Detenuto ucciso: 22 anni dopo spunta l’ombra della vendetta di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 12 novembre 2015 Gli investigatori cercano una relazione con il duplice tentato omicidio del 1993. L’assassino potrebbe aver agito con l’aiuto di un basista interno alla comunità. A volte il passato torna a cercarti anche se la tua vita è cambiata. Ti butti alle spalle i trascorsi da criminale, decidi di vivere il carcere come un’occasione per rimediare agli errori, diventi un punto di riferimento per educatori, preti e detenuti in semilibertà. Ma il passato che torna può ricordarti ciò che eri. Antonio Floris, sessantunenne, detenuto sardo giunto quasi alla fine dei suoi 16 anni di galera per un duplice tentato omicidio, potrebbe aver pagato con la vita l’incontro con il passato. Gli investigatori della Squadra mobile di Padova stanno battendo la cosiddetta "pista sarda", quella della vendetta. Perché per uccidere un uomo a bastonate in quel modo bisogna odiarlo in modo viscerale. Vendetta 22 anni dopo. 25 ottobre 1993 - 6 novembre 2015. Il 25 ottobre di 22 anni fa un ex operaio forestale, Giuseppe Casula e la moglie Adriana Lai, sfuggirono miracolosamente all’agguato tesogli dinanzi al cancello d’ingresso della loro azienda agricola. A sparare le fucilate contro l’auto dei due coniugi era Antonio Floris, all’epoca latitante. Il motivo? La coppia che lo aveva invitato a lasciare il podere di loro proprietà nel quale il bandito si era nascosto per sfuggire alle forze dell’ordine. Un proiettile raggiunse Casula mentre la moglie rimase miracolosamente illesa. Cinque anni dopo, a novembre 1998, alla vigilia dell’apertura del processo, ai coniugi Casula venne spedita una lettera minatoria da Scandicci, centro della Toscana non lontano delle carceri dove all’epoca si trovava rinchiuso proprio Antonio Floris. In questo caso torna la ricorrenza del mese di novembre. Nel corso del processo emerse poi un altro particolare inquietante: la mattina dell’agguato la cognata dei Casula ricevette un biglietto anonimo dal testo eloquente: "Condoglianze". Il delitto del detenuto che stava cominciando ad assaporare la semilibertà potrebbe essere l’epilogo di una faida che ha avuto origine in terra sarda. Gli investigatori della Squadra mobile stanno incrociando date e ricorrenze per trovare una corrispondenza. Un basista all’Oasi. Tuttavia ci sono molti particolari che fanno pensare a un "basista" nel centro di recupero dei Padri Mercedari di Chiesanuova. Una persona che ha informato in modo puntuale l’assassino fornendogli tutte le indicazioni sullo stile di vita di Floris, aiutandolo poi a pulire le tracce e a nascondere il cadavere. Sì, perché l’Antonio Floris di oggi, detenuto modello del Due Palazzi e punto di riferimento della piccola comunità religiosa, era un uomo molto abitudinario. Arrivata sempre alla stessa ora e se ne andava sempre alla stessa ora per raggiungere il carcere la sera. Si muoveva in bici e la parcheggiava sempre nello stesso posto, all’interno di un capanno eretto vicino agli orti, tra le cataste di legna e l’albero dei cachi. Quella rimessa per attrezzi era roba sua. E chi l’ha ucciso lo sapeva. Gli indizi. Antonio Floris è stato ucciso a bastonate. L’assassino l’ha colpito prima alla nuca e poi ha continuato a infierire alla testa con altri tre o quattro colpi. Ha utilizzato un bastone di legno o forse un tubo Innocenti. Il detenuto sessantunenne ha tentato di difendersi alzando il braccio destro e in quel frangente ha perso l’orologio che aveva al polso. L’assassino, con il buio della sera, è riuscito a trascinare il cadavere per una ventina di metri, nascondendolo sotto una catasta di legna in aperta campagna. Poi è tornato sul luogo del delitto. Nella rimessa per attrezzi non c’è corrente elettrica e quindi nemmeno illuminazione. Nonostante questo è riuscito a trovare la pompa dell’acqua e con questa ha provato a cancellare le tracce di sangue rimaste a terra. Il tutto con estrema calma, senza timore di essere scoperto da qualcuno. Francamente troppo per una persona sola carica d’odio che viene dalla Sardegna per regolare i conti. Giustizia: il potere "mite" di una Procura forte di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Che giustizia è quella che fa pendere la bilancia dalla parte di una rosa invece che di un voluminoso Codice? È una giustizia "mite", si potrebbe rispondere parafrasando Gustavo Zagrebelsky e il suo famoso libro "Il diritto mite". È una giustizia "con l’anima", direbbe Piero Calamandrei, che quella bilancia apparentemente sbilenca volle sulla copertina del suo "Elogio dei giudici scritto da un avvocato", pubblicato nel 1959, e che anche Edmondo Bruti Liberati ha voluto ieri per sintetizzare il senso del suo ultimo "Bilancio sociale e di responsabilità" della Procura di Milano. Ufficio dalle radici solide e lontane, da sempre in prima linea contro terrorismo e corruzione, simbolo della lotta alla legalità con Mani pulite, bersaglio dei neo-garantisti politici del ventennio berlusconiano, la Procura che Bruti lascia dopo cinque anni, e che traspare dal suo rendiconto ai cittadini, è una "Procura forte" proprio grazie al suo "potere mite". Che non è sinonimo di rinuncia, mediocrità, rassegnazione ma, per dirla con Zagrebelsky, di "maggiore pienezza" - in questo caso di un potere diffuso - che esige "atteggiamenti moderati ma positivi e costruttivi". Le Procure della Repubblica, titolari dell’azione penale, devono essere garanti della mite coesistenza di "valori". Quelli indicati da Bruti, nel chiudere la sua esperienza a Milano e 45 anni in magistratura: indipendenza e imparzialità; rispetto delle regole e senso di giustizia per difendere gli interessi della collettività; rispetto della dignità della persona; etica professionale per assicurare una corretta attività di indagine e amministrativa; rigorosa osservanza delle procedure e delle garanzie difensive; tutela delle vittime e delle fasce deboli; impegno, dedizione e responsabilità; utilizzo efficiente delle risorse; controllo e razionalizzazione della spesa; leale collaborazione con le altre istituzioni; trasparenza e informazione chiara e accessibile sull’organizzazione; tutela rigorosa del segreto delle indagini; rispetto del ruolo dell’informazione. È nel saper "tenere insieme" tutto questo la chiave di una giustizia mite (e perciò forte), non certo della popolarità o del successo, che è invece spesso l’obiettivo di una giustizia muscolare e spettacolare ma inefficace. Così come, del resto, la chiave di un esercizio autorevole del "potere mite" è nella "responsabilità", terreno ancora troppo poco frequentato da chi il potere lo rivendica, dentro e fuori gli schemi gerarchici, più come status che come servizio e costume giudiziario. Se la riforma del 2006 ha dato agli uffici di Procura una fisionomia più gerarchica del passato - vissuta dalla magistratura come una gabbia per i rischi dell’accentramento del potere in capo a pochi - è anche vero che da quella gabbia non si esce neppure modificando la legge se non cresce la consapevolezza che il potere non è prova muscolare ma mitezza, costume giudiziario che vivifica i valori dello Stato democratico di diritto, richiamo costante alla responsabilità di chi lo esercita. È anche grazie a questa visione (del potere e della relativa responsabilità) che Bruti è uscito dalla palude dello scontro con l’Aggiunto Alfredo Robledo e che oggi può consegnare al suo successore un ufficio più forte ed efficiente, nonostante la penuria di risorse e l’inadeguatezza di strumenti normativi. Un Ufficio che non fa del carcere la leva su cui agire né in via cautelare né nel processo né nell’esecuzione della pena (caso Sallusti e circolari sulle misure alternative alla detenzione); che rifugge dalla spettacolarizzazione delle manette; che non va a caccia di notizie di reato ma, anche grazie al monitoraggio di situazioni a rischio, le valuta e imbastisce indagini su prove il più possibile rigorose; che va a giudizio in tempi rapidi e nel giudizio trova un’ampia conferma del proprio operato (come nel processo Infinito, durato 4 anni fino alla Cassazione); che doverosamente "sceglie" tra tutte le strategia e gli strumenti offerti dalla legge, anche per mettere le altre articolazioni dello Stato in condizione di adottare tempestivamente le misure di cui dispongono (com’è avvenuto con Expo). Non un Ufficio infallibile, ovviamente, ma che, come tutti, conosce anche sconfitte. La più bruciante, forse, nel processo Ruby all’ex premier Silvio Berlusconi, finito con un’assoluzione perché il fatto non costituiva reato. Un epilogo nient’affatto scontato per un indagine doverosamente iniziata in base agli elementi raccolti e alle norme all’epoca vigenti, e che certo non è stato impermeabile - come ben risulta dalla sentenza d’appello - alle modifiche legislative approvate strada facendo, anche se la Cassazione ha voluto mettere una sordina assai poco convincente. Quell’epilogo è stato accolto da Bruti e dalla sua Procura con senso istituzionale, senza polemiche, lasciando alla storia il compito di stabilire, al di là delle responsabilità penali, se quella vicenda giudiziaria/politica/istituzionale sia stata realmente una sconfitta. Giustizia: Bruti Liberati "urgente riformare il processo penale" di Angelo Mincuzzi Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Rivendica con orgoglio i successi della procura di Milano ma chiede con fermezza un "intervento riformatore sul processo penale" per evitare la "paralisi", perché il "punto limite" è stato ormai raggiunto. A quattro giorni dalla pensione, il procuratore della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati, tira le somme di un anno di attività illustrando il Bilancio di responsabilità sociale 2014-2015 della procura. E lo fa davanti al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in un luogo simbolico come l’aula magna Emilio Alessandrini-Guido Galli del Tribunale, in un incontro che è anche un bilancio del suo quinquennio alla guida dei magistrati milanesi. Il procuratore pone l’accento sul primo punto di quello che definisce "il catalogo delle indispensabili riforme strutturali" della giustizia, e cioè la prescrizione, per la quale chiede un "radicale intervento sulle attuali regole che troppo spesso vanificano, addirittura in appello o in cassazione, il faticoso risultato raggiunto con indagini complesse e dispendiose, anche per reati di grave allarme sociale come la corruzione". Non esiste paese al mondo dove questo accada: "l’Italia è un unicum". Il punto dolente "è la drammatica situazione di scopertura del personale amministrativo, che non ha paragone in alcuna altra grande sede giudiziaria - scandisce Bruti Liberati. Occorre dire con chiarezza che la gestione della procura di Milano rischia concretamente la paralisi". Il procuratore sottolinea come il personale amministrativo "preveda 379 unità, mentre in servizio ce ne sono 295". La carenza si attesta così al 22%, superiore alla media nazionale del 18,50%. Gli risponde il ministro della Giustizia Orlando che ricorda come entro 12 mesi il Governo dimezzerà la carenza di organici nel sistema giudiziario, che è attualmente di ottomila unità. La mancanza di personale - è il punto di orgoglio di Bruti Liberati - non ha impedito alla procura di smaltire quasi il 100% dei nuovi procedimenti aperti, il cui numero si attesta a oltre 120mila all’anno in media nell’ultimo quinquennio. Sulle polemiche che hanno sfiorato le indagini sull’Expo, Bruti Liberati rivendica la rapidità con la quale la procura ha agito, consentendo alla struttura di Expo 2015 "di adottare tempestivamente i provvedimenti per la sostituzione dei manager colpiti dalla misura cautelare". La vicenda, aggiunge, "può suggerire qualche riflessione sul tema del rapporto tra iniziative giudiziarie ed attività economica e tra magistratura ed altre istituzioni dello Stato. I tempi della giustizia non sono i tempi dell’economia e delle attività imprenditoriali, ma la giustizia può cercare di adottare tutte le misure organizzative affinché questa distanza si riduca". Le indagini, ha poi sottolineato, "sono proseguite checché se ne dica. Noi non ci siamo fermati". Tra i meriti rivendicati da Bruti Liberati ci sono anche gli oltre 3,6 miliardi incassati dal Fisco tra il 2010 e il 2014 grazie alle indagini su "posizioni correlate a denunzie per frode fiscale, dichiarazione infedele e omessa dichiarazione". Ma anche in questo caso non mancano criticità legate alla "recente approvazione di diversi decreti delegati che hanno introdotto alcune importanti decrimininalizzazioni nonché la depenalizzazione del cosiddetto "abuso del diritto"" e ai "dubbi irrisolti sulla perseguibilità del sostituto d’imposta". Tutto ciò rende quest’anno impossibile giudicare i flussi e i numeri dei reati fiscali: "Le nuove norme, tra cui la depenalizzazione dell’abuso del diritto, hanno portato infatti a formulare richieste di archiviazione per 1.178 procedimenti". Altro nodo rilevante è la penetrazione della ‘ndrangheta. In Lombardia, rileva Bruti Liberati, si è manifestata "una sorta di colonizzazione al contrario, dove una sottocultura criminosa ha la meglio in aree altamente industrializzate". Apprezzamenti per i risultati della procura sono stati espressi anche dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Remo Danovi, e dal Rettore del Politecnico, Giovanni Azzone, mentre il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha ringraziato Bruti Liberati per le sue innovazioni. Giustizia: la svolta che manca nell’intreccio malato fra politica e magistratura di Carlo Nordio Il Messaggero, 12 novembre 2015 La vicenda che coinvolge il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca esprime, ancora una volta, le due malattie mortali che affliggono il nostro Stato cosiddetto di diritto: la segretezza delle indagini giudiziarie e la contaminazione strumentale tra giustizia e politica. Prima questione. Le notizie sull’inchiesta che rischia di travolgere la Regione Campana sono tanto frammentarie quanto ambigue. I reati addebitati ai protagonisti sarebbero la corruzione e la concussione per induzione. Non sono esattamente la stessa cosa, anzi tecnicamente sono ipotesi incompatibili. Nel primo caso corruttore e corrotto si accordano tra loro. Nel secondo il concusso è comunque vittima di una sopraffazione altrui. E infatti il presidente De Luca, pur proclamandosi innocente ed estraneo ai fatti, si è dichiarato parte offesa. Se questo fosse vero, sorgerebbe peraltro legittima la domanda: perché non ha denunciato subito il sopruso? Ma, ripetiamo, tutto questo è dubitativo, perché i processi si fanno sugli atti, e gli atti sono segreti. Ancor più segrete dovrebbero essere le intercettazioni delle conversazioni che, nel caso presente non figurano in alcun provvedimento formale. E invece gli uni e le altre, vere o fasulle che siano, sono già state opportunamente divulgate. E questo ci porta alla seconda questione. Che la politica, quando è incapace di risolvere i propri conflitti attraverso gli strumenti ordinari del dibattito e del confronto, si avvale delle inchieste per eliminare gli avversari. Talvolta lo fa in piena legittimità, come quando invoca le leggi vigenti che vietano l’eleggibilità o la permanenza in carica di persone condannate. Ma sempre più spesso lo fa in modo subdolo e sleale, valendosi di notizie trafugate dagli atti segreti di indagini in corso. E attraverso la micidiale combinazione (ill)logica della equivalenza tra la figura dell’indagato, del condannato e dell’indegno, mira a estromettere dalle competizioni, o dagli uffici, anche chi è raggiunto da una semplice informazione di garanzia. Atto che, come dice la parola stessa, è o dovrebbe essere a tutela di chi lo riceve. Questa perversione etica e giuridica dimostra, nel caso di specie, tutta la sua carica distruttiva. Perché da un lato impone all’indagato dei chiarimenti immediati: come s’è detto, sarebbe singolare che un presidente non comunicasse subito alla magistratura una tentata concussione. Ma dall’altro espone la stessa persona a una preventiva aggressione mediatica, fondata su notizie ufficiose, che ne indebolisce la legittimazione politica e la stessa capacità difensiva. L’interrogatorio davanti a un procuratore è geneticamente vulnerato quando è preceduto da uno stillicidio di indizi ipotetici. Tutto questo, indipendentemente dalla vicenda di Napoli, dovrebbe farci riflettere sulla necessità di una completa revisione culturale sui rapporti tra politica e giustizia. A cominciare dalla figura dell’"indagato", che non essendo imputato né condannato, giace in un limbo limaccioso alla mercé del primo motivato moralizzatore. E via via, fino all’ignobile diffusione pilotata delle intercettazioni, che ancora un volta ha devastato gli elementari diritti costituzionali. È una riforma tanto radicale quanto urgente, alla quale si risponde con la petulante litania che sì, qualcosa non funziona ma non si può gettar via il bambino con l’acqua sporca. Al che è facile replicare che se il pargoletto è morto non resta che dargli pietosa sepoltura. Giustizia: mafia, niente più parenti e "commensali" dei giudici nelle aziende sequestrate di A. Bas. Il Messaggero, 12 novembre 2015 Su beni sequestrati alla criminalità organizzata si cambia. La Camera ieri ha approvato in prima lettura il nuovo codice anti- mafia, un testo nel quale sono state inserite una serie di norme ribattezzate "anti-Saguto", dal nome del magistrato siciliano accusato di aver gestito i beni sequestrati alle cosche come un affare di famiglia. Le nuove regole prevedono che gli amministratori giudiziari incaricati dai magistrati di gestire i beni, non possano avere rapporti di parentela fino a quarto grado con i giudici stessi. E non potranno nemmeno essere assegnate aziende da gestire a "conviventi e commensali abituali" dei magistrati. Un limite che vale non solo per gli amministratori, ma anche per i coadiutori e i consulenti. Un emendamento approvato alla Camera ha fatto infuocare particolarmente il clima tra maggioranza e opposizione. Si tratta della norma che consente di nominare come gestori dei beni sottratti alla mafia anche dipendenti di Invitalia, l’Agenzia per l’attrazione degli investimenti nel Sud. "È un carrozzone di soliti noti, una macchina mangiasoldi che ha avuto tanti problemi con la giustizia, indagini in tutta Italia e processi, oltre a problemi di contabilità con la Corte dei conti proprio sulla tenuta dei bilanci", hanno protestato i deputati del Movimento Cinque Stelle. Ai quali va comunque dato atto di aver portato a casa la norma anti- Saguto, proposta proprio dai grillini. Le altre novità. Un altro comma ritenuto importante, è quello che limita soltanto a tre gli incarichi che possono essere conferiti ad uno stesso amministratore giudiziario. Anche questa esigenza è nata dal caso Saguto, dove un unico amministratore, l’avvocato Cappellano Seminara, era arrivato a cumulare decine di ruoli in aziende sotto sequestro. Con un altro emendamento dei Cinque Stelle, è stato anche prevista l’assegnazione in affitto degli immobili confiscati alla mafia al personale delle Forze di Polizia, delle Forze armate e del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco che potranno provvedere a proprie spese a ristrutturarli se le amministrazioni assegnatarie non dispongano delle risorse necessarie. In 30 articoli il testo di riforma ridisegna tutta la complessa materia delle misure di prevenzione. Il provvedimento deriva dalla proposta di legge di iniziativa popolare per la quale grandi organizzazioni sociali come la Cgil, Avviso Pubblico, Arci, Libera, Acli, Lega Coop, Sos Impresa, Centro studi Pio La Torre raccolsero, due anni e mezzo fa, centinaia di migliaia di firme e integrata dal lavoro fatto nel frattempo dalla Commissione parlamentare antimafia. Con la riforma l’Agenzia per i beni sequestrati ne esce rafforzata, con sede centrale a Roma e un direttore (non per forza un prefetto) che si occuperà dell’amministrazione dei beni dopo la confisca di secondo grado. Sulla norma che prevede il coinvolgimento di Invitalia ha espresso dei dubbi "personali" anche la presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi, che ha invitato "ad una sorta di sperimentazione sotto la vigilanza del Governo e della Commissione antimafia". Giustizia; Violante "norme dure, ma necessarie e i fatti di cronaca hanno influito" di Dino Martirano Corriere della Sera, 12 novembre 2015 "Queste norme sono molto dure ma, al punto in cui è arrivato il fenomeno della corruzione nel nostro Paese, si rendono assolutamente necessarie". L’ex magistrato Luciano Violante, già presidente della Camera e prima ancora presidente della commissione Antimafia, parla di "passo dovuto del Parlamento" riferendosi all’estensione ai reati dei "colletti bianchi" (corruzione, concussione, peculato) delle misure di prevenzione fin qui applicate ai membri delle organizzazioni mafiose. "Ovviamente - spiega Violante - la durezza di questo sistema impone una particolare professionalità a chi sarà chiamato ad applicarlo. A volte indagini non meditate hanno procurato danni gravi e ingiusti alla reputazione di persone innocenti e al sistema economico". C’è preoccupazione nel mondo politico per la norma del Codice antimafia che estende i sequestri patrimoniali anche agli amministratori indagati per corruzione, concussione o peculato. Hanno ragione i sindaci indagati a preoccuparsi? "Questo tipo di attenzione scatta ogni qual volta misure previste per la criminalità ordinaria vengono estese ai cosiddetti "colletti" bianchi. Ribadisco che misure così incisive richiedono da parte della magistratura e della polizia giudiziaria competenza ed equilibrio. A misure severe deve corrispondere un’applicazione competente e consapevole dei danni che si possono arrecare per superficialità o disattenzione". La legge interviene anche sul sistema della incompatibilità. Chi è chiamato gestire i beni sequestrati e confiscati non potrà essere neanche "commensale abituale del magistrato che conferisce l’incarico". È una misura eccessiva? Una norma che può sembrare offensiva nei confronti dei magistrati? "Probabilmente i recenti fatti di cronaca hanno influito. Ma la indicazione delle specifiche incompatibilità tutela il magistrato in buona fede". Viene introdotto anche un tetto, massimo tre incarichi, per i commercialisti e gli avvocati chiamati ad amministrare i beni sequestrati e confiscati. "Il compito del magistrato non è facile: spesso si stabiliscono rapporti privilegiati con un singolo professionista perché non se ne trovano altri disponibili a svolgere quei compiti. Il tetto per gli incarichi è un limite utile. E si inserisce in un quadro normativo finalmente sistematico: mi riferisco alla nuova Agenzia nazionale dei beni confiscati e all’estensione di queste misure al fenomeno del caporalato nelle campagne". Non può sembrare tardiva una legge che stabilisce solo ora le incompatibilità e il tetto agli incarichi conferito dai magistrati? "Questo testo è il frutto di aggiustamenti fatti passo dopo passo, sulla base di valutazioni che nascono dall’esperienza. La mafia e il malaffare si adattano, si trasformano, non restano a guardare: c’è una continua rincorsa tra la "tecnicalità mafiosa" e la legalità. Magari tra qualche anno scopriremo che sono necessari altri strumenti legislativi per combattere il fenomeno". L’Agenzia per i beni confiscati passa sotto la vigilanza di Palazzo Chigi dopo un’epoca in cui il Viminale ha un ruolo chiave nella gestione dei beni confiscati. "Trovo positiva questa nuova collocazione dell’Agenzia nazionale. Passando sotto la diretta vigilanza della presidenza del Consiglio, e assumendo un carattere decisamente più solido rispetto al passato, l’Agenzia si trasforma in una sorta di Authority che sovraintende a tutta la materia". Giustizia: corrotti come mafiosi, previsto il sequestro dei beni dall’inizio dell’indagine di Francesco Grignetti La Stampa, 12 novembre 2015 Oggi voto della Camera. Novità sui beni confiscati ai clan. È una legge indigesta a molti. Eppure alla Camera la stanno votando perché si rendono conto che il Paese chiede un’inversione di rotta: ebbene, il ddl sulle nuove misure patrimoniali antimafia, all’articolo 1, prevede che sequestri e confische dei patrimoni siano esercitati anche nei confronti dei pubblici amministratori "indiziati" di reati gravi contro la Pubblica amministrazione. Trattare i corrotti come mafiosi? Conferma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Assieme alle norme sulle intercettazioni, che nei reati contro la Pubblica amministrazione renderemo più semplici, non più difficili come vuole certa vulgata, vogliamo progressivamente far evolvere la normativa antimafia applicandola alla corruzione e ai reati dei colletti bianchi". Ed ecco allora la novità, che oggi dovrebbe essere licenziata da Montecitorio, per poi passare al Senato: per i pubblici amministratori, se indagati per corruzione, concussione o peculato (non per abuso d’ufficio, considerato un reato di minore allarme sociale), qualora la procura abbia ragionevoli indizi di colpevolezza, potrà chiedere al tribunale il sequestro di beni per un valore equivalente al danno. Esempio: se un sindaco è accusato di avere intascato una mazzetta da centomila euro, gli si profila il rischio di vedersi sequestrati i conti correnti o la casa fino a centomila euro. Non sarà necessario neanche un rinvio a giudizio. Quando e se arrivasse una condanna definitiva, poi, quel sequestro si tramuterebbe in confisca a beneficio dello Stato. Analoga misura draconiana il governo l’ha prevista per il caporalato. La confisca, qui, scatta solo a condanna conclamata. Ma il proprietario di terre che utilizza lavoro nero e si affida a "caporali", ove condannato, rischia di vedersi confiscare i terreni. Per una volta, Susanna Camusso appoggia una misura di questo governo: "Dobbiamo dirlo nettamente che una delle forme più terribili di criminalità organizzata è la tratta delle persone. E quando parliamo di caporalato in realtà stiamo parlando di tratta delle persone". Trattandosi di una legge che riguarda i beni confiscati alla mafia, il governo ha inserito in extremis anche una norma ispirata all’attualità: sarà impedita la nomina ad amministratore giudiziario di beni confiscati alla mafia non solo ai parenti, ma anche ai "conviventi e commensali abituali" del magistrato che conferisce l’incarico. La norma è un chiaro riferimento alla vicenda che ha interessato Silvana Saguto, l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, sospesa dalle funzioni e indagata per corruzione assieme al marito Lorenzo Caramma, nominato coadiutore di diverse amministrazioni, e all’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara. Giustizia: sanità penitenziaria; in Gu la delibera del Cipe sul riparto 2014 tra le Regioni ilfarmacistaonline.it, 12 novembre 2015 La cifra stanziata è di 165,24 milioni. La somma viene ripartita tra le Regioni tenendo conto della presenza degli Opg e di Centri clinici nel territorio regionale e del numero di detenuti e dei minori a carico della Giustizia minorile nelle diverse realtà. Pubblicata in Gazzetta Ufficiale la delibera 85/2015 emanata dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) lo scorso 6 agosto concernente la Ripartizione tra le regioni delle risorse destinate al finanziamento della sanità penitenziaria relativamente al Fsn 2014. La cifra stanziata è di 165,24 milioni. La somma viene ripartita tra le Regioni tenendo conto della presenza degli Opg e di Centri clinici nel territorio regionale e del numero di detenuti e dei minori a carico della Giustizia minorile nelle diverse realtà. Alle Regioni a Statuto Ordinario e alla Sardegna vengono erogati circa 146 milioni, mentre oltre 18 milioni sono destinati a Sicilia e Valle D’Aosta. Alla Lombardia vanno quasi 30 milioni, alla Campania 21 e al Lazio 19. Giustizia: caso Yara; legale di Bossetti: indagini fatte male, opinione pubblica "imboccata" Dire, 12 novembre 2015 "Il processo mediatico va decisamente oltre ogni immaginazione. È stato candidamente ammesso dal comandante dei Ris che, d’accordo con la Procura, è stato confezionato un video per esigenze di comunicazione. Associando dei frame dove si faceva vedere il famoso furgone che girava attorno alla palestra, che non erano riconducibili al furgone di Bossetti. Questa è una cosa di una gravità inaudita". Così l’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, in carcere per l’omicidio di Yara Gambirasio. Salvagni è intervenuto ai microfoni della trasmissione "Legge o giustizia", condotta da Matteo Torrioli, su Radio Cusano Campus, emittente dell’università Niccolò Cusano (unicusano.it). "In un processo così importante in Corte d’Assise, con dei giudici popolari - ha continuato- il tentativo è stato proprio quello di creare un convincimento ancor prima che il processo iniziasse. I media hanno trasmesso quelle immagini per mostrare il predatore sessuale che gira intorno alla palestra con tanto di orari. Questo è lo strumento per convincere la gente che questo uomo è il colpevole, al di là del fatto del dna. Sul corpo di Yara sono stati trovati due tipi di dna: uno è quello di ignoto 1 e l’altro è il dna di una persona già nota all’epoca, che è quello dell’insegnante della vittima. Noi ci siamo permessi di sottolineare che le indagini sono andate in un senso unico, questo ce lo dovranno spiegare. L’insegnante di Yara è stato ascoltato diverse volte, lei ha detto che si sono visti in palestra il giorno della scomparsa di Yara e non vi è stato contatto tra le due. Il suo racconto è farcito da molti ‘Non lo sò, ‘Non ricordò. Io non voglio spostare l’attenzione su altre persone, voglio solo sottolineare che le indagini sono state fatte male. Vi racconto due incongruenze su tutte. Sul corpo della vittima sono state trovate delle piccole sfere di ferro, allora è stata fatta un’indagine di tipo statistico e poi sono andati a vedere se sul furgone di Bossetti c’erano sfere di ferro. Per fare l’indagine di tipo statistico, sono stati presi come campione 4 ragazzi di Parma figli degli stessi carabinieri, e hanno visto che su questi ragazzi non ci sono sfere di ferro. Perché li hanno presi di Parma e non di Brembate? Poi hanno visto che c’erano sfere simili sul furgone di Bossetti, che lavora nell’edilizia. Ma l’hanno trovate ora, che ne sapevano che 4 anni fa ci fossero? Altra incongruenza: quando è stata trovata, Yara stringeva nel pugno destro dell’erba. Il comandante dei Ros di Brescia dice che quell’erba era radicata al suolo, invece poi il medico dice che l’erba non era radicata al suolo ma era tagliata". Giustizia: caso Cucchi; i carabinieri indagati si avvalgono della facoltà di non rispondere di Valeria Di Corrado Il Tempo, 12 novembre 2015 Una cortina di silenzio cala sull’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, il 31enne deceduto il 22 ottobre 2009 nell’ospedale Pertini di Roma, una settimana dopo il suo arresto per detenzione di droga. I cinque carabinieri iscritti nel registro degli indagati si sono avvalsi tutti della facoltà di non rispondere. Interrogati dal sostituto procuratore Giovanni Musarò, i militari, in modo compatto, hanno scelto di non rispondere alle domande poste dal pubblico ministero. Una strategia difensiva legittima, prevista dall’articolo 64 del codice di procedura penale, che dà all’indagato il "diritto al silenzio", ma che appare inconsueta, trattandosi di esponenti delle forze dell’ordine. Nella prima inchiesta i carabinieri non erano stati incriminati. In questo nuovo filone d’indagine, invece, la Procura contesta le lesioni aggravate ad Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, che parteciparono alla perquisizione in casa del geometra e poi lo portarono nella caserma Appia, dove, secondo l’ipotesi accusatoria, potrebbe essere avvenuto il pestaggio. Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, l’allora vicecomandante della stazione di Tor Sapienza dove il 31enne venne trasferito, sono invece accusati di falsa testimonianza. Le loro deposizioni sulle perquisizioni domiciliari e sulle ragioni del mancato foto-segnalamento di Cucchi sarebbero parse in contraddizione con i fatti accertati. Nel giugno 2013 la III Corte d’assise di Roma aveva condannato per omicidio colposo i medici dell’ospedale, assolvendo gli infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria. Poi, a ottobre 2014, i giudici d’appello hanno ribaltato la sentenza anche per i sanitari, assolvendo tutti gli imputati. Contro questo giudizio, la Procura generale e i familiari di Cucchi hanno depositato ricorso in Cassazione, la prima udienza si terrà a metà dicembre. Profughi siriani, non colpevole chi ne favorisce l’ingresso clandestino in Italia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Tribunale di Bari - Sentenza 17 dicembre 2014. Non scatta il reato di "favoreggiamento all’immigrazione clandestina" per chi fa entrare in Italia un profugo siriano in pericolo di vita a causa della guerra civile in corso. Secondo il Gip del tribunale di Bari che ha assolto una coppia di cittadini britannici che aveva nascosto un extracomunitario nel bagagliaio dell’auto imbarcata sul traghetto di linea proveniente dalla Grecia, in questi casi va applicata la scriminante dell’aver agito in "stato di necessità". La stessa norma, l’articolo 54 del codice penale, è stata fino ad oggi utilizzata, come ha chiarito incidentalmente la sentenza 14510/2015 in materia di giurisdizione, per giustificare la non punibilità dei salvataggi dei "barconi" in acque internazionali. Qui però vi è un ulteriore e rilevante passo in avanti laddove si considera non punibile l’intera azione, certamente organizzata, di noleggiare un’auto all’estero per far transitare clandestinamente in Italia una persona minacciata. La vicenda - Durante un controllo di routine dei passeggeri della nave, la Polizia, insieme alla Gdf, rinveniva nel portabagagli della Ford focus guidata dalla donna un cittadino extracomunitario nascosto sotto delle coperte, privo di permesso di soggiorno. Interrogata, l’imputata riferiva che si trattava del fratello del suo compagno che per non attirare l’attenzione era uscito a piedi portando con sé il bagaglio a mano. Fermato, i militari riscontravano una serie di sms in cui la compagna lo informava del fatto di essere stata sottoposta al controllo. L’arresto venne poi convalidato senza però disporre alcuna misura cautelare. Il ragionamento - Come poi ricostruito dal tribunale, il profugo, che nel frattempo aveva ottenuto asilo politico nei Paesi bassi, era effettivamente il fratello del compagno della donna inglese. Ed era in concreto pericolo di vita, come attestato dalle immagini presentate che documentavano una serie di atti di vandalismo ai danni della sua abitazione, dell’autovettura e del negozio, ma "soprattutto le gravi lesioni personali riportate". Tale ricostruzione, prosegue la sentenza, "trova un ulteriore aggancio logico alla luce del fatto che l’extracomunitario non è un cittadino qualsiasi facendo parte, in qualità di attivista, di un’associazione umanitaria, dedita ad attività assistenziali, evidentemente non tollerata nel contesto di violenta guerra civile in atto". Né, argomenta il tribunale, va trascurato il "dichiarato rapporto di parentela", e la "stabile occupazione di entrambi gli indagati nel territorio dell’Unione Europea". Tutti questi elementi, conclude il Gip, "unitamente alla tristemente nota grave situazione storico politica in cui versa, da qualche anno, il popolo (siriano, ndr) conferiscono una univoca connotazione di stringente concretezza ed attualità del pericolo di danno grave alla persona che ha indotti gli odierni imputati a metterla in salvo sia pure attraverso canali non istituzionali". Da qui la pronuncia assolutoria "perché il fatto non sussiste" in quanto la condotta era scriminata dallo stato di necessità. Riconosciuto il diritto all’astensione anche se l’udienza è solo facoltativa di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 11 novembre 2015 n. 45158 L’avvocato ha il diritto di vedersi riconosciuto il proprio diritto di astensione anche quando l’udienza sia facoltativa. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 45158/2015. La Corte si è così pronunciata a seguito di appello contro una sentenza della Corte di appello di Milano, proposto per palese violazione dell’articolo 420 ter del cpp e cioè per non avere la Corte rinviato il processo nonostante il difensore avesse fatto pervenire l’adesione all’astensione dall’udienza proclamata dalla Giunta delle camere penali dal 16 al 20 settembre 2013. Precedente grado - Nel caso concreto, infatti, il presidente della terza sezione penale con ordinanza del 20 settembre 2013 aveva respinto la richiesta di rinvio "in quanto al processo camerale del giudizio abbreviato in appello non si applica la regola dettata dall’articolo 420 ter comma 5 del cpp che impone il rinvio del procedimento in caso di impedimento del difensore". I Supremi giudici, tuttavia, hanno richiamato il principio di diritto espresso dalle Sezioni unite con la sentenza n. 15232/2015 secondo cui "in tema di dichiarazione di adesione del difensore all’iniziativa dell’astensione dalla partecipazione alle udienze legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria, la mancata concessione da parte del giudice del rinvio della trattazione dell’udienza camerale in presenza di una dichiarazione effettuata o comunicata dal difensore nelle forme e nei termini previsti dall’articolo 3, comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione determina la nullità per la mancata assistenza dell’imputato come previsto dall’articolo 178, comma 1, lettera c) del cpp, che ha natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore, ovvero natura intermedia negli altri casi". Emerge così chiaramente dalla richiamata pronuncia delle Sezioni unite come non possa essere fatta una distinzione tra udienze a cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria ovvero in via facoltativa. La sentenza della Cassazione - L’odierna decisione ha così precisato come la norma si riferisca a tutti gli atti o procedimenti in cui è prevista la presenza del difensore, ancorché non obbligatoria, e quindi non solo, come nel caso di specie, ai giudizi di opposizione contro le richieste di archiviazione, ma anche a tutti gli altri procedimenti a partecipazione facoltativa con le medesime caratteristiche (come ad esempio i giudizi di appello nei procedimenti definiti in primo grado con rito abbreviato). Se così non fosse l’avvocato si verrebbe a trovare in una posizione molto delicata ai limiti della costituzionalità. Ossia portare avanti il proprio diritto mediante astensione e lasciare senza difesa il cliente o sacrificarsi non "scioperando" e difendere gli interessi del proprio assistito. Conclusioni - La Cassazione, rifacendosi al dettato normativo, ha esteso anche ai processi con presenza facoltativa la possibilità di ottenere il rinvio, fornendo così una terzi ipotesi che sembra essere la più razionale e anche di tutela per il professionista, per l’assistito e per il regolare svolgimento del processo. Unica raccomandazione al legale è di dover necessariamente comunicare nelle forme e nei modi prescritti dall’articolo 3, comma 1, la volontà di astenersi. Obblighi di assistenza familiare: l’indisponibilità va dimostrata di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Corte d’Appello di Taranto - Sezione penale - Sentenza 4 maggio 201 n. 196. La condizione di impossibilità economica che scrimina il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non dipende dall’esiguità del reddito percepito o dal tipo di lavoro svolto, bensì da una provata situazione di incolpevole indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime dei familiari. Nel caso trattato, i giudici d’appello hanno confermato la condanna per un uomo che si era sottratto ai propri obblighi adducendo come scusante il particolare tipo di lavoro svolto. Anziani vittime, anche se disattenti di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2015 Tribunale di Genova - Sezione I penale - Sentenza 16 giugno 2015 n. 3469. Commette una truffa, indipendentemente dal grado di diligenza prestato dalla vittima, il dipendente di una ditta di impianti di rilevazione di fumi e gas che, presentandosi in casa di una persona anziana, prospetta come obbligatorio l’acquisto di un apparecchio salvavita, in realtà facoltativo. La mancanza della dovuta attenzione da parte della persona offesa non esclude, infatti, l’idoneità dei mezzi utilizzati dall’addetto alle installazioni per ottenere un ingiusto profitto. Lettere: figli di ‘ndrangheta, la repressione non basta di Mario Nasone (Presidente del Centro comunitario Agape) Corriere della Calabria, 12 novembre 2015 Di fronte alla escalation di minori uccisi o coinvolti in vicende di ‘ndrangheta serve una azione decisa da parte delle istituzioni e della comunità tutta. Servono strumenti adeguati per tutelare i minori, ci sono delle carenze legislative da colmare. Le forze politiche si devono interrogare sul dovere che hanno di tutelare i minori dalle loro famiglie quando sono dentro famiglie mafiose e per evitare altri morti innocenti come il piccolo Cocò. Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria con il progetto "Liberi di scegliere" ha aperto una strada vivendo però una solitudine istituzionale. Tante donne di ‘ndrangheta stanno scegliendo di rompere con i clan di appartenenza, ma servono leggi e programmi di protezione. Questo è quindi il momento buono per intervenire. La posta in gioco è alta, perché è sotto gli occhi di tutti che non basta più solo l’intervento repressivo dello Stato. Se si vuole colpire il meccanismo di riproduzione del fenomeno mafioso è necessario investire in politiche sociali, educative di prevenzione e recupero sociale Per rilanciare questo tema, per chiedere a tutte le forze politiche e sociali un impegno su questo versante, il Centro comunitario Agape, il Laboratorio sociale "La Calabria che vogliamo", la Camera Minorile di Reggio Calabria, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio Regionale, terranno, la mattina del 14 novembre al consiglio regionale della Calabria, un Forum che vedrà la presenza del sottosegretario Marco Minniti, del vice presidente della giunta regionale Antonio Viscomi, dell’assessore regionale al Welfare Federica Roccisano, dell’avvocato Enza Rando dell’ufficio legale di Libera, assieme a magistrati minorili, operatori dei mass media come Angela Iantosca, autrice del libro "Bambini a metà i figli della ndrangheta", e Giuseppe Baldessarro, la direttrice della casa circondariale di Reggio Calabria Maria Carmela Longo, la pedagogista della coop sociale Centro Giovanile Italo Calabrò Carmela Fotia. Lettere: Alfano, Salvini e l’ignoranza delle (loro) leggi di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015 L’attività politica produce mutazioni genetiche. Non si può parlare di evoluzione della specie, il prodotto finale è inidoneo alla sopravvivenza, fatta eccezione per tempi medio-brevi. Però sta di fatto che certe caratteristiche sono ricorrenti. Oggi è il turno di Alfano. A Bologna, Salvini e reggicoda dell’ultima ora manifestano contro il governo. È un loro diritto, anche se riconoscibile a malincuore: gente così non pare proprio legittimata ad avere idee politiche; per averne bisogna prima di tutto avere idee... Gente ancora peggiore di loro li aggredisce: teppisti da curva degli stadi, emuli pseudo politici di Genny ‘a carogna. Salvini & C. vanno protetti, su questo non ci piove. Va in onda il consueto film della repressione, la Polizia ne arresta tre (pochi, 30 dovevano essere ma poi partono i cori contro la violenza repressiva dello Stato), e li porta davanti al giudice. Che dispone il giudizio per direttissima; e li scarcera. Che persone come queste, con i reati che hanno commesso, non stiano in galera non è cosa buona. La violenza è propria di personalità asociali, afflitte da complessi di inferiorità e con compensi psicologici da decerebrati. Ma è soprattutto incoraggiato dall’impunità. Sfogo le mie pulsioni criminali, me la godo, non mi succede niente, perché diavolo non dovrei farlo ancora? Come chiunque - perfino Alfano - capisce (a corrente alternata), la mancanza di repressione è criminogena. Il problema è che, secondo la legge, in galera non ci possono stare. Art. 274 codice di procedura: carcerazione preventiva possibile solo se: sussistono esigenze di indagine (acquisizione di prove, identificazione del colpevole); ma - in questo caso - i tre arrestati erano stati beccati in flagranza di reato. C’è pericolo di fuga; che poteva starci, ma è annullato dal fatto che, per i reati commessi (oltraggi e lesioni non gravi a pubblico ufficiale), la pena è di pochi mesi (queste le tariffe abituali) e la carcerazione preventiva è possibile solo se è prevedibile una pena superiore a 2 anni. C’è pericolo di reiterazione del reato; che c’era di sicuro. Ma - anche qui - la carcerazione preventiva è possibile solo se, per i reati per cui si procede, la pena massima è superiore a 5 anni; il che non è per oltraggio e lesioni. E comunque non si può tenere nessuno in prigione se (art. 275) è prevedibile che venga concessa la sospensione condizionale della pena; che, siccome i tre arrestati erano incensurati, sarebbe stata sicuramente concessa. Alfano, avvocato e ministro dell’Interno, tutto questo non lo sa. E pronuncia la sciagurata frase "Noi li abbiamo arrestati, i magistrati li hanno scarcerati". Anche Salvini ignora l’esistenza del codice di procedura ed esterna lapidariamente "La giustizia fa schifo". Eppure entrambi sono stati tra quelli che si sono spesi per limitare la discrezionalità dei magistrati, il furore accusatorio dei pm, gli errori giudiziari. Entrambi hanno tuonato contro le carceri piene di innocenti. E hanno fortemente voluto le norme che paralizzano la carcerazione preventiva. C’è il sospetto che tanto zelo sia stato dovuto alle tristi vicende dei loro compagni di merende, i corrotti, frodatori, mafiosi per i quali le porte del carcere dovevano restare chiuse. Però è solo un sospetto. Dunque restiamo con il dubbio: si è trattato di atrofia della memoria o di faccia di tolla? Darwin o Lombroso? Lettere: se l’Antimafia vieta le cene di Dino Martirano Corriere della Sera, 12 novembre 2015 I magistrati non potranno nominare amministratori dei beni confiscati parenti e commensali abituali. Ampliati i sequestri preventivi. Sono trascorsi 33 anni dal varo della legge Rognoni-La Torre (reato di associazione di stampo mafioso, 416 bis, e misure di prevenzione per i capitali illecitamente accumulati) e ora, con la revisione sistematica del codice delle leggi antimafia, il Parlamento aggiunge un altro tassello nella lotta di aggressione ai patrimoni criminali. La legge approvata in prima lettura dalla Camera - con 281 voti favorevoli, 66 contrari (Forza Italia e M5S) e 2 astenuti - prevede anche una misura forte nei confronti dei "colletti bianchi" indagati per corruzione, concussione e peculato. Anche a loro, se l’impianto dell’articolo 1 reggerà al Senato, saranno applicate le misure di prevenzione patrimoniale per le ricchezze di cui non sapranno giustificare la provenienza. Si allarga dunque il perimetro dei destinatari cui possono essere applicate le misure di prevenzione personali: dalla sorveglianza speciale al divieto/ obbligo di soggiorno fino ai sequestri dei patrimoni non giustificati. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha detto che questo aspetto della legge è "rivoluzionario": perché, al pari con le intercettazioni rese più agili per la corruzione, "si estende di un altro passo la legislazione antimafia nel perimetro dei reati contro la pubblica amministrazione". Giudici e commensali Nel ridisegnare l’Agenzia nazionale per i beni confiscati - posta sotto la vigilanza della presidenza del Consiglio dopo anni di dominio in questo campo del Viminale - il nuovo codice interviene anche su evidenti buchi nel sistema che la recente inchiesta sul tribunale di Palermo (caso Saguto) ha portato alla luce. Dopo anni di libera gestione degli incarichi conferiti dai magistrati agli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, arriva la stretta sulle incompatibilità. Un emendamento del governo, approvato dopo molte discussioni anche all’interno del Pd, stabilisce che "non possono assumere l’ufficio di amministratore giudiziario... né il coniuge, i parenti fino al quarto grado, gli affini entro il secondo grado, i conviventi o commensali abituali del magistrato che conferisce l’incarico". Sembra la scoperta dell’acqua calda. Ma c’è voluta tutta l’asprezza del caso Palermo, che ha coinvolto giudici e professionisti, per dare il là alla norma sulle incompatibilità che un emendamento della maggioranza estende anche ai curatori fallimentari. Raccogliendo un subemendamento del deputato Giuseppe Lauricella (Pd), è stato tolto il divieto di cumulo introdotto inizialmente nella legge, stabilendo ora il tetto massimo di tre incarichi per i professionisti chiamati dai tribunali a gestire i beni sequestrati e confiscati. La presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, avrebbe preferito un criterio "qualitativo" e non "quantitativo". Perché, ha spiegato, "così un professionista avrà in gestione tre campi incolti e un altro, invece, potrà gestire tre centri commerciali...". Il giudizio di Rosy Bindi è comunque positivo: "Questa legge è un primo passo lungamente atteso". Mafia e aziende Il nuovo codice antimafia pone grande attenzione all’utilizzo razionale dei beni confiscati alla mafia (gli immobili, per esempio, potranno essere concessi in affitto al personale delle forze di polizia). Osserva la presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti: "Si tratta di norme che permetteranno anche ad aziende infiltrate dalla mafia di ritornare alla legalità e competere sul mercato in modo, sano producendo ricchezza e salvaguardando l’occupazione". Anche perché l’Agenzia per i beni confiscati - ristrutturata e vigilata da Palazzo Chigi - avrà contatti con l’Economia e lo sviluppo economico. La legge - nata da una iniziativa popolare sponsorizzata da Cgil, Libera e altre associazioni e da un successivo intervento sul testo del ministro Orlando e dalla commissione Giustizia - estende le misure di prevenzione personale anche a chi favorisce la latitanza di boss e soldati della mafia. Lettere: l’antimafia delle suggestioni di Piero Tony Il Foglio, 12 novembre 2015 Indagini spettacolarizzate, dibattimento trasformato in inutile simulacro, diritti di difesa trascurati, abusi nella detenzione cautelare. Appunti scettici di un giudice di sinistra sul set cinematografico di Mafia Capitale. Prima di capire cos’è l’antimafia delle suggestioni serve una piccola premessa. Ho letto qualche giorno fa che gli avvocati penalisti italiani sono incavolatissimi, tanto incavolati da aver deliberato un’ennesima astensione dalle udienze a partire dal 30 novembre: un mezzo sciopero, praticamente. Più che giustamente si lamentano delle eterne disfunzioni del sistema giustizia, che ormai sono sotto gli occhi di tutti: strapotere delle indagini preliminari sul dibattimento, abuso di misure cautelari e intercettazioni, irragionevole durata del processo, invasione dei gangli istituzionali da parte di magistrati fuori ruolo, e così via. Ma si lamentano anche delle riforme che sono lì che bollono in pentola, e che a loro dire vorrebbero soprattutto intercettare il consenso popolare. Riforme ritenute pannicelli caldi improntati al ready-made e a strumenti di sommaria semplificazione: aumenti di pena non giustificati dall’offensività delle condotte, nuove e poco garantite misure patrimoniali finalizzate alla "riorganizzazione del bene" più che alla punizione del crimine (Relazione Unione camere penali, Cagliari 2015), restrizione di impugnazioni e prescrizione, estensione dell’eccezionale e poco garantito "doppio binario" processuale a nuove materie, assenza di una normativa sulla separazione delle carriere. Una tendenza, mi pare di capire, ad amministrativizzare la giurisdizione. Che dire? A me pare che lo spostamento della repressione penale dalla libertà personale al patrimonio sia invece iniziativa di grande civiltà, a patto che tutte le procedure - comprese quelle di prevenzione (oggi troppo spesso decise de plano sulla sola base di spezzoni di informazioni di polizia, di notizie di reato ancora allo stato iniziale e di indagini preliminari in corso) - vengano riportate nell’ambito del giusto processo di cui al sacrosanto articolo 111 della Costituzione. E pare anche, lo si ripete ormai da anni, che sarebbe giusto e utile sia impedire alle procure di appellare le sentenze di assoluzione (a corollario di quell’"al di là di ogni ragionevole dubbio", gridato dal primo comma dell’articolo 533 cpp) sia abolire quello sciagurato divieto di reformatio in peius, ovvero la possibilità del giudice di Appello di poter riformare la sentenza di primo grado irrogando una pena o una misura peggiore della precedente, che rende sempre e comunque irragionevole il non impugnare (si è calcolato che le due modifiche comporterebbero da sole una riduzione di almeno il 30 per cento del complessivo carico giudiziario). Ma la lettura sull’astensione forense ha improvvisamente ridestato le ugge giudiziarie che da molto tempo mi arrovellano e che, con ottimi risultati, mesi fa avevo deciso di tenere severamente a bada. "Almeno per un po’ basta col parlare di indagini senza termine, di processo inesistente, di crocifissioni mediatiche, di super-criminologi e super-giornalisti tra di loro uniti per inchiodare gogne", mi ero detto. Trascorre il tempo e io resto inflessibile. "Mafia Capitale? Zitto tu, il procuratore è siciliano e magistrato di grande esperienza specifica!", mi sono detto. "Ma cosa blateri?", ha tentato di obiettare il mio angelo custode, "ha preannunciato il procedimento durante una manifestazione mediatica!". "Ma dimentichi", ha continuato l’angelo con un maledetto sogghigno, "che Capitale corrotta nazione infetta c’era pari pari anche 60 anni fa, che di novità c’è solo un cecato Capitan Uncino che fa il gradasso turpiloquente nel retrobottega di un distributore di benzina!?". "Zitto anche tu, grillo parlante dei miei stivali! Sappi che l’inchiesta pare sia nata dalle ricerche di un famoso giornalista, anche lui espertissimo e siciliano!", gli ho urlato e l’angelo ha abbassato subito le ali. Poi la svolta con la lettura sulla protesta forense. Poi sento un dibattito televisivo su Mafia Capitale con quel sorridente giornalista che racconta delle terribili minacce telefoniche all’operatore formulate dal cecato Capitan Uncino per farsi ricollegare la linea e mi sorgono atroci dubbi. E mi rammento delle immagini del suo arresto quasi su set cinematografico, trasmesse per mesi a raffica assieme alle minacce intercettate e sottotitolate. Poi sento parlare delle videoconferenze e mi torna in mente che il nuovo codice era incentrato su quello che il legislatore chiamava "oralità, immediatezza e concentrazione assolutamente necessarie per una corretta acquisizione dibattimentale delle prove". Poi mi dicono del processo di Bergamo per quel feroce delitto che non mi pare giusto nominare; dopo averli ottenuti dalla polizia giudiziaria (con il consenso quantomeno tacito della procura) i media avrebbero trasmesso a ripetizione video dell’indagato in ginocchio per terra al momento dell’arresto e, udite udite, un montaggio di fotogrammi raffiguranti il passaggio del furgone dell’indagato davanti alla palestra effettuato e scelto dalla stessa polizia giudiziaria per ragioni "Non analitiche ma… di comunicazione"; ancora una volta con buona pace per il divieto di pubblicazione previsto dall’articolo 114 cpp. "Zitto un corno!", urlandomi sul timpano destro mi ha svegliato stamani l’angelo e io questa volta gli ho accarezzato le piume arruffate. Ecco perché oggi mi concedo un piccolo sfogo. Sia chiaro, non ho la più pallida idea se quello di Bergamo e quelli di Roma siano colpevoli o innocenti in relazione a quanto loro imputato, non è questo il punto. Né se l’avessi, codesta idea, mi azzarderei a fare pronostici: mai. Né intendo soffermarmi sulle non peregrine perplessità circa la contestazione mafiosa, di cui si parla in giro: cioè che l’associazione di tipo mafioso e l’aggravante di mafia ideate dalle leggi numero 646 del 1982 e numero 203 del 1991 hanno la finalità di combattere un vero e proprio Antistato di assassini a struttura piramidale e non reticoli di bande di quartiere; che le minacce dirette sarebbero cosa diversa da un generico "clima di intimidazione"; che nella Capitale più che patrimonio intimidatorio e metodi mafiosi sarebbe stato utilizzato un secolare patrimonio di cinica furfanteria denso di corrotti corruttori e ruffiani; che la contestazione avrebbe radici nei suoi effetti processuali, sanzionatori e penitenziari. Al di là di tutto questo, credo che faccia bene alla circolazione insorgere, se non altro con un flebile "ohibò" visto che non è bello dire parolacce, di fronte a quelli che paiono spettacoli di vero e proprio traviamento. Perché tutti sanno che il così detto nuovo codice è imperniato sul giudice del dibattimento e non sulle indagini preliminari di pubblico ministero e polizia giudiziaria, come purtroppo ormai è di norma (le indagini preliminari, in teoria, senza risalto alcuno dovrebbero servire solo a decidere se sia o meno sostenibile l’accusa - art. 125 disposizioni di attuazione del cpp). Perché è obbrobrioso e illegittimo riprendere e far trasmettere a ripetizione un momento di disarmata sofferenza, di qualsiasi persona compreso un arrestato (ricordate lo sguardo di Enzo Tortora?). Perché un dibattimento in diffusa videoconferenza (modalità concepite per l’eccezionalmente pericoloso imputato-belva e non certo per altre carature criminali, in qualche caso perfino opinabili) non può che limitare pesantemente il diritto di difesa. Ma s’impone soprattutto un interrogativo principale e di struttura, non sul merito naturalmente, visto che è tutto ancora sub iudice, ma sulle modalità procedurali. Ma è davvero legittima codesta enfatizzazione mediatica delle indagini fatta in barba a precise disposizioni di legge? Ed è del tutto casuale oppure ad arte mira a creare fuorvianti suggestioni? E a opera e nell’interesse di chi? Suggestioni per scenari e ruoli tanto chiari che chi dubita è colluso? Ed è accettabile il rischio che il giudicante - che, si diceva, quando il così detto nuovo codice venne introdotto, deve arrivare al giudizio "vergine" e assolutamente ignaro del contenuto del fascicolo del pubblico ministero - possa iniziare il dibattimento non da "vergine" ma, nonostante l’indubbia professionalità, pregno di tutte quelle possibili suggestioni oltre che delle notizie le più dettagliate, proprio quelle di cui non dovrebbe saper nulla? Sommessamente rispondo di no, non è legittima, non è accettabile, non è alla luce del sole ma in violazione di legge e dunque pericolosamente incontrollabile. Credo, insomma, che quando il dibattimento diventa di fatto mero simulacro e alla sua centralità prevista dalla legge si viene a sostituire la sempre più invasiva centralità di codesto tipo di indagini spettacolarizzate, che quando alla detenzione anche rieducativa dell’articolo 27 della Costituzione si sostituisce per lentezza del sistema giustizia una detenzione cautelare che notoriamente di per sé corrompe e fuorvia, credo che quando tutto ciò accade codesta prassi marcatamente inquisitoria la possa fare da padrone sovvertendo ab imo, e così tradendo, spirito e ragione del codice di rito accusatorio. Con gravissimi effetti sui diritti fondamentali, tutti, compreso quello di difesa. E credo che per tutto ciò sia da combattere a voce alta e molto severamente. Comunque… solo ai posteri, visto come vanno le cose, l’ardua sentenza. Con i migliori e sentiti auguri all’Unione camere penali italiane. Lettere: sentenza Mannino, la mafia non esiste? di Tiziano Cavalieri e Giuseppe Di Lello. Il Manifesto, 12 novembre 2015 Ho letto l’intervento di Giuseppe Di Lello sul giornale dal titolo "Crolla il pilastro sulla trattativa". Vorrei partire dall’ultimo passo del suo articolo dove scrive "la mafia conta ancora in Sicilia ma i suoi capi (escluso Messina Denaro) e adepti sono tutti all’ergastolo o scontano pesanti condanne". A queste parole si rimane interdetti nel senso che non si capisce come la mafia conti ancora se i suoi capi ed adepti sono in galera. Forse Di Lello individua la mafia con quella che spara? Credevo di sapere che fra Stato e mafia si è sempre trattato, e per Stato si devono intendere le classi politiche dominanti ed i loro governi, chi si metteva di traverso, da dentro o fuori lo Stato, veniva fatto fuori. Le morti di Falcone e Borsellino, come le molte altre di magistrati non stanno lì a dimostrarlo? Classe politica è generico, i suoi membri hanno un nome, allora mi chiedo se Mannino aveva rapporti con la mafia (quella che spara e che non spara), e lo chiedo a Di Lello. Ed ancora, perché Mannino temeva, secondo le sue parole, di essere fatto fuori come Lima lo era stato per non aver mantenuto i patti? Quei patti li aveva conclusi anche Mannino e tutta la classe dirigente democristiana dell’isola e non solo? Ed infine, tornando all’inizio, come può la mafia contare in Sicilia, come Di Lello sostiene, se i suoi capi ed adepti sono in galera? Di Lello scrive che la mafia conta ancora in Sicilia, ed in Italia? La mafia ha sempre contato in Italia. Forse il Manifesto per capirci qualcosa dovrebbe porre queste domande a Di Lello. Tiziano Cavalieri La risposta di Giuseppe Di Lello In un articolo di poche righe scritto per la cronaca, è difficile descrivere lo stato attuale della mafia. Non ho mai ritenuto che la mafia sia solo quella che spara, ma non v’è dubbio che questa ha ricevuto colpi mortali e ha compreso che sul piano militare non può competere. Gli omicidi ci sono ancora però la stagione stragista è tramontata: nel periodo tra l’82 e l’83 ci sono stati a Palermo e dintorni 500 morti e ciò non è più: conta qualcosa per chi vive in Sicilia. I capi sono tutti all’ergastolo, un patrimonio immenso è stato confiscato e i pentiti continuano ad esserci. Non c’è dubbio che la mafia fa ancora affari con le pubbliche amministrazioni, con la droga e le estorsioni ed altro, ma il suo potere si va sgretolando. Le connessioni con la politica, ma ancor più con le pubbliche amministrazioni e soprattutto con l’imprenditoria resistono, ma sono sempre più contrastate. Da ciò a ritenere che lo stato ha perso e la mafia ha vinto ce ne corre. Le responsabilità politiche sono ormai storia, ma portarle in tribunale non sempre ha pagato e se alcuni politici hanno pagato, ma molti altri sono stati assolti e, purtroppo, glorificati. La Dc, ma anche altre forze, anche di sinistra, hanno le loro responsabilità e non ci sarà la fine della mafia se non si recidono questi legami. Non sono l’avvocato d’ufficio di Mannino, ma quest’ultimo è stato assolto in cassazione per il 416 bis e in primo grado per la trattativa. Mannino dà una sua spiegazione sui suoi timori e la attribuisce al suo impegno antimafia e sembra che i giudici gli diano ragione. Ci possiamo credere o meno, ma vogliamo dire che i giudici che assolvono sono contigui alla mafia e quelli che condannano sono i puri? Falcone e Borsellino hanno fatto scuola a livello nazionale e internazionale e se la mafia ora conta meno è proprio grazie al loro esempio e al loro metodo. Lettere: lo sceriffo ha perso la stella di Marco Demarco Corriere della Sera, 12 novembre 2015 Dal punto di vista giudiziario, De Luca ha dalla sua due argomentazioni di peso. La prima è la più ovvia: le accuse vanno provate e confermate in giudizio. La seconda è più complessa: le leggi con cui sta facendo i conti non sono modelli formali da esempio. Cita Eraclito in greco: "Ethos antropoi daimon", il carattere di un uomo è il suo destino, si paragona a Murdoch per il lavoro procurato a tanti giornalisti, e continua a mostrarsi tranquillo: "Keep calm", dice ai suoi collaboratori. Vincenzo De Luca non rinuncia né all’autoironia né alle iperboli crozziane, ma cosa più significativa non cede di un millimetro neanche di fronte all’ultima bordata giudiziaria. C’è un’inchiesta che rischia di terremotare il quadro politico locale e nazionale; che lo vede indagato per una vicenda che il ministro Orlando definisce "non particolarmente brillante"; e che coinvolge anche una magistrata il cui marito avrebbe contrattato una benevola valutazione della legge Severino con una nomina di prestigio, e De Luca continua a fare spallucce. Eppure, più passa il tempo, più si moltiplicano i casi politici, giudiziari e di costume che lo riguardano, più l’esuberanza verbale del governatore campano è chiamata a compensare l’assai relativa azione di governo regionale fin qui espletata, e più la domanda si impone: ma davvero il Pd non poteva che candidare lui? In altre parole: valeva la pena sfidare la legge Severino, esporre la Regione al rischio di una incerta direzione tuttora dipendente da un prossimo giudizio della Corte costituzionale, forzare il sistema democratico a svantaggio della certezza del diritto, e fare tutto questo quando si sapeva benissimo che i nodi prima o poi sarebbero arrivati al pettine? Dal punto di vista giudiziario, De Luca ha dalla sua due argomentazioni di peso. La prima è la più ovvia: le accuse vanno provate e confermate in giudizio, e fino a quel momento non può che valere la presunzione di innocenza. Ma la seconda è più complessa, perché chiama in causa, non senza fondamento, la qualità della recente legislazione anticorruzione: è indubbio, infatti, che le leggi con cui sta facendo i conti, la Severino prima e ora quella che ha riscritto il reato di concussione, non siano modelli formali da portare a esempio. Prefigurano dispositivi talmente opachi che è fin troppo facile approfittarne. Non a caso De Luca arriva a dichiararsi "parte lesa", vittima, quando nulla gli vietava di denunciare, e non risulta l’abbia fatto, lui che pure passava per essere uno "sceriffo", le minacce ricevute. Da notare, in aggiunta, che nel caso di un vantaggio personale, e l’esito favorevole del giudizio sulla Severino poteva esserlo, la denuncia diventa un obbligo, altrimenti da vittima si diventa complice. Ma è dal punto di vista politico, che, ancor di più, le tesi difensive del governatore fanno acqua da tutte le parti. Trincerarsi dietro l’avvenuta elezione come se il consenso elettorale potesse bastare da solo a sanare ogni tipo di responsabilità pregressa, è una mossa che fu contestata a Berlusconi e non può certo essere apprezzata oggi per pura convenienza. Dirsi, inoltre, all’oscuro di tutto, quando per mesi De Luca ha lasciato che passasse la versione mediatica di una Regione con un uomo solo al comando, non è convincente. Il rapporto del governatore con Mastursi, il segretario precipitosamente dimessosi, era tale da non rendere plausibile il fatto che questi non lo avesse informato delle vicende su cui ora si indaga. Infine, aver avallato la tesi di dimissioni presentate da Mastursi per esclusive ragioni personali ha aggravato la situazione: è apparsa a tutti un ripiego tanto ipocrita da incenerire di fatto ogni accenno alla trasparenza come scelta di vita. Di conseguenza: o De Luca millanta quando si descrive come il dominus assoluto, perché eletto direttamente dal popolo, del governo regionale; o quell’uomo solo al comando è in realtà un altro marziano caduto sulla terra. In entrambi i casi, la sua credibilità ne esce a pezzi. Umbria: diritti umani in carcere, domani inaugurazione sezione regionale di "Antigone" Corriere dell’Umbria, 12 novembre 2015 Un’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: una realtà che finalmente arriva anche in Umbria. "Antigone - spiega Simona Materia, presidente Antigone Umbria - nasce alla fine degli anni ottanta sulla spinta di un movimento politico-culturale rivolto alla recensione e alla sensibilizzazione sul rispetto dei diritti umani in carcere. L’associazione, in particolare, promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla sua evoluzione; raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria, sia come lettura costante del rapporto tra norma e attuazione, sia come base informativa per la sensibilizzazione sociale al problema del carcere anche attraverso l’Osservatorio nazionale sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione; cura la predisposizione di proposte di legge e la definizione di eventuali linee emendative di proposte in corso di approvazione; promuove campagne di informazione e di sensibilizzazione su temi o aspetti particolari, comunque attinenti all’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese, anche attraverso la pubblicazione del quadrimestrale Antigone". Una realtà che arriva anche in Umbria per promuovere iniziative e svolgere servizi utili alle persone ristrette in carcere e alla divulgazione di tutte le informazioni che "il cittadino dovrebbe possedere rispetto alla situazione carceraria del territorio in cui vive. Le condizioni del sistema carcerario - commenta la dottoressa Materia - sono un problema politico, sono un problema di attualità e soprattutto sono il segno della civiltà di un popolo". L’inaugurazione si svolgerà venerdì 13 novembre alle 18 nel Circolo Island, situato nella Strada vicinale del Bellocchio. Al pomeriggio interverranno: il professor Stefano Anastasia, presidente onorario di Antigone; il professor Carlo Fiorio, già Garante dei diritti dei detenuti della Regione Umbria e la dottoressa Simona Materia, presidente di Antigone Umbria. Durante l’incontro si svolgerà il tesseramento dei nuovi soci e si provvederà a illustrare in dettaglio le attività che l’associazione umbra offrirà sul territorio. Per maggiori informazioni, è possibile consultare la pagina Facebook "Antigone Umbria" e il sito dell’associazione nazionale. Genova: carcere di Pontedecimo, la manutenzione della struttura è affidata ai detenuti di Erica Manna La Repubblica, 12 novembre 2015 Progetto pilota tra spending review ed opportunità per i reclusi. Le docce, nelle celle di Pontedecimo, erano state sradicate nell’ultima rivolta interna. Adesso sono tornate al loro posto: rimesse a nuovo così come i bagni, dai muri alle piastrelle. Anche il giardino era pieno di erbacce: una squadra lo ha risistemato, e lo tiene in ordine. No, nessun intervento straordinario: sono stati i detenuti stessi, a fare il restyling del loro carcere. Piccole squadre da sei, venti persone in tutto: che vengono pagate con una piccola borsa lavoro, con un enorme risparmio di denaro rispetto all’ingaggio di una ditta esterna. E di trafile burocratiche, perché le procedure per far entrare nella casa circondariale operai da fuori sono, come si può immaginare, tortuose. Il progetto pilota, partito a Pontedecimo a gennaio con Ceis, il centro di solidarietà di Genova, insieme all’amministrazione penitenziaria con la collaborazione di artigiani a fare da istruttori e i fondi della Compagnia di San Paolo, prevede laboratori di formazione, teorici e pratici, dedicati ai detenuti. In tre settori: edilizia, idraulica e manutenzione del verde. "Per ora partecipano venti uomini - spiega Ramon Fresta di Ceis - divisi in piccoli gruppi. Il progetto andrà avanti fino a febbraio. Queste persone vengono pagate con una borsa lavoro: per ora, hanno rimesso a nuovo una sezione della casa circondariale, bagni e docce. Altri si occupano del giardino. Un lavoro educativo: garantisce loro un minimo di entrate, e li fa sentire utili alla società". Alcuni dei nuovi tuttofare di Pontedecimo avevano partecipato al progetto Inclusi, partito un anno e mezzo fa per orientare al lavoro i detenuti di Pontedecimo, Marassi e Chiavari: quasi ottocento persone, a cui offrire una possibilità. "Due ragazze sono state assunte in una cooperativa della Valpolcevera che si chiama Scart - spiega Fresta - e produce borse con materiali di riciclo utilizzando manifesti pubblicitari". Sempre con questo obiettivo è stato creato Tir, sigla che sta per Tavolo integrato di reinserimento: partecipano Città Metropolitana, Sert e gli enti del privato sociale, con un protocollo d’intesa firmato dalla Regione: per massimizzare le poche risorse a disposizione e coordinare meglio i soggetti coinvolti. Catania: le borse dal carcere di piazza Lanza alle boutique di lusso, ecco la storia di Pinella Leocata La Sicilia, 12 novembre 2015 Le borse delle detenute di piazza Lanza sono in vendita nelle boutique d’alta moda, in Italia e all’estero, artigianato di qualità inserito nella catena dei prodotti di lusso per il marchio di Ilaria Venturini Fendi. La cooperativa "FiloDritto" ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta Ninni Fussone, la donna che l’ha ideata e che la guida con appassionata dedizione. Ha creduto in questo progetto su cui nessuno avrebbe scommesso nulla e gli esiti le hanno dato ragione. Una storia che parte da lontano, dalla sua scelta di lavorare con i detenuti e i malati di mente coinvolgendoli nella creazione di oggetti in feltro. La prima "opera" nasce da un dono: le vecchie coperte usate dai carcerati che l’amministrazione penitenziaria di Vercelli deve dismettere. Con una di queste, insieme alle detenute di Enna, la "sociologa-artigiana" realizza un grande plaid con una fioritura di primavera siciliana. Un prato grigio che esplode di papaveri, calendule, fiori di zafferano, coccinelle, sassi. Diviene il "manifesto" di un progetto volto a creare lavoro nelle carceri. Non lavoretti passatempo, pretesto per una mortificante beneficenza, ma strumento per imparare un mestiere da mettere a frutto per fare impresa, per crearsi un’occupazione dietro le sbarre e soprattutto dopo, all’uscita. Un progetto che nel 2013 si sposa perfettamente con quello promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia, il progetto "Sigillo" che prevede l’erogazione di borse lavoro, per un anno, per la formazione professionale di detenute che, poi, dovranno camminare da sole, essere in grado di produrre e di commercializzare i propri oggetti all’esterno del carcere. La casa circondariale di piazza Lanza partecipa a questa prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditoria delle detenute attraverso la cooperativa sociale "FiloDritto". La direttrice del carcere Elisabetta Zito individua uno spazio, trova le risorse per risistemarlo e lo mette a disposizione di questo progetto. Adesso i risultati, lusinghieri. Le borse - create da pannelli di coperte lavorati con il feltro e la lana e trasformati in quadri artistici - sono vendute, a prezzi salati, in alcune delle boutique più esclusive d’Italia (a Catania da Helmè) e in Giappone. Sono prodotte per "Carmina Campus", il marchio di Ilaria Venturini Fendi che si caratterizza per l’uso di materiale riciclato, e dunque per il rispetto dell’ambiente, e per i processi di produzione socialmente etici qual è il coinvolgimento di lavoratrici detenute cui viene chiesto di garantire l’alta qualità del prodotto. "FiloDritto" lavora così e, in quanto tale, è parte di "socially made in Italy", la rete delle cooperative che lavorano nell’artigianato per il mercato di lusso, rete di cui fanno parte anche la Cooperativa Alice di Milano, dove le detenute cuciono le toghe di magistrati e avvocati, e la cooperativa di Brescia che si è specializzata in maglieria in cashemere. Le procedure sono complesse. I "pannelli" lavorati a piazza Lanza vengono spediti nella casa romana della maison dove vengono controllati - e se non sono perfetti sono rispediti indietro e vanno rifatti - e da qui inviati a Venezia per le rifiniture in pelle o altro. Poi l’arrivo nelle boutique del lusso collegate a questa rete. Il ministero di Grazia e Giustizia ha dato il proprio patrocinio a "Socially made in Italy", ma finora non ha erogato gli attesi finanziamenti. Intanto "FiloDritto" ha assunto una persona a tempo determinato, con paga sindacale. "Sembra poco - commenta Ninni Fussone - ma è tanto ed è importante. È forse la prima volta, in Sicilia, che una ditta esterna assume una donna in carcere. Ed è importante perché fa dire a chi sta dentro "possiamo farcela" e perché mostra all’ambiente da cui le detenute provengono che si può cambiare vita". È quello che le hanno detto le detenute quando sollecitava le loro parole per definire questa esperienza. "Questo progetto mi ha cambiato la vita. Quando esco voglio continuare". Ma come? Con quale sostegno? Per questo Ninni Fussone chiede che si trovi e venga messo a disposizione uno spazio dove creare un laboratorio, magari in uno dei beni confiscari alla mafia. Per questo, a nome di "FiloDritto", esprime il desiderio di "poter dialogare con il territorio, con gli imprenditori locali per cui la cooperativa potrebbe produrre gadget etici e di qualità. I designer potrebbero sbizzarrirsi". E ricorda che un progetto - per insegnare alle detenute a ideare le etichette e a saper affrontare le tematiche della comunicazione e del packaging relativo ai nuovi prodotti - è già stato finanziato dai Valdesi con i fondi dell’8 per mille. Propone e attende. Con pazienza e determinazione, come sempre. Vicenza: la mensa del carcere è ko. Zaia "dov’è il ministero?" Giornale di Vicenza, 12 novembre 2015 Il governatore del Veneto interviene sul caso del San Pio X. "Per cercare un minimo di attenzione da parte dei Ministeri competenti toccherà rivolgersi a "Chi l’ha Visto?", dal momento che più che competenti sono perennemente assenti, mentre in Veneto succedono cose dell’altro mondo". Con queste parole il presidente della Regione, Luca Zaia, accendei riflettori su alcune notizie di cronaca che, secondo il Governatore, "sono la testimonianza vissuta dello sbando nel quale sono lasciati aspetti vitali di un Paese che voglia dirsi civile". Tra queste c’è anche quella degli agenti del carcere di San Pio X "che mangiano al sacco perché la loro mensa è infestata da scarafaggi e altri sgraditi ospiti". Zaia prosegue: "Io chiedo, ma i cittadini e i lavoratori della sicurezza pretendono che i Ministeri dell’Interno e della Giustizia battano un colpo. Che si pensi meno a come riorganizzare le poltrone del Senato e di più ai problemi reali della gente e dei loro servitori". Il Governatore critica duramente la situazione al San Pio X: "Da giorni, gli agenti penitenziari del carcere di Vicenza sono costretti a mangiare al sacco perché la loro mensa è infestata di scarafaggi, in una situazione nella quale mancano fondi, e lo stabile è fatiscente con locali inagibili. No. Non si può. Non si deve. La dignità non va garantita solo ai carcerati". Zaia cita anche i casi trevigiani di una famiglia rapinata in casa e le pattuglie di polizia costrette a guidare auto con gomme usurate: "A Treviso e a Vicenza sono emerse tre facce di una stessa medaglia. Tutte e tre, purtroppo, sono molto brutte. La medaglia ha ben tre rovesci". Vicenza: la Cgil dopo visita al carcere "strutture per personale da rendere salubri" vicenzapiu.com, 12 novembre 2015 Pubblichiamo di seguito "l’esito" inviato al Capo del Dap Pres. Santi Consolo diffuso dalla Cgil Vicenza della visita dei rappresentanti sindacali al carcere di Vicenza avvenuta nei giorni scorsi Signor Presidente. Una delegazione appartenente alla scrivente O.S. Fp-Cgil in data 9 novembre 2015 ha eseguito una vista, ai sensi dell’art. 5 co. 6 del vigente A.Q.N., all’interno della Casa Circondariale di Vicenza. Predetta delegazione è stata accolta e intrattenuta dal Direttore reggente e dal Comandante del Reparto che gentilmente hanno fornito dei dati sia sul personale di Polizia Penitenziaria presente e detenuti. Infatti la popolazione detenuta presente il giorno delle visita consta di 233 detenuti, collaboratori compresi. Personale di Polizia Penitenziaria amministrato è di 156 unità, nucleo traduzioni compreso, ve ne sono 13 persone in distacco e 7 in missione. Durante l’incontro come Organizzazione Sindacale abbiamo espresso le nostre perplessità in merito alla costruzione del nuovo padiglione, il quale esternamente sembra volgere alla fine dei lavori, dove con il personale attualmente a disposizione nel carcere vicentino sarà molto difficoltosa l’apertura. Significativa è la richiesta di formazione per il personale per la gestione di eventi critici. La Casa Circondariale di Vicenza è collocata in una zona periferica, umida e infestata da zanzare nel periodo estivo. La struttura rientra tra "le carceri d’oro" edificata negli anni 80 e ne presenta tutte rinomate caratteristiche: infiltrazioni, crepature, precarietà negli impianti. Infatti, in portineria 1, così definita, vi sono infiltrazioni d’acqua dal soffitto e molti fili ambulanti che mettono a rischio il personale che vi lavora al suo interno; mentre in portineria 2 ci sono sempre i soliti fili ambulanti e vi permane un forte odore. La sala operativa o regia risulta essere obsoleta e con poche telecamere, alcune non funzionanti, inoltre predetto posto risulta essere inidoneo a contenere il personale, questo soggetto ad onde elettrostatiche emesse dagli apparecchi interni. All’interno dove ci sono le rotonde, così definite, il personale è sprovvisto da un apposito ufficio, poiché questo si trova al di là dei cancelli divisori, usando un tavolo posto al centro della rotonda dove deposita i registri e altri documenti necessari per il servizio. Il predetto personale non ha un bagno costringendolo ogni qual volta a chiedere il cambio per poter andare al primo bagno utile nelle vicinanze. Tale situazione si è creata con l’apertura delle celle e con conseguente chiusura dei cancelli divisori. La soluzione per ovviare al problema suesposto è quella di spostare i cancelli divisori affinché ci si possa accedere all’ufficio che è ubicato al di là di essi, come il bagno. questa soluzione vale sia per il primo che per il secondo piano. Mentre alla rotonda del piano terra la situazione sembra paradossale poiché si è riscontrato che nelle vicinanze dell’infermeria, cappella e teatro vi è una centralina che controlla una parte dell’Istituto, questa facilmente accessibile a chiunque poiché la stessa ha un cancello divisorio al di là della stessa. Inoltre il personale che opera nella suddetta rotonda è sprovvisto di bagno, come sprovvisto di apposito bagno i detenuti che svolgono attività ricreativa e lavorativa all’interno del teatro, i quali per poter fruire del bagno sono costretti ogni qual volta a chiedere autorizzazione al personale di polizia penitenziari per recarsi al bagno più vicino che è situato nella zona delle aule. Significando che il personale di polizia penitenziaria femminile che presta attività lavorativa nella rotonda del piano terra in qualità di preposto o altro, questo è costretto a recarsi nella caserma per il bagno. Per quanto riguarda la mensa di servizio del personale è chiusa per le note vicende di questi giorni. La chiusura della mensa sta creando enorme disagio al personale che è costretto a ricorrere a panini, poiché ancora non è stato riconosciuto il buono pasto per la mancata fruizione, per gli aventi diritto della mensa. Inoltre, da quanto ci è stato riferito dal Direttore che appena la mensa ritornerà a funzionare i pasti del personale di Vicenza saranno confezionanti dalla Casa di Reclusione di Padova e trasportati al carcere vicentino poiché la cucina presente nel predetto istituto non è a norma e non funziona. Signor Presidente già l’anno scorso una nostra delegazione aveva fatto un sopralluogo all’interno della Casa Circondariale vicentina riscontrando i medesimi punti succitati, ma quest’anno in alcune zone dell’Istituto vicentino: portineria 1 e 2, mensa agenti, caserma agenti risultano peggiorati. Per quanto sopra si chiede urgentemente un Suo prezioso intervento poiché se si aspetta ancora la situazione dell’Istituto vicentino non farà altro che peggiorare. Le chiediamo s’intervenire sul Provveditore regionale affinché convochi le OO.SS. per una verifica oltre della dotazione organiche anche per verificare la salubrità dell’Istituto vicentino. Il Coordinatore Regionale Fp-Cgil Veneto Penitenziari Il Segretario Provinciale Fp-Cgil Vicenza Venezia: trovato proiettile in cella, nascosto da un detenuto di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 12 novembre 2015 Gli agenti della Polizia penitenziaria del carcere maschile lo hanno scoperto dentro un calzino durante una perquisizione di routine. Indagini della Procura. Durante una perquisizione di routine gli agenti della Polizia penitenziaria di Santa Maria Maggiore, nella cella di un detenuto, hanno trovato un proiettile. Era nascosto all’interno di un calzino e naturalmente non avrebbe dovuto passare i controlli ai quali viene sottoposto ogni pacco inviato dai familiari. Lo stesso vale per coloro che fanno visita a un detenuto: vengono perquisiti prima dell’incontro. Eppure quel proiettile, ancora da esplodere, è passato indenne, nonostante verifiche e accertamenti, ma si sa che quando scattano ogni giorno non sempre l’attenzione quotidiana è al massimo. Comunque, alla fine, gli agenti hanno scovato egualmente il proiettile quando era già arrivato a destinazione: il detenuto, infatti, lo aveva ricevuto e lo aveva nascosto tra i suoi indumenti. Che poteva farsene il detenuto di un proiettile? Perché lo ha ricevuto? Sono domande alle quali dovrà rispondere l’indagine aperta dal pubblico ministero di turno, che intanto ha aperto un fascicolo nei confronti del detenuto per detenzione illegale di una parte di un’ arma. La legge, infatti, prevede quest’imputazione non soltanto quando il soggetto in questione possiede un’arma completa e funzionante, ma pure quando ne possiede una parte, un pezzo, anche un unico proiettile. Presumibilmente il pm lo chiederà al detenuto che lo aveva nascosto senza, però, avere grande speranza che voglia rispondere. Naturalmente, il magistrato chiederà accertamenti e verifiche per stabilire soprattutto come è arrivato il proiettile e chi lo ha inviato o consegnato, oltre che per capire quale uso ne doveva fare chi lo deteneva. Un proiettile di solito serve per sparare, ma è necessaria un’arma e gli agenti non l’hanno trovata nonostante abbiano setacciato a dovere la cella dopo aver scoperto il proiettile. Hanno sospettato subito che potesse esserci anche una pistola o comunque un attrezzo in grado di sparare, quindi hanno compiuto controlli accurati e non solo nella cella del detenuto in questione. Ma una pistola, anche se smontata, non è facile da far passare, a meno che non vi sia la collaborazione di uno o più agenti. Nel carcere di Padova è venuta alla luce una vera e propria banda composta anche da agenti che riusciva a far entrare di tutto nelle celle, ma a Venezia non è così e ora gli inquirenti sperano con le indagini di scoprire come sia riuscito il detenuto ad avere e nascondere un proiettile inesploso Lucca: la Garante dal Sindaco "iniziative per il carcere e per i percorsi post-detenzione" lagazzettadilucca.it, 12 novembre 2015 Ieri mattina il garante dei detenuti a colloquio con il sindaco Tambellini "incrementare e valorizzare le iniziative per il carcere e per i percorsi post detenzione". Un colloquio di circa un’ora, nel corso del quale il primo cittadino ha inquadrato le questioni principali che riguardano la casa circondariale di Lucca, puntando l’accento da una parte sulla necessità di implementare tutte le iniziative utili al miglioramento della condizione di detenzione e per realizzare prospettive utili per il reinserimento delle persone che sono state sottoposte ad un periodo di regime carcerario. "L’amministrazione ha già dato vita in collaborazione con la direzione della casa circondariale - ha detto Tambellini - a una serie di iniziative volte da una parte a favorire un nuovo inserimento di quanti si apprestano a lasciare il carcere e a rientrare nella vita quotidiana, dall’altra sono state impostate all’interno del carcere stesso iniziative di tipo culturale che dovremo incrementare ulteriormente". Con l’insediamento del garante dei diritti dei detenuti, il Comune di Lucca si dota finalmente di una figura per la mediazione dei conflitti all’interno della casa circondariale cittadina e di raccordo tra amministrazione comunale e amministrazione penitenziaria. La scelta di Angela Mia Pisano, laureata in legge in diritto internazionale, è avvenuta attraverso un percorso partecipato e dopo una votazione che ha visto il consiglio comunale esprimersi in suo favore per oltre i due terzi dei componenti richiesti dalla norma statutaria. Con questo atto l’amministrazione comunale completa un ciclo di iniziative che costituisce un percorso organico sul tema dei diritti: cittadinanza, pari opportunità, unioni civili, accoglienza, rifiuto della pena di morte. Le congratulazioni di Renato Bonturi, presidente della Commissione partecipazione. Renato Bonturi, presidente della commissione partecipazione che ha svolto l’istruttoria per l’individuazione del garante dei detenuti, esprime soddisfazione per il risultato raggiunto, che per la prima volta dota Lucca di questa figura a garanzia della popolazione carceraria. "Auguro buon lavoro alla dottoressa Pisano - dichiara Bonturi - che entra nel pieno esercizio delle sue funzioni. Colgo l’occasione per ricordare la figura di Alessandro Bertolucci, di cui tra pochi giorni ricorre il primo anniversario della scomparsa, che del tema dei diritti è stato ispiratore sincero, onesto e appassionato e che ha saputo dare un contributo fondamentale in termini di idee e di motivazione al raggiungimento degli obiettivi che ci eravamo posti". Roma: "Verso una comune sfida educativa", detenuti e studenti si incontrano di Massimo Lauria di-roma.com, 12 novembre 2015 Oggi 12 novembre la seconda edizione del convegno nazionale "Verso una comune sfida educativa". Docenti in carcere, accademici, giornalisti, sociologi, detenuti e studenti si incontrano per discutere di prevenzione sociale alla devianza ed educazione alla legalità Si apre oggi a Roma la seconda edizione del convegno nazionale "Verso una comune sfida educativa". Il dentro e il fuori le mura del carcere si incontrano per promuovere una giornata di riflessione e proposte concrete. Prevenzione sociale alla devianza ed educazione alla legalità fanno da sfondo all’incontro tra gruppi di detenuti degli Istituti penitenziari di Regina Coeli e Rebibbia e gruppi di studenti delle scuole secondarie romane, tre cui il Pertini-Falcone, il Cattaneo e il Gassman. Si tratta, dicono gli organizzatori, di un percorso di prevenzione sociale con l’obbiettivo di "creare un’apertura al mondo esterno attraverso un approccio democratico e partecipato e ha l’obiettivo di promuovere il riconoscimento della persona, la responsabilità e la consapevolezza delle azioni verso se stessi e gli altri". "Quando sono entrato in carcere mi hanno detto che potevo andare a scuola e mi sembrava impossibile, ma quando mi sono seduto tra i banchi ho incontrato la libertà. E poi mi hanno anche detto che potevo incontrare gli studenti della scuola esterna, e quando li ho incontrati mi sono sentito importante". In questa lucida e commossa riflessione di un ospite del carcere di Rebibbia è contenuto il significato dell’incontro romano di giovedì. Ad aprire i lavori c’è il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio, Maria Claudia Di Paolo. Insieme a Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale alla Sapienza di Roma, nominato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando coordinatore del comitato degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Con loro anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma; il vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis. E poi la giornalista de il Sole 24 Ore Donatella Stasio e la docente in carcere Maria Falcone Molti i tavoli di discussione aperti, su cui si alternano studenti, docenti, sociologi e direttori degli istituti di pena. L’idea, fanno sapere gli organizzatori, è creare "un’apertura al mondo esterno attraverso un approccio democratico e partecipato, finalizzato a promuovere il riconoscimento della persona, la responsabilità e la consapevolezza delle azioni verso se stessi e gli altri. In un Paese che deve fare i conti con il sovraffollamento delle carceri, con lungaggini processuali al limite del ridicolo e con una giustizia a volte inadeguata - che scarica agli operatori sul campo il peso di una difficile convivenza - non è sempre facile parlare di educazione alla legalità e democraticità della pena. E proprio su questi temi che si apre la sfida per un’apertura alla necessità di riflettere e intervenire sui due fronti opposti: il "dentro" e il "fuori", che rappresentano una distanza prospettica a volte solo apparente. "Da una parte ci sono i giovani che dimostrano fragilità nelle azioni: i dati statistici rilevano che sono, in alcuni casi, anche autori di atti di bullismo o di azioni che sfociano nell’illegalità. Dall’altra parte ci sono i detenuti che sono in carcere per aver commesso un reato". È su questo dualismo che si fonda il tentativo degli organizzatori di aprire una strada "verso una comune sfida educativa". Sondrio: "Un giovedì da campioni, inaugurazione della palestra della Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2015 Creval per lo Sport, il 26 novembre 2015 alle ore 18.00. Ospiti d’eccezione Giorgio Rocca, Alice Gaggi e Giorgio Dell’Agostino. Un evento culturale e sportivo aperto alla cittadinanza: lo sport come un elemento importante della crescita educativa, anche delle persone detenute. Durante la serata interverranno i 3 campioni valtellinesi per testimoniare il loro impegno e la loro passione, portando energia positiva e speranza ed una selezione delle principali squadre di Sondrio. Seguirà una cena preparata dai detenuti e allietata dal jazz di Alfredo Ferrario, Roberto Piccolo e Massimo Caracca. Offerta minima di 10 euro che serviranno per un nuovo progetto: la ristrutturazione della biblioteca. 50 posti disponibili, riservato a maggiorenni. È necessaria la prenotazione entro il 20.11 comunicando nome, cognome, recapito telefonico via tel. 0342212031, tutti i gg dalle 9 alle 11 e dalle 15 alle 18, oppure via mail cc.sondrio@giustizia.it Occorrerà presentarsi alle ore 17.30 davanti all’ingresso principale della Casa Circondariale, via Caimi 80 - Sondrio, muniti di documento d’identità. Non sarà possibile accedere con cellulare che potrà essere depositato in segreteria. Creval e i suoi campioni sostengono l’evento. Televisione: storia di Lea, l’altra verità di Stefano Crippa Il Manifesto, 12 novembre 2015 Il film di Marco Tullio Giordana con il sostegno di Libera ha aperto RomaFiction Fest, il 18 novembre su Rai 1. Quella di Lea Garofalo è una delle storie di criminalità più efferate uscite dalla cronaca degli ultimi anni. Compagna di un affiliato della ‘ndrangheta, padre di sua figlia Denise, finita sotto protezione quando decide di denunciare gli affari illeciti dell’uomo e della sua famiglia. La donna scompare nel nulla a Milano il 24 novembre 2009. Solo grazie al coraggio della ragazza - e alla testimonianza di un pentito - il corpo della donna verrà ritrovato tre anni dopo, e il compagno e i complici - autori del delitto - condannati all’ergastolo. Denise ora vive sotto protezione speciale. Una vera tragedia greca su cui Marco Tullio Giordana ha impostato i novanta minuti di Lea, il film tv che ha aperto ieri la nona edizione del Roma Fiction Fest e che andrà in onda su Rai 1 il 18 novembre. Girato in sei settimane, produzione Rai e Angelo Barbagallo con l’Associazione produttori tv e la fondazione cinema per Roma, è un film nato grazie anche alla fattiva collaborazione con Libera e con Don Ciotti: "Fanno un lavoro straordinario - sottolinea Giordana - perché l’unico terreno su cui le mafie non sono preparate è proprio quello culturale che sottovalutano. Si preoccupano di giudici, carcere pensando che libri e film siano qualcosa di pittoresco. E non è così, perché poco per volta libri, film, lavoro nelle scuole formano una opinione che poi taglia l’erba e l’incendio mafioso". Lea è stato donato dalla Rai a Libera: "Sarà uno strumento di lavoro in più per l’associazione, perché è un film che entra nel pensiero e nelle coscienze", sottolinea Tinni Andreatta, direttore di Rai fiction. Quindici anni fa il regista raccontava un’altra storia di mafia in 100 passi incentrata intorno alla figura di Peppino Impastato. Ma nel film trovano spazio anche i tentennamenti dei protettori di giustizia, le maglie strette e rigide della burocrazia: "Non è proprio così - spiega Giordana -, intanto lo stato non è quel blocco compatto come quando diciamo la chiesa o la Rai. Ci sono tante persone, tante teste, azioni e reazioni. E allora nel caso della storia di Lea c’è una parte dello stato che è stata impeccabile. Non voglio gettare la croce, in questa vicenda c’è un’attività investigativa all’altezza della situazione e una parte che non lo è stata. Non volevamo però essere reticenti, fare un santino né di Lea né degli eroi che hanno contribuito a scoprire quello che è successo". Lea è interpretata da Vanessa Scalera (un passato in teatro e poi al cinema con Bellocchio, Moretti ed in tv nella serie Squadra antimafia): "È stato fatto un forte lavoro sui testi, sulla cronaca ma in realtà Marco mi ha chiesto di trasfigurare Lea e quindi ho pensato di rendere la recitazione molto istintiva". Linda Caridi è Denise: "Ovviamente non sono potuta entrare in contatto con lei ma ho potuto visionare alcune interviste in cui il suo volto è oscurato e la voce modificata. Ho cercato di rendere il contrasto che c’è nella fragilità di una ragazza che si trova improvvisamente da sola dopo un infanzia di peregrinazioni e in contatto quotidiano con la violenza, percosse usura e quanto di tremendo gli accadeva intorno". Una storia in cui non è stato modificato niente, unica libertà in fase di sceneggiatura quella di condensare in un solo processo i tre che realmente vennero celebrati: "Non ho toccato nulla - sottolinea il regista- perché è una vicenda straordinariamente piena di colpi di scena. Penso sarebbe stato difficile immaginare un film su un omicidio dove è coinvolto il ragazzo della figlia, che ha aiutato gli assassini a smembrare e bruciare il corpo. Tutto difficile da immaginare senza che nessuno si immagini in fase di sceneggiatura, "ma questo è troppo". Alla realtà qualche volta non crede nessuno ed invece è lì". Immigrazione: fondi Ue all’Africa, l’italiano Filippo Grandi all’agenzia dell’Onu di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 12 novembre 2015 Il segretario generale Ban Ki-moon annuncia all’Assemblea generale delle Nazioni unite la scelta del diplomatico milanese per la guida dell’Unhcr: guiderà uno staff di 10mila persone. Il summit straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Ue sull’emergenza migranti è stato convocato d’urgenza a Malta per tentare ancora una volta di concordare una politica comune, che nei vertici simili degli ultimi mesi è emersa solo nelle dichiarazioni e senza adeguati interventi concreti. Il presidente polacco del Consiglio europeo Donald Tusk, su pressione della cancelliera Angela Merkel, lo ha inserito oggi al termine della due giorni di incontri a La Valletta tra Ue e Africa. L’Italia ci arriva sull’onda della designazione alla guida dell’importante agenzia Onu per i rifugiati (Unchr) di Filippo Grandi, scelto dal segretario generale Ban Ki-moon. La nomina deve essere ora ratificata dall’Assemblea dell’Onu. Ma fonti diplomatiche hanno segnalato l’assenza di ostacoli perché Grandi, 58 anni, milanese, vanta un curriculum importante nello specifico settore, sviluppato anche nella stessa Unchr (che conta circa 10 mila addetti). "Un riconoscimento alle qualità e all’esperienza di Grandi e all’Italia su un tema chiave come quello dei rifugiati e dei profughi" ha commentato il premier Renzi. Merkel, messa sotto pressione in Germania nel suo stesso partito per i suoi annunci di "porte aperte" ai rifugiati (sollecitate dalle industrie tedesche interessate ad accogliere personale qualificato e manodopera a basso costo proveniente da Siria e Iraq), avrebbe mobilitato Tusk perché intenderebbe ammorbidire la sua linea. Diventerebbe così meno difficile la ricerca di un compromesso sulla ripartizione dei profughi, che ha provocato l’opposizione di vari Paesi membri (non solo dell’Est) e richieste di rafforzamenti dei controlli alle frontiere e di rimpatri forzati. Il premier Matteo Renzi, che punta a ottenere dall’Ue maggiore flessibilità nei conti pubblici per i costi sostenuti dall’Italia per l’emergenza migranti nel Mediterraneo, insiste sulle politiche di condivisione. Forti divisioni le ha create anche la decisione di Merkel e dei vertici filo-Berlino delle istituzioni comunitarie di appoggiare il presidente turco Racep Tayyip Erdogan nella sua vittoriosa campagna elettorale, spostando a dopo il voto la diffusione del rapporto Ue sulle pesanti violazioni dei diritti umani e della libertà di stampa in Turchia. Nell’Europarlamento sono emerse dure critiche alla linea di delegare al governo di Ankara l’accoglienza di circa due milioni di profughi arrivati da Siria e Iraq (e di vari milioni stimati in arrivo nei prossimi anni). Oggi se ne parlerà a Malta. Anche nel summit Ue-Africa l’obiettivo europeo è convincere i Paesi di origine e di transito dei migranti a frenare l’esodo verso l’Europa e a combattere i trafficanti di esseri umani. "La popolazione africana raddoppierà nei prossimi 35 anni e continuerà a crescere in seguito allo stesso tasso - ha ammonito Tusk. Con i nostri partner africani stiamo affrontando una sfida molto più profonda che la semplice crisi migratoria". Ingenti finanziamenti Ue verrebbero elargiti agli Stati dell’Africa. Oggi dovrebbe essere varato un Fondo fiduciario di almeno 1,8 miliardi. Renzi ha annunciato la disponibilità italiana a contribuire. In cambio i governi africani dovrebbero accettare i connazionali rimpatriati e impegnarsi a selezionare sul posto chi ha i requisiti per richiedere l’asilo nell’Ue (impedendo le partenze alle masse alla ricerca di migliori condizioni economiche). Molti Stati africani sono però arrivati a La Valletta per ottenere proprio facilitazioni e canali legali per gli immigrati economici. A complicare le trattative su un piano d’azione comune sono anche i dubbi di vari leader Ue sul finanziare Paesi ad alto rischio di corruzione e che non rispettano i diritti fondamentali. Immigrazione: la Cancelliera Merkel sempre più sola di Marco Bascetta Il Manifesto, 12 novembre 2015 Incomprensioni, malintesi? Decisamente qualcosa di più. Se la "svolta" di agosto di Angela Merkel, la clamorosa apertura ai profughi siriani, doveva conferire alla Germania una sorta di guida morale dell’Europa, tale da correggere l’immagine di egoismo e intransigenza che Berlino aveva dato di sé nella gestione della crisi dei debiti sovrani, la sua efficacia si è rapidamente esaurita. Le spalle larghe, la sicumera del "ce la facciamo", il rigore capace di tradursi in solidarietà sono presto entrati in uno stato confusionale. Incapace di contrastare le chiusure nazionaliste delle cosiddette "democrazie postsocialiste" il governo tedesco vede traballare sempre più pericolosamente i suoi equilibri interni. Prima la ricca Baviera governata dalla Csu di Horst Seehofer, aveva minacciato di chiudere non solo le sue frontiere esterne, ma di mettere sotto controllo anche quelle con il resto della Germania, se Berlino non avesse radicalmente rivisto la nuova politica sull’immigrazione. Poi il ministro degli interni Thomas De Mazière, membro dello stesso partito della Cancelliera, annuncia che le regole del trattato di Dublino ( le quali prevedono che la richiesta di asilo debba essere effettuata nel primo paese dell’Unione raggiunto dai migranti) tornano ad essere effettive anche per i profughi siriani. E soprattutto non avverte della sua dichiarazione né Angela Merkel, né gli alleati di governo della Spd, che la prendono assai male. Questo a pochi giorni da un vertice tra Cdu, Csu ed Spd in cui sembrava raggiunto un accordo sulla gestione della "crisi dei migranti". La reazione della Cancelleria è alquanto balbettante. La portavoce Christiane Wirtz si è subito affannata a precisare che non ci sarebbe stata alcuna retromarcia nella "politica di benvenuto" della Germania e che se è vero che alcuni aspetti dei trattati dovrebbero essere corretti è anche vero che gli accordi di Dublino sono tutt’ora vigenti. Siamo ben lontani dai titoloni di prima pagina in cui Berlino dichiarava decisamente superato il trattato di Dublino. Se non è una retromarcia le assomiglia molto. Non è facile svolgere il ruolo di guida politico-morale dell’Unione da una posizione così precaria. La gestione della crisi sfugge dalle mani della Cancelleria e questo non mancherà di avere ripercussioni immediate sul resto d’Europa. Ogni irrigidimento, ogni misura protezionista contro la circolazione di esseri umani, ne determinerà altre in una incontrollabile reazione a catena. La resurrezione di Dublino rischia di trasformarsi in breve nell’agonia di Schengen. La Csu e la destra della Cdu sembrano avere trovato l’occasione per porre fine a quello che giudicano uno spostamento progressivo di Angela Merkel verso posizioni di centrosinistra. È una forzatura arrischiata in un paese nel quale la "crisi dei migranti" ha determinato una forte polarizzazione sociale, tra movimenti xenofobi e vaste reti di cittadini e attivisti di impronta solidale e antirazzista. Per non parlare dei malumori nei paesi di frontiera, come l’Italia, che già si vantavano di aver imposto alla Germania una politica più solidale con le proprie difficoltà a fronte degli imponenti flussi migratori. Immigrazione: sono i muri a creare i trafficanti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 12 novembre 2015 Un’altra cooperazione: contro rimpatri forzati e aiuti condizionati, le proposte delle Ong. Le associazioni europee e africane che si occupano di migranti e di diritti umani, incluso quelle tunisine che hanno vinto il Nobel per la Pace, non sono state accreditate al vertice di La Valletta, pur avendolo chiesto insistentemente. Non possono neanche assistere al dibattito dentro il Mediterranean Conference Centre della capitale maltese tra i capi di Stato e di governo africani e europei chiamati a decidere misure di lungo termine che modificheranno nel profondo gli sviluppi delle rispettive società. Tutti agli arresti domiciliari, senza libertà di muoversi, divisi i "buoni" dai "cattivi" in base alla nazionalità: così la tecnocrazia immagina la gestione del fenomeno migratorio. Vedremo gli esiti ma già la loro non ammissione, la dice lunga sulla democraticità delle procedure e pare normale solo in un’Europa trasformata in una grande "zona rossa". Anche perché le organizzazioni della società civile, sia laiche sia cattoliche, che ieri hanno comunque presentato le loro ragioni in conferenze stampa e convegni, rivolgono al summit di Malta sostanzialmente le stesse critiche di fondo: primo, il flusso di profughi non può essere arrestato con muri, fili spinati, guardie di frontiera, per quanto ipertecnologiche, o Hotspot. Secondo, per modificare le motivazioni della fuga di massa delle persone da carestie e guerre e ridare senso di convivenza anche all’Europa si deve adottare un "nuovo ordine mondiale umanitario". La dizione è stata usata ieri dal Gran Cancelliere dell’Ordine di Malta, Albrect Freiherr von Boeselager, presentando la conferenza "Popoli in fuga dalla guerra: soccorso, assistenza, integrazione" organizzata in preparazione del World Humanitarian Summit dell’Onu previsto a Istanbul a maggio. "La situazione per i migranti sta diventando sempre più disperata: con l’arrivo dell’inverno queste persone sono esposte a rischi maggiori per la loro salute. Erigere muri non servirà a gestire questo fenomeno", ha detto von Boeselager. E Sandro Gozi, sottosegretario agli Esteri di Palazzo Chigi, ha ammesso che "usare la parola emergenza per definire il fenomeno dei migranti significa o non capire la situazione o essere in mala fede o fare demagogia". A trarre le conclusioni di questo ragionamento e a proporre altre strade d’intervento rispetto a quelle dei rimpatri forzati e degli aiuti ai paesi africani e mediorientali condizionati alla limitazione dei flussi di migranti, che sono i caposaldi della nuova politica di cooperazione studiata dai tecnocrati di Bruxelles, è un cartello di associazioni, ong e sindacati di cui fa parte anche l’Arci e la Cgil. Ieri i rappresentanti italiani di questo cartello hanno illustrato a Montecitorio la dichiarazione comune con cui contestano l’approccio del summit euro-africano sulla migrazione di Malta, che - dicono - sta esponendo l’Europa a un drammatico fallimento. In particolare, si legge ancora nella "chiamata urgente per i leader europei e africani", è inquietante che le negoziazioni bilaterali, che si tengono a La Valletta parallelamente all’agenda ufficiale del vertice siano nell’ombra, oscurate da una cappa di riserbo. Un do ut des senza reale trasparenza, che lascia trasparire il mantenimento di logiche di corruzione molto diffuse nei rapporti post e neo coloniali. Anche secondo Lia Quartapelle, coordinatrice (renziana) dell’intergruppo parlamentare sulla cooperazione internazionale, la condizionalità degli aiuti ai paesi africani semmai deve riguardare il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, incoraggiando l’evoluzione dei regimi ora dittatoriali come l’Eritrea. Lo scopo degli aiuti - ripete Quartapelle - deve essere facilitare la rimozione delle cause che spingono tante persone a fuggire dalla loro terra. L’obiettivo della Ue è invece fermare la migrazione cosiddetta irregolare ma questo con interventi meramente repressivi o "dissuasori", senza offrire alternative concrete di accesso alla mobilità legale, in linea con i processi di Rabat e Khartoum, spiegano le ong. "Sono state lacrime di coccodrillo quelle dei governanti europei sulla morte del piccolo Aylan Kurdi", sbotta Filippo Miraglia dell’Arci, che elenca le proposte da inviare al summit e al governo: accessi legali e corridoi umanitari, ripristinare le regole d’ingaggio di Mare Nostrum - rescue - per le missioni nel Mediterraneo, abolire le regole di Dublino "che producono clandestinità e nuove Gestapo negli hotspot", una legge europea sul diritto d’asilo, un piano di accoglienza europeo in modo da eliminare i campi profughi lungo le frontiere, abolire la Bossi-Fini. "Perché chi fugge da fame e carestia non è un criminale e ha lo stesso diritto di essere accolto di chi fugge dalla guerra". Droghe: farmaci con cannabis, negli ospedali a gennaio La Repubblica, 12 novembre 2015 L’uso sarà riservato solo a patologie gravi: chemioterapia, sclerosi multipla. I farmaci a base di cannabinoidi arriveranno da gennaio negli ospedali piemontesi e potranno anche essere prescritti dal medico di base. Farmaci di seconda scelta tuttavia, ovvero prescrivibili soltanto se le medicine normalmente utilizzate non dovessero garantire i risultati auspicati o se il medico dovesse ritenere che i farmaci contenenti cannabis possano essere più efficaci. L’uso è poi limitato ad alcune patologie gravi. Può essere utilizzato per combattere il dolore nelle sclerosi o per le lesioni del midollo spinale con dolore resistente alle terapie convenzionali e anche nel dolore cronico (in particolare quello neurogeno) in cui il trattamento con antinfiammatori si è dimostrato inefficace. La nausea e il vomito causati da chemioterapia, radioterapia e terapia per Hiv possono essere curati con cannabinoidi, così come può dimostrarsi efficace per stimolare l’appetito in casi di anoressia o inappetenza in pazienti oncologici o affetti da Aids o anoressia nervosa. Può combattere l’effetto ipotensivo nel glaucoma resistente alle terapie convenzionali e ridurre i movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Turette. Prematuro adesso prevedere l’entità della domanda, ma una prima verifica è prevista già a giugno - spiega Antonio Saitta "quando si potrà avere un quadro dettagliato sia sulla spesa sia sulla richiesta dei medici". Certo, prosegue, "con la produzione fatta in Italia presso il centro autorizzato dal ministero a Firenze, questi farmaci costeranno la metà rispetto a quelli importati dall’Olanda". Duecentomila euro è l’investimento previsto dall’assessorato per questo tipo di farmaci. La delibera approderà in giunta fra due settimane e sarà prima discussa in commissione. L’assessore alla Sanità intende dunque smentire chi temeva che le operazioni per l’ingresso ufficiale dei cannabinoidi in Piemonte fossero volutamene rallentate: "Abbiamo atteso l’esito del gruppo di lavoro nazionale appena sfociato in un’intesa Stato-Regioni, che diventerà decreto la prossima settimana. In questo modo partiremo allineati evitando il caos di provvedimenti regionali presi in autonomia". La fornitura avverrà direttamente da parte delle farmacie ospedaliere. Solo se queste sono sprovviste, allora si potranno chiedere in una farmacia aperta al pubblico. Il capogruppo di Sel in Consiglio regionale Marco Grimaldi, che ha lottato a lungo per questa legge, si augura che la risposta arrivi al più presto: "Siamo contenti che il servizio sanitario nazionale assumerà a proprio carico la spesa. Resta tuttavia la convinzione che l’uso limitato al trattamento sintomatico di supporto ai trattamenti standard sia troppo restrittivo". I radicali criticano invece l’ipotesi che alla fine il Piemonte contribuisca a creare un "monopolio fiorentino", considerato che la produzione italiana arriverebbe tutta da lì. Medio Oriente: per le colonie etichette diverse, non sono in Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 novembre 2015 Da oggi le merci prodotte negli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi occupati, dirette in Europa, non potranno essere indicate come "Made in Israel". Netanyahu furioso sospende i colloqui diplomatici con l’Ue. Soddisfatta la leadership palestinese e qualche applauso arriva anche dagli attivisti israeliani. "L’Unione europea deve vergognarsi… È una decisione ipocrita che rivela un doppio atteggiamento: si applica solo ad Israele e non a 200 conflitti nel mondo. Non siamo disposti ad accettare il fatto che l’Europa contrassegni il lato attaccato da atti terroristici". Benyamin Netanyahu denuncia discriminazioni, tira in ballo il terrorismo, richiama le recenti violenze a Gerusalemme e via dicendo per condannare l’approvazione, avvenuta ieri anche con appoggio italiano, della "nota interpretativa" alle linee guida pubblicate dall’Ue ad aprile 2013 per l’etichettatura dei prodotti nei territori palestinesi e siriani occupati. In poche parole da oggi in poi, salvo ripensamenti e "congelamenti", le merci prodotte nelle colonie ebraiche costruite contro leggi e risoluzioni internazionali nei territori arabi che Israele ha occupato nel 1967 - Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza e Alture del Golan (il Sinai è stato restituito all’Egitto) - non potranno più essere etichettate con il "Made in Israel" se destinate all’esportazione verso l’Europa. Dovranno invece avere la giusta indicazione di provenienza, per il semplice ed evidente fatto che non sono state prodotte nel territorio israeliano riconosciuto dall’Ue (e dal resto della comunità internazionale). La norma varata è già stata pubblicata sulla versione elettronica della Gazzetta Ufficiale della Ue ed è immediatamente operativa. L’obbligo di etichettatura ricade sull’intera filiera: dal produttore all’importatore fino al dettagliante. Conteranno i documenti doganali di accompagnamento delle merci. Ai singoli Paesi è lasciata la scelta della dizione da adottare, tuttavia dovrà essere indicato che il prodotto in questione viene da un insediamento colonico. Le discriminazioni, i 200 conflitti nel mondo, gli atti di terrorismo, l’antisemitismo esplicito o latente degli europei che ieri richiamavano il premier israeliano, i suoi ministri e quasi tutta la Knesset, non c’entrano proprio nulla. Il punto è che Israele, o gran parte di esso, insiste nel considerare le terre arabe occupate (ad eccezione della irriducibile Gaza) di fatto parte del suo territorio e non intende accettare che l’Europa continui a rispettare il diritto internazionale e a non riconoscere Gerusalemme e la Cisgiordania come parte dello Stato ebraico. Non sorprende perciò che il governo Netanyahu, il più nazionalista della storia del Paese, abbia reagito annunciando all’ambasciatore Ue a Tel Aviv, Lars Faaborg Andersen, addirittura la sospensione di alcuni "dialoghi diplomatici" su temi politici e sui diritti umani. La viceministra degli esteri Tzipi Hotovely, un "falco" del Likud, ha usato i toni forti. "Agli europei preme molto essere coinvolti nel conflitto israelo-palestinese e tenere con noi un dialogo in merito. Ma alla luce del loro comportamento abbiamo deciso di sospendere i colloqui con loro su questi temi", ha proclamato perentoria. Furiosa la reazione dei coloni israeliani che hanno indirettamente minacciato di mandare a casa i palestinesi che lavorano nelle loro fabbriche ed aziende, in particolare nelle zone industriali di Barkan e Mishor Addumim, paventando non meglio precisate conseguenze economiche negative per le loro esportazioni. Anche se l’Ue non ha mai detto di non voler più importare i prodotti delle colonie ebraiche, solo vuole la giusta etichettatura. I coloni in realtà temono un più facile boicottaggio dei loro prodotti nei Paesi dell’Ue dove negli ultimi anni è cresciuto il movimento Bds. Si salveranno comunque le colonie che producono vino, che potranno continuare a usare l’etichetta "Made in Israel" se l’imbottigliatura avverrà in territorio israeliano anche con uve coltivate nei Territori occupati, per il principio secondo il quale prevale la provenienza in cui viene realizzata la maggior parte del valore aggiunto. Il volume commerciale tra Ue ed Israele è nell’ordine di circa 30 miliardi di euro l’anno, di cui 13 mld di esportazioni israeliane. All’interno degli scambi i prodotti delle colonie nei Territori occupati rappresentano meno dello 0,5%: appena 154 milioni di euro nel 2014. Ma se economicamente la questione è di scarsa importanza, politicamente è esplosiva, interpretata da Israele come "un mezzo di pressione europea", nonostante il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, abbia sottolineato che la Ue "non sostiene alcuna forma di boicottaggio o sanzione per Israele". Lo sa bene la leadership palestinese. "Siamo contenti per la decisione dell’Unione Europea", ha commentato Mohammad Shtayyeh del Comitato esecutivo dell’Olp "le nuove regole sono un appoggio importante alla soluzione dei due Stati". E soddisfazione è stata espressa anche da alcune voci israeliane. Da Peace Now, ad esempio, che da anni attua un costante monitoraggio della colonizzazione e della sua espansione. Applausi anche dai 505 israeliani firmatari di "Indication of Origin", l’appello rivolto nei mesi scorsi all’Ue affinché esigesse da Israele una etichettatura diversa per i prodotti delle colonie. "È un passo giusto quello fatto dall’Ue" ci ha detto ieri sera uno di loro, lo scienziato David Harel "in questo momento, con questo governo in carica, è fondamentale ricordare e sottolineare che le colonie non sono in territorio israeliano ma nei territori di un’altra nazione, quella palestinese". Medio Oriente: quel marchio europeo che offende Israele di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 12 novembre 2015 Lo scontro sulle etichette. La modifica era stata sollecitata da 16 Paesi tra cui l’Italia. Il Paese interrompe i rapporti diplomatici con l’Europa su temi politici e diritti umani: "Questa decisione non aiuta la pace". L’Unione Europea tace sulle dittature. Non dice una parola, da sempre, sui regimi tirannici con cui intrecciare soddisfacenti rapporti economici. Plaude alle mediazioni, ma mica per spirito di pace, solo per convenienza. Figurarsi se l’Unione Europea, politicamente una nullità nelle grandi questioni che insanguinano il mondo, emette un solo fiato di indignazione, per dire, sui rapporti con la Cina che occupa il Tibet e manda in galera i dissidenti. O sull’Arabia Saudita, con cui si stabiliscono buoni rapporti mentre ancora si pratica la lapidazione delle adultere e si legalizza lo stupro delle bambine che vengono costrette a sposarsi, vendute dalle famiglie. Silenzio assoluto, omertà, come sempre. Poi, quando compare la parola "Israele", l’Unione Europea si risveglia dal suo torpore e decide di marchiare i prodotti dello Stato ebraico sfornati dalle officine e dai capannoni dei territori sotto controllo dell’Autorità nazionale palestinese. Qui l’Europa, dimentica del passato atroce in cui i negozi degli ebrei venivano perseguitati e le merci degli ebrei confiscate o boicottate, decide di dare una mano alla campagna che i regimi autoritari del Medio Oriente imbastiscono contro l’unica democrazia di quell’area, cioè lo Stato di Israele. Il fatto che esistano fabbriche israeliane situate (anche) in Cisgiordania dove operano lavoratori palestinesi liberamente assunti e con contratti regolari di lavoro non dovrebbe essere uno scandalo nel mondo globalizzato. Non c’è nessuna ragione economica per "marchiare" dei prodotti. C’è solo una ragione politica: il boicottaggio sistematico di Israele, delle merci israeliane, degli studiosi israeliani (da parte delle Università europee). Esistono nel mondo un’infinità di territori contesi. Ma esiste solo un caso in cui le istituzioni del mondo diventano fiscali: quando c’è di mezzo Israele. È il solito trattamento speciale. La solita tentazione del boicottaggio. La decisione europea scredita l’idea di Europa. Una decisione sconcertante. Sarebbe saggio ritirarla. Medio Oriente: un "boicottaggio" necessario, è il prezzo dell’occupazione di Zvi Schuldiner Il Manifesto, 12 novembre 2015 La tanto attesa decisione dell’Unione europea sull’etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dai territori occupati da Israele nel 1967 è un passo positivo perché fa arrivare alla dirigenza israeliana un messaggio: la comunità internazionale non può e non deve permettere che certi limiti siano oltrepasati. La reazione israeliana è isterica e demagogica: "È antisemitismo"; "non tengono conto dell’ondata di terrore che ci minaccia". Uno dei deputati più estremisti della destra al governo propone di proibire l’entrata in Israele dei prodotti provenienti da paesi che appoggiano il "boicottaggio". Quanto a quella che dovrebbe essere l’opposizione di centro o moderata, Yair Lapid, un classico opportunista "di centro" denuncia la decisione come un atto che ricorda il passato, e Itzik Shmuli, un altro opportunista ma nelle file laburiste, parla di una macchia nella storia; ecc. Gli insulti e le accuse dei nostri governanti e politici non devono far dimenticare che per molti anni l’Europa non ha avuto un ruolo positivo nel conflitto israelo-palestinese e malgrado gli alti lai dell’estremismo israeliano, essa in fondo finanzia tuttora l’esistenza dell’occupazione da parte di Israele. Gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese in realtà sono un sussidio all’occupazione, perché il possibile fallimento dell’Anp obbligherebbe Israele a farsi carico dei costi enormi dell’occupazione stessa. Gli ipocriti parlano di boicottaggio come misura discriminatoria, razzista, con implicazioni storiche e via dicendo. Dimenticano che alcune persone, come l’ex ministro Lieberman, alla fine dell’ultima guerra lanciavano appelli a boicottare i negozi dei palestinesi israeliani; che in precedenza altri avevano chiesto il boicottaggio del turismo in Turchia per il caso della nave Mavi Marmara; e che altri ancora hanno cercato di organizzare gruppi di ebrei all’estero per far pressione sui vari governi che minacciavano misure anti-israeliane. Le reti simil-fasciste, che in Israele abbondano, invitano a non frequentare negozi e ristoranti di proprietà di arabi israeliani, e chiedono di non dar lavoro agli arabi… Comunque, che cosa significa etichettare i prodotti provenienti dai territori occupati? Certamente il problema è oggi molto complicato dal momento che ad esempio migliaia di palestinesi lavorano in quelle stesse produzioni, ma il punto è molto chiaro: si tratta di beni prodotti da aziende illegali, stabilite nei territori occupati contravvenendo alla Convenzione di Ginevra; si tratta di beni prodotti con tecniche modernissime da coloni israeliani insediatisi su terre di palestinesi. Si tratta di beni che vengono da terre confiscate dalla potenza occupante. L’Unione europea fa un passo timido ma necessario, per far capire ai dirigenti israeliani che occorre arginare l’indecenza di un’occupazione la quale per ora non conosce limiti, un’occupazione che confisca le terre, inganna, opprime la popolazione palestinese privandola dei diritti più fondamentali. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è convinto di aver avuto un ottimo incontro con il presidente statunitense Barack Obama. Invece di abbandonare la sua guerra irriducibile dopo l’accordo sul nucleare iraniano, stavolta si è presentato agli statunitensi non come l’avvocato di sempre dell’estremismo repubblicano. Obama continuerà ad appoggiare Israele dal punto di vista politico e militare, tuttavia i suoi portavoce adesso dichiarano: "Non appoggeremo il boicottaggio perché crediamo in altri tipi di misure, ma comprendiamo le decisioni europee e anche noi crediamo che gli insediamenti siano un ostacolo alla pace". L’attuale situazione in Israele è infernale, gli attacchi si ripetono - anche di bambini di 11, 13, 14 anni - e creano un clima orribile, ma passi come il boicottaggio potrebbero aiutare una società cieca a capire che la politica suicida della coalizione fondamental-nazionalista in Israele può solo peggiorare la situazione. I politici possono anche abbaiare, ma il prezzo economico della misura decisa a livello europeo potrebbe aprire la strada a un po’ di realismo. Il boicottaggio dei prodotti provenienti dai territori occupati era necessario da molti anni e ci si augura che sia un mezzo in più per dire a una élite autistica che all’aggressività della politica israeliana c’è un limite. Afghanistan: a Kabul le donne scendono in piazza di Giuliano Battiston Il Manifesto, 12 novembre 2015 A migliaia manifestano contro il talebani portando le salme di 7 persone uccise. Ieri in Afghanistan è accaduto qualcosa di inedito, di sorprendente. Una folla di decine di migliaia di persone ha manifestato a Kabul, trasportando le salme di 7 persone uccise, parzialmente decapitate tra il 6 e l’8 novembre nella provincia di Zabul, un mese dopo che erano state prese in ostaggio mentre viaggiavano lungo la rotta Ghazni-Zabul. Difficile dire chi siano i colpevoli: c’è chi parla dei membri dello Stato islamico in Afghanistan, chi dei Talebani. Rimangono le 7 salme: tutti membri della comunità degli hazara, la minoranza sciita storicamente oppressa e perseguitata. E rimane una manifestazione talmente ampia da aver sorpreso un po’ tutti. Comprese le forze di sicurezza, che hanno sparato (in aria dicono i portavoce del governo), quando alcuni manifestanti avevano oltrepassato le mura dell’Arg, il palazzo presidenziale: 10 i feriti. Ridurre tutto ai 10 feriti sarebbe ingiusto: la manifestazione, partita dal quartiere di Kot-e Sangi, ha attraversato la città per arrivare al centro, ed è stata prevalentemente pacifica. Storica nella sua ampiezza, ha raccolto le adesioni di afghani di ogni provenienza, anche se lo zoccolo duro era quello degli hazara. Con il tentativo dello Stato islamico (o di gruppi che ad esso si richiamano strumentalmente) di espandere la propria influenza nel paese, c’è chi teme che il settarismo possa tornare a mietere vittime. Colpendo soprattutto gli hazara. La barbara uccisione di Zabul non è la prima, ma è quella che ha fatto più scalpore. E ha dato il via a una serie di manifestazioni di protesta che hanno coinvolto molte città afghane, da Ghazni a Mazar-e-Sharif, nel nord, dove si tengono veglie e preghiere, passando per Zabul, e arrivando appunto a Kabul. Nella capitale, ieri, si è condensata tutta la rabbia che gli hazara e le altre comunità afghane hanno maturato nei confronti del governo di unità nazionale del presidente Ashraf Ghani e del quasi "primo ministro" Abdullah Abdullah. Al potere dal settembre 2014, sono accusati di non saper proteggere la popolazione, di non riuscire a garantire la sicurezza, di preoccuparsi più delle proprie scaramucce che del benessere del paese. "L’inazione è di per sé un crimine", recitava uno degli striscioni affissi sulle mura esterne dell’Arg. Ghani, consapevole che la situazione rischia di diventare esplosiva, compromettendo ulteriormente la già fragile tenuta del suo governo, ha cercato di sedare gli animi. Con un appello alla tv in cui ha chiesto calma e promesso "vendetta e giustizia" per le 7 vittime. E accogliendo all’Arg una delegazione in rappresentanza dei manifestanti, inclusi i parenti delle vittime. L’incontro tra i membri della delegazione e gli esponenti del governo - oltre a Ghani e Abdullah anche i ministri dell’Interno e della Difesa - è stato trasmesso in diretta tv. Un’apertura dovuta, da parte di Ghani, e un punto a favore dei manifestanti. Le cui richieste sono però considerate eccessive da qualcuno: pare che chiedano tra l’altro l’istituzione di una sezione speciale dell’esercito con il compito di proteggere specificamente la comunità hazara. Un precedente che sarebbe rischioso in un paese in cui l’eredità dei conflitti intestini è ancora forte. Ma il braccio di ferro è iniziato. E proseguirà oltre la sua rappresentazione mediatica. E oltre la questione, pur rilevante, delle discriminazioni a danno degli hazara. La posta in gioco infatti riguarda tutto il paese, tutti gli afghani. Se il governo non sarà in grado di garantire, presto, maggiore sicurezza, le manifestazioni continueranno. Sui social media locali ieri c’è chi ha parlato di una nuova piazza Tahrir. Un paragone frettoloso, fuori luogo. Ma c’è da scommettere che la faccenda non finisca qui. Anche perché nel fronte governativo qualcuno, anziché rispondere alle legittime richieste dei manifestanti, li accusa di essersi fatti strumentalizzare politicamente. Gettando benzina sul fuoco.