Detenuto ucciso, ospite dell’Oasi sparì la sera del delitto di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 13 novembre 2015 È un ex carcerato siciliano, si è allontanato dalla comunità dei Padri Mercedari venerdì sera ed è rientrato solo tre giorni dopo. C’è un ospite della comunità dei Padri Mercedari che si è allontanato dalla struttura di via Righi venerdì sera ed è rientrato solo tre giorni dopo. Si tratta di un ex detenuto, siciliano, che ha continuato a lavorare per la cooperativa Mercede e a vivere nelle stanze dell’Oasi anche dopo la fine del periodo di detenzione. La sua camera da letto si trova al secondo piano, quasi di fronte a quella che era la stanza (dove riporre le cose) di Antonio Floris, il sessantunenne massacrato a bastonate. Un allontanamento, quello dell’uomo, su cui sono in corso accertamenti da parte degli investigatori. Il siciliano, in passato, era stato accusato di aver derubato Floris. La vittima, negli ultimi mesi, aveva subìto due furti dall’armadietto della sua stanza. Lo ricorda bene padre Dino Lai: "La prima volta, diversi mesi fa, gli erano stati rubati 100 euro, la seconda volta, poco più di un mese fa, altri 200. Antonio aveva anche fatto cambiare la serratura della sua stanza". Non c’è voluto molto perché l’autore dei due furti venisse scoperto. Ed era proprio l’ex detenuto. La voce è girata all’interno dell’Oasi: da quel momento, gli altri ospiti hanno isolato l’uomo, già di carattere taciturno e riservato. Antonio però, sembrava l’avesse perdonato. Si arriva al venerdì sera dell’omicidio: Floris non fa ritorno in carcere e il siciliano non fa ritorno all’Oasi. L’ex detenuto è tornato lunedì a mezzanotte alla casa dei Padri Mercedari. Va precisato che il siciliano è un uomo libero e che può decidere di trascorrere notti e giornate fuori senza l’obbligo di avvisare i padri. Lunedì comunque rientra all’Oasi. Ad attenderlo trova la polizia. Lo portano in questura e gli chiedono di non fare ritorno alla casa dei Padri Mercedari almeno per un po’ di tempo. Temono per la sua incolumità. Ora l’ex detenuto siciliano, che fino a venerdì risiedeva all’Oasi, si trova a Gorizia, dove vivono alcuni parenti. Intanto, all’interno dell’Oasi, le ipotesi sull’accaduto sono molte. Padre Dino Lai è convinto che ad aggredire Antonio sia stata una persona conosciuta dalla vittima e che i detenuti presenti quella sera nella cucina dell’Oasi non possano non aver visto o sentito qualcosa. Tanto che la Squadra mobile ha chiesto di stilare una lista dei presenti. "Quella sera io e padre Giovannino abbiamo cenato insieme ad Antonio, che era molto tranquillo. Quando lui ha finito e ha preso il suo zainetto per andarsene, io e Giovannino siamo rimasti in sala da pranzo a vedere la televisione", racconta il padre, "Sono convinto che nel luogo del delitto ci fosse una persona "amica" di Antonio perché altrimenti lui avrebbe gridato e vista la vicinanza del ricovero attrezzi l’avremmo sicuramente sentito". Effettivamente il ricovero attrezzi dove Floris è stato ammazzato è molto vicino alla sala da pranzo. Ma ancor più vicina è la cucina che utilizzano i detenuti che spesso si fermano a mangiare la sera. "La porta d’entrata è quasi di fronte al ricovero attrezzi, a quell’ora molti stanno in cucina, altri fumano fuori, non è possibile che nessuno abbia visto o sentito nulla. Ho chiesto ai detenuti di dirmi qualcosa e li ho anche rimproverati perché tutti mi rispondono che non sanno", dice padre Lai, "Non credo che ad uccidere Antonio sia stato qualcuno qua dentro, ma credo però che qualcuno da dentro, che conosceva bene le abitudini di Antonio, abbia aiutato l’assassino". Giustizia: depenalizzazione all’ora della verità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 Alla fine la depenalizzazione si farà. I dubbi, ancora ieri sera, sono sul perimetro. E il nodo sarà sciolto solo oggi in Consiglio dei ministri, con l’intervento del premier. I testi dei due decreti nei quali è stata tradotta la delega sbarcano dunque sul tavolo del Governo, per una seduta che non si annuncia semplice. Di tempo, del resto, non ce n’è quasi più. Martedì prossimo infatti scade il tempo utile per formalizzare l’intervento. Poi finirebbe tutto in soffitta, con un danno importante per l’Esecutivo e per il ministero della Giustizia, ma anche per tuto il sistema giustizia. Se infatti Andrea Orlando preme perché l’operazione vada in porto, ad attendere le misure sono gli stessi uffici giudiziari, ansiosi di liberarsi della necessità di procedere per reati di nullo o scarso allarme sociale e la stessa Anm se ne è fatta portavoce. Le incertezze allora non nascono tanto sul fronte dell’opportunità dell’intervento, anche se ci sono parole che nel lessico della politica sono a elevato contenuto ideologico e una di queste è proprio "depenalizzazione". I problemi stanno piuttosto in tre reati che, secondo la legge delega, andrebbero privati di rilevanza penale. E, per restare all’ideologia applicata alla politica giudiziaria, due dei tre reati ne sono chiaramente indiziati. Perché a rallentare un intervento che già era in agenda per il Consiglio dei ministri della scorsa settimana sono i reati di clandestinità e mancato rispetto dell’autorizzazione per la coltivazione di piante da cui ricavare sostanze stupefacenti. Droga e immigrati quindi. Temi sui quali centrodestra e Lega potrebbero cavalcare un’opposizione con forte tasso di demagogia e che non troverebbero insensibile la stessa componente centrista della maggioranza, con un perplesso ministro dell’Interno Angelino Alfano. L’altro reato, meno sensibile, è quello di immissioni rumorose, sul quale i dubbi sulla conservazione di un’area di rilevanza penale sono ancora forti alla luce degli interessi coinvolti. I testi dei due decreti sono pronti e la partita ancora tutta da giocare; tuttavia la relazione al primo, quello sulla depenalizzazione (l’altro è dedicato alle sanzioni civili) già prende atto di un possibile esercizio solo parziale della delega. Vi si trova infatti scritto che un esercizio frazionato è possibile e senza ostacoli di natura costituzionale, visto che il Governo in questo modo "non intacca la conformità alle direttive nella parte in cui, invece, la delega è attuata". Semplicemente, "le ragioni politiche - prosegue però sul punto la relazione, precorrendo i tempi - sottese alla scelta di non attuare le direttive di depenalizzazione in riguardo ai sopra menzionati reati sono di agevole comprensione: si tratta di fattispecie che intervengono su materia "sensibile" per gli interessi coinvolti, in cui lo strumento penale appare come indispensabile per la migliore regolazione del conflitto con l’ordinamento innescato dalla commissione della violazione". Di certo la riunione non si profila tranquilla e al ministero della Giustizia si sottolineava ancora ieri sera come anche a livello di immagine europea sarebbe difficile giustificare un delitto che colpisce la sola condotta di clandestinità. D’altra parte, in estate, lo stesso Orlando in Parlamento si è già ampiamente sbilanciato sull’opportunità di cancellare il reato. Che peraltro è già oggetto di censura da parte della Corte Ue e in larga parte disapplicato da parte della magistratura che però si trova a dovere contestare la connessione a carico dei migranti quando procede contro gli "scafisti". Sanzioni amministrative per illeciti puniti con multe Dall’abrogazione di un pacchetto di reati alla previsione di sanzioni amministrative. L’operazione depenalizzazione che arriva al Consiglio dei ministri prevede due decreti legislativi in attuazione della legge delega 67 del 2014. Con il primo si procede a un ampio intervento di riduzione dell’area penale per tutta una serie di reati rispetto ai quali forte è l’interesse pubblico (caso a suo modo esemplare quello delle omesse ritenute al di sotto della soglia di 10mila euro), sostituendoli con fattispecie sanzionate sul piano amministrativo. La clausola generale che prevedeva la depenalizzazione di tutti reati puniti con pena solo pecuniaria è stata precisata dal decreto legislativo, circoscrivendola alle fattispecie prevista da leggi speciali, mentre per il Codice penale è necessaria una previsione espressa. Sul primo piano, quello generale, si è provveduto a fissare tre gruppi di reati puniti con multa o ammenda non superiore nel massimo a 5000 euro il primo, a 20.000 euro il secondo, superiore a 20.000 euro il terzo. Ad essi corrisponde una sanzione pecuniaria amministrativa compresa, rispettivamente, tra 5.000 e 10.000 euro, tra 5.000 e 30.000, infine tra 10.000 e 50.000. Quanto invece alla depenalizzazione "nominativa" sono stati stabiliti limiti sia nel caso dei reati previsti dal Codice penale sia di altre tipologie di delitti inseriti in leggi speciali: 1) sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi; 2) sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno; 3) sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro per i delitti e le contravvenzioni puniti con una pena detentiva superiore a un anno. Con il secondo decreto vengono private di un profilo penale alcune ipotesi di reato previste nel Codice penale a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, che sono accomunate dal fatto di incidere su interessi di natura privata e di essere procedibili a querela, collocandone il disvalore sul piano delle relazioni private. Oltre all’abrogazione di alcuni reati (ingiuria, sottrazione di cose comuni, appropriazione di cose smarrite), per una serie di illeciti, se commessi dolosamente, scatterà a carico del responsabile un obbligo, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, a norma delle leggi civili, anche al pagamento della sanzione civile pecuniaria stabilita dalla legge. La commissione di uno di tali illeciti in forma dolosa può comportare, dunque, sia l’imposizione di una sanzione restitutoria o risarcitoria del danno, sia l’applicazione di una sanzione punitiva di natura civile. Giustizia: Sabelli (Anm) "meglio una riforma in versione ridotta che nessuna riforma" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 "Meglio in versione ridotta che niente". Alla vigilia del Consiglio dei ministri in cui si deciderà la sorte dell’attesa depenalizzazione dei reati minori, il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ribadisce la necessità del provvedimento, anche nella versione uscita dal pre-consiglio della scorsa settimana, e cioè con lo stralcio delle norme su immigrazione clandestina, coltivazione di cannabis e disturbi notturni(si veda Il Sole 24 Ore del 10 novembre). Come gli avvocati penalisti, l’Anm teme che il governo (preoccupato dell’"impopolarità" della riforma) lasci scadere la delega (il termine ultimo è il 17). "Anche un testo dimagrito sarebbe meglio di una rinuncia, perché la depenalizzazione ha un essenziale effetto decongestionante del carico di lavoro degli uffici giudiziari", dice Sabelli. Presidente, a forza di togliere non si rischia di partorire un topolino? "Pur trattandosi di un intervento minimalista è comunque molto importante per la funzionalità degli uffici. La depenalizzazione elimina reati che non giustificano un processo penale, considerando anche il costo, sia economico che di tempo, che il processo richiede. Se la sanzione penale è inflazionata finisce per diventare uno strumento simbolico poco efficace, perché determina un ingolfamento della macchina. Bisognerebbe invece valutare, di volta in volta, se una determinata condotta mette a rischio la sicurezza collettiva o altri valori primari, tenendo conto anche della incapacità del sistema di far fronte a una penalizzazione eccessivamente estesa". Qual è il rischio concreto? "Che la sanzione penale arrivi troppo tardi, quando il reato è prescritto, per di più rallentando i processi per reati più gravi". Tra le norme stralciate finora non c’è quella che depenalizza l’omesso versamento delle ritenute Inps, che, se sarà approvata, eliminerà quindi migliaia di processi. Molti grideranno al colpo di spugna anche in questo caso? "Una cosa dev’essere chiara: depenalizzare non vuol dire che una certa condotta non è più illecita ma solo che per ogni illecito va scelta la sanzione più adatta ed efficace. Depenalizzare l’omesso versamento di ritenute Inps, quindi, non vuol dire che si potrà non pagare ma solo che seguirà una sanzione pecuniaria comunque elevata e in termini più brevi". Invece ora che cosa succede? Si va in carcere? "Trattandosi di pene basse, se si è incensurati la pena è sospesa. Quindi, il carcere non è un deterrente, mentre lo è molto di più la sanzione amministrativa, che come ho già detto consente anche di liberare il sistema penale da migliaia di processi che rallentano il sistema e lo distolgono da quelli per reati più gravi". È stata stralciata la norma sul reato di immigrazione clandestina, salvo diversa decisione politica. Che ne pensa? "La depenalizzazione del reato non significa affatto sottovalutare il fenomeno dell’immigrazione illegale. Ma mi chiedo quale efficacia dissuasiva possa avere la sanzione dell’ammenda prevista per quel reato. Nessuna. Ammesso, poi, che si possa seriamente pensare di riscuotere un’ammenda da immigrati illegali. Il processo penale è inutile e ha una funzione meramente simbolica. Il fenomeno dell’immigrazione clandestina va contrastato con altri strumenti". I penalisti sostengono che con la depenalizzazione il governo ha l’occasione di dimostrare coerenza con la volontà di innovare il sistema penale. Concorda? "Sì, già al Congresso nazionale dell’Anm di Bari avevo richiamato il governo a scelte coerenti, dicendo che la rinuncia alla depenalizzazione sarebbe stata contraddittoria rispetto all’esigenza di rafforzamento del sistema". Giustizia: Ucpi; il Governo proceda sulla depenalizzazione, innovando il sistema penale camerepenali.it, 13 novembre 2015 Il Governo proceda all’attuazione della delega sulla depenalizzazione innovando il sistema penale e dando una importante dimostrazione di coerenza politica anche sul terreno della riforma del processo penale. L’ormai prossimo 17 novembre scadrà il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 entro il quale il Governo dovrà esercitare la delega sulla depenalizzazione a pena di decadenza. La scelta espressa con la legge delega di escludere dal novero del penalmente rilevante una serie di fattispecie di reato di minor rilevanza è stata assunta nell’ambito di un più ampio progetto di riforma, le cui ragioni ispiratrici sono state condivise dall’Unione delle Camere Penali Italiane, volto a rendere più efficiente il processo ed in generale il sistema giustizia, in ossequio ai principi dettati dall’art. 111 della Costituzione, che impone di celebrare il processo penale in un tempo ragionevole e nel rispetto delle garanzie di difesa. Depenalizzare significa impiegare più razionalmente le risorse a disposizione per celebrare processi relativi a reati di maggiore gravità, assicurando al contempo maggiori garanzie e tempi più rapidi. Contrariamente a quanto ritenuto dagli ormai numerosi interpreti del populismo penale, divenuto sempre più un semplice strumento di raccolta del consenso immediato a buon mercato, non è aumentando le pene che si ottengono effetti deterrenti, bensì individuando i responsabili e processandoli in un tempo ragionevole, di modo che l’eventuale condanna definitiva sia pronunciata in prossimità ai fatti. La delega deve, quindi, essere attuata senza timidezze e senza timori di incontrare la facile, quanto priva di fondamento, critica di coloro i quali sono sempre pronti alla spicciola strumentalizzazione di ogni provvedimento che non sia immediatamente percepibile come repressivo ed autoritario. Peraltro, oltre a trattarsi di condotte che non destano allarme sociale, le stesse resterebbero comunque sanzionate, anche con maggior efficacia, in via amministrativa. L’auspicio e l’invito al Governo è, dunque, che proceda nell’ormai breve tempo rimasto all’attuazione della delega perché, diversamente, perderebbe un’occasione di innovare il sistema penale nella giusta direzione e nel contempo di dare una dimostrazione di coerenza e di capacità politica. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane Giustizia: tutto il potere ai pm, basterà il sospetto della corruzione per sequestrare i beni di Filippo Facci Libero, 13 novembre 2015 Ormai le leggi scivolano in Parlamento come acqua nel lavandino, neanche il tempo di capire se siano inodori e insapori (come migliaia di altre leggi vacue, improvvisate sul tamburo mediatico) o se siano leggi che contengano un cianuro che sortirà i suoi effetti nel lungo periodo. Ufficialmente stiamo parlando del disegno di legge sulle nuove misure patrimoniali antimafia, laddove (all’articolo 1) si prevede che una semplice indagine indiziaria sia sufficiente per sequestrare beni e patrimoni a un pubblico amministratore. Si, come già accadeva nella legislazione antimafia: in pratica un’anticipazione di pena in grado di stroncare chiunque (famiglie comprese) ben prima che un processo ordinario possa aver termine. Ieri il disegno di legge è passato alla Camera, manca il Senato: e già la chiamano "norma Saguto" per via dell’indagine sull’ex presidente della sezione misure dì prevenzione dì Palermo, indagata per avere amministrato beni sequestrati in via preferenziale. In realtà dovrebbero chiamarla norma Mani pulite, perché la chiave di volta che fece decollare l’inchiesta del 1992 fu - oltre al carcere preventivo - proprio il sequestro e il blocco dei conti bancari sin quando i pubblici ministeri avessero ritenuto: e, coi colletti bianchi scivolati a San Vittore, funzionò alla glande; "parlare" non significava solo la scarcerazione, ma soprattutto lo sblocco dei conti che permettessero all’azienda di non fallire e alla famiglia di continuare a campare. Finché hai i beni sequestrati, per capirci, non puoi fare neppure un bancomat o trovare i soldi per pagare l’avvocato, oltre a non poter far la spesa. È una norma nettamente inquisitoria, fatta per i peggiori criminali mafiosi: ma, ora, la norma che il Parlamento ha parzialmente approvato prevede ciò anche per corruzione e concussione e peculato. Con qualche novità: anzitutto un controllo governativo sull’agenzia dei beni confiscati, poi regole più trasparenti nella scelta degli amministratori giudiziari (ecco la norma Saguto, che proibisce ai giudici di nominare parenti e amici) e infine la possibilità di sequestro anche per chi sia semplicemente sospettato di favorire i latitanti. Poi la norma sarà tutta da leggere. Una prima versione by Rosi Bindi conteneva 58 articoli, poi una del Pd li ha ridotti a 51 (discussi in aula per solo un’ora) sinché la commissione Giustizia li ha ridotti a 30. Nei tatti, è il parto scaturito da una proposta dì legge di iniziativa popolare (due anni e mezzo fa furono raccolte centinaia dì migliaia di firme) sommata alla mediazione della Commissione parlamentare antimafia di Rosi Bindi: c’è da stare tranquilli. Anche perché, fuor di battuta, anche se i magistrati dovessero operare i sequestri con massima oculatezza, è indubbio che la presunzione di innocenza andrebbe sostanzialmente a farsi benedire: e questo anche per reati ritenuti meno emergenziali di quelli mafiosi. Non servirà neanche un processo: basterà essere indagati e lo Stato potrà impossessarsi di un patrimonio per tutto il tempo a cui la nostra giustizia ci ha abituato. La norma era stata invocata da molti noti magistrati (il ministro Andrea Orlando ha recepito prontamente) e tra le cose incredibili c’è che ad opporsi, alla Camera, sono stati solo Forza Italia e 5 Stelle. La prima per motivi non chiariti {almeno mediaticamente) e i secondi in virtù obiezioni procedurali che col garantismo non hanno nulla a che fare. Il deputato Cinque Stelle Riccardo Nuti si è limitato a chiedere che il testo ritorni in Commissione dal momento che "dai 51 articoli iniziali è passato a soli 30 articoli". Così, a far notare che già oggi i procedimenti seguiti dai tribunali delle misure di prevenzione duravano insopportabilmente troppo {ora varrà anche per reati minori, come visto) sono rimaste solo le varie Camere penali, cioè gli avvocati. Il governo Monti aveva introdotto una riforma affinché gli accertamenti e i sequestri non avessero una durata indeterminata, ma in che termini il governo Renzi abbia fissato la persistenza dei processi di prevenzione (la durata, appunto) alla fine non si è capito, quindi, soldoni, non si è capito per quanto tempo le amministrazioni giudiziarie potranno sequestrare i beni di un cittadino indagato anche solo per peculato. Non è stato ritenuto mediaticamente interessante. Giustizia: magistratura e politica, l’ex "porto delle nebbie" e i rischi del partito-Stato di Francesco Verderami Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 La procura di Roma ha sostituito quella di Milano nel ruolo di guida nazionale della giustizia, evocando l’inizio di una stagione che più di venti anni fa cambiò la storia d’Italia. Ma l’assenza di furore ideologico nelle inchieste pone la classe dirigente di fronte ad una sfida ancora più insidiosa. Da porto delle nebbie si è trasformata in porto franco, le sue inchieste ne alimentano altre in altri uffici giudiziari del Paese: così la procura di Roma ha sostituito quella di Milano nel ruolo di procura guida nazionale che indirizza anche la lotta al terrorismo islamico e accompagna con il breviario penale la rivoluzione morale in Vaticano. Ma sono l’operazione Mafia Capitale, l’affaire Anas con la sua "dama nera", e per ultimo il caso ereditato da Napoli in cui è coinvolto il governatore campano De Luca, a evocare nell’immaginario collettivo l’inizio di una stagione che più di venti anni fa cambiò la storia d’Italia. Il rito romano è diverso da quello ambrosiano, perché diverso è il contesto e il profilo dei protagonisti. Il "pool" di Borrelli raggiunse picchi di notorietà tali da essere citato a memoria, quasi fosse la formazione della Nazionale. Oggi invece c’è una squadra di magistrati guidata da un antidivo come Pignatone, che silenziosamente si sta prendendo una rivincita rispetto a quei suoi colleghi che ne avevano ostacolato la carriera definendolo un "normalizzatore". Finito il tempo dei missionari che proclamavano di voler "rovesciare l’Italia come un calzino" e che promettevano di riconsegnare ai cittadini un Paese dalle "mani pulite", è giunto sulla scena un procuratore che invoca il sostegno della politica per non costringere la magistratura al ruolo della "supplenza" e che assicura il sistema di non avere "altri disegni" se non quello di colpire le sue "patologie". Ma proprio l’approccio conciliante, l’assenza di furore ideologico nelle inchieste, l’abbandono del mito della lotta del bene contro il male, pongono la classe dirigente dinnanzi a una sfida ancor più insidiosa rispetto a quella del passato, perché la spogliano delle sue difese, le impediscono di usare l’alibi della giustizia politicizzata. Infatti nessuno parla di azioni a orologeria se parla della procura di Roma. Non è accaduto nemmeno due settimane fa, quando dagli uffici di piazzale Clodio - con perfetta tempistica - è filtrata la notizia che il sindaco della Capitale aveva ricevuto un avviso di garanzia per peculato, proprio mentre Marino tentava un’ultima disperata resistenza in Campidoglio. Questo atteggiamento remissivo della politica non è solo conseguenza dalle sue debolezze, oltre che delle sue colpe, è anche il dovuto attestato di credito a un magistrato rimasto (finora) immune dal virus del soubrettismo giudiziario, che continua invece a minare la credibilità della sua categoria. Ma nonostante le differenze con il rito ambrosiano, le iniziative penali della procura di Roma cominciano a produrre effetti simili. Solo che a differenza di ventitré anni fa - quando le inchieste liquidarono le forze di governo della Prima Repubblica - nessuno stavolta può difendersi sostenendo di essere vittima di un disegno, perché formalmente non esiste più un intento persecutorio. Il potere ora è nudo davanti al suo giudice. Peraltro, se in conseguenza del dissolvimento del quadro politico a restare in piedi è un solo partito-Stato, è inevitabile che ogni indagine sullo Stato finisca per colpire (soprattutto) quel partito. È il prezzo che paga una forza di sistema, è un problema con cui (soprattutto) il Pd deve oggi fare i conti. A lungo andare, a fronte dei casi che affiorano in giro per l’Italia, a Renzi non basterà farsi scudo solo con le autorità di controllo e vantando l’inasprimento delle norme contro i banditi della democrazia. Serve la "rottamazione" di un modo di fare politica e di chi se ne è fatto interprete. Sono le "scelte autonome" di cui parla Pignatone, che rivolge un suggerimento e al tempo stesso una sfida al sistema al quale sostiene di interessarsi solo per colpire le sue "patologie". Resta da capire come la classe dirigente del Paese vorrà affrontare il problema per evitare che un altro ciclo si chiuda traumaticamente. E intanto si aspetta di capire fin dove si spingerà la procura di Roma, che dice di muoversi senza avere "alcun disegno". Giustizia: il furgone di Bossetti e le strategie mediatiche del nuovo circo giudiziario camerepenali.it, 13 novembre 2015 Ucpi e Osservatorio Informazione giudiziaria intervengono sulla vicenda del "video" propagandistico e anticipano ulteriori iniziative. Nei giorni scorsi, a partire da un articolo del giornalista Luca Telese riferibile all’udienza della Corte d’Assise di Bergamo del 30 ottobre 2015 del processo a carico del signor Massimo Bossetti per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio, si sono scatenate polemiche riferibili ad alcune dichiarazioni rese in udienza da un consulente tecnico della Procura di Bergamo. Buona parte delle notizie fanno riferimento ad un video (contenente le immagini di uno - o più? - furgoni in transito presso la palestra della bambina nelle ore precedenti la sua scomparsa) che sarebbe stato "taroccato" in danno dell’imputato. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali italiane non ha ritenuto di intervenire nella immediatezza della pubblicazione del brano perché, essendo disinteressato ai profili polemici raccolti dalla stampa, pur rispettabili (campagne innocentiste o colpevoliste che in questa sede, e per chi scrive, sono di nessun interesse), ha inteso approfondire gli aspetti denunciati dal giornalista Telese e comprendere se e quali conclusioni sia possibile assumere all’esito di questa vicenda. Sommariamente, ed elencandoli sinteticamente, si sono potuti identificare i seguenti punti fermi. 1) Nel corso delle indagini preliminari, alcuni organi di informazione - tra cui la Rai - hanno trasmesso un video che, secondo quanto comunicato, sembrava individuare il passaggio del furgone vicino alla palestra. La notizia viene ripresa dalla rete e sintetizzata così in molti siti: "Furgone di Bossetti vicino casa di Yara. Video". La Rai ha trasmesso un video inedito che mostrerebbe il furgone di Giuseppe Bossetti, accusato dalla prova del Dna di essere il carnefice di Yara Gambirasio, nei pressi della casa della ragazza il 26 novembre 2010, giorno dell’omicidio. Il video è stato registrato dalle telecamere di sicurezza poste sul luogo. Secondo gli inquirenti, il furgone potrebbe essere proprio quello di Bossetti. 2) La notizia ricompare anche sul web, tra il marzo ed il luglio 2015, in prossimità dell’udienza preliminare, accompagnata da una sorta di certificazione di "autenticità" dei Carabinieri investiganti in una nota: "Caso Yara, Carabinieri: il furgone ripreso poteva essere solo quello di Bossetti (data 2 marzo 2015)". Info - Il solo Iveco Daily di Bossetti poteva essere il furgone bianco ripreso dai video delle tre telecamere prese in esame nei circa 45 minuti immediatamente precedenti alla scomparsa di Yara Gambirasio. È quanto precisano in una nota i Carabinieri, che hanno rianalizzato i filmati acquisiti nella primissima fase delle indagini. Il primo passo, utilizzando particolari software e un modello in 3D, ha confermato che il furgone fosse quello di Bossetti. In una seconda fase si sono controllati tutti i furgoni simili a quello dell’indagato, e procedendo per esclusione si è arrivati a concludere che quello di Bossetti fosse l’unico possibile ripreso dalle telecamere. 3) Lo scorso 30 ottobre 2015, dinanzi la Corte di Assise di Bergamo, depone -stando ai verbali- non quale testimone "verbalizzante" (e cioè quale persona che ha condotto direttamente le indagini), ma come consulente tecnico della Procura della Repubblica ("perito" dell’Accusa), il Colonnello Lago dei Ris. Dalla sua deposizione in pubblica udienza è possibile estrapolare alcuni dati, per quanto qui interessa: le indagini dei Ris (e cioè dei consulenti della Procura) sono avvenute sulla base di alcuni fotogrammi (frames) estrapolati dalla integralità di filmati raccolti dalla polizia giudiziaria, e cioè, come dice il consulente, solo da alcuni fotogrammi forniti al consulente tecnico dalla polizia giudiziaria, che li ha selezionati. I Ris non hanno dunque esaminato la integralità dei filmati raccolti da alcune telecamere nei pressi della palestra frequentata dalla piccola Yara; il consulente tecnico della Procura riferisce che di questi frames è stato fatto un montaggio per ragioni non analitiche ma di rappresentazione, riconoscendo trattarsi di spezzoni "montati" dai Ris; la comparazione del furgone che si vede nei fotogrammi sarebbe avvenuta unicamente con i fotogrammi provenienti da una delle telecamere oggetto di analisi; a domanda del Presidente della Corte se il video ricomprendesse tutte le registrazioni esaminate la risposta del consulente è stata negativa e, richiesto di maggiori specificazioni, egli ha chiarito che il video è stato realizzato concordemente con la Procura a fronte di pressanti richieste di chiarimenti sulla vicenda, e ciò dal punto di vista della comunicazione. Ha poi ricordato che si tratta di un video dato alla stampa, ai media, che ne hanno fatto l’uso che hanno creduto. A fronte di questi dati di fatto, si impone una considerazione preliminare. Non è revocabile in dubbio che tale video - non contenuto negli atti del fascicolo del pubblico ministero in quanto risultato di un "montaggio" di parte accusatrice di dati "grezzi" delle indagini - non sia autentico, almeno nel senso che si tratta di una elaborazione (come commentato anche dal Presidente della Corte) di immagini, con ciò che consegue in ragione di tale operazione (scelta accurata dei fotogrammi da inserire; durata degli stessi; selezione di un loro ordine di montaggio etc.). Se dunque di "falso" o "tarocco" non si vuole parlare per prudenza linguistica, resta doveroso stigmatizzare il dato per cui, secondo quel che ha affermato il consulente tecnico Comandante del RIS di Parma, il Reparto Investigativo Scientifico dei Carabinieri, di concerto con una Procura della Repubblica dello Stato, nell’intento di promuovere mediaticamente la loro indagine (e la propria immagine) in danno dell’allora indagato, hanno divulgato un video che non è agli atti del processo presentandolo per "autentico". Non è oggetto di interesse degli estensori di questo documento discutere la valenza probatoria dei fotogrammi; la identificazione positiva del furgone che compare in alcuni di essi con quello dell’imputato; la riconosciuta (dal consulente) impossibilità, viceversa, di effettuare la comparazione di alcune altre immagini del veicolo con quello del Bossetti e così via: dati pure rinvenibili da quanto emerso dall’udienza del 30 ottobre. I processi si fanno nelle aule giudiziarie. Ciò che qui preme ancora denunciare, come già in numerosi documenti di questo Osservatorio, è la degenerazione mediatica del processo penale, che assume forme e vesti nuove. Il meccanismo della comunicazione di notizie delle indagini in corso dalle fonti di accusa ai mezzi di informazione non è più collocabile, come accadeva fino a qualche tempo fa, all’interno del conosciuto e classico "scambio di cortesie" (io do una notizia a te; tu mi citi nel tuo "pezzo" giornalistico ed esalti la mia indagine) tra "professionisti" del mondo giudiziario (cui a volte, deplorevolmente, partecipavano e partecipano anche gli avvocati). Viceversa, si realizza da qualche tempo una vera e propria strategia mirata, diretta a far interagire le inchieste con la informazione giudiziaria sicché, parafrasando una frase celebre di Von Klausewitz, l’informazione giudiziaria altro non sta diventando, per le Procure, che la prosecuzione dell’indagine giudiziaria con altri mezzi. E, addirittura, talvolta, neppure di prosecuzione si tratta, ma di anticipazione: la stampa anticipa inchieste ed arresti "imminenti", crea l’humus e prepara il terreno al trionfale cammino delle inchieste giudiziarie che, naturalmente, presentano i loro risultati come se fossero accertamenti processuali ormai definitivi ed irreversibili, grazie anche al contributo acritico - salve lodevoli eccezioni - dei mezzi di informazione. I connotati di questa degenerazione (che, essendo a senso unico in favore dell’accusa, assurge a vera e propria patologia, e si possono cogliere anche nella vicenda ora in esame) possono, nel caso concreto ma anche in via generale, così riassumersi: a) La "notizia" (qui un filmato) è predisposta nel corso delle indagini preliminari ed ha, per stessa ammissione di chi la diffonde, finalità autopromozionali ed evocative della magnifica efficienza della "macchina da guerra" accusatoria; b) La "notizia" (qui il filmato) sembra destinata, direttamente o indirettamente, alla demolizione mediatica, processuale e umana (si ricordi un altro filmato di Bossetti, in ginocchio, al momento dell’arresto), della figura di un imputato, con il risultato di indebolirne la posizione al momento del processo e di tentare di condizionare i giudici (togati e non) prima dell’inizio del dibattimento; c) La decisione di come diffondere efficacemente la "notizia" (qui "montare" un filmato) è assunta di concerto dalle Procure della Repubblica con gli investiganti o, addirittura, con i consulenti tecnici dell’accusa che, in sostanza, anticipano a mezzo stampa già nella fase delle indagini preliminari le conclusioni del loro elaborato tecnico di cui dovrebbero riferire in dibattimento; d) La diffusione della "notizia" avviene, nel corso delle indagini preliminari, eludendo il disposto dell’articolo 114 c.p.p.: o diffondendo atti di valenza probatoria prima ancora che siano noti all’indagato o, quand’anche noti (e dunque non coperti integralmente da segreto quanto al contenuto), eludendo il divieto di pubblicazione anche parziale (art. 114, II co. c.p.p.); e) I mezzi di informazione (che nei giorni scorsi, per bocca di qualche rappresentante istituzionale, hanno finto ipocritamente di scandalizzarsi per il filmato di cui si discute) rischiano, salvo sporadiche eccezioni, di divenire il megafono acritico di queste iniziative autopromozionali prive di serio significato informativo, naturalmente sempre a senso unico, e cioè a sostegno delle impostazioni accusatorie e delle campagne giudiziarie che le assecondano. L’Osservatorio Informazione giudiziaria e la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane avvertono che vigileranno con sempre crescente attenzione sul predetto fenomeno patologico di mediatizzazione del processo penale e che non esiteranno a denunciare, non solo all’opinione pubblica, le situazioni in cui ciò dovesse accadere con violazione dei principi di deontologia e delle norme sostanziali e processuali. Sin d’ora si rende noto che la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio Informazione Giudiziaria si riservano di rivolgersi alle autorità competenti per far valutare i comportamenti che costituiscono oggetto del presente documento. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane L’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane Giustizia: legittima difesa; pdl della Lega "non più punibile chi uccide il ladro in casa" di Antonio Pitoni e Giorgio Velardi Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015 Presentata a Montecitorio da alcuni deputati del partito guidato da Matteo Salvini. Allo scopo di modificare l’articolo 52 del codice penale. E capovolgere la giurisprudenza della Cassazione. Il primo firmatario, Nicola Molteni: "Il domicilio è sacro, basta lasciare libero arbitrio ai magistrati nel giudicare casi come quello di Ermes Mattielli". Una nuova norma da inserire all’interno dell’articolo 52 del codice penale. Cancellando, di fatto, il reato di eccesso colposo di legittima difesa. È quanto chiede la Lega Nord con una proposta di legge, primo firmatario il deputato Nicola Molteni, che inizierà ad essere discussa la prossima settimana in commissione Giustizia a Montecitorio. Un unico articolo tramite il quale, dopo i recenti fatti di cronaca (ultimo in ordine di tempo quello di Vaprio D’Adda, in provincia di Milano), il partito guidato da Matteo Salvini chiede che la legittima difesa valga anche per quei soggetti che compiono "un atto per respingere l’ingresso, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata (cioè colui che ha volutamente alterato il proprio aspetto per rendersi irriconoscibile, ndr) o di più persone riunite, in un’abitazione privata" o "in ogni altro luogo" nel quale venga "esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale". "Bisogna partire dal presupposto che ci deve sempre essere una presunzione assoluta di legittima difesa quando ci troviamo di fronte a casi nei quali, per esempio, i soggetti che oggettivamente sono parte lesa, hanno visto violato il proprio domicilio, che è sacro, o messa a repentaglio l’incolumità dei propri familiari - dice Molteni a ilfattoquotidiano.it -. Per noi l’onere della prova deve essere ribaltato: la nostra proposta, l’unica che cerchi di evitare il ripetersi di casi come quello che purtroppo ha coinvolto Ermes Mattielli, ha fra i suoi scopi quello di non lasciare ai magistrati libero arbitrio nel giudicare fatti simili. Si tratta di uno degli elementi di maggiore debolezza del sistema", aggiunge il deputato leghista. Ma in questo modo non si rischia di creare una situazione da far west? "Assolutamente no - risponde il parlamentare del Carroccio, anzi speriamo che il governo si renda conto della situazione di insicurezza percepita dai cittadini. Anche in questa legge di stabilità ci sono stati tagli al comparto sicurezza per quasi 500 milioni: se questo vuol dire "cambiare verso", conclude. Se la proposta della Lega Nord si tramuterà in legge, come auspicano Molteni e i suoi colleghi di partito, per l’articolo 52 del codice penale italiano si tratterebbe della seconda modifica in meno di dieci anni. Già nel 2006, pochi mesi prima dell’avvicendamento a Palazzo Chigi fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, la legge 59 introdusse infatti la cosiddetta legittima difesa domiciliare. La quale stabilì il diritto all’autotutela in un domicilio privato e in un negozio o un ufficio introducendo una sorta di presunzione legale del requisito di proporzionalità tra difesa e offesa. La legge, che per casi del genere autorizzava il ricorso a "un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo" per la difesa legittima della "propria o altrui incolumità" o dei "beni propri o altrui", si è però scontrata con alcune sentenze della Cassazione. Nel 2007, con una sua pronuncia, la Suprema Corte ha ritenuto che l’ingresso fraudolento o clandestino nella dimora dell’aggredito, in carenza dell’aggressione o dell’esposizione della controparte ad un pericolo alla propria vita o incolumità, non acquisisce rilievo per invocare la scriminante della legittima difesa. Cioè, la difesa deve essere sempre proporzionata alla minaccia e all’offesa. Obiezione che adesso, con la sua proposta di legge, la Lega Nord vuole definitivamente superare. Giustizia: intervista a don Gino Rigoldi "il rancore e il perdono dietro le sbarre" di Roberto I. Zanini Avvenire, 13 novembre 2015 "Il carcere per tanti, spesso giovani è un luogo di oblio, dove non si viene aiutati a riabilitarsi e a riconoscere il male compiuto". Parla don Gino Rigoldi. "Il mio lavoro con i ragazzi in carcere? Prima di ogni altra cosa c’è un passaggio essenziale: fare in modo che si rendano conto del male che hanno fatto. Prima devono capire". Don Gino Rigoldi è forse il più conosciuto cappellano di carcere minorile in Italia. Lavora al Cesare Beccaria di Milano dove attualmente segue 52 giovani e la sua missione è quella di ottenere la loro fiducia, per poi cercare di iniziare con loro un percorso che li conduca ad avere fiducia anche della vita. Insegnare a distinguere il bene dal male: in un carcere non è una cosa semplice. "È un lavoro lungo e complicato perché a tanti, soprattutto quelli che si sentono più forti e più furbi, è difficile far capire che un essere umano va rispettato in quanto essere umano e quindi non va raggirato, offeso, derubato. È più facile per chi ha fatto un reato grave come la violenza o l’omicidio. Il furto o il raggiro spesso non vengono nemmeno vissuti come peccato. In questo i ragazzi del Beccaria sono come tanti adulti che rubano, raggirano e sfruttano le persone, anche legalmente, facendo valere la legge del più scaltro o del più forte; sono come certi commendatori, politici, professionisti, amministratori". E qual è la cosa più difficile per chi ha commesso omicidio e riconosce la colpa? "Fanno fatica a ritrovare l’equilibrio. Il mio compito è di renderli capaci di convivere con la loro colpa. In questo senso ricevere il perdono vero e sentito da parte dei familiari delle vittime o dei sopravvissuti è sempre di grande aiuto". È così grande il bisogno di essere perdonati? "Molti di loro vogliono chiedere scusa, ma purtroppo nella maggior parte dei casi le loro scuse non vengono accettate, perché anche quello del perdono è un cammino difficile. E in questi ragazzi respinti la speranza di riparare resta irrisolta". È quando il perdono arriva? "Ricordo un signore anziano la cui moglie era stata uccisa da un ragazzo in uno scippo finito male. Durante il processo ha voluto parlare col colpevole come fosse un figlio. Ricordo anche le parole semplici di quel dialogo che commosse l’intero tribunale: "Vedi cosa è successo? Ora devi cercare di cambiare vita, di fare il bravo. È la cosa migliore che puoi fare per la mia Maria. Se vuoi ti aiuto anche io a trovare un lavoro". Questo signore si è tolto dal cuore un macigno". Ma a chi fa più bene il perdono? "Certamente a chi perdona, perché il rancore è un cancro che uccide. Ma posso anche dire con certezza che per quel ragazzo è stata la svolta della vita: adesso lavora, si è sposato, ha dei figli. Tutto questo perché l’aver avuto il perdono gli ha consentito di condividere un peso che altrimenti lo avrebbe schiacciato". Vuole dire che il perdono di Dio ha anche bisogno del perdono degli uomini? "Certamente, perché tante volte la fede non è così forte. E poi nel vissuto dei giovani è fondamentale il rapporto umano, la relazione. Del resto Gesù lega strettamente il comandamento del voler bene a Dio a quello del voler bene al prossimo: "Il secondo è simile al primo" (Mt. 22,39)". Ricorda un altro momento in cui per qualcuno dei suoi ragazzi il perdono è stato essenziale? "Ricordo di Erika che a 16 anni, nel febbraio 2001, insieme al fidanzato, uccise la madre e il fratellino a Novi Ligure. L’ho avuta con me al Beccaria. Ricordo quando il padre per la prima volta le disse che l’aveva perdonata: si capiva che era solo un perdono di volontà, non del cuore. Dopo un percorso lungo qualche anno li ho visti parlare insieme e ho capito che finalmente era perdono davvero. Perché il perdono, quello che sanifica e libera, deve giungere dal cuore. E ho visto come ha fatto bene a tutti e due, al padre e alla figlia, che ora fa la volontaria in un orfanotrofio in Brasile". Ma allora perché la gente è così poco interessata al perdono di Dio nella confessione? "Credo che la confessione sia poco praticata per colpa di noi preti che l’abbiamo fatta diventare un elenco di mancanze morali che a volte ha poco a che fare col percorso di preghiera e di vita nell’amore al quale siamo chiamati noi cristiani. La confessione è una cosa seria. Nella confessione siamo chiamati a metterci in gioco. Come si possono considerare confessioni quelle di cinquantenni che raccontano di aver detto bugie, di non essere andati alla messa, di aver visto immagini erotiche. Questo è non aver capito, è un fermarsi in superficie. Non è una confessione, è un disastro. Gesù non è morto per le mie bugiette o per le mie masturbazioni. Gesù è una persona seria, è morto per la giustizia, per l’uguaglianza e la carità fra le persone". E allora? "Allora bisogna uscire da questo moralismo piccino che tradisce e banalizza la confessione. La gente va guidata a comprendere il senso della vita in Gesù, a comprendere cosa significa carità e preghiera. Le cose che dice papa Francesco vanno in questa direzione". Lei cosa chiede a chi si confessa? "Chiedo di andare al cuore della propria vita per capire che tipo di relazioni ho col mio prossimo, con le persone con cui vivo; per capire qual è il mio senso della giustizia, la mia capacità di condividere nella carità sia i beni materiali che le mie conoscenze, anche nella professione; la cura che ho della mia famiglia, di chi ha bisogno di me; il tempo che dedico al dialogo con Gesù e alla lettura del Vangelo. Questi sono i punti centrali. Certo anche la pornografia può essere un problema: molte volte diventa un varco, una porta aperta al diavolo che fa scivolare in situazioni che allontanano da Dio". Come si arriva a confessarsi in questo modo? "Ricominciando a predicare il Vangelo di Cristo e parlando dei comportamenti, degli stili di vita che ci allontanano dal suo amore. Al Beccaria quando parlo di Gesù mi ascoltano. E importante pure il linguaggio: da quando c’è questo Papa ai miei ragazzi posso parlare anche di Chiesa". Cos’ha questo Papa per essere così diverso nella percezione di un giovane carcerato? "Francesco è un po’ uno dei nostri, i detenuti lo sentono più vicino, ne percepiscono la misericordia e questo è importante per chi si sente scartato, emarginato dalle persone e dalla vita. Quando questi ragazzi capiscono che dai loro valore, che quando li guardi li vedi davvero, allora non smetterebbero mai di parlarti, ti si attaccano e sei tu che devi imparare a "staccare". Giustizia: carceri minorili, sempre meno baby detenuti in Italia Vita, 13 novembre 2015 Dal 1975 a oggi i minorenni in carcere si sono dimezzati, mantenendosi stabili negli ultimi 15 anni. Rispetto alla popolazione detenuta adulta, però, resta maggiore la percentuale di donne e stranieri. Tutte le cifre in un’indagine di Antigone. Sono 16 in Italia gli Istituti penali per minori, luoghi dove avviene l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria nei confronti di minorenni o giovani (18- 25 anni) che hanno commesso il reato quando erano minorenni. Sono invece 27 i Centri di Prima Accoglienza (Cpa), strutture che ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida che deve aver luogo entro 96 ore. L’associazione Antigone ha analizzato presenze e ingressi in queste strutture, pubblicate nel Terzo Rapporto uscito in questi giorni (scaricabile in allegato). Ecco i dati più significativi. Sono circa 37 mila i procedimenti davanti al Gip o al Gup nei confronti di minorenni, e risultano stabili i reati denunciati al Gip e al Gup dei tribunali per i minorenni. Significativa la diminuzione dei minori detenuti: nel 1940 erano 8.521, 7.100 nel 1950, 2.638 nel 1960, 1.401 nel 1970 e 858 nel 1975. Oggi sono 449. Un numero stabile negli ultimi quindici anni. Le ragazze detenute nei 16 Ipm sono 39 pari all’8,68% ovvero una percentuale doppia rispetto alla popolazione detenuta femminile adulta. Gli stranieri detenuti sono 204 pari al 45,43% del totale ovvero una percentuale di 12 punti in più rispetto alla popolazione detenuta straniera adulta. Per quanto riguarda gli ingressi totali in un anno, anche qui ci troviamo davanti ad un andamento decrescente, essendo passati dai 1.888 ingressi del 1988 ai 992 del 2014 (-47,4% nell’intervallo considerato). Nonostante la percentuale resta alta comunque cala notevolmente il numero degli ingressi di minori stranieri (-53,2%). I reati commessi dai minori detenuti risultano essere11 omicidi volontari, 12 omicidi tentati (2 donne e 7 stranieri). In totale 159 reati contro la persona, 713 contro il patrimonio (95 donne e 414 stranieri). Gli stranieri sono quindi un terzo degli omicidi ma superano il 55% degli autori di reato contro la proprietà. Per quanto riguarda i Cpa, tra il 1998 ed il 2015 l’andamento complessivo degli ingressi è progressivamente decrescente, passandosi dai 4.222 ingressi del 1998 ai 2.193 del 2012, dopo di che questo calo negli ingressi subisce una significativa accelerazione. Nel 2013 sono entrate 2.020 ragazzi, nel 2014 addirittura 1.548, per un calo complessivo dunque di oltre il 60%. Giustizia: notai lavorano gratis nelle carceri e nelle parrocchie, i volontari sono già 420 di Cristina Montagnaro Il Messaggero, 13 novembre 2015 Disposizioni testamentarie, riconoscimento dei figli, problematiche legali dei migranti, situazioni patrimoniali o familiari che preoccupano? L’associazione dei notai cattolici, per essere vicina ai cittadini offre supporto legale gratuito alle persone in difficoltà economica nelle parrocchie e nelle carceri. Sono 420 i notai che fanno parte dell’associazione e hanno messo in piedi due progetti: "notai in parrocchia" e "notai in carcere". Quest’ultimo nasce dalla caparbietà dell’associazione che ha siglato la prima convenzione con il carcere di Capanne a Perugia; è stato il primo istituto penitenziario ad ospitare il progetto pilota "Un notaio per le carceri italiane". Questa pratica sociale è stata poi attivita in quasi tutte le regioni d’Italia. Si trovano dentro le carceri di Perugia, Spoleto, Secondigliano, Poggioreale, Pescara, Palermo e Catania. Nel Lazio stanno avviando contatti con due penitenziari. "Fornire assistenza gratuita a favore della popolazione detenuta indigente per la cura di pratiche giuridiche e notarili" è l’obiettivo del progetto. Ecco come avviene: secondo la convenzione con il carcere, c’è una prima fase dedicata all’informazione dei detenuti riguardo al tipo di servizio disponibile, cui seguiranno i colloqui su richiesta dei singoli detenuti, sotto la vigilanza del personale in servizio. Anche presso la popolazione carceraria "c’è la necessità di assistenza nel disbrigo di pratiche giuridiche attinenti al lavoro, alle relazioni familiari, alle situazioni patrimoniali e a quelle civili in generale" afferma il presidente dell’ associazione Roberto Dante Cogliandro. "Notai in parrocchia" invece, si rivolge alle persone con difficoltà economiche ed ecco allora che una volta al mese c’è un notaio che dà consulenza su vari argomenti come: mutui, regime patrimoniali, compravendite e testamenti. Sono molti attivi nel Lazio, in Umbria, in Abruzzo e in Toscana. Per chi volesse avere maggiori informazioni può visitare il sito dell’associazione: associazionenotaicattolici.it. Giustizia: "Bambinisenzasbarre", Spazi gialli per favorire il rapporto coi genitori detenuti di Chiara Samorì Corriere della Sera, 13 novembre 2015 Evitare che i bimbi dei detenuti subiscano il trauma del carcere quando visitano i propri genitori. Una "pena" accessoria che ricade sui figli e che, troppo spesso, segna tante vite. "Per diversi mesi non ho voluto che mia figlia venisse a trovarmi in carcere - racconta Gerardo Nocera, che dopo circa venti anni trascorsi da detenuto, ora è in affidamento in prova ai servizi sociali - perché dopo le visite stava male arrivando a soffrire di attacchi di panico che hanno richiesto l’intervento di medici. L’ho rivista quando mi è stato concesso di andarla a trovare a casa accompagnato da agenti che non indossavano la divisa". Gerardo ha tre figli e per mantenere il legame affettivo con la sua famiglia, per via della sua condanna definitiva, hanno dovuto affrontare momenti molto duri. Un problema che, ogni anno in Italia, riguarda centomila minorenni (cinquemila in Lombardia) che per incontrare i propri genitori devono varcare i portoni di una struttura penitenziaria. Ad aiutarli c’è Bambinisenzasbarre onlus. L’associazione da tredici anni tutela i diritti dei minori con genitori detenuti e promuove gli "Spazi gialli", aree all’interno del carcere allestite a misura di bambino che viene accolto da psicologi nel momento delicato che precede e segue l’incontro con il genitore. L’impegno della onlus non si ferma qui. Al Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria della Lombardia (Prap) durante la conferenza stampa moderata dal giornalista Alessandro Cannavò, sono state presentate due nuove iniziative. Il progetto pilota di Rete nazionale Spazio giallo e la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi "Non un mio crimine, ma una mia condanna". Il progetto Rete nazionale Spazio giallo, sostenuto e condiviso da Enel Cuore Onlus, prende avvio dagli spazi d’accoglienza presenti nelle carceri di Bollate, Opera e San Vittore dove si trova il primo creato nel 2006 e che grazie al sostegno di Enel Cuore è stato completamente rinnovato. "Giallo perché secondo la letteratura dei colori indica consapevolezza e qui i bambini si sentono presenti, non più invisibili" spiega Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre "da loro parte una contaminazione buona, portano dentro al carcere la normalità e lasciano il segno, insegnano a sorridere, aiutano il genitore a migliorarsi interiormente e trasformano l’ambiente". In questi spazi i bambini ingannano l’attesa, che può essere di mezz’ora ma anche di ore, aspettando che l’accompagnatore completi le procedure di controllo e di perquisizione per poter entrare. Spazio giallo non è solo un’area dove giocare, colorare o leggere, ma un vero e proprio modello. È diventato progetto pilota nazionale della Carta dei figli dei genitori di detenuti, primo protocollo in Europa che valorizza le relazioni genitoriali nel periodo della detenzione e pone al centro la formazione e la sensibilizzazione del personale dell’Amministrazione penitenziaria. "Non un mio crimine, ma una mia condanna" è la campagna di raccolta fondi per diffondere l’importanza del riconoscimento dei bambini che hanno genitori reclusi e dei loro bisogni. La campagna è resa possibile grazie alla collaborazione con B Solidale Onlus, progetto attraverso il quale la Lega nazionale professionisti B e le 22 Società che partecipano al Campionato serie B ConTe.it si confrontano con il Terzo settore. "Fino all’8 dicembre, 77 partite di calcio saranno giocate a fianco dei figli dei genitori detenuti per invitare a donare e realizzare nuovi Spazi gialli negli Istituti penitenziari del Nord e del Sud Italia" ha detto Andrea Abodi, presidente della Lega nazionale professionisti B. Dopo gli Spazi nelle carceri di Milano, di Lecco e Bergamo, Bambinisenzasbarre, punta ad aprirne altri due in Piemonte, a Ivrea e a Vercelli, in vista del taglio del nastro, il prossimo anno, di quello a Secondigliano a Napoli, sostenuto da Enel Cuore Onlus. Per sostenere l’Associazione, fino al 28 novembre si potranno donare due o cinque euro chiamando da rete fissa o mandando un sms al numero 45503. I domiciliari valgono anche per il cane di Roberta Lunghini west-info.eu, 13 novembre 2015 Corte di Cassazione, Sentenza n. 45073 - 2015. Chi è agli arresti domiciliari non può uscire dalla porta di casa neanche per far fare la pipì al proprio cane. Per questo la Cassazione ha confermato la condanna per evasione, già emessa in primo grado e in appello, nei confronti di un uomo sorpreso dai carabinieri, a una trentina di metri dalla sua abitazione, in ciabatte e pigiama, "mentre faceva espletare al cane i bisogni fisiologici". I Supremi Giudici, anche tenendo conto dei gravi precedenti penali dell’imputato, non hanno ritenuto valida la tesi difensiva. In base alla quale il fatto si caratterizzava per "modesta offensività" e che lui era stato quasi costretto a scendere con l’amico a quattro zampe. Visto che l’animale era stato operato da pochi giorni, l’ascensore del palazzo non funzionava e la moglie non era nelle condizioni tali da poterlo prendere in braccio in caso di necessità. Gratuito patrocinio, scatta la revoca per l’azione pretestuosa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 Corte d’Appello di Milano - Sezione 1 - Sentenza 4 marzo 2015 n. 1000. Scatta la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio qualora il magistrato accerti che l’azione del richiedente sia manifestamente infondata ed egli abbia agito con colpa grave. Per queste ragioni la Corte d’Appello di Milano, sentenza 4 marzo 2015 n. 1000, ha respinto il ricorso di una donna che chiedeva una cifra monstre per il risarcimento dei danni patiti a causa di una supposta violazione degli obblighi di assistenza familiare gravanti sull’ex marito. E l’ha condannata a pagare 9.500 euro per le spese legali da lui sostenute, oltre a quelle generali ed al contributo unificato. Per i giudici, infatti, nessun risarcimento è dovuto per i ritardi nei versamenti (300 euro mensili), data l’esiguità del periodo preso in considerazione ed il successivo pagamento da parte dell’ex coniuge. Mentre appare "del tutto fantasiosa" la richiesta di danni morali ed esistenziali per 200mila euro, a causa di sofferenze conseguenti "ad atti di molestie, non provate". Prive di riscontri probatori sono anche le richieste risarcitorie per lo stato di "prostrazione fisica e mentale patito a causa delle condotte illecite dell’ex marito", che avrebbe altresì determinato "uno stato di sofferenza cardiaca", rispetto al quale l’appellante non ha offerto "alcun riscontro della riconducibilità a stress psicofisici". Al contrario, dalla documentazione prodotta, e già valutata dal giudice di prime cure, emerge che l’appellante aveva trovato un accordo economico sia con l’ex marito che con i figli tale da chiudere definitivamente la partita. La sentenza ricorda che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati "ammette l’interessato in via anticipata e provvisoria al patrocinio se... le pretese che l’interessato intende far valere non appaiono manifestamente infondate" (articolo 126 Dpr 115/2002) e che "il magistrato revoca l’ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal Consiglio, se risulta l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero se l’interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave" (articolo 136 comma 2). Non solo, la Corte costituzionale, con ordinanza del 17 luglio 2009, n. 220, ha riaffermato come sia dovuta la revoca del beneficio quando, a seguito del giudizio, risulti provato che "la persona ammessa abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave". Elementi ricorrenti nel caso specifico, in quanto la pretesa della ricorrente "è apparsa manifestamente infondata e l’impugnazione è stata esercitata con colpa grave, dal momento che già la sentenza di primo grado aveva evidenziato le radicali carenze sia in fatto che in diritto della sua allegazione". Conseguentemente, il provvedimento è stato revocato, "con effetto retroattivo" (articolo 136 comma 3), e l’ex moglie condannata al pagamento delle spese legali. Antifortunistica: pena sospesa senza pagare solo se l’imprenditore è fallito di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 12 novembre 2015 n. 45270. L’imprenditore non in regola con la normativa antinfortunistica deve eliminare i pericoli presenti sul posto di lavoro ed è tenuto a versare la sanzione amministrativa per le irregolarità accertate. In caso contrario scatta l’imputazione penale secondo quanto previsto dagli articoli 133 e 159 del Dlgs 81/08 (Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). La lettura data dalla Cassazione - La Cassazione con la sentenza n. 45270/2015, tuttavia, ha precisato che il principio non può essere letto in maniera eccessivamente rigorosa senza tenere presente le eccezioni sollevate dalla parte. E così la Corte, pur ritenendo l’imprenditore responsabile, in quanto da una parte si era attivato per porre rimedio ai pericoli per i lavoratori (come ad esempio la mancata predisposizione del progetto per i ponteggi di altezza superiore a 20 metri e il non corretto posizionamento delle impalcature nelle costruzioni in conglomerato cementizio) ma dall’altra non aveva però pagato la sanzione amministrativa dovuta ha fornito ulteriori chiarimenti. L’inadempimento relativo al mancato pagamento però - sottolinea la sentenza - non dipendeva dalla mancanza di volontà di adempiere da parte del datore ma dalla circostanza che il soggetto fosse privo di risorse in quanto fallito, come da quest’ultimo espressamente rilevato in appello. Responsabilità penale sì ma vanno comunque considerate anche le eventuali condizioni economiche eccepite dall’imputato. Prima di giungere a questa conclusione la sentenza ha richiamato numerosi precedenti di Cassazione secondo cui "il contravventore deve eliminare la violazione e poi provvedere al pagamento della sanzione amministrative nel termine ( nda perentorio) di trenta giorni. Il mancato rispetto anche di una sola delle due citate condizioni impedisce la realizzazione dell’effetto estintivo, a nulla rilevando che la previsione del termine per il pagamento non sia accompagnata da una esplicita sanzione di decadenza atteso che la sua mancata previsione discende dalla natura della stessa di precondizione negativa dell’azione penale". L’orientamento della giurisprudenza - Alla stregua di tale orientamento, pertanto, sottolinea la Corte bene ha fatto il Tribunale a escludere l’effetto estintivo avendo accertato che una delle condizioni (il pagamento) non si era verificato. Tuttavia l’errore commesso dai precedenti giudici consisteva nel non aver considerato l’istanza sollevata dalla difesa dell’imputato di poter godere dei benefici di legge proprio in funzioni delle sue precarie condizioni economiche. E sul punto la sentenza precisa che "Non c’è dubbio che il giudice di merito nel valutare la concedibilità della sospensione condizionale della pena o della non menzione non abbia l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi indicati nell’articolo 133 del cp ma possa limitarsi a indicare quelli ritenuti prevalenti". Deve però sia pure sinteticamente, e qui è la novità, dare ragione del concreto esercizio positivo o negativo, del potere dovere di applicazione della sospensione condizionale della pena della non menzione, tanto più quando la parte ne abbia fatto esplicita richiesta. La sentenza impugnata è stata pertanto annullata limitatamente alla concedibilità della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 n. 6 del cp, ferma restando la responsabilità dell’imprenditore. Qualità di consumatore del cliente nel rapporto con l’avvocato Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015 Competenza - Per territorio - Rapporti tra cliente ed avvocato - Foro di cui agli articolo 637, comma 3, cod. proc. civ. e articolo 14, comma 2 d.lgs. n. 150/2011 - Rapporto con il foro del consumatore di cui all’articolo 33, comma 2, lettera u) d.lgs. n. 206/2005 - Prevalenza di quest’ultimo. Ove un avvocato abbia presentato ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro speciale di cui all’articolo 637 c.p.c., comma 3, e Decreto Legislativo 1 settembre 2011, n. 150, articolo 14, comma 2, il rapporto tra quest’ultimo ed il foro speciale della residenza del consumatore - previsto dal Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, articolo 33, comma 2, lettera u) - va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 12 gennaio 2015 n. 181. Competenza - Per territorio - Rapporti tra cliente ed avvocato - Qualità di consumatore del cliente - Configurabilità - Fondamento - Controversia in tema di responsabilità professionale - Foro competente - Residenza del consumatore - Sussistenza. Nei rapporti tra avvocato e cliente quest’ultimo riveste la qualità di consumatore ex articolo 3, comma 1, lettera a) d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall’intuitu personae e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione, non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo. Alla controversia tra cliente ed avvocato in tema di responsabilità professionale si applicano le regole sul foro del consumatore di cui all’articolo 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. • Corte di Cassazione, sezione VI- 3, Ordinanza 24 gennaio 2014 n. 1464. Competenza - Per territorio - Rapporti tra cliente ed avvocato - Procedimento di ingiunzione contro il cliente per il pagamento di competenze professionali - Foro di cui all’articolo 637, terzo comma, cod. proc. civ. - Rapporto con il foro del consumatore di cui all’articolo 33, comma 2, lettera u) d.lgs. n. 206 del 2005 - Prevalenza di quest’ultimo - Sussistenza - Fondamento. In tema di competenza per territorio, ove un avvocato abbia agito, con il procedimento di ingiunzione, al fine di ottenere dal proprio cliente il pagamento di competenze professionali avvalendosi del foro speciale di cui all’articolo 637, terzo comma, cod. proc. civ., il rapporto tra quest’ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore previsto dall’articolo 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 va risolto nel senso della prevalenza del foro del consumatore, sia perché esso è esclusivo sia perché, trattandosi di due previsioni speciali, la norma successiva ha una portata limitatrice di quella precedente. • Corte di Cassazione, sezione III, ordinanza 9 giugno 2011 n. 12685. Competenza civile - Regolamento di competenza - Qualificabilità del professionista come consumatore - Esclusione - Conseguenze - Foro del consumatore - Applicabilità - Esclusione. Al fine dell’applicazione della disciplina di cui agli articoli 1469 bis e segg. cod. civ. relativa ai contratti del consumatore, deve essere considerato "consumatore" la persona fisica che, pur svolgendo attività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività, mentre deve essere considerato professionista tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece, utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del professionista non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente, viceversa, che venga stipulato per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale. • Corte di Cassazione, sezione III, ordinanza 9 novembre 2006 n. 23892. Toscana: in calo i detenuti tossicodipendenti, sono 836 su popolazione carceraria di 3.247 Adnkronos, 13 novembre 2015 Su una popolazione carceraria toscana di 3mila 247 detenuti, 836 sono tossicodipendenti e 1071 sono dietro le sbarre per violazione della legge sulla detenzione illecita di sostanze stupefacenti (dati aggiornati a giugno 2015). "Sono numeri - ha detto il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone - che mostrano quanto ancora il carcere sia per la maggior parte un luogo di detenzione sociale e frutto di una legge criminogena". "La percentuale di detenuti tossicodipendenti presenti nelle 18 strutture penitenziarie toscane per adulti è scesa dal 27,10 per cento (fine 2014) al 25,75 per cento (giugno 2015), ma questo è da rapportare all’abrogazione per via costituzionale alla legge Fini-Giovanardi", ha aggiunto Corleone illustrando i dati. Sulla detenzione femminile, "in Toscana - ha detto Corleone - le donne in carcere sono 184, poche ma stanno male". "Proprio le donne - ha precisato il garante - potrebbero rappresentare un nucleo di sperimentazione forte della detenzione in luoghi fuori dall’istituto penitenziario, in case della semilibertà, case al femminile, luoghi per tossicodipendenti". Una nota dolente sulla salute negli istituti penitenziari, "il carcere - ha fatto notare Corleone - produce malattia, solo il 27 per cento dei detenuti è considerato sano". Per superare questa "drammatica situazione", le proposte avanzate dal garante regionale sono l’applicazione delle "misure alternative" oppure la possibilità che la Regione presenti al Parlamento una proposta di legge di modifica del testo unico 309/90 "Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti". Nel dossier "La droga in carcere: fatti e misfatti", presentato da Corleone questa mattina, si leggono anche i numeri sulla distribuzione territoriale dei detenuti tossicodipendenti: ad Arezzo 5 su 26, ad Empoli nessuno su 15, al Gozzini di Firenze 37 (dei quali 13 stranieri) su 87, a Sollicciano 199 uomini (dei quali 124 stranieri) su 602 e 22 donne (delle quali 4 straniere) su 91, a Grosseto 6 (1 straniero) su 21, a Livorno 36 (16 stranieri) su 209, alla Gorgona nessuno su 58, a Lucca 31 (20 stranieri) su 105, a Massa 98 (17 stranieri) su 177, a Massa Marittima 15 (6 stranieri) su 40, all’Opg di Montelupo fiorentino 8 (1 straniero) su 92, a Pisa 37 (13 stranieri) su 259, a Pistoia 3 su 18, a Porto Azzurro 1 su 258, a Prato 210 (134 stranieri) su 616, a San Gimignano 81 (12 stranieri) su 372, a Siena 16 (6 stranieri) su 63, a Volterra 19 (uno straniero) su 138. Inoltre, al 30 giugno 2015, dei 1071 detenuti presenti negli istituti toscani per violazione della legge sulla detenzione di droghe: 7 ad Arezzo, 6 ad Empoli, 27 al Gozzini, 192 a Sollicciano, 7 a Grosseto, 95 a Livorno, 17 alla Gorgona, 31 a Lucca, 60 a Massa, 16 a Massa Marittima, 7 all’Opg, 81 a Pisa, 5 a Pistoia, 76 a porto Azzurro, 206 a Prato, 172 a San Gimignano, 25 a Siena, 41 a Volterra. Corleone ha parlato anche della mancata chiusura dello psichiatrico di Montelupo. "Una situazione incredibile, nessun Opg in Italia - ha detto - è stato chiuso nonostante una scadenza di legge precisa, il 31 marzo scorso e questo provoca un internamento illegale e incostituzionale". "La magistratura di sorveglianza di Firenze ha accolto il ricorso firmato da 47 internati e ha dato tre mesi di tempo alla Regione per trovare una soluzione". Il garante ha spiegato che la Rems provvisoria di Volterra da 22 posti dovrebbe essere pronta tra tre mesi, in attesa di quella definitiva da 40 posti. Alla conferenza stampa è intervenuto anche Corrado Marcetti della Fondazione Michelucci, che si è soffermato sui numeri dei detenuti in semilibertà, "su 52 mila 294 detenuti in Italia, solo 747 sono in semilibertà e le strutture per la semilibertà sono spesso dentro il perimetro carcerario, seguono la ritualità carceraria, non sono case di reinserimento, non sono nel tessuto urbano, non hanno dialogo con le città". Toscana ha 3 mesi tempo per chiudere Montelupo La Toscana ha tre mesi di tempo da ora per arrivare alla chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino e passare al sistema delle Rems. Lo ha spiegato oggi il garante regionale dei detenuti Franco Corleone illustrando alcuni dati sulla "droga in carcere". "Abbiamo una legge che prescriveva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, tra cui quello di Montelupo, il 31 marzo scorso - ha ricordato. I mesi passano e chi è internato negli Opg lo è in maniera illegale e incostituzionale da diversi mesi". Per questo, ha aggiunto, "la magistratura di sorveglianza ha riconosciuto la fondatezza di un reclamo presentato da queste persone. I "matti" hanno rivendicato i loro diritti costituzionali e la magistratura di sorveglianza ha detto che è vero ma che per altri tre mesi possono restare lì. La notifica di questa decisione dovrebbe arrivare in questi giorni". "La Regione Toscana ha dunque questo limite che è insuperabile. Poi la chiusura dell’Opg dovrà essere fatta in maniera definitiva". Il garante ha spiegato che "la Rems provvisoria di Volterra da 22 posti, dovrebbe essere pronta tra tre mesi. Mentre la Rems definitiva, sempre a Volterra, dovrebbe avere 40 posti. Andrà verificata l’utilità di una seconda Rems - ha concluso - e non andrebbe realizzata nella stesso luogo di quella provvisoria". Campania: ministro Orlando "De Luca ha vinto le primarie, io avrei sostenuto un altro" di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 13 novembre 2015 Il ministro della Giustizia interviene sul caso De Luca, il governatore della Campania indagato, ma resta cauto: "Conosco la Campania e la sua turbolenza, se azzardassi ipotesi sarei avventato". "In Campania avrei sostenuto un altro candidato, ma De Luca ha vinto le primarie" ed è "portatore di un buon governo": così il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a #Corrierelive, interviene sul caso De Luca, il governatore della Campania indagato perché avrebbe influenzato la sentenza che lo ha mantenuto al vertice della Regione Campania. "Conosco la Campania e la turbolenza di quella realtà, se azzardassi ipotesi sarei avventato. La scelta più ragionevole è attendere gli sviluppi della vicenda per poter dare un giudizio anche sotto il punto di vista politico", sottolinea Orlando durante la trasmissione negli studi televisivi del Corriere della sera di Roma. Un’occasione per ribadire il suo no al tetto a 3 mila euro sui contanti, la volontà di chiudere sulle unioni civili, i timori per Sinistra italiana, che punterebbe a far perdere il Pd, la fiducia nelle prossime elezioni a Roma, Milano e Napoli, ma anche la certezza che proprio il Partito democratico abbia bisogno di una "profonda revisione". "Il mio punto di vista è che il Pd deve essere una forza del socialismo europeo - spiega Orlando. Il compito di un partito è raccogliere il senso comune del Paese, non credo debba limitarsi a raccogliere istanze diverse per raggiungere la maggioranza. Altrimenti si sconfina in forme di trasformismo". Un tagliando alla legge Severino? Sì ma non sulla scia della cronaca. Il caso De Luca riporta in ballo la legge Severino, come sottolinea il collega Giovanni Bianconi, in studio insieme a Tommaso Labate e al ministro Orlando. Una revisione è all’ordine del giorno? "In termini generali un tagliando è sempre necessario - dice Orlando. Che ne emerga un’esigenza estrema dalle vicende in corso, no: la valutazione non va fatta solo guardando i casi che vanno in cronaca, ma analizzando le statistiche". Sulle intercettazioni, la questione secondo Orlando "è semplice: ci è stato chiesto molte volte di estendere gli strumenti della lotta alla mafia alla corruzione. Da oggi in poi sarà così. Lo stesso ragionamento lo abbiamo fatto sulle intercettazioni: stiamo puntando al rafforzamento dello strumento di indagine, quello che vogliamo fare è che sia usato per l’indagine e non finalità diverse. Non vogliamo pregiudicare la capacità di indagine né mettere in galera i giornalisti, ma far sì che nei fascicoli vada ciò che concerne l’attività processuale e nient’altro. Si scriva quel che serve, e non di più". Da De Luca a Marino. Il ministro ha negato parallelismi tra la vicenda De Luca e quella che ha riguardato l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino. "La vicenda Marino - ricorda - non nasce dall’accusa di peculato, quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Questa è la lettura del partito. Non è mai stato utilizzato un metro di giudizio in merito agli avvisi di garanzia, che fino a qualche tempo fa erano considerati uno strumento di tutela dell’indagato". La tirata di Alfano ai giudici? "Sbagliata". Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha sbagliato a protestare contro la scarcerazione dei giovani dei centri sociali durante il raduno promosso dal Carroccio a Bologna: "Gliel’ho anche detto, così si mette contro i magistrati che non fanno altro che applicare la legge. Se non gli sta bene, allora cambi la legge" Lo Stretto di Messina: non è una priorità. Per Orlando, lo stretto non è né di sinistra né di destra. "Bisogna prima arrivare a capire come ci si arriva allo Stretto. Avevamo sostenuto all’epoca di Berlusconi quello che vale ancora oggi: non è una priorità, ce ne sono altre. Se il Ponte sullo Stretto domani sarà una cosa realizzabile, ben venga: ad oggi è molto difficile arrivare a Reggio Calabria, e quindi meglio prima capire come ci si arriva". Il tetto del contante: un errore. "Non è che siccome si è alzato il tetto del contante, ci si è spostati a destra: con Prodi il tetto era più alto ma nessuno lo ha accusato di essere più a destra di Berlusconi. Ma credo che alzarlo renda più difficile la tracciabilità: la penso come Dario Franceschini, ci sono state diverse discussioni. Su questo punto mantengo delle riserve, pur avendo un giudizio positivo sulla legge di Stabilità". Il patto sulla giustizia. "Avevamo idee diverse con Ncd sulla giustizia. Ma abbiamo introdotto una serie di misure che sono state trovate particolarmente efficaci da Transparency, come il reato di antiriciclaggio. Io non penso che le posizioni diverse siano la dialettica tra bene e male, perché sono sicuro che anche nel Pd ci siano posizioni più attente al controllo della legalità e altre più attente alla garanzia dei diritti. Ma il semplice confronto porta alla ricerca di un punto di equilibrio". Legge sulle unioni civili? Se ne riparlerà entro il 2015. "C’è un vuoto sulle unioni civili, e questo lo dice la Corte di Strasburgo: noi oggi non abbiamo una normativa che affronta questo tema. Dopodiché credo che, al di là di quello che ci dice Strasburgo, sia un’esigenza politica. Credo che questi riconoscimenti possano avere un’approvazione trasversale, come successo per divorzio e aborto. E spero che questo tema sia affrontato subito dopo la legge di Stabilità, entro l’anno". Sinistra italiana punta a far perdere il Pd. Lo strappo a sinistra? "Abbiamo visto tantissime volte strappi come quelli di Stefano Fassina", minimizza Orlando. Che però non esclude che "Sinistra italiana punti a far perdere il Pd". Ci riuscirà? "Per galleggiare non serve governare i grandi centri, ma per cambiare le cose sì- ricorda Orlando- Ma io sono convinto che il Pd abbia le energie giuste per vincere in tutte le grandi città. La candidatura di Sala è in questo senso un’ottima indicazione". Il Pd? "Ha bisogno di una profonda revisione". "Non devono essere un dogma, un elemento costitutivo fondante del Partito democratico: credo che non sia una procedura a tracciare l’identità di un partito. Certo, sono state molto importanti per rivitalizzare forze politiche che avevano grosse difficoltà a parlare con i cittadini. Ma se rimanessero l’unico strumento, si rischia di selezionare un ceto politico bravissimo a catalizzare il consenso ma non ad immaginare il futuro". Si riferisce a Renzi o De Luca? "No, entrambi hanno una lunga gavetta alle spalle, non sono state le primarie a farli emergere". Secondo Orlando, c’è urgenza di una revisione del Partito democratico: "Stiamo cambiando profondamente il Paese ma abbiamo bisogno di spiegare alcune cose, comprenderne altre, quindi dobbiamo cambiare profondamente anche il partito: non so se attraverso la strutturazione degli apparati, ma anche rivedendo alcune formule della vecchia organizzazione. Non mi convince neanche più la dicotomia tra primarie e circoli, forse dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo, che ci permetta di parlare con i cittadini". Una corsa da segretario in vista per Orlando? "No, assolutamente no", nega il ministro. Torino: "Andrea Soldi fu strangolato durante un Trattamento Sanitario Obbligatorio" di Marco Vittone Il Manifesto, 13 novembre 2015 Le conclusioni del medico legale della procura, che procede per la morte del quarantenne per il quale fu tentato con la forza il trattamento sanitario obbligatorio. Corso Umbria, una panchina verde e un uomo di 45 anni, obbligato a un ricovero forzato. La drammatica vicenda di Andrea Soldi, morto il 5 agosto a Torino durante un Tso, resta una ferita aperta nel cuore della città. Del caso, che vede indagati tre agenti della polizia municipale e uno psichiatra, se ne occupa il pm Raffaele Guariniello. Al magistrato, ieri, è arrivato l’esito della consulenza consegnata dal medico legale Valter Declame: Andrea è morto per "strangolamento atipico", deceduto per "morte violenta". Si sarebbe verificata, secondo il consulente, una "morte asfittica da strangolamento atipico provocata da asfissia da compressione, ostruzione delle alte vie aeree e dissociazione elettromeccanica del miocardio". Il medico legale sostiene che sono stati determinanti la "compressione delle strutture vascolo-nervose del collo, l’ammanettamento quando lui era già in stato di incoscienza e il trasporto, che hanno peggiorato il quadro clinico impedendo una ventilazione efficace o mantenimento della maschera d’ossigeno e, di conseguenza, la ripresa di coscienza". Andrea Soldi soffriva di schizofrenia, era soprannominato dai vicini di casa "il gigante buono" e in molti nel quartiere lo ricordano con affetto. Lo vedevano spesso su quella panchina. Lo hanno visto per l’ultima volta tre mesi fa, prima dell’arrivo di un’ambulanza per il Tso, che lui rifiutava. Andrea si aggrappo’ alla panca, mentre due vigili si piazzarono di fianco a lui, immobilizzandolo. Un terzo gli mise, da dietro, un braccio al collo. Poi, ci fu il viaggio in ambulanza, di schiena e ammanettato. E la morte. Sulle recenti conclusioni del consulente della procura non concorda, però, l’avvocato Anna Ronfani, legale dello psichiatra che aveva richiesto il Tso, Pier Carlo Della Porta, indagato per omicidio colposo insieme gli agenti della pattuglia "Pegaso 6" della polizia municipale, Enri Botturi, Stefano Delmonaco e Manuel Vair. "Lo specialista Roberto Testi - ha spiegato il legale - esprimerà nelle sedi opportune le ragioni del suo dissenso scientifico, anche attraverso l’esame degli atti processuali ai quali, finora, non abbiamo potuto avere accesso". Anche l’avvocato dei tre agenti iscritti nel registro degli indagati boccia la consulenza: "Non condivido assolutamente le conclusioni a cui è giunto il dottor Declame - spiega Stefano Castrale - il nostro consulente Lorenzo Varetto al quale non sono stati forniti i dati testimoniali, dimostrerà in maniera oggettiva e scientifica come nessuna responsabilità nel triste evento possa ricadere nell’operato dei vigili urbani". Il dolore dei familiari per La perdita di Andrea non si placa. Ieri, a proposito della perizia, sono intervenuti gli avvocati della famiglia di Andrea Soldi, Luca Lauri e Giovanni Soldi (che era anche cugino della vittima): "Quanto accertato dal consulente della procura della Repubblica, nel confermare le ipotesi sin dall’inizio formulate, dà purtroppo conto in modo evidente della brutalità dell’intervento eseguito ai danni di Andrea, al quale non sono state risparmiate nemmeno le manette quando ormai era già privo di sensi e in condizioni di sofferenza respiratoria. Ciò ha ulteriormente aggravato le sue condizioni fino all’esito letale". E hanno concluso: "Rimaniamo fiduciosi sul lavoro celere della magistratura e sulla sensibilità delle istituzioni coinvolte in questa assurda, quanto tragica, vicenda". Rimini: Garante per i diritti dei detenuti, ecco come presentare la candidatura riminitoday.it, 13 novembre 2015 Spetterà alla Commissione Consiliare competente la valutazione delle candidature da sottoporre al Consiglio Comunale per l’elezione del Garante, scelte tra le candidature pervenute entro le 13 del giorno 10 dicembre. Fino alle ore 13 del 10 dicembre prossimo sarà possibile presentare la propria candidatura per lo svolgimento dell’incarico di "Garante per i diritti delle persone private della libertà personale". Ne dà notizia il presidente del consiglio comunale Vincenzo Gallo pubblicando il relativo avviso pubblico sull’Albo pretorio del Comune di Rimini. Nel giugno scorso il Consiglio Comunale ha infatti istituito la figura del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, disciplinandone con un regolamento funzioni specifiche, requisiti curriculari, modalità di presentazione delle candidature e di elezione, organizzazione dell’ufficio e relazioni istituzionali. Una figura istituzionale per lo svolgimento della quale è richiesto il possesso di una comprovata competenza in ambito penitenziario, nel campo delle scienze giuridiche, delle scienze sociali e dei diritti umani e che offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le funzioni. Spetterà alla Commissione Consiliare competente la valutazione delle candidature da sottoporre al Consiglio Comunale per l’elezione del Garante, scelte tra le candidature pervenute entro le 13 del giorno 10 dicembre. La candidatura potrà essere recapita personalmente o per posta ordinaria; o tramite Posta elettronica certificata all’indirizzo direzione1@pec.comune.rimini.it; o tramite fax al numero 0541.704674. L’avviso integrale coi relativi allegati è pubblicato su comune.rimini.it. Firenze: tra Comune e Centro Giustizia minorile sottoscritto un protocollo "verde" stamptoscana.it, 13 novembre 2015 È stato firmato ieri il protocollo d’intesa tra il Comune di Firenze e il Centro di Giustizia Minorile per la formazione di giovani sottoposti a procedimenti penali. Siglato dall’assessore all’Ambiente Alessia Bettini e da Giuseppe Centomani, dirigente del Centro, il protocollo riguarda soprattutto il servizio parchi, giardini e aree verdi comunali ed rappresenta, di fatto, il proseguimento di un percorso avviato a partire dal 2011. È di pochi mesi fa, ad esempio, l’inaugurazione della parete verde verticale alla Stazione Leopolda e il lavoro di riqualificazione della aiuole di Piazza Beccaria. "Il protocollo - ha detto l’assessore Bettini - è un documento importante perché ci permette di continuare a lavorare con il Dipartimento di Giustizia Minorile e a realizzare una serie di progetti sulla riqualificazione del verde urbano. Con i ragazzi del dipartimento andremo a realizzare delle aiuole che hanno anche la funzione di biodiversità e di decoro". Un apporto alla città e una possibilità di risalita per i ragazzi del Centro: questo il cuore dell’accordo in nome della "giustizia riparativa" e del reinserimento. "Coniugare queste due componenti è quanto più ci interessa - ha proseguito l’assessore - anche per le opportunità di lavoro che i ragazzi potranno avere in futuro. I precedenti sono ottimi, esperienze che hanno funzionato. Vogliamo, adesso, andare avanti, e questo documento ci dà il "cappello" per poterlo fare". La valenza costruttiva del protocollo è stata sottolineata anche da Centomani, che ha posto l’accento sull’apporto morale che tali esperienze danno ai giovani del Centro. "I progetti realizzati hanno dimostrato abilità finora disconosciute e hanno contribuito a creare il senso di "risarcimento" nei confronti della città per quanto combinato in passato. Il respiro a lungo termine dei progetti - sono lavori creati per restare - dà poi un apporto fondamentale al reinserimento pieno". I ragazzi, che lavoreranno in gruppi di 6-7, nel corso del prossimo anno realizzeranno nuove opere di riqualificazione del verde urbano. Dove e come, al momento, è top secret. "Sarà una sorpresa - ha concluso l’assessore - ma possiamo anticipare che tutti i quartieri della città saranno toccati. La visibilità non mancherà". Brescia: "Orto libero" nel carcere di Verziano, così i detenuti coltivano il proprio futuro fanpage.it, 13 novembre 2015 A Brescia, nel carcere di Verziano, i detenuti coltivano verdure e curano le piante nella serra. Si tratta del progetto Orto libero, organizzato da Comune e direzione carceraria con la collaborazione di Libera. Il prossimo 2 dicembre in programma una cena con i prodotti dell’orto per raccogliere fondi. Il progetto Orto libero, organizzato all’interno del carcere di Verziano a Brescia, dà i suoi frutti. Non solo in senso metaforico, ma anche letterale. L’associazione Libera di Brescia ha infatti annunciato che, il prossimo 2 dicembre, sarà organizzata una cena con i prodotti di Libera terra e di orto libero cucinati da quelli che l’associazione fondata da don Ciotti definisce gli "chefs di domani": ossia i detenuti. Slogan dell’iniziativa: "La libertà e il futuro sanno di buono". Il 2 dicembre una cena per raccogliere fondi. Orto libero è l’iniziativa del Comune di Brescia e della casa di reclusione di Verziano, con il sostegno di Libera, rivolto alla popolazione carceraria. Il progetto vuole offrire ai detenuti un percorso di rinascita e di recupero di autostima attraverso la cura degli spazi verdi e della serra del carcere. Il prossimo 2 dicembre, per raccogliere fondi a sostegno dell’iniziativa, sarà organizzata una cena a buffet nel carcere. Il costo è 20 euro. Saranno serviti prodotti di Libera terra (cooperative che producono su terreni confiscati alla mafia) e le verdure coltivate dai detenuti in carcere. L’appuntamento per la cena è alle 19.30. Prima, alle 18, ci sarà la presentazione del libro "Sola con te in un futuro aprile" di Margherita Asta e Michela Gargiulo. Per informazioni e prenotazioni per la serata si può contattare la cooperativa "Il Calabrone" sul suo sito web o allo 030.2309280. Piacenza: alle Novate danneggiamenti e aggressioni. Sappe: "nuova gestione dei detenuti" Agenparl, 13 novembre 2015 Ancora due eventi critici nel carcere di Piacenza. "L’altro ieri - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale - un detenuto che si trovava nel reparto isolamento, per motivi disciplinari, è andato in escandescenza ed ha danneggiato la cella. ieri, un altro detenuto di origine romena, ristretto anche lui nel reparto isolamento, ha prima inveito contro il personale di polizia penitenziaria e poi ha provocato vari danni nella stanza detentiva". "Questi episodi seguono quelli dei giorni scorsi, in cui un ispettore ha riportato la frattura di un dito e un assistente è rimasto contuso in seguito all’aggressione di un detenuto. tutto ciò testimonia la riottosità dei detenuti al rispetto delle regole". "Finalmente - proseguono - l’amministrazione penitenziaria, dopo le tante denunce del Sappe di questi ultimi anni, nei giorni scorsi ha emanato una circolare interna che ridefinisce le modalità di esecuzione della pena, classificando i detenuti comuni in pericolosi e non pericolosi; da tale classificazione discende una diversa modalità di esecuzione della pena, poiché i detenuti verranno classificati proprio in relazione ad un giudizio di pericolosità formulato dall’equipe interna al carcere". "Pertanto, ci saranno detenuti che avranno una sorveglianza costante e saranno sempre accompagnati dalla polizia penitenziaria nei vari spostamenti interni ed altri, quelli ritenuti non pericolosi, che potranno muoversi più liberamente. È un primo passo verso una più adeguata gestione del carcere, anche se resta molto da fare dal punto di vista organizzativo e gestionale". Cagliari: "Sensi ristretti", ex detenuto racconta 14 anni dietro le sbarre in un libro Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2015 "Sensi Ristretti. Se l’orizzonte è il muro di una prigione", pubblicato gratuitamente da Edes, Editrice Democratica Sarda, è il titolo del libro che descrive l’esperienza dietro le sbarre di un ex detenuto durata 14 anni. Il volume scritto da Federico Caputo, sassarese d’adozione, sarà presentato a Cagliari oggi pomeriggio (venerdì 13 novembre) alle ore 16.30 nella Sala Biblioteca dell’Ordine degli Avvocati, al quarto piano dell’ala nuova del Palazzo di Giustizia, in piazza Repubblica. Organizzato da "Socialismo Diritti Riforme", dalla sezione cagliaritana dell’Associazione Nazionale Forense e dall’Edes, l’appuntamento, alla presenza dell’autore, offrirà l’occasione per conoscere in modo più diretto la realtà di Istituti come Genova Marassi, Napoli Secondigliano, Roma Rebibbia ma anche Ferrara, Trento, Sassari e Alghero. Strutture vicine e lontane che seppure affidate alla responsabilità di Direttori con differenti sensibilità sembrano spesso rispondere ad una finalità lontana da quella del reinserimento sociale di chi ha commesso un reato. Emergono situazioni non rispondenti al principio dell’umanità della pena e privazioni non previste dalla sentenza di condanna. Articolato in tre sezioni principali, che corrispondono ai cancelli di accesso alla struttura detentiva, il libro, che si avvale della postfazione del docente dell’Università di Sassari Gianfranco Nuvoli, mette l’accento sulle modalità attraverso le quali si sostanzia l’espiazione della pena, a partire dalla burocrazia fino alla negazione degli affetti. Interverranno all’incontro con l’autore, Francesco Mulas, segretario dirigente della sezione di Cagliari dell’Anf, Rina Salis Toxiri, psicologa, e il giornalista-editore Alberto Pinna. Coordina il dibattito Maria Grazia Caligaris, presidente associazione Sdr. Venezia: teatro-carcere; "Cantica delle donne", spettacolo diretto da Michalis Traitsis estense.com, 13 novembre 2015 A Cà Foscari di Venezia lo spettacolo diretto da Michalis Traitsis. Oggi venerdì 13 novembre, presso il Teatro Cà Foscari di Venezia, alle ore 16.45, sarà replicato lo spettacolo teatrale "Cantica delle donne" diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale "Passi Sospesi" negli Istituti Penitenziari di Venezia, con le donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Nawal Boulahnane, Ileana Padeanu, Sara Zorzetto, voce fuori campo di "Venere" Ifeoma Ozoeze, partecipazione di Luminita Gheorghisor, collaborazione dell’attrice e musicista Lara Patrizio, contributo artistico di Patrizia Ninu, video di Marco Valentini, foto di Andrea Casari. Il lavoro si è incentrato sulla valorizzazione della ricchezza e della complessità della figura femminile attraverso testi, immagini, musiche, canzoni, danze, al femminile. Le voci delle donne detenute provano a imprimere ai testi un proprio, particolare, moto e respiro. A seguito dello spettacolo, alle ore 18, si svolgerà un pubblico dibattito moderato da Pietro Basso, professore del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali e direttore del Master in Immigrazione all’Università Cà Foscari. L’iniziativa è ideata e promossa da Balamòs Teatro, Master sull’Immigrazione di Cà Foscari, Teatro Cà Foscari, Cà Foscari Challenge School e Cà Foscari Sostenibile. Ingresso libero. Tel. 041.2346019. Schengen legato a un filo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 13 novembre 2015 Crisi dei rifugiati. La Ue si mette nelle mani della Turchia: miliardi, concessioni sui visti, ripresa del negoziato di adesione e un vertice a Bruxelles con Ergogan il 29 novembre. Le chiusure si moltiplicano: la Francia sospende Schengen per la Cop21, la Svezia mette controlli alle frontiere per 10 giorni, seguita dalla Danimarca, l’Ungheria rifiuta i siriani rinviati dalla Germania in nome di Dublino, l’Austria pensa a un "tetto" di entrate. Juncker e Schultz sconsolati sulle lentezze della redistribuzione dei 160mila. La sopravvivenza degli accordi di Schengen è legata a un filo sempre più tenue. "Per salvare Schengen siamo a una corsa contro il tempo", ha ammesso ieri a La Valletta il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. Dopo l’Ungheria, l’Austria e la Croazia, anche la Slovenia prevede "ostacoli tecnici" alla frontiera per bloccare i migranti, la Svezia ha rimesso "provvisoriamente", per 10 giorni, i controlli ai confini, seguita dalla Danimarca e la Francia da oggi (per un mese) sospende Schengen a causa della Cop21. La Ue, dopo aver partecipato nella capitale di Malta al vertice con i paesi africani e promesso 1,8 miliardi (ma per il momento ce ne sono davvero solo 78,2 milioni), si è riunita in un mini-summit monco, a cui non hanno partecipato Gran Bretagna, Polonia, Irlanda e Portogallo. Al centro dell’incontro - che molti diplomatici hanno giudicato "inutile" - c’è stata la questione delle relazioni con la Turchia. Per far diminuire i flussi di migranti che passano dai Balcani, la Ue non ha più altre carte che puntare tutto sulla collaborazione di Ankara. I dirigenti dei più grandi paesi Ue incontreranno Erdogan domenica, al G20 di Antalya, in Turchia. Lunedì, il presidente turco dovrà vedere i presidenti di Commissione e Consiglio, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk. Angela Merkel, in grave difficoltà in Germania sul fronte dei rifugiati, chiede un vertice Ue-Turchia, voluto anche dalla Commissione. Potrebbe aver luogo il 29 novembre a Bruxelles. La Ue ha promesso a Erdogan 3 miliardi (2,5 dovranno essere sborsati dai paesi membri, il resto sarà preso sul bilancio Ue), David Cameron prevede di versare in aiuti bilaterali 184 milioni alla Turchia su due anni. L’obiettivo è che Ankara tenga sul suo territorio il più possibile dei 2 milioni di rifugiati siriani. In cambio, Bruxelles è pronta, oltre ai miliardi promessi, a fare varie concessioni alla Turchia, che passano male in alcuni stati: velocizzazione nella concessione dei visti ai cittadini turchi e apertura di nuovi capitoli (23 e 24) del processo di adesione, anche se un rapporto, pubblicato martedì dalla Commissione, è molto critico con la Turchia di Erdogan sullo stato di diritto, la libertà di stampa e la repressione dei curdi. Ma l’Europa non sa più come far fronte alla crisi dei rifugiati, una "situazione ingestibile", ha ammesso ieri il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, facendo riferimento alle lentezze della ricollocazione dei 160mila approvata sulla carta ma che finora ha riguardato solo qualche migliaio di persone. "Se continua così, i profughi saranno redistribuiti a fine secolo" ha avvertito Juncker. Poco per volta, si moltiplicano le chiusure. La Germania ha ristabilito Dublino anche per i siriani (rimandare i rifugiati nel primo paese di arrivo, fatta eccezione della Grecia), ma l’Ungheri ribatte: "non li riprendiamo". Merkel è in una posizione sempre più debole e tiene praticamente solo grazie all’Spd. I giornali evocano un putsch di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze, alleato di Thomas de Maizière, responsabile degli Interni: si oppongono chiaramente al rifiuto di Merkel di mettere un tetto all’accoglienza. Il governo studia la possibilità di creare campi di transito alla frontiera e di concedere ai rifugiati solo più "visti temporanei" senza diritto al ricongiungimento famigliare (una misura che sarebbe però contraria a una direttiva europea). La Svezia, dove la popolazione è sempre più ostile all’accoglienza, ha deciso da mercoledì di imporre dei controlli provisori alle frontiere per dieci giorni, per ragioni di "ordine pubblico". L’Austria sta pensando di mettere un "tetto" a 6mila entrate al giorno. La Slovenia ha deciso di costruire "ostacoli tecnici" alle frontiere, non per chiuderle, ha precisato il primo ministro Miro Cerar, ma per regolare i flussi ed evitare "un rischio di sommersione". In Francia, a Calais la situazione è esplosiva, dopo tre notti di scontri tra migranti e polizia. La Gran Bretagna non lascia più entrare nessuno dal 26 ottobre. I migranti cercano ora di rallentare il traffico per prendere d’assalto i camion e nascondersi. Africa amara per Bruxelles di Leo Lancari Il Manifesto, 13 novembre 2015 L’Ue torna dal vertice di Malta con pochi risultati. Juncker contro gli Stati membri: "Ricollocamenti lenti, così finiamo tra un secolo". Per arrivare a un documento finale che andasse bene a tutti i funzionari europei e africani hanno lavorato fino all’alba limando ogni parola e mettendo insieme una serie di promesse per il contrasto alle guerre, alla povertà e ai cambianti climatici, formulate però in maniera tanto generica da non risultare impegnative più di tanto. Un documento sufficientemente vago da consentire ai leader europei arrivati a Malta per un vertice sull’immigrazione con i Paesi africani di parlare di successo. Almeno sulla carta, perché si fa fatica a trovare traccia di impegni concreti e viste le premesse con cui l’Unione europea era arrivata a La Valletta, vale a dire convincere i leader a impegnarsi nel fermare i flussi migratori in cambio di aiuti allo sviluppo per 1,8 miliardi di euro, non è detto che sia una cattiva notizia. Anche i finanziamenti promessi, infatti, almeno per adesso esistono solo nelle intenzioni visto che di soldi veri e propri gli Stati membri ne hanno messi davvero pochini: appena 81,27 milioni di euro, stando agli ultimi dati forniti dalla Commissione europea. E comunque anche se ci fossero tutti non basterebbero, come ha fatto presente ai leader europei il presidente del Senegal, Macky Sall, a La Valletta anche in qualità di presidente di turno della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. L’impegno finanziario promesso è "insufficiente per tutta l’Africa", ha detto criticando anche la "troppa enfasi messa sui rimpatri, forse a causa dell’opinione pubblica". Il messaggio è chiaro: se davvero l’Europa vuole contribuire alla crescita economica dell’Africa, creando così le condizioni per fermare le partenze, serve un impegno maggiore dei quasi due miliardi di euro messi sul tavolo. E magari, va detto, con qualche garanzia che i soldi non finiscano nelle mani di dittatori senza scrupoli invece che in veri progetti di sviluppo. Le aspettative nutrite dall’Unione riguardo al vertice di Malta erano alte. Bruxelles vorrebbe che gli Stati africani collaborassero attivamente non solo nel fermare i migranti nei paesi di origine, ma soprattutto nell’identificare quelli arrivati in Europa, facilitando così i rimpatri. Un lavoro compensato con la garanzia di aiuti economici che però non sembrano aver convinto i leader africani, che chiedevano invece ingressi legali per i propri cittadini. Per quanto riguarda i rimpatri, ha ricordato Sall, "la questione è già regolata da accordi esistenti tra l’Unione europea e i paesi africani". Trovare un accordo che metta fine alla crisi de migranti è per Bruxelles un problema sempre più urgente, specie in un momento in cui vede sempre più muri ergersi all’interno dei propri confini. Come quello costruito in queste ore dalla Slovenia al confine con la Croazia, alimentando tra l’altro una pericolosissima controversia sui confini. La strategia europea punta quindi a rafforzare le sue frontiere esterne, paradossalmente oggi il suo punto debole, senza escludere la possibilità di trasferirle ben oltre i suoi confini. Come in Africa, dove vorrebbe creare nuovi centri nei quali identificare e smistare i migranti (altra ipotesi respinta al vertice maltese) o in Turchia dove la realizzazione di nuovi campi profughi potrebbe essere prossima. Una questione che verrà discussa il 29 novembre a Bruxelles in un vertice con Erdogan nel quale il presidente turco, forte del successo elettorale appena ottenuto, tornerà a chiedere la liberalizzazione dei visti e la ripresa del processo di adesione della Turchia all’Ue, insieme ai tre miliardi di euro già promessi da Bruxelles ma che ancora, come per il fondo destinato all’Africa, non ci sono. "L’Ue metterà a disposizione 500 milioni in due anni, ma gli Stati membri dovranno mettere gli altri 2,5 miliardi", ha ricordato ieri il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. Quanto sia però ancora tutto per aria, lo ha fatto capire chiaramente lo stesso Juncker nel vertice straordinario dei capi di Stato e di governo che si è tenuto sempre al La Valletta, ricordando come le operazioni di ricollocamento dei migrati stiano andando molto a rilento. I posti messi a disposizione dai paesi sono 3.246 su 160 mila, addirittura di meno rispetto al 6 novembre scorso quando erano 3.546. Mentre i ricollocamenti effettuati da Grecia e Italia sono stati appena 130. "Se si va avanti con questo ritmo si finisce nel 2101" ha detto Juncker, che non ha nascosto di sentirsi "del tutto insoddisfatto" per come stanno andando le cose. I pregiudizi e l’odio nei confronti di Israele di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 13 novembre 2015 Si colpisce l’ebreo come incarnazione del "sionista", dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Italia Speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. Un ebreo colpito da sei coltellate da un uomo incappucciato in periferia a Milano, davanti a una pizzeria kosher, è una notizia che sgomenta e allarma, anche in mancanza di particolari più circostanziati. Quella che viene definita l’Intifada dei coltelli, del resto, non prevede nella sua carica di odio distinzioni, distinguo: si colpisce l’ebreo come incarnazione del "sionista", dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Europa, del resto, sono stati colpiti supermercati kosher, scuole ebraiche, sinagoghe, luoghi di ritrovo, singoli ebrei braccati e assaliti per strada. In Italia, che pure ha conosciuto nel 1982 l’attentato di fronte al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita un bambino di due anni, speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. È ancora tutto da verificare quello che è accaduto ieri sera a Milano, la dinamica dell’aggressione, l’identità dell’attentatore, lo spunto da cui è partito l’agguato. Ma la comunità ebraica, e non solo quella di Milano, vive una sindrome terribile di paura. E l’Italia deve preoccuparsi, prendere atto che non esistono zone franche, soppesare le parole, capire che l’odio antiebraico, camuffato da odio antisionista, ha già provocato in Europa lutti atroci in questi ultimi anni. Un segnale, terribile, da non sottovalutare. Tutto questo avviene alla vigilia della visita in Italia del presidente iraniano Rouhani. Ogni accostamento con i fatti di Milano, beninteso, sarebbe arbitrario: chi lo sostenesse con leggerezza apparirebbe vittima di una furia propagandistica davvero irresponsabile. Eppure è da una parola carica di angoscia, "odio", che occorre partire per una riflessione che sia capace anche di inquadrare l’agguato all’ebreo accoltellato davanti a un ristorante kosher. Infatti il presidente iraniano Rouhani, nell’intervista esclusiva che ha concesso a Viviana Mazza e Paolo Valentino per il Corriere della Sera, ha detto, testualmente, di "amare l’ebraismo" e di rispettare le "religioni monoteiste". Un’apertura importante e significativa, quando anche in Europa gli ebrei vengono uccisi dai combattenti fondamentalisti dell’islamismo politico. Un’apertura tanto più importante perché può dare un segnale molto forte nella visita del presidente iraniano in Italia. Tuttavia c’è un "però" che raggela gli animi e torna a demonizzare l’esistenza stessa dello Stato di Israele proprio quando cittadini ebrei e israeliani sono colpiti dall’odio degli accoltellatori, dai militanti del terrore che non fanno distinzione tra "ebrei" e "sionisti". Il presidente iraniano dice di capire "l’odio" non per gli ebrei ma per lo Stato di Israele. Ma non si possono rispettare gli ebrei e odiare il fatto che gli ebrei abbiano un loro Stato: lo Stato di Israele è lo Stato degli ebrei, che la comunità internazionale ha sancito con una risoluzione dell’Onu. Ecco perché le parole di Rouhani, che pure sembrerebbero prendere le distanze dal pregiudizio antiebraico, ricadono nello stesso pregiudizio che ha sempre impedito e continuerà ad impedire la possibilità di una soluzione pacifica dei conflitti nel Medio Oriente. Quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano con Clinton che faceva da paciere, il riconoscimento reciproco sembrava sul punto di offrire una soluzione storica a una guerra interminabile. Perché il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele è la precondizione della pace, ed è la premessa necessaria affinché anche lo Stato di Israele non possa che imboccare la strada maestra dei "due popoli, due Stati". L’alternativa è un "odio" imperituro, l’antiebraismo che si camuffa con l’antisionismo, una guerra che non avrà mai fine. E i fatti come quello di Milano, che aprono interrogativi angosciosi e impongono a tutti di soppesare le parole e di cancellarne per sempre una: "odio". Quei piccoli passi per legalizzare le droghe di Roberto Saviano L’Espresso, 13 novembre 2015 I provvedimenti presi in Messico e negli Stati Uniti sono solo esperimenti. Ma servono ad aprire una discussione aperta, matura e senza pregiudizi. Chi è rimasto ad opporsi a un dibattito aperto sulla legalizzazione delle droghe? Perché? E con quali argomentazioni? Ho detto "dibattito aperto sulla legalizzazione" e non semplicemente o direttamente "legalizzazione", perché prima ancora di poter legiferare - o addirittura pensare di farlo - su un tema tanto complesso, c’è bisogno di avviare un dibattito maturo e scevro da condizionamenti e da giudizi personali. Si oppone al dibattito chi non ha consapevolezza dell’entità reale del mercato di stupefacenti. Chi ritiene ci sia un’altra strada per debellare il problema. Chi ritiene che parlarne non porti beneficio alla propria carriera (spesso politica). Chi interpreta i dati diffusi dalle forze dell’ordine sugli stupefacenti senza tener conto che spesso quelle cifre riguardano solo quantità di droga sequestrate e non quelle realmente prodotte e immesse sul mercato. Nelle ultime settimane si è molto discusso del no dell’Ohio all’Issue 3 che avrebbe legalizzato il possesso e la vendita controllata di marijuana, nonché la possibilità per ciascun adulto di poterne coltivare in proprio fino a 4 piante. Su questa proposta nutrivo dubbi, dal momento che solo dieci società si sarebbero occupate di coltivare cannabis e gestirne la commercializzazione. Sarebbe stato di fatto un nuovo monopolio di certo non criminale, ma che non avrebbe comportato la presa di coscienza istituzionale e collettiva sul consumo di marijuana. La legalizzazione risolve il problema della sua gestione mafiosa solo quando produzione e vendita vengono monitorate insieme ai ministeri della Sanità che potranno studiarne l’incidenza sulla salute pubblica. Si tratta di esperimenti, ecco quello che nessuno dice, ma di esperimenti necessari, perché quanto fatto sino a ora è stato inutile, controproducente, oneroso per la salute pubblica, gravoso per le carceri e ha di fatto alimentato le casse del narcotraffico mondiale. Affidare produzione e vendita a privati avrebbe di fatto deresponsabilizzato il settore pubblico e la legalizzazione sarebbe stata solo un affare per pochi e non una crescita per la collettività. Sul versante opposto, invece, la sentenza della Corte Suprema di Città del Messico che ha, con quattro voti su cinque, votato a favore del ricorso depositato dalla Smart (Società messicana di autoconsumo responsabile e tollerante) riconoscendo il diritto di seminare, coltivare e fumare cannabis, ma non la compravendita dei semi. E questo ultimo aspetto ha motivato l’unico voto contrario, ovvero l’illogicità di poter coltivare ma non acquistare i semi. Inutile fingere, tutto ciò che riguarda la legalizzazione delle droghe non segue e non può seguire un percorso lineare. Non può farlo perché i passi avanti sono conquiste, sono strappi. Sono lacerti di leggi rubati, troppo spesso grazie alla lungimiranza e all’intelligenza di singoli individui più che a una maturità reale del dibattito. Ma chi è favorevole non può che rallegrarsi anche di questi passi, benché piccoli e incerti, perché hanno il grande merito di stimolare riflessioni anche da parte di chi non è d’accordo. Quando leggo che è inutile legalizzare le droghe perché costituiscono solo uno dei numerosissimi ambiti di investimento delle organizzazioni criminali, a me viene da sorridere per l’ingenuità di questa affermazione. Certo che è una delle tante attività, ma è tra le più rischiose e quindi lucrative. Così come sorrido nel leggere che il clamore per i pochi successi del fronte antiproibizionista sarebbe immotivato, essendo la cannabis tra le sostanze meno consumate. L’assunto è: inutile legalizzare perché se diventa legale l’erba negli Stati Uniti (in Alaska, Colorado, Oregon e Washington a scopo ricreativo e in 23 Stati è liberalizzato l’uso a scopo terapeutico) i cartelli della droga virano su altre sostanze (eroina e droghe sintetiche). Ma poi vengono diffuse le stime del mercato della droga in Francia e dobbiamo arrenderci all’evidenza. La cifra annuale (anno 2010) si basa sulla domanda dei consumatori e non sui sequestri ed è di 2,3 miliardi di euro. Ogni francese spenderebbe ogni anno 36 euro in droga, soprattutto cannabis e cocaina. E quindi ecco che a liberalizzare la marijuana si farebbe un danno non irrilevante alle organizzazioni criminali. Ma questi sono dati, dirà qualcuno, non pensieri personali, quindi non verranno presi in considerazione. Romania: tra nuove droghe e ritorno dell’hiv di Tomaso Clavarino Corriere della Sera, 13 novembre 2015 Florin è sdraiato nel letto, le braccia esili, le gambe ridotte alle ossa. È attaccato ad un respiratore da un mese e per i medici dell’ospedale Victor Babes di Bucarest gli rimangono poche settimane di vita. Quello che lo sta uccidendo è un virus del quale in Europa si è smesso di parlare, un virus che sembra ormai una cosa lontana, un problema africano, asiatico, di certo non europeo. Florin ha contratto il virus dell’Hiv due anni fa, quando di anni ne aveva 15 e già da cinque viveva in mezzo alla strada, tra le case abbandonate e le fognature della città. Come Florin altre 25mila persone in Romania, la maggior parte delle quali nella capitale, sono affette da Hiv. "Si tratta di una vera e propria epidemia, un’epidemia che, in piena Europa, sta uccidendo migliaia di persone nel silenzio generale" afferma Dan Popescu, dell’ong Aras, impegnata nell’assistenza ai gruppi di persone più vulnerabili, come tossicodipendenti, prostitute, omosessuali. Ed proprio tra questi gruppi che l’Hiv sta dilagando: nel 2007 tra i tossicodipendenti la percentuale di persone infette era del 1%, nel 2012 del 53%. Ma a cosa è dovuta questa epidemia che, in un Paese dell’Unione Europea, pare difficile da frenare? "I motivi sono principalmente due - spiega il dottor Adrian Abagiu dell’ospedale Matei Bals. In primis con l’ingresso nell’Unione Europea il Global Fund ha tagliato i fondi per la lotta e la prevenzione dell’Hiv in particolar modo quelli relativi ai programmi di riduzione del danno. A questo si è poi andato a sommare il boom, a partire dal 2009, delle cosiddette "legal highs" che costando meno ed essendo facilmente reperibili, oltre che legali per alcuni anni, hanno contribuito ad aumentare il numero di tossicodipendenti che, con queste nuove droghe da laboratorio, arrivano a iniettarsi in vena anche venti, trenta, volte al giorno, elevando in maniera esponenziale il rischio di contrarre malattie infettive come l’HIV". Florin viveva in quella che è chiamata la comunità di Gara de Nord, un centinaio di persone, di ogni età e sesso, senza una casa, senza un lavoro, senza nulla, che hanno trovato un rifugio attorno alla stazione principale di Bucarest. D’inverno per ripararsi dal freddo dormono nelle fogne, d’estate salgono in superficie. Come zombie si aggirano per le strade e i parchi, mendicano nei parcheggi, racimolano il necessario per acquistare una dose e poi corrono verso le loro abitazioni improvvisate, come l’ultima che si sono costruiti: un piccolo edificio di mattoni tirato su in quattro e quattr’otto dietro l’ospedale che guarda la stazione. Lì, tra letti a castello e bombole di gas, dormono, mangiano, si drogano. In continuazione. È una sorta di stanza del buco, con l’aria impregnata di odore di colla, che sniffano i più piccoli, e il pavimento ricoperto di siringhe. A guidare questa comunità (fino al momento del suo arresto nel luglio 2015 per spaccio) un personaggio tanto carismatico quanto ambiguo: Bruce Lee. Così si fa chiamare questo uomo sulla quarantina che gira con un coltello lungo 30 cm nella cintura, moschettoni e chiavi attaccate al giubbotto e una colla argentata nei capelli. "Sto cercando di aiutare queste persone, dar loro una casa - racconta Bruce Lee. Perché come loro anche io non ho e non ho mai avuto niente". Delle droghe non parla, men che meno delle malattie che infestano questo edificio. Tubercolosi, epatite C, qui tutti, o quasi, sono ammalati. Secondo gli operatori di Aras che tre volte alla settimana, di notte, con un’ambulanza, portano a queste persone siringhe nuove e preservativi per cercare di rallentare i contagi, l’Hiv in questa comunità raggiunge l’80%. "Sono nato in un orfanotrofio, ho subito violenze, a dodici anni sono scappato. La strada è la mia casa, la droga l’unico passatempo che ho. È un modo per distrarmi, per dimenticare" racconta Nico, 17anni, anche lui Hiv positivo, sniffando colla da un sacchetto nero. Per le istituzioni di un Paese che sta vivendo una crisi economica profonda dopo l’ingresso nell’Unione Europea questi disperati, molti dei quali figli della caduta del regime di Ceausescu, sono un problema da nascondere. Ad occuparsi di loro, qualche associazione e una donna coraggiosa: Raluca Pahomi. Bionda, rispettata da tutti, ha deciso quattro anni fa di prendersi cura dei senzatetto di Bucarest. Gli porta da mangiare, li aiuta nelle pratiche burocratiche, li ospita. "È una situazione scandalosa, questa gente sta morendo per strada nell’indifferenza di tutti. L’Hiv cresce, il numero di tossicodipendenti pure. Tubercolosi ed Epatite C sono esplose negli ultimi anni, e tutta questa gente, e si tratta di decine di migliaia di persone, non ha diritto a nulla, non ha diritto all’assistenza sanitaria, nemmeno a una morte umana". Raluca ha chiesto di poter seppellire Florin quando spirerà, le hanno risposto di no. I malati di Hiv subiscono ancora stigma e discriminazione in Romania, relegati ai margini della società da governi e istituzioni che non capiscono quanto invece l’inclusione sociale e la prevenzione siano le uniche soluzioni per provare a frenare il dilagare di quest’epidemia. Un’epidemia che non si vede nelle strade del centro di Bucarest, tra locali, negozi e bei ristoranti, ma che si percepisce quando si cammina per le vie di Ferentari, uno dei più grandi ghetti della capitale, a maggioranza Rom. Qui le ville pacchiane e sfarzose di chi ha fatto i soldi si alternano a squallidi condominii, grigi, scrostati, sporchi. I tossicodipendenti escono fuori dagli angoli appena l’ambulanza di Aras arriva. Decine di persone si accalcano attorno al mezzo in cerca di siringhe pulite. C’è chi arriva con secchielli di siringhe usate, così da farsene dare in cambio di più, di pulite. La droga, così come l’Hiv, l’Aids e la Tubercolosi, non guardano in faccia nessuno da queste parti. Dilagano nei periodi di crisi, dove gli ultimi sono sempre più ultimi. L’austerità europea e l’indifferenza del governo di Victor Ponta rischiano di contribuire a rovinare un’intera generazione: la Romania è infatti prima in Europa per nuove diagnosi di Hiv nella fascia di età tra i 19 e i 24 anni, il 25 %. In Italia, per dire, siamo attorno al 6%. Non c’è età per essere infettati e, spesso, morire. Il centro di distribuzione di metadone dell’ospedale Matei Balsc riceve mediamente duecento, trecento, persone al giorno, per lo più giovani. Così come giovani sono Romeo, Nomi, Mona, Santo. Non hanno più di 20 anni, vagano nelle notti di Bucarest sniffando colla e iniettandosi "legal highs". A Santo hanno dato poco più di un mese di vita, è Hiv positivo da tre anni. Potrebbe essere curato, come molti dei suoi amici, e vivere. Ma la sua condizione di senza fissa dimora, la sua vita ai margini e i pregiudizi della società romena e delle istituzioni, l’hanno condannato a una fine prematura. "Quando il Global Fund ha tagliato i finanziamenti alla Romania perché eravamo entrati nell’Unione Europea il governo avrebbe dovuto alzare la voce per dire che la minaccia dell’Hiv non era scomparsa - afferma ancora Dan Popescu - E così sono bastati una crisi economica e l’avvento di droghe da laboratorio, molte delle quali legali per anni e acquistabili in negozio, per far precipitare la situazione. Gli studi dimostrano come il lavoro di riduzione del danno sia un’arma molto efficace per contrastare il dilagare dell’HIV, ma i politici sembrano non capirlo. Meglio tenere nascosta la cosa, non parlarne, finanziare altro con i soldi a disposizione". Tanto a morire sono gli ultimi, sempre. Anche in Europa, anche nel 2015. Cina: rapporto di Amnesty International denuncia torture sistematiche sui detenuti di Ilaria Maria Sala La Stampa, 13 novembre 2015 Il rapporto arriva a pochi giorni dalla riunione del Comitato Onu. A Hong Kong è un mistero la scomparsa di quattro editori "scomodi". "Non si vede la fine". Il nuovo rapporto di Amnesty International sulla tortura in Cina non lascia spazio all’ottimismo per i progressi in materia di diritti dei detenuti. La giustizia è stata riformata e dal 2010 è proibito ottenere confessioni con la tortura. Ma Amnesty International fotografa un sistema che prevede interrogatori violenti, brutali, dove la tortura viene applicata indiscriminatamente, "che si tratti di credenti religiosi, o di funzionari corrotti", dice Patrick Poon, ricercatore del gruppo per i diritti umani. Gli avvocati nel mirino Amnesty documenta che oggi le persone a maggior rischio di subire tortura sono gli avvocati che accettano di occuparsi di casi considerati "delicati" o "sensibili", parole usate in Cina per i casi politici. Il rapporto illustra la terribile vicenda di Yu Wensheng, un avvocato di Pechino sottoposto a 200 "interrogatori," durante i 99 giorni della sua detenzione. Yu, che aveva già difeso alcuni attivisti, era stato poi arrestato per aver espresso online il suo sostegno al Movimento degli Ombrelli durante le manifestazioni di Hong Kong. Amnesty ha intervistato 37 avvocati e studiato 590 sentenze, per arrivare alla conclusione che, malgrado i progressi legislativi, le confessioni sono "ancora considerate il modo più semplice per ottenere una condanna". Il rapporto è stato preparato alla vigilia della riunione a Ginevra del Comitato Onu contro la tortura, nel corso del quale anche la Cina sarà sottoposta ad un esame di routine. Il Comitato si espresso sulla Cina nel 2008, non risparmiando le critiche. Quest’anno si recheranno a Ginevra anche alcuni attivisti di Hong Kong, che vogliono denunciare il trattamento subito dalla polizia locale durante gli scontri dell’anno scorso. Guerra agli intellettuali Ma fonte d’inquietudine è anche la sorte di quattro editori e librai di Hong Kong, scomparsi da quasi un mese. I quattro pubblicano volumi critici verso Pechino che si concentrano in particolare sugli scandali, veri o presunti, dell’"aristocrazia rossa" cinese. "Per questo si sono attirati l’odio dei "principi comunisti", la seconda generazione di leader figli di importanti rivoluzionari. La scomparsa dei quattro editori sta causando sgomento a Hong Kong. Non sono chiare le dinamiche della loro sparizione: di tre si sono perse le tracce in Cina, mentre Gui Haiming, direttore della libreria Tonglowan e della casa editrice Corrente Poderosa, sembra essere stato rapito in Tailandia", dice un editore di Hong Kong che preferisce restare anonimo. La casa editrice si è specializzata negli anni nella pubblicazione di libri scritti dalle amanti dei potenti cinesi. La scomparsa di tutti e quattro arriva proprio due giorni dopo una email di Gui dove si avverte che "il nuovo libro è pronto per la stampa". La stampa di Hong Kong si è mobilitata per fare luce sull’accaduto, ma per il momento la sorte dei quattro resta un mistero. Eritrea: 400mila persone in fuga da Afewerki, il dittatore amico dell’Ue di Roberto Lessio e Marco Omizzolo Il manifesto, 13 novembre 2015 Un eritreo su sei ha lasciato il paese per sfuggire al regime. Che piace all’Europa e all’Italia. Delle 368 persone che morirono nella strage di Lampedusa il 3 ottobre di due anni fa, 360 erano eritrei, gli altri 8 erano etiopi. Da quella strage, sotto la spinta dell’indignazione popolare, partì l’operazione Mare Nostrum che porterà agli attuali accordi europei. In tanti però non vollero indagare le ragioni per cui quelle persone fuggivano da quella zona del continente africano. Tra questi c’è il governo Renzi, che nell’estate dello scorso anno inviò l’allora viceministro degli Affari Esteri Lapo Pistelli (oggi vicepresidente senior dell’Eni) in Eritrea per "favorire il reinserimento nella comunità internazionale". Il risultato è che oltre il 25 per cento dei richiedenti asilo arrivati in Italia nei primi nove mesi del 2015 proviene da questo paese. Rispetto al 2014 si registra un incremento di quasi 3 punti, mentre le stime di varie organizzazioni (Unhcr e Oim in primis) parlano di una media di almeno 5 mila fughe al mese. Un’odissea che ha pochi eguali al mondo, legata alle condizioni in cui gli eritrei sono costretti a vivere, servi di un regime dittatoriale. Il dittatore è Isaias Afewerki: colui che ha dato ordine di sparare a vista contro chiunque tenti di varcare la frontiera per emigrare. Sinora quasi 400 mila eritrei su una popolazione che non arriva a sei milioni ha preferito sfidare il deserto, i trafficanti di uomini e di organi, le violenze, i ricatti delle organizzazioni criminali e il rischio di morire affogati in mare piuttosto che continuare a vivere in quell’inferno. Se ai 400 mila profughi aggiungiamo quelli della prima diaspora, si scopre che vive all’estero un eritreo su sei. Il paese sta perdendo intere generazioni, come ha denunciato anche la coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi in Eritrea in occasione della Pasqua 2014. È una sorta di lenta condanna a morte causata da una specie di omicidio-suicidio. Come cerca di evidenziare il saggio di Emilio Drudi "Ciò che mi spezza il cuore", pubblicato nel volume "Migranti e Territori" (Ediesse, 2015), i responsabili di questa tragedia sono in parte gli stessi esponenti della nuova classe dirigente uscita dalla guerra di liberazione vinta nel 1991 contro l’Etiopia e che, con la proclamazione ufficiale dell’indipendenza nel 1993, aveva generato speranze per l’intero continente africano. Il recente rapporto della Commissione Onu del 2015 sui diritti umani non lascia spazio a dubbi. Il paese vive sotto un regime di terrore, violenza e violazione costante dei diritti umani caratterizzato da arresti illegali, pestaggi, torture, detenzioni abusive senza alcuna accusa specifica da cui potersi difendere, sequestri e uccisioni. In poche parole, uno stato-prigione con ben 361 tra carceri e centri di detenzione di vario tipo. Il Lazio, con lo stesso numero di abitanti, ne ha 12 in tutto. Per questo la stessa Onu definisce l’Eritrea come "la Corea del Nord dell’Africa". A fuggire sono soprattutto i giovani, spesso minorenni, ai quali, come afferma Drudi, la dittatura "ruba la vita, costringendoli in armi o al lavoro obbligatorio con un servizio di leva che dura decenni". La nuova strategia dell’Ue e dell’Italia per gestire i flussi migratori è quella di esternalizzare i propri confini per trattenere con ogni mezzo i richiedenti asilo nei paesi di transito e ricorrere ai militari locali per impedire i passaggi dei disperati verso i paesi del Nord. Una prova terribile si è avuta alla fine di settembre 2014, quando tredici adolescenti tra i 12 e i 18 anni sono stati trucidati a fucilate a un posto di confine con il Sudan e fatti sparire in una fossa comune. Ne scrisse solo il manifesto. Delitti già noti quando, sulla scia della firma del Processo di Khartoum dell’ottobre del 2014, arrivò l’impegno del Fondo europeo per lo sviluppo a stanziare 312 milioni di euro in favore del regime di Asmara (2,5 milioni solo dall’Italia). È la riproposizione della vecchia politica del "dittatore amico" per tutelare interessi economici o geostrategici che, in questo caso, comprendono il problema dell’emigrazione dal Corno d’Africa verso l’Unione. Roma e Bruxelles giustificano questa scelta citando le "promesse di cambiamento" formulate dal regime. Promesse però senza impegni precisi e vincolanti e, soprattutto, senza che l’Ue abbia posto alcuna chiara condizione irrinunciabile. Ad esempio, l’attuazione della Costituzione democratica varata nel ‘97 e mai entrata in vigore, libere elezioni, la liberazione dei prigionieri politici, il ristabilimento del ruolo del Parlamento. Niente più che una finzione appare anche l’altro argomento addotto da Italia e Ue: l’impegno di istituire in Africa centri di raccolta per i profughi, sotto l’egida Unhcr, dove si potranno presentare le richieste di asilo. Non è chiaro, infatti, chi garantirà sicurezza e condizioni di vita dignitose in queste strutture. "Campi di questo genere sotto la bandiera Unhcr", rileva don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, già candidato al Premio Nobel per la Pace, "in realtà già esistono, tra gli altri, in Sudan. Ma le forze di polizia che dovrebbero garantirne la protezione e la sicurezza sono spesso colluse con i clan che gestiscono il traffico di uomini verso la Libia e l’Europa o con le bande che sequestrano i profughi, sottoponendoli ad ogni genere di torture e pretendendo poi riscatti enormi per rilasciarli". Spagna: 198 detenuti sorvegliati per evitare che la jihad recluti nelle carceri spagnole Nova, 13 novembre 2015 Uno strumento che si sta rivelando sempre più efficace in Spagna nella lotta contro il terrorismo jihadista - scrive il quotidiano spagnolo "Abc" - è il cosiddetto "Programma di intervento con il ministero dell’Interno nei penitenziari": un piano ambizioso per prevenire che le carceri continuino ad essere un luogo di reclutamento di futuri jihadisti. Dal carcere, infatti, i leader delle reti jihadiste detenuti sono riusciti persino a pianificazione attentati, fortunatamente sventati dalle forze di sicurezza spagnole. Risulta che diverse persone, in particolare quelle provenienti da paesi musulmani, finite in carcere per reati comuni come traffico di droga o furto, siano cadute proprio durante il loro periodo di detenzione nella rete del jihadismo. Una volta tornati in libertà, questi soggetti erano "immersi in processo di radicalizzazione estrema", trasformati in terroristi pronti ad azioni violente. Il Programma mira a monitorare e controllare sia i reclutatori sia i soggetti a rischio di indottrinamento. Stati Uniti: crowdfunding per una start-up che trasforma gli ex detenuti in imprenditori socialeconomy.it, 13 novembre 2015 L’articolo 27 della Costituzione italiana enuncia "Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato". Nella pratica è risaputo, invece, di quanta diffidenza ci sia nella società civile nei confronti di coloro che hanno trascorso un periodo in galera che, quindi, spesso non avendo la possibilità di ricostruirsi una vita nella totale legalità e finiscono per commettere nuovi reati. La recidiva secondo alcuni dati negli Stati Uniti è molto alta: il 67% delle persone che escono da un carcere vengono riarrestate nei successivi 36 mesi. Per cercare di andare contro questa triste tendenza Tommy Safian e Cisco Pinedo hanno fondato Refoundry, una società statunitense che dopo un anno di formazione e di business planning concede agli ex carcerati un finanziamento per lanciare un’attività imprenditoriale che a sua volta destinerà parte dei ricavi a finanziare un’altra nuova impresa costituita da altri ex galeotti. L’idea è, quindi, quella di cercare di creare una catena, in grado di autosostenersi, che promuova il reinserimento sociale, che non può che passare dal lavoro, degli ex detenuti. Il beneficio che Refounfry vuole produrre a vantaggio della collettività è plurimo: maggiore sicurezza ma anche cercare di far diminuire la spesa pubblica assorbita dal sistema penitenziario che annualmente drena parecchi denari pubblici: è stato calcolato che solo a New York City ogni carcerato costa alla collettività 167 mila US$. Adesso Refoundry ha lanciato una campagna di crowdfunding, il finanziamento collettivo della sharing economy, con l’obiettivo di raccogliere 45 mila US dollari, per completare i primi progetti di rinserimento. Al momento quando mancano due giorni alla conclusione della raccolta fondi i promotori, tramite Kickstarter, hanno già centrato il target di raccolta incamerando quasi US$ 50 mila.