Voglio ricordare Antonio come era quotidianamente: un uomo disponibile e amico di tutti di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2015 Ogni giornalista sa come una notizia di cronaca nera può essere scritta in diversi modi. La verità diventa viscosa e può facilmente assumere la forma del contenitore stampato che ce la racconta. Di fronte ad un omicidio siamo tutti portati a provare un miscuglio di sentimenti che per qualche minuto ci rapisce dalla nostra quotidianità: come in una condizione di sonno-veglia proviamo pietà di fronte alla fotografia di una vittima che, seppur sconosciuta, ci viene raccontata attraverso le lacrime dei suoi cari intervistati; allo stesso tempo potremmo assistere con un senso di sollievo all’esecuzione del suo carnefice, dettagliatamente raccontato nelle sue gesta omicide. Le vittime però non sono tutte uguali di fronte alla penna di un giornalista. Quando uno è considerato cattivo non può essere allo stesso tempo vittima. Allora ci sono vittime che non devono suscitare pietà nel lettore, altrimenti si rischia di fare confusione nel distinguere i buoni dai cattivi; ci sono vittime che anche da morti vengono raccontate con le foto segnaletiche della polizia, e con le categorizzazioni delle carte processuali. Hanno scritto che il nostro amico Antonio Floris era evaso per la terza volta. Poi hanno scritto che l’ex latitante è stato ucciso. Non mi sono ancora riconciliato con l’idea che Antonio non c’è più, ma voglio tenere la mente abbastanza serena per non farmi schiacciare dall’ineluttabilità del racconto giornalistico che ormai, alla stessa maniera della morte, ci porta a rassegnarci. Antonio non era solo il suo reato, non è l’ex latitante morto, era anche un uomo buono, che stava finendo di scontare la sua pena. Infatti, ancora pochi mesi e avrebbe finito la sua odissea carceraria iniziata quindici anni fa. “Ancora un po’ e me ne torno a casa”, mi ha confessato pochi giorni fa, “mi prendo cento pecore e vado a vivere da solo per i pascoli”. Il sogno di Antonio era di tornare in Sardegna, dopo tanti anni di galera e continui trasferimenti in giro per il continente. “Fare una giornata di viaggio per un’ora di colloquio è deprimente, mentre quando sai che ci passerai tutto il giorno insieme vieni più volentieri”, mi aveva detto sua sorella durante il pranzo del primo permesso di Antonio, fatto proprio nella casa dei padri mercedari dove è stato ucciso. Nel raccontare il mancato rientro di Antonio, alcuni cronisti padovani hanno rimarcato la sua conoscenza della Divina Commedia e la storia di un’agenda personale scritta in codice come dettagli che, uniti alla durezza dei suoi reati, rendevano forse la concessione di uscire dal carcere ancora più ambigua perché fatta a una persona inaffidabile. In realtà Antonio era tutt’altro che inaffidabile. Conosceva a memoria il codice penale e quello di procedura penale, così come l’ordinamento penitenziario, il regolamento di esecuzione e si ricordava di tutte le circolari amministrative. Infatti, in carcere era considerato l’”avvocato” di tutti. Prima di lavorare nella comunità Oasi, studiava all’Istituto Gramsci sezione carceraria, era un membro della redazione di Ristretti Orizzonti e faceva volontariato presso il nostro Sportello giuridico. Antonio era un operatore instancabile. Non c’erano orari, giorni prestabiliti, appuntamenti. I detenuti lo fermavano in corridoio, oppure si infilavano nell’aula dello sportello appena l’agente si distraeva. Sapevano che Antonio poteva consigliarli, offrendo il suo parere “speciale” ricco di studio ma anche di esperienza maturata in giro per le carceri italiane. Una volta l’avrebbero chiamato scrivano. Una figura scomparsa, ma che Antonio rappresentava perfettamente scrivendo domandine e istanze, reclami e ricorsi. Insomma era la persona più “ricercata” del carcere, specialmente dai detenuti stranieri ma anche dagli italiani che non avevano un avvocato. Cercavano Antonio sicuri di trovare una persona disponibile: una caratteristica particolare, resa ancora più straordinaria dalla sua semplicità. Non si curava delle apparenze, non indossava mai roba firmata, parlava con parole semplici in modo che potessero capirlo tutti, non alzava mai la voce, non si arrabbiava mai, ascoltava sempre e non chiedeva mai nulla in cambio. Oltre allo Sportello giuridico, partecipava regolarmente alle riunioni di redazione. Teneva i codici sempre sottomano, e quando ci ritrovavamo a discutere su qualche nuova circolare o proposta di legge, Antonio era capace di esporre per noi la cronistoria della norma. Ricordo delle riunioni di redazione particolarmente accese, dove Antonio alzava la mano ed interveniva pacatamente senza mai farsi trasportare dal nostro furore. La sua serenità trasmetteva probabilmente un senso di pace anche agli agenti e in tutto il personale del carcere. E quando Antonio si è offerto di creare un orto dietro la casa dei padri Mercedari, il direttore del carcere lo ha autorizzato confidando nel parere favorevole di tutto lo staff. La prima volta che siamo andati a trovarlo sul posto di lavoro, abbiamo sorriso guardandolo con gli attrezzi in mano: abituati a vederlo sui libri a sfogliare codici, osservavamo sorpresi Antonio che tagliava i cespugli e lavorava la terra. Era chiaro che la sua vera passione non erano i codici ma la natura, e abbiamo potuto ammirare come in poco tempo ha trasformato abilmente un terreno abbandonato in orti fioriti, contribuendo a creare le serre dove oggi si realizzano progetti agricoli che danno lavoro a persone emarginate. Usciva alla mattina dal carcere e pedalava fino all’Oasi. Andava su in camera, si cambiava e poi si perdeva a fare ogni tipo di lavoro. Dato che la struttura ospitava detenuti in misura alternativa e ex detenuti, i padri mercedari avevano assegnato ad Antonio le chiavi delle aule comuni e del magazzino. Aveva un ruolo di responsabilità e gli ospiti della struttura avevano Antonio come punto di riferimento. Nel programma di uscita la direzione del carcere gli aveva concesso il permesso di muoversi all’interno del Comune di Padova, ma si allontanava dalla struttura solo per fare la spesa. Non gli piaceva frequentare i bar, non fumava e non giocava alle macchinette. La vita della città non lo attirava. Non girava per il centro e l’unico modo per incontrarlo era andare all’Oasi dopo l’orario lavorativo. Cosa che facevo volentieri perché Antonio era molto ospitale. Appena finito di lavorare l’orto si faceva la doccia e si metteva a cucinare. La somiglianza tra la cucina sarda e quella albanese era una ragione in più per fargli visita e appena entravo in camera mi offriva un bicchierino di grappa sarda, molto simile alla nostra rakìa. Quando gli arrivavano i pacchi dalla Sardegna era festa per tutti gli inquilini del Centro. La porta di Antonio era sempre aperta e ci ritrovavamo dentro sempre in tanti per quella piccola stanza. Ma ci stringevamo volentieri anche perché era una persona piacevole con cui parlare: parlavamo di politica, di leggi, di informazione, di carcere e al secondo bicchiere finivo per mangiare disinvolto pure il formaggio sardo con i vermi, anche se con un’espressione che lo faceva sempre sorridere. Così il tempo volava via in fretta, e Antonio riprendeva la bici per tornare al Due Palazzi. Cerchiamo sempre di allontanare l’idea della morte finché non ci tocca attraverso la perdita di una persona cara. Il vuoto che si crea ci restituisce una sensazione di impotenza, sprofondiamo senza appigli e, come ultimo rimedio, cerchiamo di trovare una spinta ad andare avanti nell’odio e nella vendetta. Paradossalmente il carcere, costringendomi a convivere con una moltitudine di vite, mi ha insegnato a convivere anche con una moltitudine di morti. Tuttavia, non ci si abitua mai a dare l’ultimo saluto ad un amico, specialmente se ritrovo il mio amico sui giornali, inchiodato al suo reato, ad un passato ormai lontano; soprattutto quando penso alla sua famiglia distrutta, che dopo averlo seguito per anni nelle carceri di mezza Italia, ora si ritrova a leggere articoli privi di umanità. Di solito, accanto ad una scena del crimine ci sono parenti e amici che cercano verità e giustizia. Personalmente non ho questo desiderio. Per il momento voglio solo che non venga ucciso una seconda volta dai giornali, che ormai sopravvivono agli uomini continuando a girare in rete. E dato che conservo ancora tanti ricordi importanti che ho bisogno di molto tempo ancora per accettare la sua scomparsa, voglio credere ancora per un po’ che Antonio è ancora lì, prima tra i prodotti del suo orto, poi circondato dai suoi cinque gatti e infine brindando e cercando di convincermi che i vermi del formaggio sono commestibili. Antonio Floris ucciso mentre saliva in bicicletta, l’assassino lo ha colpito con un bastone di Maria Grazia Bocci e Massimo Zilio Il Gazzettino, 11 novembre 2015 Forse il detenuto non è neanche riuscito a vedere in faccia la persona che gli stava alle spalle. L’assassino ha atteso Antonio Floris al buio. Venerdì sera, dopo aver cenato all’Oasi dei frati mercedari a Chiesanuova, il sessantunenne sardo doveva rientrare in cella con la sua bicicletta. Stava per salire in sella quando gli è arrivata in testa la sprangata. Forse più di una. Sicuramente sarà morto subito, senza lamentarsi. Nessuno ha sentito rumori o grida. Ebbene, l’assassino ha trascinato il corpo di Floris per venti metri e lo ha nascosto nella legnaia. Dove è stato ritrovato tre giorni dopo. L’omicida voleva uccidere Floris, si era nascosto con un bastone o una spranga di ferro per farlo fuori. Non c’è stata alcuna discussione o colluttazione tra il detenuto e la persona che lo ha ucciso. Questa mattina il pubblico ministero Daniela Randolo affiderà l’incarico per l’autopsia al dottor Claudio Terranova, dell’istituto di medicina legale dell’Università, e si saprà con quanti colpi in testa è stato ucciso il sessantunenne sardo, in carcere per un duplice tentato omicidio, ma detenuto modello. Quale è il movente del delitto? Al momento è inspiegabile. Ieri mattina il capo della Squadra mobile, Giorgio Di Munno, è rimasto a lungo nell’ufficio del pubblico ministero Daniela Randolo. Per la verità, gli investigatori della Mobile lavorano giorno e notte. C’è tanto riserbo sulle indagini, ma è evidente che davanti c’è soltanto buio. In mattinata gli uomini della Scientifica sono tornati all’Oasi per un nuovo sopralluogo. Sono proseguite le perquisizioni e gli interrogatori, oltre ai detenuti impegnati anche loro nella cooperativa, ai compagni di cella di Floris. Intanto si sprecano le indiscrezioni. Sembra che nel suo ultimo giorno di vita Floris avesse ricevuto parte dello stipendio che gli spettava, ma che gli fosse stato rubato dall’armadietto nella sua disponibilità all’interno della cooperativa. I detenuti ammessi al lavoro esterno, al di là dell’entità della ricompensa cui hanno diritto, sono pagati con non più di cinquecento euro totali in una singola tranche. Forse quel denaro era sufficiente per scatenare l’interesse di qualcuno. Ma sono soltanto ipotesi ancora tutte da verificare. Il giorno dopo il ritrovamento del corpo del sessantunenne sardo, alla cooperativa Oasi un’atmosfera quasi surreale. Gli investigatori instancabilmente al lavoro, l’attività che cerca di non fermarsi, l’incredulità e il dolore degli amici di Floris. “Era meglio se fosse scappato”, dice qualcuno a mezza voce. Per tutti, quel detenuto modello non meritava una fine così terribile. Giustizia: sentenze e opinioni…. assolti? c’è sempre un però di Michele Ainis Corriere della Sera, 11 novembre 2015 “Ego te absolvo”, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto. Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza “istituzionale” dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio. Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta. Giustizia: “no ai processi in videoconferenza”, avvocati penalisti in sciopero per 5 giorni di Valentina Renzopaoli affaritaliani.it, 11 novembre 2015 La protesta nata per Mafia Capitale si estende a tutti i tribunali italiani. Dal 30 novembre al 4 dicembre l’Unione delle Camere Penali ha dichiarato l’astensione dalle udienze contro l’estensione dell’uso delle modalità di partecipazione a distanza nel dibattimento, contenuta nel disegno di legge di riforma del processo penale all’esame del Senato. Sull’onda della ribellione romana, si accendono i motori della protesta nazionale: dopo l’iniziativa della Camera Penale di Roma che ha reso deserte le aule di piazzale Clodio nella giornata di lunedì, l’Unione delle Camere Penali Italiane ha proclamato cinque giorni di astensione dalle udienze per dire “no” all’uso indiscriminato delle videoconferenze nei processi. Da lunedì 30 novembre a venerdì 4 dicembre dunque solo convegni e iniziative dimostrative: a Roma il 2 dicembre ci sarà la manifestazione nazionale e una tavola rotonda sul tema del rapporto tra stampa e magistratura. Il motivo che aveva incendiato gli animi dell’avvocatura romana era stata la decisione del Tribunale di celebrare il maxi processo Mafia Capitale attraverso una modalità che prevede l’assenza di quattro dei quarantasei imputati dall’aula e la loro partecipazione tramite videoconferenza. Decisione confermata con una apposita ordinanza dalla presidente della X Sezione Rosanna Ianniello, anche nella prima udienza di giovedì 5 novembre. Massimo Carminati, Salvatore Buzzi, Riccardo Brugia e Franco Testa, infatti, rimarranno nelle rispettive carceri durante il dibattimento, a causa di una “posizione processuale incompatibile” con il loro trasferimento nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Una mossa che non è affatto piaciuta al presidente della Camera Penale di Roma, l’avvocato Francesco Tagliaferri: “La nostra ribellione a questa smaterializzazione dell’imputato ha trovato consenso unanime tanto che dalle nostre motivazioni, riprese dagli stessi difensori durante i loro interventi in aula, è nata la decisione di indire una protesta a livello nazionale”. Una protesta che prende spunto da Mafia Capitale per portare l’attenzione su un tema che potrebbe presto investire molti altri casi giudiziari: “La nostra opinione è che questo processo rappresenti una sorta di esperimento in vitro per saggiare la tenuta di una serie di norme che potrebbero presto essere presto approvate dal parlamento” spiega ad Affaritaliani l’avvocato Tagliaferri. L’estensione dell’uso delle modalità di partecipazione a distanza nel dibattimento, previste dall’art. 146 bis, è infatti contenuto nel disegno di legge di riforma del processo penale all’esame del Senato; una eventualità che non trova alcun consenso da parte delle Camera Penali. “Si fa strada un processo dotato di una nuova “funzionalità mediatica”, del tutto privato dei suoi valori, che utilizza, distorce in chiave autoritaria, il modello accusatorio e consente una crescente mortificazione della funzione difensiva, con una sovrapposizione e confusione della difesa dell’imputato con la difesa del delitto e con conseguenti inammissibili discriminazioni quali quelle poste in essere nell’ambito di recenti rilevanti processi di criminalità organizzata” si legge nel testo di delibera dell’Unione Camere Penali del 3 novembre. Un vero e proprio atto d’accusa verso una modalità processuale che “non solo si pubblicizza l’efficacia dell’azione delle Procure, ma si mostra il risultato dell’indagine come un dato definitivo ed indiscutibile, dotato in questa maniera di una oggettiva ed inconfutabile evidenza che si stabilizza nell’opinione pubblica, influenzandola irrimediabilmente, attraverso una inedita azione di imprinting mediatico e che condiziona ogni successiva fase del processo, fino ad intaccare irrimediabilmente la stessa verginità cognitiva del giudicante”. Giustizia: incubo carcere preventivo, in 50 anni quattro milioni di innocenti finiti in cella di Andrea Camaiora Il Giornale, 11 novembre 2015 In 50 anni troppe vittime hanno subìto l’abuso della detenzione. E i pm insistono nonostante le nuove regole. La carcerazione preventiva recentemente inflitta all’ormai ex vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani offre tristemente un nuovo spunto per affrontare l’annosa questione della carcerazione preventiva. Qual è la situazione nel nostro Paese? Nel 2009, il numero dei detenuti in custodia cautelare era di 29.809, pari al 46% del totale della popolazione carceraria; il dato di oggi è di 18.622, il 34,5%. Questi dati rivelano come troppe volte l’applicazione della custodia cautelare non costituisca l’extrema ratio, così come previsto dalla nuova disciplina in merito voluta dal Guardasigilli, Andrea Orlando, ma assuma connotati diversi, come quelli di un’anticipazione della pena. In molte occasioni i destinatari di misure cautelari personali vengono, dopo anni, assolti: i numeri parlano chiaro, dal 1991, lo Stato ha pagato quasi 600 milioni di euro a più di 20 mila persone per riparazione per ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive che hanno assolto persone che erano state arrestate. Negli ultimi 50 anni, 4 milioni, ebbene sì, 4 milioni di cittadini sono stati prima dichiarati colpevoli, quindi arrestati e infine rilasciati perché innocenti. Dal 1991 al 2012 lo Stato ha dovuto spendere 600 milioni di euro per risarcire chi è stato indebitamente arrestato. E il dato ulteriormente negativo è che questa dinamica non accenna a diminuire, anzi aumenta. Nel 2014 le somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione sono aumentate del 41% rispetto al 2013. La nuova normativa è più che limpida sull’imposizione o meno della detenzione carceraria. Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non deve essere soltanto concreto ma anche “attuale”. Il giudice non può più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l’accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell’imputato. Anche gli obblighi di motivazione si sono intensificati. Il giudice che decide per il carcere non potrà infatti più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Sono aumentati da 2 a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori, sospensione dell’esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. È cambiata anche la disciplina del Riesame. Il tribunale della Libertà ha tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non può più essere rinnovata. Il collegio del Riesame deve inoltre annullare l’ordinanza liberando l’accusato quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Con questo quadro di riferimento, colpisce assai non una voce critica rispetto al provvedimento subito da Mantovani: molte e autorevoli sono state infatti le prese di posizione. Semmai ciò che si sente sempre più forte è il silenzio, l’assenza di autocritica dei cantori della manetta facile, della condanna in piazza e anche di coloro che, siamo in tanti, credono nel rigore e nella serietà della magistratura. Il tutto perché c’è chi sta leggendo questo articolo e chi - come Mantovani, ma non solo lui - si trova sottoposto a carcere preventivo da circa un mese. Giustizia: Mafia Capitale; l’Anticorruzione: in Campidoglio il 90% di appalti senza gara di Francesco Grignetti La Stampa, 11 novembre 2015 Non solo Atac. L’intero Campidoglio si affidava disinvoltamente agli affidamenti diretti. Gli uffici di Raffaele Cantone hanno passato al microscopio il bilancio del Comune di Roma per gli anni 2012-2014. E le conclusioni sono desolanti. “Si è potuto constatare un pressoché generalizzato e indiscriminato ricorso a procedure sottratte all’evidenza pubblica (le gare d’asta, ndr) in palese difformità e contrasto con le regole, rilevando spesso un’applicazione o elusione delle norme disinvolta e in alcuni casi spregiudicata. Ciò induce a ritenere che la prassi rilevata abbia genesi lontana”. La distorsione degli appalti, a Roma, verrebbe dunque da lontano. Di sicuro è luciferina l’organizzazione di ben 44 centri di spesa, ciascuno autonomo e geloso della propria indipendenza. Guarda caso la drastica semplificazione dei centri di spesa era all’ordine del giorno proprio dell’ultima seduta di Giunta, quella in cui Marino ha definitivamente chiuso la sua esperienza in Campidoglio. Il caos amministrativo e contabile, però, non sembra essere nato per caso. “Non si può non osservare - scrivevano gli ispettori dell’Anac in una relazione di questo settembre, girata alla procura in ottobre, e ora depositata agli atti del processo Mafia Capitale - come nell’ambito dei Dipartimenti e dei Municipi, e degli altri centri di costo, l’attività relativa agli affidamenti diretti sia spesso sfuggita ai controlli preventivi dei vertici”. Non c’è una omogeneità di procedure. Non c’è un database unitario delle spese. E il Segretariato generale ha un sistema informatico che registra esclusivamente le gare d’asta. Già, peccato però che ci sia “un massiccio e indiscriminato ricorso a procedure non ad evidenza pubblica”. I famigerati affidamenti diretti: il Comune vi ricorreva nel 90% dei casi, che in termini di importi rappresentavano il 43% della spesa complessiva. Severe le conclusioni: con questi sistemi, elusivi di norme, impropri e artificiosi, se non del tutto illegali, addio “trasparenza, economicità e efficienza”. Piuttosto sono “zone d’ombra costituenti potenziale nido di comportamenti distorsivi ed illegittimi”. La Cassazione dà il via libera alla sentenza (solo) elettronica di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2015 Corte di Cassazione - Sezione III civile - Sentenza 10 novembre 2015 n. 22871. La firma digitale sulla sentenza redatta nel (solo) formato elettronico, garantisce l’identificabilità del magistrato sottoscrittore, l’integrità del documento e la non modificabilità del provvedimento deciso. La Terza civile della Cassazione (sentenza 22871/15, depositata ieri) avvalla definitivamente la digitalizzazione del processo telematico - respingendo una declaratoria di “inesistenza giuridica” di una sentenza del Tribunale di Napoli - ma lo fa soprattutto scegliendo la strada maestra. La sentenza “digitale” è da riconoscere, sostiene la Terza, non tanto in via analogico-interpretativa, ma in forza di due leggi che - pur in mancanza di recepimento/coordinamento con il codice di procedura civile - ne fondano i presupposti normativi. Si tratta del decreto legislativo 82 del 2005 (“Codice dell’amministrazione digitale”) e del decreto legge 193/2009 (“Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario”). Con il corollario che non è neppure necessario il deposito “materiale” in cancelleria (eccepito con un secondo motivo di ricorso) perché il giudice, trasmettendo telematicamente il documento (sentenza) in cancelleria, lo consegna al cancelliere per la pubblicazione, impedendone successive manipolazioni anche da parte del giudice mittente stesso. La vicenda da cui trae spunto la decisione della Suprema corte era relativa a una sentenza del giudice di pace di Napoli, poi impugnata, per un precetto opposto - opposizione accolta per poche centinaia di euro. Secondo il ricorrente la sentenza (solo) telematica era inesistente dal punto di vista giuridico perché contenente “solo la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice” rendendo “non possibile” la sua identificazione anche perché la normativa che aveva introdotto nell’ordinamento la firma digitale “non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti che per le sentenze non è previsto”. Argomentazioni, queste, respinte in toto dalla Cassazione perché, tra l’altro, il Dpcm 30 marzo 2009 (G.U. 129/2009) fissa le regole di sicurezza dell’interazione tra la smart card, l’identificazione certa del titolare e il dispositivo di rilascio del provvedimento, garantendo che la chiave privata (un semplice file) non può essere estratta e che il suo sblocco attraverso il pin avvenga solo all’interno del dispositivo (pc) utilizzato per la stesura originaria. Questi principi generali di sicurezza sono stati poi recepiti nel dl 193 /2009 (convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24) fondando i presupposti giuridici all’interno del processo telematico. Parti aventi diritto all’equa riparazione per durata non ragionevole del processo Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2015 Processo - Termine ragionevole di durata del processo - Equa riparazione per durata non ragionevole del processo - Aventi diritto - Parte rimasta contumace nel giudizio penale presupposto - Eccessivo ritardo della definizione del giudizio come causa di disagio psicologico della parte contumace. In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il diritto all’indennizzo spetta anche alla parte rimasta contumace poiché la decisione è comunque destinata ad esplicare effetti nei suoi confronti, sicché, in caso di eccessivo ritardo nella definizione del giudizio, è causa di disagio psicologico. Né rileva la natura penale del giudizio presupposto, nel cui ambito la contumacia non costituisce indice di disinteresse dell’imputato per la pendenza del processo e per il suo esito, ma può rispondere ad una precisa e legittima scelta difensiva, ferma, peraltro, la possibilità di valutare la sua influenza sui tempi del procedimento ex articolo 2, comma 2, l. n. 89/2001. • Corte di cassazione, sezione VI - 2, sentenza 3 dicembre 2014 n. 25619. Processo - Termine ragionevole di durata del processo - Equa riparazione per durata non ragionevole del processo - Aventi diritto - Parte rimasta contumace nel giudizio presupposto - Inclusione. In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, hanno diritto all’indennizzo tutte le parti coinvolte nel procedimento giurisdizionale, compresa la parte rimasta contumace, nei cui confronti - non assumendo rilievo né l’esito della causa, né le ragioni della scelta di non costituirsi - la decisione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti ed a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 14 gennaio 2014 n. 585. Processo - Durata del processo - Equa riparazione per durata irragionevole - Aventi diritto - Parte rimasta contumace nel giudizio presupposto - Esclusione. In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, ha diritto all’indennizzo solo la parte che, avendo attivamente partecipato al processo in quanto costituita, può aver subito quel patema d’animo o quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole di durata, non anche il contumace, il quale ha consapevolmente scelto di non costituirsi in giudizio e, quindi, sostanzialmente, di disinteressarsi dello stesso. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 21 febbraio 2013 n. 4474. Processo - Durata del processo - Morte della parte costituita in giudizio - Diritto dell’erede al conseguimento dell’equa riparazione iure proprio e iure successionis. Qualora la parte costituita in giudizio sia deceduta nel corso di un processo avente una durata irragionevole, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte; non ha alcun rilievo la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla Cedu e dalla l. n. 89/2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato bensì sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 giugno 2011 n. 13803. Equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2015 Processo equo - Termine ragionevole - Equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo - Perenzione - Conseguenze. La dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse delle parte a coltivare il processo, in quanto, altrimenti, verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Tale principio trova applicazione anche nell’ipotesi in cui l’istanza di prelievo sia stata presentata una sola volta e in epoca risalente rispetto alla conclusione del giudizio, atteso che nessuna norma e nessun principio processuale impongono la reiterazione dell’istanza di prelievo ad intervalli più o meno regolari. • Corte di cassazione, sezione VI - 2, sentenza 9 luglio 2015 n. 14386. Processo equo - Processo amministrativo - Equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo - Condono edilizio - Presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso anteriormente all’impugnazione dell’ordine di demolizione - Conseguenze - Fondamento. Ai fini dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, l’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio, ancorché presentata anteriormente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione del manufatto, attenua sensibilmente il patema da attesa, ma non lo esclude in radice, per i margini d’incertezza connessi alla declaratoria d’inefficacia del provvedimento sanzionatorio, a norma dell’articolo 38 della L. n. 47/1985. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 9 luglio 2015 n. 14387. Processo equo - Processo amministrativo - Equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo - Proponibilità della domanda di indennizzo - Condizioni - Presentazione dell’istanza di prelievo - Disposizione correttiva ex articolo 1 del d.lgs. n. 195 del 2011 - Incidenza - Esclusione - Fondamento. In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, sull’applicazione della condizione di proponibilità di cui all’articlo 54, comma 2, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, come modificato dall’articolo 3, comma 23, dell’allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, non incide la disposizione correttiva di cui all’articolo 1, comma 3, lett. a, n. 6, del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, dovendosi ritenere, fin dall’inizio chiara e tale da non generare dubbi la volontà del legislatore di fare dipendere comunque dalla presentazione dell’istanza di prelievo la proponibilità della domanda di equa riparazione. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 16 settembre 2014 n. 19476. Processo equo - Termine ragionevole - Irragionevole durata del processo amministrativo - Perenzione del ricorso - Domanda di equa riparazione - Presunzione di disinteresse per la decisione di merito valida anche per il passato - Configurabilità - Esclusione - Fondamento. In materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse delle parte a coltivare il processo, in quanto in tal modo verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta - la dichiarazione di estinzione del giudizio - successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Ne consegue che va riconosciuto il diritto all’equa riparazione con riferimento al superamento del termine di durata decorso il primo triennio, potendosi limitare l’ammontare annuo dell’indennizzo solo in considerazione dell’esiguità della causa dichiarata perenta. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 2 gennaio 2014 n. 15. Lettere: quel supplizio in cella da otto euro al giorno di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 11 novembre 2015 Qual è la superficie di un letto? Poco meno di due metri quadri. Si può cucinare, mangiare, giocare a carte, leggere e vivere con un minimo di dignità in un altro metro quadro? No, ha risposto il giudice della I Sezione civile del tribunale di Genova Maria Cristina Scarzella. E nella scia di qualche altra (rara) sentenza ha condannato lo Stato a risarcire Adrian Claudiu Florea con 4.328 euro. Per 541 giorni. L’uomo non è un pericolosissimo “Nemico Pubblico n. 1”. Non è mai finito neppure nell’archivio dell’Ansa. Era stato incarcerato per un reato che il verdetto non precisa ma certo non doveva essere particolarmente infamante. E dopo avere scontato la sua pena, per un totale di 721 giorni, era stato espulso e rimandato al suo Paese d’origine, in Romania. “Aveva appunto questa aggravante: era rumeno”, ironizza la legale genovese Alessandra Ballerini, che anche per conto dell’’Associazione “Antigone” ha seguito tutto l’iter processuale. In base alla legge europea, l’avvocato aveva chiesto il risarcimento perché l’uomo a San Vittore aveva avuto a disposizione per tutto il periodo una “superficie pro-capite di mq 3” e durante quella nel carcere di Cremona io stesso. Quanto agli ulteriori periodi di carcerazione, in cui aveva condiviso la cella con altro detenuto, “la superficie al netto del mobilio era pari a 7,24 mq, per cui la superficie pro-capite era pari a 3,6 mq. Quindi di poco superiore a quanto stabilito dalia Corte Europea”. In ogni caso, scrive il giudice, “deve escludersi dalla superficie “disponibile” quella dell’annesso locale bagno, poiché, se è vero che la disponibilità in cella di un bagno separato, adeguatamente accessoriato e fornito di acqua corrente, rappresenta certamente un fattore positivo di cui tenere conto ai fini delia valutazione delle condizioni detentive, è anche vero che la superficie di tale locale, per la sua specifica destinazione, non può computarsi nella quantità di spazio “vitale” assegnato a ciascun detenuto”. Al contrario, lo “spazio fruibile per la vita quotidiana” è anche “quello, non occupato da arredi fissi, eventualmente destinato a “cucina”, poiché il confezionamento del cibo e dell’approntamento dei generi alimentari e delle bevande costituiscono un momento significativo delia vita quotidiana, anche sotto l’aspetto della socializzazione”. Un Paese serio, oggi, non può tenere i detenuti come l’abate Faria nella cella al Castello d’If. Detto questo: il prezzo del supplizio di una prigionia in meno di 3 metri quadri vale davvero solo otto euro al giorno? Lettere: carcerazione preventiva, la politica protesta ma non cambia le norme di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 11 novembre 2015 È di 11 milioni il buco contestato per il crac della Neblad società ex Dal Ben Tre di Monastier (Tv). Un buco che ha fatto finire agli arresti domiciliari i due presunti amministratori di fatto e quello di diritto per bancarotta. È questa la portata dell’inchiesta condotta dal pm De Bortoli in relazione al crac della Neblad srl, dichiarata fallita dal Tribunale di Treviso il 4 giugno 2014. Titolo in grande tratto da uno dei maggiori quotidiani italiani e dal televideo: Alfano, noi arrestiamo, i giudici scarcerano. Salvini: la giustizia italiana mi fa schifo. L’Anm: protestiamo contro le accuse della politica. Non è la prima volta, e certamente non sarà l’ultima, la politica contro i giudici e viceversa. Tuttavia, oggi il problema appare più complesso del solito perché anche l’opinione pubblica sembra schierata contro i giudici di cui si accusa il presunto lassismo. Ma è vero che i giudici esagerano in garantismo? Personalmente ritengo che il problema, reale, trovi il suo punto più delicato nelle scelte della legge, anche se non ho alcuna intenzione di negare qualche errore dei magistrati. Esaminiamo i fatti di Bologna alla luce delle norme: due anarchici insurrezionalisti, così vengono descritti, entrano in contatto con le forze dell’ordine e colpiscono uno o più agenti con calci e pugni. Vengono arrestati per resistenza e lesioni e condotti davanti al Gip per la convalida. Il Pm chiede che venga ordinato l’obbligo di firma (una misura cautelare attenuata), il Gip dispone la scarcerazione. Ha sbagliato? Così dice Salvini che certamente esagera, parlando di schifo, ma così dice anche Alfano che per essere il ministro dell’interno in carica dovrebbe essere più prudente e accorto. Che cosa dice il codice? Dice che le misure cautelari in carcere e gli stessi arresti domiciliari sono vietati se il giudice prevede che il processo possa chiudersi con l’applicazione della sospensione condizionale, di norma ordinata per le condanne sotto i due anni per gli imputati incensurati, come nella specie. Di più. Di recente si è stabilito (nuovo testo dell’art. 275) che la misura custodiale del carcere preventivo non possa applicarsi se la condanna prevista non supera i tre anni. Questo spiega la posizione dei due magistrati bolognesi: non si è mai vista una condanna di un incensurato a più di due anni per resistenza, di conseguenza la misura cautelare in carcere è interdetta e l’accusato deve essere rimesso in libertà. La conclusione non fa una grinza a termini di codice, e se non piace (concordo che a molti non piace) è proprio la politica che deve cambiare le norme, e renderle più severe. Al contrario, ogni volta che si interviene sulle norme, lo si fa per rendere più difficile l’applicazione delle misure cautelari fino al punto che qualche anno fa si è arrivati al limite estremo: le misure cautelari devono essere l’ultima ratio, in pratica l’accusato, salvi casi gravissimi, deve andare al processo in stato di libertà, solo con la condanna definitiva è possibile la carcerazione nella misura stabilita dalla sentenza. La realtà da me osservata diverse volte è che in Italia da un lato si esige severità e intransigenza (in generale per i reati cosiddetti di strada) ma dall’altra non manca una scuola di pensiero esattamente opposta secondo cui da noi si esagera con la carcerazione cautelare. Il conflitto è destinato a durare nel tempo e l’unica soluzione corretta è stata indicata da anni e proprio dai giudici. È giusto che la carcerazione cautelare sia ridotta ai minimi termini, ma sarebbe anche più giusto che l’iter dei processi venga accelerato fino al punto che l’accusato vada in carcere al più presto, se deve andarvi, ma ci vada solo dopo la condanna definitiva. In tal caso nessuno potrebbe più protestare, né l’opinione pubblica intransigente né la minoranza garantista, ma evidentemente assai importante. Finora però si è solo parlato ma non si è agito, e tanto meno agito in modo efficace. I processi continuano a durare un’eternità, e la carcerazione preventiva che assume a questo punto anche il ruolo improprio di rimedio ad una situazione sicuramente anomala continua ad essere applicata in modo non sempre coerente e prevedibile. Forse è anche colpa dei giudici, ma certamente la colpa maggiore è della politica che però non esita a protestare come se fosse del tutto innocente. Campania: De Luca indagato per corruzione “favori al giudice per rimanere in carica” di Conchita Sannino La Repubblica, 11 novembre 2015 I pm: in cambio di una sentenza favorevole sulla Severino fu costretto a promettere un posto da dirigente al marito del magistrato. Era l’unico modo per rimanere in sella. Un patto “criminoso” stretto tra politica e magistratura. Obiettivo: sventare gli effetti della legge Severino sulla poltrona del governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Un clamoroso episodio corruttivo. A leggere le contestazioni avanzate dalla Procura di Roma, si può sintetizzare così. Se non date un posto importante da dirigente sanitario per mio marito, può arrivare un provvedimento sfavorevole per il neo presidente della giunta. Sette indagati. L’esplosivo caso giudiziario travolge De Luca e il giudice del Tribunale civile di Napoli, Anna Scognamiglio, relatore dell’ordinanza che effettivamente, lo scorso luglio, confermò lo stop della sospensione, lasciando De Luca al vertice del Palazzo, dopo la prima sospensione inflitta da Roma per effetto della normativa anti- corruzione. È una bomba che può inguaiare lo “sceriffo salernitano”, e la sua legislatura appena avviata, ben più di quella legge che si voleva sabotare a ogni costo. Intercettazioni, incontri, scambi e minacce riempirebbero le centinaia di pagine di un’inchiesta coperta dal più totale riserbo: almeno fino a quelle perquisizioni, eseguite alla presenza di uscieri e funzionari della Regione, dalla squadra Mobile di Napoli. De Luca, la giudice Scognamiglio, e il marito di lei, Guglielmo Manna, avvocato e funzionario della sanità in cerca di incarico più prestigioso, finiscono iscritti nell’indagine romana che in tutti i modi, nelle ultime ore, a Palazzo Santa Lucia di Napoli, hanno provato a nascondere. L’accusa avanzata dai pm Giorgio Orano e Corrado Fasanetti, con il coordinamento del procuratore capo Giuseppe Pignatone è “corruzione per induzione”. L’ipotesi si riferisce all’articolo “319 quater, comma primo e secondo”, ed è il reato introdotto dalla recente riforma che punisce, oltre al pubblico ufficiale che minaccia o abusa (in questo caso, il magistrato) anche il “concusso” di un tempo (nel nostro caso, il governatore): qualora quest’ultimo diventi “concorrente necessario del reato”, colui che aveva la possibilità di reagire e ha scelto di non farlo, per “promettere o dare utilità”. Ma nella rete degli inquirenti finiscono soprattutto i presunti “intermediari”: il salernitano Nello Mastursi, capo della segreteria politica di De Luca, e tuttora responsabile dell’organizzazione del Pd regionale, l’assistente dai modi spicci (prese a calci alcuni giornalisti di una troupe a ridosso dell’elezione del leader) già sentito a Salerno come testimone nell’inchiesta sulle tessere gonfiate del Pd; gli avvocati collegati al mondo della Sanità napoletana Gianfranco Brancaccio, Giorgio Poziello e Giuseppe Vetrano, ex coordinatore delle liste a sostegno del presidente. Carte che si annunciano deflagranti. Al telefono sembra che Manna, marito del magistrato, parlasse liberamente. Soprattutto di quell’ordinanza che sua moglie stava per scrivere. Sono le voci, captate nel corso di apparentemente banali intercettazioni, e poi subito passate alla Procura di Roma (competente per i reati commessi dalle toghe di Napoli). Ma filtra tutto da un decreto di perquisizione notificato lo scorso fine settimana a Mastursi. La squadra Mobile cerca atti e documenti sia negli uffici della Regione, sia a casa di Mastursi, sia all’ospedale Santobono di Napoli dove lavora Manna. Sembra che in una delle conversazioni agli atti, siano stati registrati anche altri personaggi vicinissimi al governatore: tra cui uno dei suoi due figli, tuttora lanciati in politica e non indagati. Le attività di acquisizione vanno avanti per almeno venti giorni. A Palazzo Santa Lucia, però, si fa finta di niente. Ma la prima crepa arriva lunedì scorso, quando Mastursi, l’energico braccio destro di De Luca, si dimette improvvisamente. È un fulmine a sorpresa che viene liquidato, ai piani alti, come “scelta personale”, l’impossibilità per Mastursi di svolgere il doppio ruolo di capo della segreteria e responsabile dell’organizzazione Pd. Non solo: in serata arriva addirittura una nota ufficiale in cui “la Regione ringrazia il dottor Mastursi per la collaborazione e il lavoro intensissimo di questi mesi”. Ma un altro pezzo del suo “lavoro” svolto in questi mesi, è l’atto della Procura a svelarlo. Scrivono i pm: la giudice “Scognamiglio, magistrato presso il Tribunale civile, e giudice relatore nella fase di merito del ricorso intentato dal governatore” sugli effetti della Severino, “in concorso con il marito Manna, e con gli intermediari Poziello e Brancaccio, minacciava De Luca per il tramite di Vetrano, e di Mastursi, di una decisione a De Luca sfavorevole da parte del Tribunale, con conseguente perdita della carica ricoperta”. Chiosano i magistrati nel decreto: “Reato commesso in Napoli dal luglio al settembre 2015”. Il magistrato Scognamiglio, raggiunto da Repubblica, commenta solo: “Sono completamente estranea ai fatti. Se qualcuno, a mia insaputa, ha speso il mio nome, non ne ho alcuna responsabilità. Sono serena, e confido che la giustizia farà presto piena luce sulla verità dei fatti”. L’indagine segue, di fatto, parallelamente l’intera sequenza amministrativa della vicenda De Luca-Severino, ma non risultano altri magistrati indagati. Prima tappa: De Luca, eletto governatore a maggio scorso, il 27 giugno viene sospeso dal premier Renzi. Il 2 luglio, il giudice civile Gabriele Cioffi, con provvedimento d’urgenza e quindi senza ascoltare le parti - dettaglio: lo fa il giorno prima di andare in pensione - dà ragione a De Luca e sospende la “sospensione” per il governatore, rimandando il merito della vicenda al collegio della prima civile. È qui che si innesterebbe la corruzione. Perché in quel collegio siede la Scognamiglio, che è giudice relatore. Ed è lei, il 22 luglio, a scrivere l’ordinanza che conferma ancora una volta la tesi favorevole al governatore. Si tratta di una decisione che viene “censurata” da molti giuristi mentre gli atti vanno alla Corte Costituzionale. A settembre, un altro collegio dello stesso Tribunale respingerà l’ennesimo ricorso avanzato dalle opposizioni contro De Luca. Nella ricostruzione dei pm romani, non risulterebbero contatti diretti tra il magistrato e il governatore, destinatario ultimo dell’accordo; ma l’indagine non può non includere De Luca, anche per consentirgli una piena difesa. Ma lui appare sereno e fino a ieri sera usa il solito sarcasmo. “Ho invidiato Mastursi che ha avuto una pubblicità neanche fosse Winston Churchill e Camillo Benso conte di Cavour. E che diamine!”, scherza De Luca. “E ora fatemi pensare ai cittadini”. Catanzaro: dall’Azienda Sanitaria Provinciale due accordi per la salute dei detenuti Corriere del Sud, 11 novembre 2015 Lunedì 9 novembre, nei locali della Direzione Generale dell’Azienda Sanitaria Provinciale, sono stati stipulati due importanti protocolli d’intesa tra il Commissario Straordinario dell’ASP Giuseppe Perri e il direttore della Casa Circondariale “Ugo Caridi” Angela Paravati. All’incontro erano presenti il Direttore Amministrativo Giuseppe Pugliese e il Referente Asp per la salute negli Istituti Penitenziari Antonio Montuoro. I due documenti riguardano la “Riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti” e la “Sorveglianza della Tubercolosi”. Si tratta di un esempio concreto di collaborazione tra l’Ordinamento Sanitario e l’Ordinamento Penitenziario, per garantire l’uguaglianza del diritto alla salute dei detenuti che debbono ricevere gli stessi benefici dei cittadini in stato di libertà. Il periodo detentivo è di per sé un tempo a rischio che favorisce la possibilità di contrarre patologie infettive. Studi epidemiologici condotti in Italia da società scientifiche, anche in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, hanno evidenziato l’incremento della diffusione dell’infezione tubercolare tra la popolazione detenuta. Alla luce di ciò, il protocollo prevede la prevenzione e il controllo dell’infezione tubercolare tra i detenuti nella Casa Circondariale di Catanzaro, anche con l’ausilio del Dispensario Funzionale TBC dell’ASP; l’offerta intramoenia di test Mantoux a tutto il personale penitenziario; corsi di formazione sulle modalità di prevenzione della tubercolosi. Altrettanto importante è il protocollo relativo alla prevenzione degli atti autolesivi e suicidari che, già di per sé drammatici sotto il profilo umano, rendono necessaria l’adozione di una serie di misure di prevenzione volte a individuare e trattare con tempestività gli stati di disagio e fragilità della persona detenuta. Soddisfazione per i contenuti dell’incontro è stata espressa dal dott. Perri e dalla dott.ssa Paravati che hanno sottolineato l’impegno delle due Amministrazioni per migliorare le condizioni di detenzione e il percorso clinico-assistenziale per le persone detenute. Roma: dall’Asl un progetto di educazione alla salute orale nelle carceri di Emanuele Bompadre iltabloid.it, 11 novembre 2015 Una iniziativa fortemente auspicata dalla determinazione dal Direttore Generale della Asl Roma F dott. Giuseppe Quintavalle, e dai Direttori degli Istituti Penitenziari di Civitavecchia, la dott.ssa Patrizia Bravetti e la dott.ssa Rosella Santoro, ha consentito l’attivazione del progetto di prevenzione primaria “Oltre Sorridi alla Prevenzione”, affiancandosi cosi ad un’esperienza del tipo “Best Practice” già avviata nella Regione Emilia Romagna, che lì ha dato grandi risultati. Si tratta di un progetto articolato in varie fasi con obiettivi distinti per un risultato complessivo. Primo degli obiettivi è la creazione e la successiva preparazione di un team che abbia la giusta sensibilità alle manovre di igiene ed all’educazione alla salute orale attraverso la formazione dei Cargivers, che non necessariamente devono essere professionisti del settore, ma anche i classici operatori come la Polizia Penitenziaria, gli Infermieri Professionali, gli Operatori Sanitari, i Volontari, gli Assistenti alla Poltrona, i Medici di medicina generale ed i Medici specialisti. Altro obiettivo importante è quello della sensibilizzazione dei detenuti sull’importanza di una corretta igiene orale, anche per prevenire più gravi patologie infettive, e passare dall’esercizio di cure odontoiatriche in fase di emergenza-urgenza ad una esigenza personale “di sorriso” con propensione naturale ad eventuali richieste di cura specifica. Per questo i reclusi, partendo proprio dal loro ambiente e dalla loro quotidianità, con un semplice spazzolino e dentifricio, possono presentarsi in ambulatorio con una bocca già igienizzata ed in buono stato. In tutto il percorso l’odontoiatra e l’Igienista Dentale fungono da coordinatori per tutte le eventuali terapie. “Come al solito - ha commentato il dott. Quintavalle - è doveroso ringraziare la Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia, per la grande sensibilità mostrata nel voler promuovere il progetto di prevenzione primaria odontoiatrica “Oltre, sorridi alla Prevenzione”, e per averlo sostenuto economicamente per la concreta realizzazione. Si ringraziano anche alcune aziende del settore per aver messo a disposizione del materiale didattico e divulgativo e vari kit di dentifricio e spazzolino che saranno consegnati ad ognuno dei 700 detenuti attualmente presenti negli istituti”. Piacenza: Foti (Fdi-An) “diffondere tra i detenuti la cultura del rispetto per gli agenti” ilpiacenza.it, 11 novembre 2015 “La giunta regionale esprima piena e incondizionata solidarietà agli agenti della Polizia penitenziaria che, nel carcere di Piacenza, come negli altre strutture carcerarie dell’Emilia-Romagna, sono costretti sempre più frequentemente a subire atti di violenza da parte dei detenuti”: a chiederlo è il consigliere Tommaso Foti (Fdi-An) in un’interrogazione rivolta alla Giunta regionale, dove denuncia che nel carcere piacentino, in particolare, si registrano aggressioni sempre più frequenti da parte dei detenuti contro gli agenti, che non fanno altro che adempiere al loro dovere, cercando nella maggioranza dei casi, di separare detenuti rissosi, in prevalenza di etnia straniera. Foti segnala che la situazione sta assumendo “Aspetti sempre più gravi, tali da indurre i vari livelli istituzionali a prendere iniziative al riguardo: la Regione, per contro ha emanato una legge, la 3/2008, dove si è preoccupata di inserire disposizioni solo per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari”. “La norma - aggiunge - prevede che gli interventi regionali perseguano finalità, quale quella di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e di favorire il loro recupero e il reinserimento nella società. Con la stessa legge, inoltre, è stato istituito anche l’ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, con il compito di promuovere, tra l’altro, iniziative per la diffusione di una cultura dei diritti dei detenuti”. Nei fatti, a parere di Foti, almeno per quanto riguarda il carcere di Piacenza, sarebbe altrettanto doveroso che venisse diffusa tra i detenuti la cultura del rispetto per gli agenti che compiono il proprio dovere con “abnegazione e professionalità, sobbarcandosi anche di turni di lavoro particolarmente duri”. L’esponente di Fdi-An sollecita quindi la Giunta a sospendere ogni tipo di collaborazione da parte della Regione in quelle strutture carcerarie dove, con più frequenza, si verifichino episodi di violenza ai danni dei rappresentanti della Polizia penitenziaria. Ascoli: le partite di calcio tra detenuti in carcere, con i figli a tifare in tribuna di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 novembre 2015 Mercoledì 11 si gioca in 22 istituti italiani di pena: i single sfideranno gli sposati davanti agli occhi delle famiglie. Iniziativa di “Bambini senza sbarre” in occasione del turno di campionato di serie B, per realizzare nuove Zone Gialle: spazi attrezzati per i colloqui dei minori. Il caso di Ascoli Piceno. Una partita di calcio, due squadre, l’arbitro, il pubblico, il campo sportivo. Le sbarre, i cancelli, le perquisizioni all’ingresso. Le urla dei bambini che tifano per il papà, l’occasione, finalmente, di abbracci sereni. Sarà molto più di incontro di calcio quello promosso per mercoledì 11 novembre nelle carceri delle città in cui si svolge il campionato di serie B: 22 in tutta Italia, Ascoli Piceno compresa. I detenuti con figli sfideranno i detenuti-single sotto gli occhi delle famiglie e dei loro bambini che per la prima volta, da quando il papà è in carcere, potranno tifare per lui, sostenerlo, sentirsi parte delle stessa squadra. E della stessa famiglia. Sono oltre 100 mila i bambini che entrano ogni anno nelle carceri italiane per incontrare i genitori e dare seguito a quel rapporto affettivo che la detenzione ha spezzato improvvisamente. L’associazione Bambini senza sbarre da 12 anni lavora per creare spazi, strumenti e occasioni per difendere il diritto al mantenimento degli affetti familiari. Questo è l’ultimo dei suoi progetti, in ordine di tempo, e si inserisce nella campagna di sensibilizzazione nazionale “Non un mio crimine, ma una mia condanna. I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini”. In particolare, una raccolta fondi attraverso un sms solidale - 2 o 5 euro al 45503, fino al 28 novembre - è destinata a finanziare la realizzazione di nuovi Spazi Gialli in carcere: zone attrezzate in cui i minori possono attendere più serenamente il colloqui con i genitori. Nel campo sportivo della casa circondariale di Marino del Tronto, ristrutturato negli ultimi mesi, scenderanno i detenuti e ad arbitrare ci saranno giocatori professionisti dell’Ascoli Picchio. Dietro le quinte dell’evento, la collaborazione del Dipartimento amministrazione penitenziaria, della Lega nazionale professionisti B e della Lega B solidale. Le partite si svolgeranno in contemporanea negli istituti di Ascoli, Avellino, Bari, Brescia, Cagliari, Cesena, Como, Crotone, Latina, Livorno, Modena, Novara, Perugia, Pescara, Vercelli, Salerno, La Spezia, Terni, Trapani, Vicenza, Chiavari, Lanciano. Mentre dai campi di calcio regolamentari, nel pre-partita di serie B, partiranno messaggi di invito a sostenere il progetto “Lo spazio giallo nel grigio del carcere”. Nel supercarcere di Ascoli Piceno si lavora da tempo per coltivare i legami affettivi e abbiamo rivolto alcune domande in merito alla direttrice dell’istituto di pena di Ascoli Piceno, Lucia Di Feliciantonio. Quanto sono importanti in carcere queste occasioni di incontro? “La riscoperta e il rafforzamento del ruolo della genitorialità rappresentano una spinta potente al cambiamento in vista del reinserimento sociale. In questa ottica si pongono numerose iniziative realizzate presso questa sede, come il corso di riparazione dei giocattoli, l’adeguamento della sala colloqui trasformata in una sala giochi per bambini, la festa del papà, il dono dei giocattoli ai figli in occasione del Natale”. Che significa per un bambino incontrare il papà-detenuto fuori dall’ambiente ufficiale dei colloqui? “Momenti come la partita di calcio sono molto importanti perché favoriscono una autenticità nella relazione e strutturano occasioni di incontro simili a quelle in libertà e non in regime di restrizione”. Il carcere sta aprendo molto, ma quanto c’è ancora da fare per sostenere gli affetti dentro le mura? “L’intervento necessario e radicale è quello di adeguamento dell’Ordinamento penitenziario che strutturi e tuteli gli spazi di affettività. Una proposta legislativa è in discussione e anche nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale c’è un tavolo di lavoro dedicato all’affettività in carcere”. Quanti sono i bambini che mensilmente vengono al Marino per incontrare i genitori e in media quale età hanno? Ci sono bambini che affrontano lunghi viaggi? “Mensilmente effettuano colloqui circa 35 bambini di età compresa tra pochi mesi e 16 anni. I figli e i nipoti di detenuti sottoposti al regime 41 bis arrivano da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania”. Trapani: l’On. Oddo “la Sezione Tirreno va chiusa, condizioni di vita inaccettabili” marsalaoggi.it, 11 novembre 2015 Il deputato trapanese Nino Oddo ieri mattina è stato in visita alla Casa Circondariale San Giuliano di Erice. Assieme a Roberto Messana e Nico Del Grosso, rispettivamente segretario regionale e referente provinciale del FSA- agenti di polizia penitenziaria, e accompagnato dal comandante delle carceri, Giuseppe Romano, l’on Oddo ha visitato il penitenziario soffermandosi, in particolar modo, sulle condizioni in cui versa la sezione Tirreno, dove sono detenute cinquanta persone. Il parlamentare socialista ha riscontrato che “quel reparto è fatiscente, con infiltrazioni d’acqua piovana dal tetto e condizioni igienico-sanitarie carenti”. “È emersa una chiara situazione emergenziale- ha commentato Oddo-. Una condizione inaccettabile ed invivibile per i detenuti e di disagio anche per coloro che lavorano giornalmente all’interno della sezione Tirreno. In attesa che venga inaugurata, nel 2016, la nuova sezione Adriatico, ancora in fase di costruzione, ritengo che sarebbe opportuno chiudere la sezione Tirreno e trasferire i 50 detenuti presso la case circondariale di Favignana o al “Pagliarelli” di Palermo”. Oddo ha ricordato come “gli interventi legislativi degli ultimi anni hanno contribuito a ridurre l’incidenza del sovraffollamento della popolazione carceraria, pertanto il loro trasferimento, oltre ad essere una soluzione temporanea, non andrebbe comunque ad incidere su altre strutture carcerarie”. “Del resto- ha concluso- dallo stato delle carceri si misura il livello di civiltà di un paese e i detenuti hanno dei doveri ma anche dei diritti. Pertanto vanno garantite loro condizioni di vita dignitose”. Monza: donna fermata, tentava di portare diversi grammi di hashish al marito detenuto Agenparl, 11 novembre 2015 Si era presentata in carcere, alla Casa Circondariale di Monza, per sostenere il colloquio con il marito detenuto. Ma, durante l’incontro, ha cercato di passare diversi grammi di hashish al coniuge, pluripregiudicato di 45 anni e nonostante ciò detenuto in regime aperto. L’incauto tentativo non è però sfuggito agli attenti controlli degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria della Sala colloqui del carcere, che hanno sequestrato la sostanza stupefacente e denunciato la donna all’Autorità giudiziaria. È accaduto nel pomeriggio di ieri nel carcere brianzolo e darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: “Questo ennesimo rinvenimento di stupefacente destinato a detenuti, scoperto e sequestrato in tempo dall’alto livello di professionalità e attenzione dei Baschi Azzurri di Monza, a cui vanno le nostre attestazioni di stima e apprezzamento, evidenzia una volta di più come sia reale e costante il serio pericolo che vi sia chi tenti di introdurre illecitamente sostanze stupefacenti in carcere. Ogni giorno la Polizia Penitenziaria porta avanti una battaglia silenziosa per evitare che dentro le carceri italiane si diffonda uno spaccio sempre più capillare e drammatico, stante anche l’alto numero di tossicodipendenti tra i detenuti. L’hashish, la cocaina, l’eroina, la marijuana e il subutex - una droga sintetica che viene utilizzata anche presso il Sert per chi è in trattamento - sono quelle che più diffuse e sequestrate dai Baschi Azzurri. Ovvio che l’azione di contrasto, diffusione e consumo di droga in carcere vede l’impegno prezioso della Polizia penitenziaria, che per questo si avvale anche delle proprie Unità Cinofile. Questo fa comprendere come l’attività di intelligence e di controllo del carcere da parte della Polizia Penitenziaria diviene fondamentale. Questo deve convincere sempre più sull’importanza da dedicare all’aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari, come ad esempio le attività finalizzate a prevenire i tentativi di introduzione di droga in carcere, proprio in materia di contrasto all’uso ed al commercio di stupefacenti”. Capece “punta il dito” contro il sistema della vigilanza dinamica e del regime penitenziario aperto a favore dei detenuti, che fa venire meno i controlli della Polizia Penitenziaria: “Che dire del sistema di vigilanza dinamica e del regime penitenziario aperto? Ha senso, è rieducativo, da un senso alla pena detentiva far stare molte ore al giorno i detenuti fuori dalle celle senza però fargli fare assolutamente nulla? Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Il dato oggettivo è che con la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario aperto gli eventi critici sono aumentati. Come dimostra il rinvenimento di droga a Monza, c’è chi pensa evidentemente che vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto vogliono dire permettersi di fare tutto in carcere”. Torino: presentato “Al di là delle sbarre, una storia”, il libro di fiabe scritte dai detenuti Ansa, 11 novembre 2015 Una bimba che vive nel regno di Gabal, lontano un anno luce dalla Terra, che scrive ad un bimbo terreno parole d’amore, un papà che dorme in tenda col figlio nei boschi, un delfino che salva due innamorati. Sono alcuni dei soggetti delle favole scritte dai detenuti vincitori del premio nazionale a loro dedicato “Le favole di Artavan”. Dai lavori è nato il libro “Al di là delle sbarre, una storia”, edito da Fondazione Alberto Colonnetti, presentato nel carcere torinese Lorusso e Cotugno. Ad aggiudicarsi il primo premio è stato Abramo Corsaro, del carcere di Verbania, con il commovente racconto “Popi, Minini e le leggi dell’Universo”. Presentando se stesso, laureato in Scienze politiche, separato, padre di due bambini di 12 e 8 anni, Corsaro scrive: “Vittima di un bruttissimo scivolone, voglio riscattarmi agli occhi di chi non ha comunque smesso di credere in me”. Spiegazioni analoghe hanno dato anche gli altri detenuti scrittori, molti diplomati, se non addirittura laureati, e padri amorosi. Le loro favole sono toccanti e piene di vita, amore, speranze. In molte c’è il mare, ci sono gli alberi, i bambini, mondi inventati. L’iniziativa nasce da un progetto di Artaban onlus. Le attuali politiche su rifugiati e migranti non sono adeguate di Ban Ki-moon (Segretario Generale delle Nazioni Unite) Corriere della Sera, 11 novembre 2015 I leader della Ue devono lavorare davvero insieme per una risposta collettiva che rifletta i valori dei diritti umani, isolando chi alimenta la xenofobia con discorsi pieni di odio. “Non ci piace crescere in un mondo in guerra perché è stupido e anche chi vince finisce per soffrire”. Queste parole forti, più schiette e più chiare di tutte quelle che io abbia mai ascoltato nei miei incontri con i governanti mondiali, hanno una fonte ancora più autorevole: i bambini sopravvissuti a conflitti, povertà, privazioni, e perfino alle mani criminali dei trafficanti di esseri umani. Queste parole facevano parte di una poesia che alcuni bambini mi hanno letto alla “Tenda di Abramo” della Comunità di Sant’Egidio al centro di Roma, uno dei tanti centri per rifugiati che ho visitato nelle scorse settimane in giro per l’Europa per mostrare solidarietà, sulla scia di tanti incontri passati con famiglie nei campi in Libano, Giordania, Turchia e altri Paesi ospiti. Le famiglie hanno perso le loro case, ma io mi sento come a casa tra di loro. Seduto con un piccolo gruppo di gente proveniente da Medio Oriente, Africa e oltre, ero intento ad ascoltare quando un ragazzino attirò la mia attenzione. “Quanti anni hai?”, chiesi. “Sei”, rispose orgoglioso. Mi ricordai di come alla sua stessa età fui costretto a lasciare la mia casa durante la guerra di Corea. Nonostante non avessi dovuto viaggiare tanto quanto loro e non fossi stato toccato da molte delle tragedie che li hanno feriti, conoscevo fin troppo bene la confusione e la paura di dover abbandonare il proprio villaggio mentre cadono le bombe. Non dimenticherò mai di come guardavo mio nonno cercare freneticamente qualcosa per nutrirci sulle montagne dove ci nascondevamo. Ero troppo giovane per comprendere termini come “sicurezza collettiva”, ma quando vidi le truppe sotto la bandiera delle Nazioni Unite, sapevo che non ci avevano lasciati soli. E quando l’Onu ci fornì i generi di prima necessità, sentì l’inizio del senso di responsabilità di dover ricambiare il mondo per avermi salvato. Io non sono speciale. Coloro che ho incontrato alla “Tenda di Abramo” in Italia, al Centro umanitario di Gabcikovo in Slovacchia, e al Centro di prima accoglienza e identificazione per immigrati in Spagna sono tutti desiderosi di contribuire alla società. Persone come Sanogo Badara, uno studente ventiduenne del Mali. Fuggito dal conflitto nel suo Paese, ha camminato nel deserto per più di tremila chilometri e pianto amici morti durante la traversata. Altre vite sono andate perdute sulla piccola imbarcazione che lo ha portato, assieme ad un altro centinaio di persone, al di là del Mediterraneo. Adesso, pur nel divario culturale che c’è in Italia, dice: “Qui ho trovato amore e amicizia”. Una madre di due bambini dall’Afghanistan, Sediqa Rahini, ha detto che considera se stessa come “un agente di pace”. Guardare i suoi figli giocare felici, ha detto, le ha ricordato il trauma di casa. “Quanti bambini in Afghanistan si svegliano al frastuono di spari e bombe?”. Questa è la realtà terrificante di milioni di siriani che hanno sofferto per troppo tempo a causa di una guerra a cui i Paesi e le parti che esercitano influenza devono mettere fine. Come i milioni di europei e altri che hanno ricomposto le loro vite distrutte dopo la Seconda guerra mondiale, le persone che arrivano oggi chiedono ciò che tutti vogliono: sicurezza, stabilità e un futuro migliore per i propri cari. Sono profondamente preoccupato se penso a quanti ne sfruttano la sofferenza alimentando la xenofobia e facendo discorsi carichi di odio. Queste azioni dividono le comunità, seminano instabilità e tradiscono i valori e i principi dei diritti umani che sostengono l’Unione europea. Chiedo ai leader, europei e del mondo intero, di lavorare insieme ad una risposta collettiva che rifletta questi valori e rispetti la dignità delle persone che fuggono conflitti e povertà. Creazione di frontiere, criminalizzazione e regimi di detenzione non risolveranno alcun problema. Al contrario, i Paesi dovrebbero assicurare vie d’accesso più sicure e legali per migranti e rifugiati, maggiori opportunità di ricollocamento, migliori opzioni di integrazione locale e maggiori investimenti per le operazioni di soccorso che sono cronicamente sotto-finanziate. Con un approccio innovativo, possiamo generare opportunità per un numero maggiore di migranti e rifugiati, ad esempio attraverso borse di studio concesse dal settore privato, visti umanitari e finanziamenti per la diaspora. Questa risposta caritatevole è anche un modo efficace per contrastare le reti criminali del contrabbando e del traffico di esseri umani che si arricchiscono sulla pelle di persone disperate. Le attuali politiche sono chiaramente non adeguate. Per la comunità internazionale è giunto il momento di sviluppare una risposta globale ai flussi di massa delle popolazioni. Sto lavorando per portare i Paesi oltre un approccio più umano e coordinato. Il progresso servirà l’interesse comune di tutte le nazioni. Il canto dei bimbi che ho incontrato al centro “Tenda di Abramo” a Roma narrava del loro viaggio attraverso continenti diversi, e si chiudeva con un messaggio per il mondo: “Che differenza c’è? Siamo tutti parte della stessa umanità”. Migranti, nuova strage di bimbi nell’Egeo. Da Aylan nulla è cambiato di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 11 novembre 2015 Manca ancora una seria volontà dei governi europei di fermare queste stragi, aprendo passaggi terrestri (la rotta dell’Egeo ha sostituito l’attraversamento del confine greco-turco a Evros, ora chiuso) e studiando canali sicuri per l’accoglienza dei richiedenti asilo. S’attendeva una nuova tragedia nelle acque dell’Egeo, nella notte è arrivata. L’agenzia Anadolu riferisce del naufragio di un’imbarcazione in acque turche, nel braccio di mare tra Ayvalik e l’isola greca di Lesbo: almeno 14 morti, sette sono bambini. E il conteggio complessivo delle vittime nel Mediterraneo ormai supera le 3.450 solo quest’anno. Era questione di tempo, di ore, e con l’inverno non potrà che essere peggio. Le partenze dei profughi organizzate dai trafficanti di Istanbul si sono addirittura moltiplicate dopo l’estate, a bordo spesso di gommoni da gita turistica, pieni fino all’orlo, che già salpano imbarcando acqua, spinti da motori da pochi cavalli senza neanche benzina sufficiente. Sono poche miglia marittime, nel punto più stretto dalla costa turca a Lesbo sono appena cinque. Ma basta un’onda alta per ribaltare la barchetta. E i soccorsi non sono adeguati. Le navi dell’agenzia Ue Frontex possono operare solo in acque europee e concentrano le forze limitate nei casi più gravi. Nel mare greco, la guardia costiera non ha i mezzi e il personale sufficiente, né le competenze per i salvataggi: Atene su impulso dell’Unhcr sta creando a Lesbo un team congiunto di guardie e soccorritori che possa cominciare a operare con maggiore efficacia. I volontari sulle spiagge dell’isola greca danno il massimo delle proprie risorse. Ma possono drammaticamente non bastare. Manca ancora una seria volontà dei governi europei di fermare queste stragi, aprendo passaggi terrestri (la rotta dell’Egeo ha sostituito l’attraversamento del confine greco-turco a Evros, ora chiuso) e studiando canali sicuri per l’accoglienza dei richiedenti asilo, che pure parte dell’Unione europea sostiene di voler ricevere (almeno in quote limitate). Dalla morte del piccolo curdo siriano Aylan, deposto dal mare sulla spiaggia turca di Bodrum due mesi fa, in una foto che ha scatenato indignazione internazionale e straordinarie prese di posizione, ancora una volta, niente è cambiato. La Germania ricomincia a bloccare i siriani alle frontiere La Stampa, 11 novembre 2015 Tornano in vigore le regole di Dublino per gli Stati europei, fatta eccezione per la Grecia. Ora i rifugiati dovranno registrarsi nel primo Paese d’arrivo. Domani vertice Ue a Malta. Sui profughi siriani il governo di Berlino fa dietrofront e li rinvia verso i Paesi di ingresso dell’Ue, verso gli Stati di primo arrivo, secondo quando prevede il regolamento di Dublino, tranne la Grecia (in rispetto ad una sentenza della Corte Ue secondo cui Atene non garantisce gli standard minimi di accoglienza per i migranti). Un’inversione a “U” rispetto ad agosto, quando Angela Merkel annunciando che la Repubblica federale avrebbe accolto tutti i richiedenti asilo in fuga dal conflitto siriano, si era guadagnata il nomignolo di “Mutti” e la Germania era diventata la terra promessa per centinaia di migliaia. Ma i dati record dell’Ufficio europeo per l’asilo, secondo i quali tra gennaio e ottobre in Ue sono state presentate già un milione di richieste, un quarto di queste nella sola Germania; i sondaggi che danno l’Unione di Merkel in caduta libera, mentre la destra anti-immigrati di Alternative fuer Deutschland conquista valori a due cifre; e un’Ue che arranca nel far fronte alla crisi, hanno convinto Berlino a tornare indietro sulla decisione, che in molti, anche a Bruxelles avevano additato come causa di un deciso “fattore richiamo” sulla rotta dei Balcani, dove la situazione ora potrebbe diventare davvero esplosiva. Secondo Frontex, oltre 540mila migranti sono arrivati nelle isole greche nei primi dieci mesi dell’anno: tredici volte in più rispetto a quelli giunti nello stesso periodo, nel 2014. Nonostante il peggioramento delle condizioni meteo, a ottobre più di 150mila persone hanno viaggiato dalla Turchia alla Grecia, mentre nell’ottobre del 2014 erano stati meno di 8.500. Come effetto diretto, tra gennaio ed ottobre, si sono registrati 500mila attraversamenti delle frontiere dei Balcani occidentali, soprattutto ai confini di Ungheria e Croazia con la Serbia. E dopo che l’Ungheria ha costruito una barriera alla frontiera con la Serbia, i migranti hanno cominciato ad attraversare i confini tra Serbia e Croazia, in numeri record. La Slovenia, che nelle prossime ore prevede una nuova forte ondata migratoria, tra i 20mila ed i 30mila profughi, ha annunciato la costruzione di una barriera di filo spinato al confine con la Croazia. Il premier Miro Cerar, che nei giorni scorsi aveva messo in guardia rispetto al pericolo di un nuovo conflitto nell’area balcanica sotto l’onda d’urto della crisi migratoria. Nella vicina Trieste, intanto, parte un nuovo progetto di accoglienza: 400 euro a famiglia per chi ospita un richiedente asilo. E domani alla Valletta, 63 leader africani e Ue si riuniscono per parlare di immigrazione sulla rotta del Mediterraneo centrale che interessa soprattutto l’Italia, dove i flussi sembrano però più sotto controllo. Tra le proposte europee: nuovi canali per l’immigrazione legale, la cooperazione per affrontare le origini delle migrazioni, la lotta ai trafficanti, ed il rafforzamento delle capacità di polizia anche per la lotta al terrorismo. Ma è il punto sugli accordi per le riammissioni, che si annuncia tra i più spinosi. L’Ue vorrebbe accelerare sui rimpatri verso i Paesi africani, andando ben oltre il 30% scarso che si era raggiunto lo scorso anno. Degli oltre 730mila migranti arrivati in Ue nel 2015, 132,434 provengono dall’Africa, di questi il 21% sono eritrei, seguiti dal 12% di nigeriani. L’Europa arriva al tavolo pronta a sborsare 1,7 miliardi di euro in cooperazione, in cambio di collaborazione sui rimpatri e centri di permanenza, ma le posizioni con l’Unione africana appaiono lontane. Truffe dell’accoglienza, non c’è solo Mafia Capitale di Massimo Malpica Il Giornale, 11 novembre 2015 Da “Mafia Capitale” a “Mafia Nazionale”. Un salto di qualità a livello territoriale, almeno per quanto riguarda il fiorente “business immigrazione”, sulla pelle dei migranti. A confessare la “sensazione” che il sistema di malaffare emerso intorno al tema dell’accoglienza con le coop sociali della capitale sia ben più vasto è il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, nel corso dell’audizione di ieri in commissione Migranti. “Oggi - ha spiegato il numero uno dell’Anac - le ondate migratorie sono diventate ordinarie, e per questo è difficile parlare di emergenza, che non è più”. Non è più, ma è stata artificialmente mantenuta viva perché a qualcuno conveniva “il perpetuarsi di determinati meccanismi”. “Io sono in grado di affermare - ha proseguito infatti Cantone - che c’è stato chi ha abusato di quella emergenza. E ho la sensazione che, con modalità diverse, il sistema sia molto più diffuso di quello che è emerso a Roma”. Quella scoperchiata nella capitale, per Cantone, era “una struttura quasi monopolista”. Ma sul “sistema cooperativo” in molte regioni, ha insistito poi il presidente Anac, ci sono sospetti che si siano “nidificate vicende strane”. In particolare quando vi è stato l’utilizzo “di alberghi e strutture ricettive”, soprattutto nelle aree del Paese dove tradizionalmente “è anche forte la presenza di criminalità organizzata”. Tanto da poter ritenere che in queste regioni “rischia di essere confermata da futuri controlli” l’esistenza di un legame tra “gestione illecita degli immigrati e criminalità organizzata”. Nel mirino, dopo Lazio e Sicilia (già sfiorata dall’inchiesta romana per la gestione del Cara di Mineo), ora c’è la Campania, dove sono state “visitate” le stazioni appaltanti e acquisiti gli atti in Regione. E proprio la “polverizzazione” delle stazioni appaltanti è ora al centro degli interventi caldeggiati dall’Anticorruzione. Cantone ha infatti spiegato che Anac e ministero dell’Interno stanno lavorando insieme alla creazione di un “bando tipo”. Un modello “unificato” per l’affidamento dei servizi a terzo settore e coop sociali. Il bando prodotto da Authority e Viminale dovrebbe essere varato entro la fine dell’anno e permetterà, grazie a “principi chiari”, di dare indicazioni più stringenti per gli appalti nel settore accoglienza. Ma Cantone propone anche di affidare ai prefetti, ultimamente sugli scudi, il ruolo di soggetto attuatore nel sistema di accoglienza. “Uno dei problemi - ha osservato il presidente dell’Autorità - è che sul territorio sono diversi i soggetti che fanno da stazione appaltante, non c’è omogeneità. In certi casi se ne occupano gli enti locali, in altri le regioni, altrove ancora consorzi ad hoc, come accaduto in Sicilia per il Cara di Mineo. Servirebbe invece un attuatore unico e, a mio avviso, potrebbero essere le prefetture a garantire una maggiore omogeneità e trasparenza”. Almeno l’allarme-Campania sembra aver colto nel segno. Il presidente della commissione, Gennaro Migliore del Pd, ha infatti annunciato una serie di “missioni segrete” dei commissari nei centri di accoglienza straordinaria (Cas) campani. Dove “abbiamo serissimi dubbi - ha detto Migliore - sulla compatibilità tra servizi richiesti ed erogati”. A Milano per cambiare verso sulle droghe di Riccardo De Facci* Il Manifesto, 11 novembre 2015 “Cambiamo verso sulle droghe. Adesso!”. È con questo slogan che il 20 e 21 novembre, a Milano presso la Camera del Lavoro, si terrà una conferenza organizzata dal Cartello di Genova. “Cambiamo verso sulle droghe. Adesso!”. È con questo slogan che il 20 e 21 novembre, a Milano presso la Camera del Lavoro, si terrà una conferenza organizzata dal Cartello di Genova nel solco delle parole di don Gallo. Tante sigle ed esperienze diverse che insieme in questi anni hanno mantenuto vivo un dibattito critico su questi temi e che si sono riunite anche stavolta per un obiettivo comune: riaprire il dibattito sulle droghe nel nostro paese dopo anni di repressione cieca promossa ed avallata prima da una legge anticostituzionale, la Fini Giovanardi e poi dai silenzi colpevoli degli ultimi governi. Molti politici ed operatori ancor oggi sembrano incapaci di avere occhi per comprendere quanto i problemi e le storie connesse al tema dell’uso, del consumo, dell’abuso e della dipendenza da “droghe” siano sempre più racconti del quotidiano, della vita “normale” di moltissimi giovani. Non più e non solo storie difficili, ripetute e tragiche, nelle quali la dipendenza da sostanze stupefacenti è diventata dramma del vivere, illegalità e marginalità sociale e con cui i nostri servizi hanno molto lavorato in strada, nelle carceri, nelle comunità, nelle unità di strada, nei servizi. Noi tutti incrociamo sempre più spesso storie del vivere normale, del divertirsi, sperimentare, stare assieme di molti giovani, connotate anche da un consumo di sostanze diffuso, in contesti ed ambiti diversissimi, con coinvolgimenti e problematicità molto diverse. La rinuncia al ragionamento complesso, l’obbligo penale alla cura, le promesse di pesantissime punizioni contribuiscono paradossalmente ad aumentare l’allarme e alimentano la tendenza alla mimetizzazione dei consumatori che non si riconoscono nelle immagini stereotipate. Sono in particolare tre i temi che affronteremo alla Conferenza di Milano. In primo luogo, le modifiche alla legislazione vigente che risale alla fine degli anni 80. È assolutamente necessario approvare una nuova legge che chiuda la stagione della repressione dura, depenalizzando completamente il possesso e il consumo di tutte le sostanze. A Milano si aprirà un confronto senza pregiudizi sul rapporto tra riforma del Dpr 309/90 e legalizzazione della cannabis, anche in relazione alle esperienze internazionali, da quella dell’Uruguay e di tanti Stati degli Usa, ai cannabis social club. In secondo luogo, bisogna fare i conti con i nuovi modelli di consumo, intrecciati con contesti sociali determinati. Vediamo sorgere nelle città zone che si “specializzano” nel fornire insieme economie del divertimento, nel kit del tutto compreso dallo street food, all’alcool ed alle sostanze psicoattive di vario genere. Questo comporta una politica che deve coinvolgere i Comuni, realizzare sistemi di allerta rapido sulla pericolosità delle sostanze che circolano in un dato momento, prevedere unità mobili stabili. Per altro verso, dobbiamo confrontarci con un’area di marginalità estrema. In terzo luogo, è evidente che Sert, comunità, interventi di strada, gli stessi Comuni devono ripensare strategie, metodologie e strumenti. Ma è evidente che una tale ridefinizione della nostra politiche sulle droghe ha bisogno di un investimento forte da parte delle istituzioni. Per questo chiediamo al Governo di realizzare entro l’inizio del 2016 la Conferenza nazionale sulle droghe (l’ultima risale al 2009!). Nell’aprile del prossimo anno si terrà una sessione speciale sulle droghe dell’Assemblea Generale dell’Onu. Non possiamo arrivare a quell’appuntamento continuando nella politica dello struzzo. *vicepresidente nazionale Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) Brasile: caso Pizzolato, diritti umani violati nelle carceri brasiliane di Veronica Capucci articolo21.org, 11 novembre 2015 Nonostante le denunce e le lotte portate avanti da varie associazioni e dai senatori PD Luigi Manconi e Maria Cecilia Guerra, per la sorte di Henrique Pizzolato, italo-brasiliano, ex direttore marketing del Banco do Brasil, non c’è stato nulla da fare. Lo scorso 22 ottobre è stato infatti estradato in Brasile, dove era stato condannato a 12 anni e 7 mesi per reati di corruzione e riciclaggio nel cosiddetto scandalo “Menselao”, la tangentopoli scoppiata nel paese sud-americano nel 2005. Il nostro connazionale, dopo essere stato arrestato a Maranello il 5 febbraio 2014, stava già scontando la pena da un anno nel carcere Sant’ Anna di Modena. Il sistema carcerario del Brasile è uno dei peggiori al mondo. Il recente rapporto dell’associazione non governativa “Human Rights Watch”, pubblicato il 19 ottobre, segnala infatti come sia disastrosa la situazione penitenziaria brasiliana. Nel rapporto si fa riferimento al sistema carcerario di Pernambuco, mentre Henrique Pizzolato si trova ora nel carcere di Papuda in Brasilia, ma il sistema è uguale. All’interno delle prigioni si attua una sistematica violazione dei diritti umani. Nel rapporto si segnala la forte carenza di spazi, tanto che i detenuti sono costretti a dormire nei corridoi. Il personale è in numero ridotto, alcune guardie carcerarie hanno consegnato le chiavi ai detenuti. In cambio, tollerano le attività illecite portate avanti da questi “secondini” improvvisati e intascano tangenti. Numerosissimi i casi di stupro, violenza e traffico di droga. Sempre secondo il rapporto dell’associazione Human Rights Watch, nella popolazione carceraria è alto il numero di soggetti portatori del virus HIV e di tubercolosi. Attualmente il nostro connazionale si trova in un cella per “vulnerabili”, ma dal prossimo giugno passerà nel sistema carcerario ordinario. Proprio il 21 ottobre, un giorno prima dell’estradizione Oltreoceano di Pizzolato, il Supremo Tribunale Federale brasiliano si è pronunciato a favore dell’estradizione in Italia dell’esponente della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, Pasquale Scotti, condannato a diversi ergastoli per omicidio, estorsione e altri reati, arrestato a Recife, nel nord-est del Brasile, dopo 31 anni di latitanza. Henrique Pizzolato sarebbe stato usato come “ merce di scambio” ? Dubbio più che legittimo, stando alle parole del senatore PD Luigi Manconi, secondo il quale la coincidenza delle date di estradizione di Scotti e Pizzolato non sarebbe casuale: “il 21 ottobre il Tribunale Speciale del Brasile approva l’estradizione di Pasquale Scotti. Il giorno dopo, il Ministero italiano di Giustizia ha stabilito che l’ex manager può essere estradato Oltreoceano. Difficile pensare a semplice casualità. Quello che mi preme sottolineare, è che si tratta di uno scambio iniquo. Da una parte abbiamo una persona condannata a 12 anni e 7 mesi per reati finanziari, con una parte di pena già espiata, dall’altra una persona condannata a 30 anni, per omicidi e altri reati.” In Brasile Henrique Pizzolato è stato giudicato da un tribunale che ora non c’è più, riservato ai parlamentari. “L’ex manager e sindacalista è stato assimilato a un membro del Parlamento e giudicato da quel Tribunale speciale. Pizzolato viene coinvolto in un processo di affari finanziari, ma invece di essere giudicato per reati comuni viene giudicato da un Tribunale che si deve esprimere solo su esponenti politici”. Inoltre Pizzolato è stato dichiarato estradabile poche settimane dopo la firma da parte dell’Italia di un trattato bilaterale (legge n. 17/2015), che consente ai cittadini italiani condannati in Brasile di poter scontare la pena in Italia. “Firma che il Brasile non ha posto, presumibilmente per permettere l’estrazione del direttore del Banco do Brasil”, continua il senatore Luigi Manconi. “Porteremo avanti la battaglia per il nostro connazionale, nessuno vuole abbandonare il campo.I collegamenti ci sono, ma la situazione è complicata”, conclude il senatore. L’avvocato Alessandro Sivelli sta seguendo questo delicato caso e gli chiediamo se sa come si è svolto il processo in Brasile e se sono state commesse irregolarità. “ Mi sono occupato esclusivamente del procedimento di estradizione. Ho avuto peraltro modo di prendere visione della sentenza pronunciata dal Supremo Tribunale e prendere visione di alcuni atti di quel procedimento. Ritengo che siano stati violati diritti fondamentali di difesa. Quello non era il giudice naturale per giudicare Pizzolato. Inoltre non esiste procedimento che non consenta la verifica in appello della correttezza di una decisione. Non esiste giudice infallibile ed ogni decisione deve essere sottoposta al vaglio di un giudice che verifichi la correttezza della decisione del primo giudice soprattutto quando si tratta di sentenza di condanna a pena detentiva. Ho inoltre verificato che nel processo davanti al Supremo Tribunale non sono stati acquisiti documenti che avrebbero potuto scagionare Pizzolato”. Perché secondo Lei Pizzolato è stato estradato? Ha parlato con il Ministro della Giustizia? “Si è trattato di una decisione politica, presa in palese violazione dei diritti di Pizzolato. Sono stati privilegiati interessi politici al diritto della persona di scontare la pena in Italia e soprattutto del diritto della persona di non subire durante la detenzione trattamenti disumani. Auspico che le garanzie fornite dal governo brasiliano vengano rispettate. È senz’altro singolare che per tentare di garantire l’incolumità di Pizzolato, il governo brasiliano abbia realizzato un’ ala speciale nel carcere di Papuda all’interno della quale sconteranno la pena detenuti “vulnerabili”. Si tratta di una decisione eccezionale che discrimina i detenuti tanto che sia il Procuratore della Repubblica brasiliana che un’associazione di avvocati brasiliani, hanno denunciato che questo trattamento privilegiato, viola i diritti di uguaglianza dei detenuti. Ora auspichiamo che il Governo e il Parlamento brasiliani rispettino l’impegno assunto di ratificare il trattato italo-brasiliano che consente ai cittadini italiani condannati in Brasile di scontare la pena in Italia”. Ha notizie di Pizzolato? Come sta? “Non ho notizie dirette, in quanto mi è impossibile parlare anche telefonicamente con lui. Da quanto mi è stato riferito da un collega brasiliano, Henrique sta affrontando questa dura prova con grande forza, che gli viene anche dalla sua fede. Attualmente si trova in una cella che ha poca luce, in condizioni igieniche precarie, senza la possibilità di usufruire di un costante controllo sanitario e con limitazioni alla possibilità di uscire negli spazi esterni”. Pakistan: cinque anni fa la condanna, Asia Bibi aspetta ancora giustizia Lucia Capuzzi Avvenire, 11 novembre 2015 “A morte per impiccagione”. Sono trascorsi esattamente cinque anni da quando la Corte del distretto di Nankana pronunciò questa drammatica sentenza. Quattro parole che sembravano indicare in modo ineludibile il destino dell’imputata, la contadina “blasfema” di Ittanwali. Asia Bibi, una mamma minuta quanto determinata, l’11 novembre 2010 ascoltò la decisione dei giudici in dignitoso silenzio. Ignara del fatto che, da quel momento, si sarebbe trasformata nell’emblema della lotta per la libertà di religione in Pakistan. “E in una lezione per l’intera società e le sue differenti componenti: cristiani, musulmani, indù, credenti di ogni fede, agnostici, atei - dice ad Avvenire Paul Bhatti, ex ministro per le Minoranze di Islamabad. Asia ha mostrato come la legge anti-blasfemia possa essere manipolata per fini che niente hanno a che fare con la fede. E che, anzi, sono in aperto contrasto con l’islam. Tale consapevolezza sta facendo maturare la coscienza del Paese”. L’esecuzione di Asia Bibi non si è finora compiuta. Dopo un estenuante iter giudiziario, la Corte Suprema, il 22 luglio 2015, ha “congelato” la condanna. Eppure, la donna, palesemente innocente, rimane in cella, dove si trova ormai da2.332 giorni. “Siamo, tuttavia, ottimisti sulla conclusione della vicenda. Ci sono concreti spiragli di speranza. L’ultimo pronunciamento dei giudici supremi ha rifiuto le prove presentate dall’accusa e le testimonianze secondo cui Asia avrebbe offeso l’islam. Il che apre alla possibilità di cauzione per l’imputata. Finora quest’eventualità non è stata esplorata per ragioni di sicurezza: i fondamentalisti hanno emesso una fatwa contro la donna - sottolinea Bhatti. La sentenza rappresenta, comunque, una pietra miliare”. Un segnale che il Pakistan sta cambiando. In modo lento, a volte quasi impercettibile, non lineare. Ma comunque reale. “I gruppi fondamentalisti risultano indeboliti - aggiunge Bhatti. In estate è stata sgominata un’importante cellula di Laskar Jhangvi, un’organizzazione jihadista pachistana affiliata allo Stato islamico (Is). Tra gli arrestati ci sono stati anche due terroristi, implicati nell’omicidio di mio fratello Shahbaz”. Sempre in tale direzione, la recente decisione della Corte Suprema a proposito di quanti difendono gli accusati di blasfemia. “Prima erano considerati essi stessi blasfemi. Ora i giudici hanno esplicitato che ognuno ha diritto a una tutela legale. Perché il sistema giudiziario è fatto da uomini e, come tale, soggetto a errori. Tanti innocenti possono essere imprigionati. E gli avvocati hanno, dunque, il dovere di contribuire a impedire eventuali ingiustizie”. Asia Bibi, nel frattempo, resiste e attende. Senza perdere la speranza. Le sue condizioni di salute sono precarie, come denunciato dalla famiglia. I medici del carcere di Multan, dove si trova dal giugno 2013, le stanno garantendo le cure necessarie, anche grazie alla pressione internazionale. Una delegazione del Parlamento Europeo - composta dall’olandese Petervan Dalen, dalla tedesca Arne Gericke e dal polacco Marek Jurek- è appena stata in Pakistan dove ha incontrato il marito di Asia, Ashiq Masih, a cui hanno consegnato una lettera di solidarietà per rinnovare l’interesse della Ue nei confronti della vicenda. Rapporto della Commissione europea: a rischio le libertà in Turchia di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2015 La Commissione europea ha pubblicato ieri un atteso rapporto sullo stato di salute dei paesi del prossimo allargamento segnato da sentimenti ambivalenti. Da un lato, si conferma la sensazione che l’Unione non voglia o non possa crescere ulteriormente nel breve periodo. Dall’altro, emerge l’evidente consapevolezza che è urgente trovare un modus vivendi con i paesi del vicinato, in particolare con Ankara, criticata sul fronte dei diritti umani. La Turchia è di gran lunga il paese più importante del vicinato, protagonista di un negoziato comunitario iniziato nel 2005. Nel suo rapporto, la Commissione ha messo l’accento su “una tendenza negativa per quanto riguarda il rispetto dello stato di diritto e dei diritti fondamentali”. Inoltre, l’esecutivo comunitario ha notato “le debolezze del sistema giudiziario così come della libertà di espressione e della libertà di riunione”, e ha chiesto una rapida soluzione della questione curda. Bruxelles ha preso atto dell’impegno della Turchia a voler entrare nell’Unione, ma al tempo stesso ha sottolineato: “L’impegno (...) è contraddetto dall’adozione di testi legislativi nel campo dello stato di diritto, della libertà di espressione, e della libertà di riunione contrari agli standard europei”. Da Ankara, il governo turco ha definito “ingiusto” ed “eccessivo” il rapporto, la cui pubblicazione è stata rinviata di un mese per evitare che coincidesse con le recenti elezioni turche. La relazione annuale sui paesi del vicinato è sempre un delicatissimo esercizio di equilibrismo politico. Quest’anno coincide con una politica estera turca sempre più rivolta verso Est piuttosto che verso Ovest, e con una radicalizzazione della vita politica in un paese a cavallo tra Europa e Asia. L’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, primo ministro tra il 2003 e il 2014, non ha nascosto di voler creare in Turchia un regime presidenzialista. Gli occhi della Commissione sono rivolti al modo in cui il governo ha contrastato le manifestazioni antigovernative del 2013, e alle recenti modifiche in senso restrittivo della libertà di stampa. L’analisi dell’esecutivo comunitario è tanto più preoccupante perché giunge in un momento in cui l’Unione ha particolarmente bisogno della Turchia per meglio affrontare l’arrivo di migliaia di migranti dal Vicino Oriente. Le due parti stanno negoziando su questo fronte un piano d’azione comune. Le relazioni dell’Unione con la Turchia sono segnate da una dipendenza reciproca, politica ed economica, ma anche da una evidente diffidenza reciproca. Per ora, non si respira il desiderio qui a Bruxelles di accelerare il negoziato di adesione all’Unione. Anzi, in questi mesi il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker non ha mai nascosto di non vedere un nuovo allargamento dell’Unione nel prossimo quinquennio. Sugli altri paesi del vicinato - la Serbia, l’Albania, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, il Montenegro, il Kosovo, la Bosnia Erzegovina - il rapporto della Commissione europea fa il punto sullo stato di avvicinamento all’Unione. Bruxelles fa notare la dipendenza politica del sistema giudiziario, la necessità di lottare contro la corruzione e il crimine organizzato, l’urgenza di riformare la pubblica amministrazione. Eritrea: tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki, che noi sosteniamo di Federica Iezzi Il Manifesto, 11 novembre 2015 Periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari corrotti documenti falsi, pagando 5mila dollari. Chi sono i rifugiati eritrei che attraversano il Mediterraneo? I ragazzi che arrivano al diciottesimo compleanno con in mano l’amara comunicazione del servizio militare obbligatorio. Sulla carta 18 mesi, che spesso però si protraggono per anni, in cui i giovani di Eritrea subiscono percosse, maltrattamenti, indottrinamenti nel campo di addestramento di Sawa, al confine con il Sudan. Il tutto per 59 miseri dollari al mese. Aklilu, 18 anni e in partenza per Sawa, ci confessa “Mi hanno preso in uno dei costanti rastrellamenti a Maakel Katema, un quartiere nel cuore di Asmara. Non avevo nè la tessera del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, né quella per il servizio militare. Adesso mi mandano a Sawa, dicono per 18 mesi, ma c’è gente che da lì non torna da anni”. La polizia eritrea pattuglia ogni strada del Paese alla ricerca di coloro che cercano di eludere il servizio militare obbligatorio. Trovarli significa cattura, reclusione e identificazione come dissidente. Di fronte alla disumanità sistematica del regime di Isais Afewerki, la comunità internazionale continua a elargire pacchetti di aiuti all’Eritrea, credendo che il mero sostegno finanziario possa contribuire ad arginare il flusso di rifugiati e richiedenti asilo. Dunque si avalla in silenzio la contorta visione di Afewerki secondo la quale gli eritrei stanno migrando per ragioni prevalentemente economiche e non politiche. Secondo le stime delle Nazioni Unite fino a 5.000 eritrei al mese fuggono dal loro Paese. Un sofisticato e accurato mercato nero si è evoluto per agevolare la migrazione di massa. Ci dice Hagos, padre e marito insospettabile e contrabbandiere di professione “Il trucco è sapere che non ci si può fidare: le spie sono ovunque. Sedute in un bar che ti osservano mentre prendi un caffè, alla fermata dell’autobus, al mercato mentre compri il pane”. Il governo eritreo sorveglia i confini, controlla i movimenti dei suoi abitanti in ogni quartiere e mantiene sotto controllo la popolazione con una rete integrata di spie. Il viaggio di un eritreo inizia nelle periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Le porte sul retro dei negozi e le baracche di metallo si aprono. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari governativi corrotti, documenti di identificazione falsi, pagando fino a 75.000 nafka (più o meno 5.000 dollari), alcuni iniziano la marcia verso i confini con l’Etiopia o con il Sudan. Rispettivamente verso le città di Omhajer e Teseney. 200.000 rifugiati eritrei sono fermi nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia. Altri 100.000 hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Controcorrente il campo delle Nazioni Unite di Shagarab, nel Sudan dell’est, in cui vivono almeno 30.000 persone. Diventato negli anni una calamita per i trafficanti: più di 500 rapimenti, centinaia le persone scomparse. Costante paura per i rimpatri forzati in Eritrea. Quelli che proseguono devono sopportare il disumano passaggio attraverso il Sahara. C’è un solo viaggio alla settimana. Direzione Libia. Hagos ci dice “So come controllare i banditi che infuriano nel deserto, so come corrompere la polizia e i militari. E so il deserto”. I contrabbandieri stipano 30 persone nella parte posteriore dei loro pick-up. O usano sovraffollati camion senza targa, dai vetri oscurati. Poco spazio per acqua, provviste e carburante. Viaggiano per 12 giorni. 2.000 dollari per arrivare nella città di Ajdabiya, a nord-est della Libia. Ad aspettarli squadre di trafficanti armati fino ai denti, che lavorano in armoniosa sincronia con i funzionari di frontiera corrotti. Altre 10 ore di viaggio lungo la costa libica e altri posti di blocco che potenzialmente significano la fine del viaggio e la spedizione immediata in una delle decine di centri di detenzione per migranti in Libia. L’obiettivo è il porto di Zuwara, a nordovest della Libia. Fino a 800 eritrei, 18 ore di navigazione, una fragile barca diretta verso le coste europee, senza cibo, senza scialuppe e giubbotti di salvataggio. I rifugiati pagano anche 2.000 dollari per la traversata. Zuwara è il cuore oscuro della Libia. I contrabbandieri lì comprano pescherecci di 18 metri di seconda mano per circa 20.000 dollari. All’ombra di un ex- impianto chimico, gli scafisti operano liberamente in una ragnatela di antiche rotte commerciali. I rifugiati vengono smistati su pescherecci da traino in legno e gommoni, all’avvistamento delle coste europee. Oltre che da Zuwara, si parte da Gasr el-Garabulli, Zlitan, Tripoli, Misurata. I pescherecci puntano verso una piattaforma petrolifera non lontano da Lampedusa. E il programma va avanti. I dipendenti della piattaforma allertano la guardia costiera e parte la catena dei soccorsi. L’alternativa è l’isola greca di Lesbo. Le agenzie umanitarie stimano che più di 264.500 rifugiati hanno raggiunto le coste europee quest’anno e almeno 1.800 di questi sono morti. Niyat, volto coperto con un’hijab bianca e verde e un bambino di sei mesi in braccio, ci ha messo due anni per risparmiare i soldi per il viaggio in Europa, guadagnandosi da vivere come sarta. È partita con la sua famiglia dalla periferia di Asmara. Pochi soldi con sé. Ci dice “Con la continua oppressione di polizia e posti di blocco militari, preferiamo viaggiare con pochi soldi. Molti di loro guadagnano esponenzialmente in tangenti da contrabbandieri e migranti. La polizia prende tra 150 e 250 dollari per l’attraversamento illegale in Libia dei camion. La maggior parte dei trafficanti viene pagata in anticipo tramite Western Union. Sono ormai uomini d’affari che offrono servizi”. Diretta a Sabha, capitale della vasta regione del Fezzan meridionale, Niyat viaggia con un contenitore, da due dollari, con 4 litri di acqua, e con una piccola pagnotta di pane. È tutto quello che può permettersi. “Attraversare il confine eritreo può significare morire. I soldati del Presidente hanno l’ordine di sparare per uccidere. La Libia, con due governi paralleli bloccati in guerra, è paradossalmente meno pericolosa. Anche se le milizie libiche presero di mira l’Eritrea da quando inviò mercenari per sostenere l’ex dittatore libico Gheddafi”. La Libia è diventata un punto di partenza per molti rifugiati, i trafficanti di esseri umani sfruttano il vuoto di potere del Paese, la crescente illegalità, la crisi politica, il conflitto armato e l’assenza di una normativa nazionale in materia di asilo. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati circa 37.000 eritrei hanno presentato domanda di asilo in 38 Paesi europei nel corso dei primi 10 mesi dello scorso anno. 13.000 nello stesso periodo del 2013. I motivi? Esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, detenzioni in isolamento, repressione, violenze e paranoie del regime di Afewerki. Nessuna libertà di informazione, di stampa, di espressione. 300 prigioni in tutto il Paese. Più di 10.000 prigionieri politici. La gente non ha cibo da mangiare. Anche l’accattonaggio è reato in Eritrea. Si lavora nelle miniere fino a 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, per 1.500 nakfa al mese (poco meno di 100 dollari). Inizialmente sostenuto da Stati Uniti e Unione Sovietica, Afewerki ha espulso agenzie umanitarie internazionali e forze di pace delle Nazioni Unite. Bloccati i media indipendenti e obbligati in carcere giornalisti, scrittori e critici. Torturate le minoranze religiose, per la credenza di un complotto straniero, atto a disgregare una Nazione ufficialmente e equamente suddivisa tra cristiani e musulmani. L’interrogatorio del “bambino terrorista” di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 novembre 2015 Immagini ottenute dall’agenzia palestinese Maan mostrano il pesante interrogatorio al quale è stato sottoposto Ahmad Manasra, il 13enne palestinese accusato di tentato omicidio. Ieri è ripresa l’Intifada a Gerusalemme. Uccisi due palestinesi accusati di tentati accoltellamenti. È stato l’inizio del processo al 13enne Ahmad Manasra, accusato del tentato omicidio di un coetaneo israeliano, a riportare l’Intifada a Gerusalemme Est? Se lo domandavano ieri in molti di fronte alle strade della città santa divenute, dopo tre settimane, di nuovo terreno di scontro tra dimostranti palestinesi e poliziotti israeliani. Oltre che scena di tentati attacchi all’arma bianca nei pressi delle mura della Porta di Damasco, nella colonia di Pisgat Zeev e all’ingresso del sobborgo di Abu Dis. Due palestinesi - Sadeq Gharbiyeh, 16 anni di Sanur (Jenin), e Muhammad Nimr, 37 anni - sono stati uccisi ieri. In un almeno caso, dicono le immagini riprese da una telecamera di sorveglianza, l’agente israeliano preso di mira avrebbe potuto sparare alle gambe e non uccidere il palestinese con un coltello in mano ma distante di due-tre metri da lui. A Pisgat Zeev due ragazzini di 13 e 12 anni hanno tentato di imitare Ahmad Manasra che il mese scorso, assieme al cugino 15enne, ferì gravemente un ragazzo israeliano e, in modo leggero, un giovane prima dell’intervento della polizia (il cugino fu ucciso). Uno dei due ragazzi è stato ferito gravemente a colpi d’arma da fuoco. Dal primo ottobre sono stati uccisi almeno 80 palestinesi. Manasra è destinato a diventare un caso. Ora sono due i video che lo vedono, suo malgrado, protagonista. Nel primo il ragazzo è stato appena bloccato dopo le aggressioni compiute il 12 ottobre a Pisgat Zeev assieme al cugino. È a terra ferito e sanguinante dopo essere stato investito da macchina e intorno la folla inferocita gli urla “Crepa…figlio di p…” ed esorta la polizia ad ucciderlo. Nel secondo, ottenuto dall’agenzia palestinese Maan e da ieri virale, il tredicenne viene interrogato. Nel filmato si vede il responsabile dell’interrogatorio urlare ed inveire contro di lui. Manasra ammette di essere il ragazzo che appare nelle immagini riprese da una telecamera di sorveglianza che mostrano le fasi dell’accoltellamento del ragazzino israeliano. Ma ripete tra le lacrime di non ricordare il fatto di cui è accusato e chiede invano l’intervento di un dottore. Implora il detective di credergli e aggiunge di “essersi svegliato il giorno dopo non sapendo cosa fosse accaduto” ma l’investigatore israeliano lo accusa, sempre urlando, di “essere un bugiardo”. Per i palestinesi quell’interrogatorio, avvenuto nei giorni scorsi, è una grave forma di “tortura psicologia” contro un ragazzino di 13 anni. Il mese scorso Manasra si era trovato al centro di polemiche fra Israele e Anp dopo che il presidente Abu Mazen aveva erroneamente accusato Israele di averlo ucciso a freddo. Un passo falso subito usato dal premier Netanyahu per accusare Abu Mazen e i palestinesi di diffondere notizie false e incitare alla violenza. Ieri in Tribunale Manasra si è dichiarato non colpevole e il suo avvocato, Lea Tzemel, ha detto ai giudici che il ragazzo palestinese non intendeva uccidere ma solo spaventare gli israeliani, in risposta alle minacce alla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Ieri è stato ufficialmente incriminato del tentato omicidio dei due israeliani ma non è ancora chiaro se la sentenza della corte israeliana arriverà prima del suo quattordicesimo compleanno a gennaio, età dalla quale si è considerati responsabili penalmente, quindi punibili con il carcere. La prigione da incubo in Indonesia: coccodrilli affamati a guardia dei condannati Adnkronos, 11 novembre 2015 Un gruppo di coccodrilli affamati per fare da guardia ai condannati per reati legati alla droga. È l’iniziativa promossa in Indonesia dall’agenzia antidroga. Come spiegato dal portavoce Slamet Pribadi, secondo il piano del capo dell’agenzia Budi Waseso, una prigione su un’isola circondata da acque infestate da coccodrilli terrebbe i boss della droga isolati da corrieri e clienti condannati. “Budi - ha precisato Slamet - ha proposto che un carcere del genere venga costruito su un’isola sperduta e sorvegliato da coccodrilli, quando la legge non riesce a dissuaderli”, così “quando provano a scappare vengono mangiati”. Il capo dell’agenzia, oltre ad essere già alla ricerca degli esemplari più affamati, ha respinto le preoccupazioni sui diritti dei detenuti. “Non è una violazione dei diritti umani quando a uccidere è un coccodrillo”, ha detto scherzando. L’Indonesia ha avviato una dura campagna contro il traffico di droga e quest’anno nel Paese sono stati giustiziati 14 trafficanti che erano stati condannati. Yemen: morto cittadino Usa, era detenuto da un mese a Sanaa Ansa, 11 novembre 2015 È mistero sulla morte di un cittadino statunitense detenuto nello Yemen. Il Dipartimento di Stato Usa ha confermato il decesso di John Hamen, ma non ha voluto fornire ulteriori dettagli. L’uomo era stato fermato un mese fa, per motivi ancora da accertare, all’aeroporto di Sanaa dopo essere atterrato con un volo organizzato dalle Nazioni Unite. Lavorava in un’azienda che gestisce le strutture dell’Onu nella capitale.