed eccellenza non solo italiana per l’inclusività ed il reinserimento del detenuto". Pittella (Sd): "senza relocation gli hotspot diventano centri di detenzione per rifugiati" di Domenico Giovinazzo eunews.it, 14 novembre 2015 Intervista al presidente del gruppo Sd al Parlamento europeo, che dà ragione a Juncker sulla lentezza delle re location e ad Alfano sulla necessità di procedere di pari passo con l’apertura degli hotspot e la redistribuzione dei profughi. La ricollocazione dei rifugiati dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri stati membri è troppo lenta e in queste condizioni non ha senso accelerare sull’apertura degli hotspot. Ne è convinto il presidente del gruppo Sd al Parlamento europeo, Gianni Pittella, il quale dà contemporaneamente ragione al capo dell’esecutivo comunitario, Jean Claude Juncker - che stima nel 2101 la fine del programma di relocation se si procede ai ritmi attuali - e al ministro degli Interni Angelino Alfano, secondo il quale non ci saranno nuovi hotspot in Italia finché gli altri Stati membri non cominceranno ad accogliere più rapidamente i profughi siriani ed eritrei stabiliti dal programma europeo. Presidente, Juncker si è lamentato della lentezza delle relocation. Condivide il suo monito agli Stati membri? "C’è un problema di attuazione delle decisioni prese. Da questo punto di vista Juncker ha ragione, bisogna non soltanto prendere decisioni comuni in materia di immigrazione, ma anche attuarle concretamente. In questo l’Italia può dare lezioni, perché l’hotspot è stato realizzato in Italia e sta lavorando, cosa che non è successa in altre realtà per gli altri punti dell’Agenda europea per le migrazioni". C’è ancora un solo hotspot nel nostro Paese e il ministro Alfano non è intenzionato ad aprire presto gli altri cinque richiesti dall’Ue. Anche l’Italia sta procedendo lentamente. Non trova? "Gli hotspot saranno realizzati. Il problema è che se si fanno, come l’Italia sta facendo, e poi non si fa la ricollocazione dei richiedenti asilo è inutile. Così gli hotspot diventano dei centri di detenzione e di cattura dei rifugiati. Noi non vogliamo centri di detenzione dei rifugiati. Quindi, deve funzionare il sistema degli hotspot ma deve funzionare anche il sistema di ricollocazione in tutti i paesi europei". A questo proposito il premier Matteo Renzi si è spesso lamentato che ci siano anche governi socialisti a opporre resistenze. Cosa dice ai leader riluttanti che fanno parte della sua famiglia politica? "Renzi ha perfettamente ragione, anche loro devono dare il loro contributo. E vorrei ricordare che io sono stato uno dei pochi a chiedere la sospensione dal Pse del primo ministro slovacco Robert Fico". Parigi: spari, esecuzioni, corpi nelle strade di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 14 novembre 2015 Attacchi coordinati in tutta la capitale Granate e colpi di kalashnikov sulla folla. L’attacco coordinato su larga scala che i servizi segreti francesi temevano ha avuto luogo. Le grida di "Allah Akhbar", Allah è grande, sono risuonate ieri sera a Parigi nel corso di una serie di attentati che hanno fatto in totale 112 morti e decine di feriti gravissimi (il bilancio è provvisorio). Oltre 70 cadaveri sono stati estratti dalla sala di concerti Bataclan, dove due terroristi hanno sparato sul pubblico, e preso ostaggi che poi sono stati uccisi. Almeno cinque poliziotti sono morti negli scontri con i terroristi nelle varie zone della capitale francesi. Dopo le stragi di gennaio a Charlie Hebdo e al supermercato kosher, la jihad è tornata nel cuore della Francia, con un massacro senza precedenti. Le autorità hanno fatto scattare il "piano rosso Alpha", preparato per fare fronte a questo tipo di attacco coordinato. Hollande ha decretato lo stato di urgenza in tutta la Francia, per la prima volta dalla guerra di Algeria, e la chiusura delle frontiere. Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco, promettendo altre azioni a Londra, Roma e Washington, in risposta all’intervento aereo della coalizione in Iraq e Siria. I terroristi sono entrati in azione più o meno allo stesso momento in sette zone: in rue Bichat, nel quartiere della République, davanti al ristorante asiatico "Petit Cambodge"; al café Carillon dall’altra parte della strada; all’angolo tra rue de Charonne e rue Faidherbe nell’XI arrondissement contro il bar La Belle équipe; allo Stade de France, dove era in corso la partita amichevole Francia-Germania; all’interno della sala di concerti Bataclan; al McDonald’s di Belleville; nel quartiere di Les Halles. Parigi è una città in preda al terrore e alla solidarietà. Nei quartieri dell’est della città dove sono scoppiate le sparatorie gli abitanti hanno aperto le porte ai passanti per offrire loro rifugio, anche facendo ricorso a Twitter e all’hashtag #PorteOuverte, porta aperta, al quale si è aggiunto #PrayForParis, pregate per Paerigi. La sindaco Anne Hidalgo ha chiesto ai cittadini di non uscire di casa, i poliziotti nelle strade vicino agli attentati fermavano chiunque chiedendo di mettere le mani in alto per controllarli e impedire ulteriori azioni. Al Carillon intorno alle 21 e 20 c’è stata una prima esplosione, scambiata inizialmente per un petardo. Poi un uomo a viso scoperto è entrato nel caffè e ha fatto fuoco. Secondo i testimoni il terrorista ha scaricato una serie di raffiche contro le persone sedute ai tavolini. Poi ha attraversato la strada e ha fatto fuoco contro il ristorante Petit Cambodge. Poco lontano, a Belleville, davanti al Mc Donald’s, i testimoni hanno raccontato di avere visto una Renault Clio crivellata di colpi e una motocicletta a terra, con due persone gravemente ferite. È stato un massacro con decine di persone colpite, morte o ferite. "I terroristi avevano delle mitragliatrici e sparavano a caso, in tutte le direzioni". Al Bataclan, una delle sale da concerto storiche di Parigi, era in corso lo show del gruppo rock americano Eagles of Death Metal. Dopo una grossa esplosione i terroristi hanno fatto fuoco sul pubblico, sono stati sparati almeno una trentina di colpi. Una persona del pubblico ha raccontato di avere sentito il grido del terrorista "È per la Siria". La Francia è impegnata da settimane in un’azione militare contro le postazioni dello Stato islamico in Siria, è il governo ha spiegato nei giorni scorsi che tra gli obiettivi dell’intervento c’è quello di colpire in modo mirato gli jihadisti, spesso di origine francesi, sospettati di preparare un attentato di grandi dimensioni sul territorio francese. Gli attacchi di stanotte sarebbero una ritorsione contro i bombardamenti francesi in Siria, ma lo Stato islamico non ha aspettato i raid francesi per minacciare Parigi, nemico numero uno. All’inizio di ottobre il giudice anti-terrorismo Marc Trevidic aveva suggerito che la Francia era alla vigilia di un attacco senza precedenti, di grande dimensioni. Gli esperti si attendevano un attentato più grave di quelli di gennaio a Charlie Hebdo e al ristorante kosher, alcuni avevano parlato di una possibile azione in un grande magazzino, pochi giorni prima di Natale. I terroristi sono passati all’attacco prima, scegliendo comunque dei bersagli fortemente simbolici dello stile di vita occidentale: una sala di concerto per la musica rock, lo stadio con la partita Francia-Germania, un McDonald’s, i tavolini dei bar. "Sono riusciti a scappare, c’era sangue ovunque - ha raccontato un testimone del Bataclan - hanno sparato con fucili a pompa sulla folla". I due terroristi hanno poi massacrato gli ostaggi prima di essere uccisi dalle forze speciali. Un bilancio provvisorio parla di una settantina di morti. Qualche settimane fa l’Isis aveva diffuso degli annunci in francese con una foto di giovani a un concerto rock, e l’esortazione a fare una strage. Mentre era in corso l’attacco al concerto, due uomini hanno aperto il fuoco di nuovo sui tavolini del bar La Belle équipe di rue de Charonne, sparando almeno un centinaio di colpi. "Ho visto due persone - ha raccontato una donna a Libération - portavano dei fucili. Ho sentito i colpi da fuoco ma avevo l’impressione allo stesso tempo che fossero dei petardi. L’azione è durata almeno tre minuti. Poi sono saliti in auto e si sono diretti verso la stazione di metropolitana in rue de Charonne". Allo Stade de France era in corso la partita amichevole Francia-Germania, 10 ore prima c’era stata l’evacuazione dell’albergo della squadra tedesca per la minaccia di esplosione di una bomba. Sembrava l’ennesimo falso allarme in una città ormai abituata a decine di controlli e evacuazioni, ma era probabilmente il frutto di una pista seguita dai servizi segreti. Durante la partita, al primo scoppio qualcuno ha pensato che fosse il sistema audio dello stadio che aveva un problema tecnico. Poi almeno altre tre esplosioni si sono distinte chiaramente, i giocatori stessi erano turbati e non sapevano che fare, gli spettatori hanno cominciato a gridare "un attacco, un attacco!". Un elicottero a luci spente ha sorvolato lo stadio La partita è continuata per gestire l’ordine pubblico mentre il presidente veniva fatto uscire dalle forze di sicurezza. Due corpi smembrati sono stati trovati all’esterno dello stadio. La Francia conosce per la prima volta l’orrore dei kamikaze. Il massacro al Bataclan: "Allah è grande", poi gli spari sulla folla che cantava al concerto di Anais Ginori La Repubblica, 14 novembre 2015 I jihadisti sono entrati nella sala e hanno iniziato a sparare con armi automatiche. Un testimone: "Sono entrati urlando, hanno ammazzato decine di persone una ad una". Il blitz delle forze speciali, uccisi due terroristi, forse un altro è scappato Caccia all’uomo per le strade di Parigi. LA polizia ripete ai passanti: "Ce n’est pas sûr! Partez!", non è sicuro, partite. Niente sembra più sicuro a Parigi in questo venerdì sera da incubo: non un café, un ristorante, uno stadio e neppure una sala concerto. Era cominciata, dieci mesi fa, con degli attentati contro obiettivi più o meno mirati, ora diventa un attacco indiscriminato contro civili. La capitale francese diventa un campo di battaglia, con attacchi simultanei in diversi luoghi. Ma è il Bataclan, una delle sale concerto più famose di Parigi, che si è trasformato nella trappola più micidiale: secondo un bilancio ancra provvisorio un centinaio di spettatori sono morti durante l’attacco. Era in programma il gruppo "Eagles of Death Metal", una band di metallica. Tutto è successo in pochi secondi. Diversi uomini sono arrivati verso le nove e mezza, cominciando a sparare con fucili d’assalto fuori. Poi sono entrati continuando il loro massacro. "La sparatoria è durata almeno quindici minuti" racconta Julien Pearce, giornalista di Europe 1 che si trovava all’interno del Bataclan. "C’è stato un movimento di panico verso la scena, con momenti di calca, anche io sono finito travolto". Gli assalitori hanno avuto il tempo di caricare più volte i loro fucili d’assalto. "Ho visto che si sono fermati e ricominciato almeno tre volte di seguito" continua Pearce. "Non avevano passamontagna, sembravano giovani e molto sicuri di loro". Il giornalista di Europe 1 è riuscito a scappare da un ingresso laterale e ha visto almeno dieci corpi a terra, nel sangue. Il cronista della radio francese sostiene che non c’è stata rivendicazione al momento dell’attacco, mentre secondo altre testimonianze gli attentatori hanno urlato "Allah Akbar!" e poi hanno detto qualcosa a proposito della Siria. Le notizie sono state a lungo confuso ma una cosa è sembrata subito certa: "È molto più grave dell’attacco a Charlie Hebdo" commenta un poliziotto. L’attentato alla redazione del settimanale, con dodici vittime, è dieci volte meno grave di quello del Bataclan. I terroristi sono rimasti almeno per un’ora e mezza dentro la sala. Hanno sparato prima nel mucchio, sulla folla, poi avrebbero anche fatto delle esecuzioni di spettatori. Sui social network sono circolate immagini orribili della carneficina all’interno della sala, le autorità hanno chiesto rispetto per le vittime. "La sala era piena" dice Michel, uno spettatore che per sua fortuna era sugli spalti. Ha potuto fuggire dalla sala, poco dopo i primi spari. "Abbiamo sentito come dei petardi, abbiamo pensato a qualcosa di pirotecnico, come accade spesso negli spettacoli". Dopo i primi spari, i musicisti hanno lasciato il palco correndo e le luci in sala si sono improvvisamente accese. Sempre dagli spalti, Michel ha visto gli spettatori in basso. "Erano tutti sdraiati a terra per proteggersi dagli spari". Molti spettatori sono riusciti a uscire dagli ingressi laterali. Escono a piccoli gruppi, subito presi in carico dai pompieri. Ma per altre decine di spettatori l’orrore continua, rimangono a lungo prigionieri insieme agli attentatori. Benjamin Cazenoves ha lanciato un grido d’aiuto su Facebook. "Sono ancora al Bataclan, al primo piano. C’è un ferito grave. Sbrigatevi a intervenire, ci sono dei sopravvissuti. Stanno uccidendo tutti. Venite al primo piano, presto!". In strada, le forze speciali preparano l’assalto. La sala concerto sul boulevard Voltaire, è a poche centinaia di metri dagli altri due attacchi avvenuti tra l’undicesimo e il decimo arrondissement. Un attacco coordinato da più uomini. Secondo alcune testimonianze erano tre individui, ma per altre erano almeno cinque. "Armati di kalashnikov, a viso scoperto, vestiti normalmente" ha detto un vicino del locale. Sul boulevard Voltaire e nel quartiere République si era svolta la manifestazione contro il terrore dell’11 gennaio scorsa. Ora è una zona di guerra. Quando il blitz è finalmente concluso, verso mezzanotte, si misura subito la gravità dell’attacco, senza precedenti nella storia recente francese. Due terroristi sono stati uccisi nell’assalto delle forze speciali ma non è chiaro se altri sono riusciti a fuggire. La caccia all’uomo non è ancora finita. "È l’orrore" ha detto ieri sera François Hollande in tv, visibilmente sconvolto. Intorno all’una di notte, il presidente francese lascia l’Eliseo per andare personalmente davanti al Bataclan con il ministro Valls, in una Parigi sotto assedio. Il 7 gennaio aveva fatto quasi la stessa strada per venire alla redazione di Charlie Hebdo. L’Is assedia Parigi: kamikaze allo stadio, la strage degli ostaggi e poi il blitz nel teatro di Bernardo Valli La Repubblica, 14 novembre 2015 Sette attacchi nei bar, alla partita Francia-Germania, durante il concerto al Bataclan: oltre 150 morti. La rivendicazione del Califfato: "È l’11 settembre dell’Europa". Hollande: "La guerra non è finita". La Francia chiude le frontiere. Sette attacchi in quattro zone diverse, da parte di uomini armati di mitra e di bombe rudimentali, hanno fatto almeno centocinquanta morti e decine di feriti sulle rive della Senna a tarda sera. Ma il bilancio è provvisorio e le sparatorie continuano. Il carattere coordinato delle operazioni terroristiche faceva pensare a un’iniziativa dello Stato islamico, che nella notte a rivendicato le azioni Per ore nella città si sono udite raffiche ed esplosioni, e le sirene della polizia e dell’esercito che accorreva sui luoghi presi d’assalto. Il primo attacco è avvenuto allo Stadio di Francia dove era in corso una partita di calcio tra Francia e Germania. Era presente il presidente della Repubblica, François Hollande, il quale è stato evacuato da una schiera di poliziotti, mentre esplodevano ordigni rudimentali. Bombe a gas riempite di bulloni sono esplose all’esterno della struttura, vicino a una brasserie. Uomini con cariche di esplosivi si sono fatti saltare per forzare le porte di ingresso nello stadio. Il pubblico è stato tenuto all’interno mentre unità militari cercavano di neutralizzare i terroristi. Nella sparatoria sono rimaste uccise tre persone. Ma il bilancio è ancora incerto, perché la polizia, verso la mezzanotte, stentava ad assumere il controllo della situazione. Il secondo attacco è avvenuto nell’undicesimo arrondissement. Non lontano da dove ci fu l’attacco a Charlie Hebdo i terroristi hanno fatto irruzione, armi spianate, nel Bataclan, un locale dove era in corso un concerto. La sala, che si trova in boulevard Voltaire, era molto affollata. Uomini e donne sono state messi spalle al muro. E almeno quindici sono state uccisi con raffiche di mitra. A tarda notte molte decine erano ancora tenute in ostaggio e la polizia, circondato l’edificio in cui si trova il locale, cercava di trattare con gli uomini armati e mascherati. L’attacco ha sorpreso una Parigi in festa. Era venerdì sera e i cinema, i teatri, i ristoranti erano pieni. Il tempo mite. La gente cenava, beveva all’aperto. Fiumi di gente delle periferie usciva dalle bocche della metropolitana. La luci sulla Senna erano ancora accese, puntate su Notre Dame e il Louvre e i ponti. All’inizio si è pensato a fuochi d’artificio. Le esplosioni erano sorde, lontane, inoffensive per chi era nel centro della capitale. Poi si sono riavvicinate. E si sono udite le sirene della polizia. Dei pompieri. L’atmosfera si è fatta drammatica. La gente correva senza una direzione. Si interrogava. Sui televisori dei locali spalancati, offerti agli sguardi dei passanti, è apparso il volto del presidente fuggito dallo Stadio. François Hollande era pallido: Teso. Ha parlato di un assalto "senza precedenti". Ha annunciato la chiusura delle frontiere. Ha invitato i parigini a rientrare nelle loro abitazioni. Era come decretasse il coprifuoco. Ma senza impartire ordini. Il to- no della sua voce era calma. Rassicurante. L’intelligence non ha funzionato. Come per Charlie Hebdo. Ha colto i servizi segreti di sorpresa. Ma la gente non protestava, chiedeva con insistenza dove fosse il Bataclan, voleva assistere alla liberazione degli ostaggi. Gli arabi delle periferie, algerini, tunisini, marocchini, che nelle sere precedenti ai giorni di festa riempiono le strade di Pigalle, di Montmartre e i Lungosenna erano sempre più rari. Hollande, con il primo ministro, Manuel Valls, al suo fianco continuava a parlare alla televisione. Domani non funzioneranno i treni veloci, i TGV. E le scuole. Quelle che si aprono anche il sabato, resteranno chiuse. Obama aveva telefonato. Anche Cameron. Ma la gente non ascoltava voleva sapere quel che era accaduto al Bataclan. Se erano stati liberati gli ostaggi. All’una si è saputo che era stato dato l’assalto e che si era concluso. Tre, forse quattro arabi, che parlavano francese, lo avevano parlato mentre tenevano sotto tiro gli ostaggi, erano stati uccisi. Adesso sui televisori accesi nei caffè, sui boulevards, non si vedeva più la faccia di Hollande. Si vedevano i clienti del Bataclan che uscivano dal teatro in cui avevano vissuto ore di incubo. Un centinaio di loro erano stati uccisi con raffiche di mitra. Con colpi di pistola alla nuca, diceva la gente per le strade di Parigi sempre più deserte. La Torre Eiffel è stata spenta in segno di lutto. Era quello che si raccontava stando a vaghe testimonianze. La Torre Eiffel è stata spenta in segno di lutto. Il numero dei morti aumentava nella notte. Era ancora impreciso. Quando si sono spenti i riflettori puntati sul Louvre, su Notre Dame,sulla Sainte Chapelle. non si sapevaa ancora a quanti erano i luoghi attaccati dai terroristi. Non si sapeva se cinque, sei. Forse più. Non si sapeva molto di quel che era accaduto nei quartieri periferici. Come quando i tedeschi hanno occupato Parigi, nel ‘40, ha commentato un anziano signore. L’intelligence europea sorpresa dagli assalti e il Califfato minaccia "adesso tocca a Roma" di Carlo Bonini La Repubblica, 14 novembre 2015 Comunicazioni in tilt tra gli apparati dell’antiterrorismo. Alfano innalza i livelli di sicurezza. Scatta l’allerta per il Giubileo che si aprirà fra tre settimane. Annunciati attacchi anche a Londra e Washington. Nella notte in cui la peggiore delle profezie si auto-avvera, gli apparati antiterrorismo, il Viminale, Palazzo Chigi, osservano attoniti l’orrore appesi a uno stillicidio di notizie che rende improvvisamente tutti uguali. Su Twitter rimbalza la minaccia dell’Is: "Il prossimo attacco sarà a Londra, Washington e Roma". Proviene da un hashtag arabo che suona come "Parigi brucia". Si aggiunge a quella che sembra la più attendibile delle rivendicazioni: "Questo è l’11 settembre di Parigi", mentre Dabiq France, l’organo ufficiale dello Stato Islamico recita: "La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa". Una qualificata fonte della nostra Intelligence spiega nella notte: "Parigi non è in grado di comunicare o condividere alcuna notizia. Almeno in questo momento". "Perché gli attacchi sono in corso" e il numero dei morti una variabile. Il direttore del Dipartimento per le Informazioni e la sicurezza, Giampiero Massolo, riunisce la sua unità di crisi. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano, consultato il capo della Polizia Alessandro Pansa, attiva il protocollo che alza al massimo livello l’allerta antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, con immediato rafforzamento della vigilanza su tutti gli obiettivi sensibili e pieno impiego dell’esercito. Roma si protegge secondo un protocollo standard, mentre osserva sgomenta Parigi colpita al cuore senza che nulla e nessuno, nelle ultime settimane, avesse suggerito l’imminenza e la concretezza della minaccia. Non i Servizi francesi, né quelli alleati. Perché se le analisi delle intelligence europee avevano speculato, era stato piuttosto sui possibili rischi del prossimo viaggio del Papa in Africa (28-29 novembre), sull’imminente apertura del Giubileo della Misericordia. E, invece, appunto, è ancora Parigi, il teatro dell’orrore islamista. E la simultaneità degli attacchi, i loro obiettivi, la scelta di colpire nel mucchio - uno stadio, un teatro - per massimizzare morte e terrore fanno dire che non è difficile vedere in questa notte le stimmate dell’Is. E poco importa - come spiega una fonte qualificata della nostra Intelligence - che l’attentato sia stato pianificato nel deserto della Siria o in qualche banlieu. Da chi sia partito l’ordine. Che i macellai di questa notte si siano auto-innescati e si muovano sotto la bandiera nera del Califfato come un marchio in franchising o viceversa. Quel che importa, anche simbolicamente, è che sia ancora Parigi. E che il massacro arrivi, anche solo simbolicamente, in coda alle quarantotto ore in cui le polizie europee, il Pentagono e il governo britannico avevano potuto annunciare la caduta della Rete del mullah Krekar. E con lei la probabile morte dal cielo di Jihad John, il macellaio delle decapitazioni rituali. "Attacchi così non si decidono in un giorno - osserva ancora una qualificata fonte dei nostri Servizi - Ma non c’è alcun dubbio che quanto sta accadendo dimostra a quale punto di profondità è arrivata la minaccia. Che non esiste un angolo di Europa che possa dirsi al sicuro". Solo le prossime ore potranno cominciare a spiegare cosa realmente stia accadendo in questa notte. E come sia stato possibile. Mentre è vero sin da ora, che Roma e ogni altra capitale europea non possono da oggi dirsi più al sicuro per il semplice fatto di contare su numeri diversi da quelli francesi. I circa 800 foreign fighters partiti dalla Francia, una comunità musulmana di oltre 5 milioni di cittadini, da soli non rendono più sicuri l’Italia, piuttosto che la Germania o il Regno Unito, l’Olanda o i Paesi scandinavi. "Perché la verità - come confessa un uomo della nostra antiterrorismo - è che da domani mattina sarà tutto terribilmente più difficile. Perché da domani sarà ancora una volta più chiaro quello che sappiamo da sempre, ma che odiamo dire e ripeterci. Che con questa minaccia dovremo convivere. E che il prezzo di sangue da pagare sarà ancora alto". Il filosofo Marek Halter "questa è una guerra globale, ora la democrazia è in pericolo" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 14 novembre 2015 Lo shock del filosofo francese Marek Halter: "È successo tutto a pochi metri da casa mia. Siamo di fronte a un nuovo conflitto, diverso dal passato. Adesso la Francia rischia di cadere nelle mani di Marine Le Pen". Marek Halter ha vissuto gli orrori del nazismo, è fuggito dal ghetto di Varsavia, è scampato alla repressione sovietica. Ma al telefono dalla sua casa di Parigi, a pochi passi dal Bataclan, sembra far fatica ad afferrare quello che sta succedendo nella sua stessa città. Riesce a capire che cosa sta succedendo? "È una nuova guerra, l’ho scritto appena due settimane fa sul Journal de Dimanche. Il mondo sta cambiando. E cambia la forma della guerra. Nel ‘39 si mandavano aerei e carri armati, oggi ci sono persone pronte a morire pur di uccidere in nome di Dio. E opporvisi è difficilissimo". Che succederà adesso? "Ho una paura, che è quasi una certezza: quello che sta succedendo aiuterà la destra estrema, alle prossime elezioni guadagnerà milioni di voti. La chiamano già la guerra con l’islam. E stanno lanciando la guerra contro i rifugiati, perché i figli di quelli che scappano da Iraq e Siria vengono in Francia per uccidere. È la democrazia a essere in pericolo. La gente ha paura, e apre agli estremismi. Non è impossibile che domani ci siano attacchi contro i musulmani in Francia, o attentati alle moschee". Come si può evitare che questa profezia di sventura si realizzi? "Per la gente semplice siamo già in una guerra di religione. Ed è difficile trovare una via d’uscita. Già tempo fa ho chiesto ai musulmani di Francia di mobilitarsi per dire che sono solidali con le vittime degli attentati e prendere le distanze dai jihadisti, altrimenti la popolazione francese penserà che sono complici o conniventi. Il pericolo è una guerra di religione. Non possiamo spiegare alla maggioranza della gente che reagire è sbagliato. I nostri vicini sono musulmani, in Francia sono sette milioni, io mi raccomando con loro, perché si muovano a protestare contro questi assassini. E la gran parte della comunità è d’accordo". Secondo lei ci sono collegamenti con la politica estera del governo di François Hollande, che ha proseguito sulla linea interventista di Nicolas Sarkozy? "Sicuramente ci sono collegamenti con la politica estera di Hollande e l’intervento in Iraq. I jihadisti stanno colpendo le nazioni che stanno opponendosi allo Stato Islamico. Hanno colpito in Russia, hanno colpito in Egitto, hanno colpito i libanesi di Hezbollah perché stanno aiutando il regime di Damasco, oggi hanno colpito la Francia e domani potrebbe toccare a tutti i Paesi coinvolti nelle operazioni". Come si può reagire? "È difficile fare qualsiasi cosa. Se ci fosse stato da affrontare un esercito regolare, in una guerra tradizionale, un paese da sessanta milioni di abitanti avrebbe reagito adeguatamente. Ma così? Non possiamo certo schierare cento poliziotti per ogni stazione della metropolitana. E una risposta politica non c’è". Si è fatto un’idea di chi possano essere questi attentatori? "Di sicuro c’è che erano ben organizzati. Sono certo che molti di loro abbiano la cittadinanza francese. Non vengono dall’Iraq, ma sono nati in Francia e uccidono invocando Allah. Ed è molto difficile proteggersi contro il vicino che parla la tua lingua e conosce la tua città". E adesso, le possibili conseguenze politiche sono inquietanti. "Vincerà Martine Le Pen. E in realtà bisogna darle ragione, quando dice che gli islamici non sono buoni francesi: non sono pronti a morire per la democrazia, ma per Allah sì". Crede che questi avvenimenti possano spingere l’Occidente a far pressione su Israele per raggiungere finalmente una soluzione al problema palestinese? "No, per i jihadisti il problema non c’è, non parlano nemmeno più dei palestinesi. Alla soluzione dei due Stati pensano le persone per bene. Ma sempre di più in Occidente si sentiranno vicini a Netanyahu, perché adesso comprendono i sentimenti degli israeliani davanti al terrorismo". Brasile: rivolta in carcere minorile di San Paolo, undici ostaggi Ansa, 14 novembre 2015 Rivolta in un carcere minorile di San Paolo del Brasile. I detenuti hanno preso in ostaggio 11 persone, secondo la Tv Globo. La polizia militare ha circondato l’edificio della "Fundacao da Casa", nella zona nord della capitale paulista, per evitare fughe. Dalle immagini riprese con un elicottero dalla Tv, si vedono alcuni reclusi sul tetto dell’edificio e un focolaio d’incendio nella struttura. Alcuni giovani reclusi avevano denunciato recentemente di aver subito torture nel carcere, che è sovraffollato e ha carenze nella sorveglianza: dall’inizio dell’anno, sono riusciti a fuggire ben 528 detenuti, 128 dei quali sono stati poi nuovamente catturati.