Ricordando Antonio, che non era certo solo il suo reato di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2015 Nelle rassegne stampa e nelle cronache televisive di questi giorni avrete letto come prima notizia che il detenuto Antonio Floris è "evaso da un permesso", e a seguire le descrizioni fantasiose di quella evasione. Niente di tutto questo, la storia è anche più tragica, Antonio è stato ucciso, ma io non so cosa è successo e non mi interessa nemmeno fare ipotesi, non ho ipotesi, ma non ho mai creduto all’evasione, e soprattutto di lui voglio ricordare, per la sua famiglia e per tutto il bene che gli voleva, la sua umanità. Antonio è stato senz’altro un delinquente, e io non voglio fare a finta di dimenticarmelo, ma ce la stava mettendo tutta per diventare una persona diversa. Lo faceva per la sua famiglia, una famiglia onesta, colta, dove lui era un po’ la "pecora nera", e ricordo sua sorella, che arrivava ogni tanto dalla Sardegna pur di vederlo e stargli vicino, e che diceva spesso quanto le dispiaceva che suo fratello avesse usato così male la sua intelligenza. E forse la passione per lo studio che aveva era proprio un modo per "ripagare" la sua famiglia e i suoi amici per averli tante volte "traditi": e infatti, anche se in passato già aveva fatto le scuole superiori, lui si era buttato sui libri anche in galera e aveva completato gli studi all’Istituto Gramsci, sempre da primo della classe, e poi si era impegnato nella redazione di Ristretti Orizzonti, con una grande competenza in questioni di legge, lui era "l’avvocato" della situazione, ma anche con una capacità di vedere il mondo con occhi che non avevano dimenticato la poesia e l’amore per la vita. Per ricordarlo com’era davvero, con i suoi disastri, i suoi anni di galera, ma anche il suo desiderio di ritrovare la sua umanità, voglio proprio ripubblicare un suo racconto, la storia di un albero di pero che è anche una delle pagine più significative che io abbia letto sul carcere. "L’albero del pero", di Antonio Floris Seguire di giorno in giorno il crescere lento e faticoso di un albero davanti alla finestra della cella è un modo diverso per provare a spiegare quanto può essere lunga una pena. La finestra della mia cella, nella quale vivo da oltre tre anni, si affaccia su un campetto incolto in mezzo al quale si innalza, solitario tra le erbacce, un alberello di pero selvatico. Ormai sono tre primavere che lo osservo e mi sono accorto che ogni primavera questo albero allunga la sua cima di circa 30 centimetri. In pratica da quando lo sto osservando è cresciuto di quasi un metro. Parlando di quest’albero con un altro detenuto, sono venuto casualmente a sapere che era stato lui a piantarlo nel lontano 1995, ovvero 16 anni fa. Nel 1995 si era voluto abbellire il nuovo carcere Due Palazzi (nuovo perché era in funzione solo da qualche anno) piantando in quegli spazi, non occupati da edifici, degli alberelli. Erano stati creati dei fossi, comprate delle piantine e messe a dimora in questi fossi. Dopo di che le piantine sono state abbandonate al loro destino, senza che nessuno si sia occupato mai né di potarle né di dare qualche colpo di zappa. In questo modo sono andate avanti nell’abbandono, più o meno come succede di questi tempi per i detenuti, solo che a differenza dei detenuti che vivono nella miseria e nella penuria di tutti i generi, gli alberi possono contare sulla generosità del cielo e sulla fertilità della terra, che è sicuramente una delle più pingui d’Italia. Oltre al fatto che quest’alberello, assieme alle erbacce, è uno dei pochi esseri vegetali viventi che danno uno scorcio di natura in un ambiente fatto solo di ferro e cemento, esso dà uno spunto di riflessione sul passare monotono degli anni. Quando era stata messa a dimora la piantina era alta circa un metro. Ora ha un’altezza più o meno di 5 metri e per diventare così ci ha messo 16 anni. Qui in carcere, durante gli incontri con gli studenti, di frequente si fanno discussioni sulla lunghezza delle pene e spesso succede che qualche studente, sentendo dire che tizio, accusato di omicidio, è stato condannato ad "appena" 15 o 20 anni, se ne esce dicendo che 15 anni o anche 20 sono pochi. Per uno che guarda da fuori 15 o 20 anni potrebbero forse sembrare pochi, ma così pochi non sono per chi li deve effettivamente trascorrere dietro le sbarre. Allora per spiegare che non sono affatto pochi (soprattutto se trascorsi nell’ozio e nelle attuali condizioni di sovraffollamento) ognuno di noi cerca un paragone appropriato per dare un’idea di quanto lunghi possano essere. Chi si ingegna a cercare un paragone e chi un altro, ma fra tanti che se ne possono trovare questo dell’albero chiarisce il concetto in modo assai realistico. Se qualcuno pensa che 16 anni sono pochi provi a immaginare che un bel giorno si metta a piantare un alberello davanti alla finestra di casa sua, poi che in quello stesso giorno cada vittima di qualche incantesimo o sortilegio a causa del quale deve stare chiuso in una casa senza poter uscire mai, fino a che l’albero, senza essere né concimato né curato da nessuno, arrivi all’altezza di 5 metri. Per chi non avesse fatto mai quest’esperienza, possiamo assicurare che è molto fastidioso e irritante vedere con che estrema lentezza l’albero cresce. Fa quella breve esplosione di crescita di appena 30 centimetri in primavera, poi durante l’estate, l’autunno e peggio ancora l’inverno, non aumenta di un millimetro. E la cosa più fastidiosa ancora è stare a fissare l’albero per anni e anni facendo di questa abitudine l’occupazione principale, senza potersi dedicare ad altro che non sia guardare la televisione o leggere oppure scrivere, senza veder mai i frutti del proprio lavoro e senza concludere niente di valoroso né per se stesso né per gli altri. Lo stare a guardare l’albero che cresce e sapere che quando raggiungerà una certa altezza uno avrà finito la pena, per quanto lunga essa possa essere, è comunque fonte di speranza. Non tutti i detenuti però possono coltivare questa speranza, in quanto per tanti di loro il fine pena non esiste. Fortunatamente io non sono di questi ultimi. Io so per quanto tempo ancora devo stare a guardare l’albero che cresce e già ho calcolato che altezza avrà raggiunto il giorno che lo dovrò salutare. Dietro l’albero c’è il muro della palestra e guardando dalla mia finestra, la cima dell’albero è più bassa di un metro del muro. Per poter uscire dovrò aspettare che sia più alta del muro di almeno due metri. Quest’inverno chiederò se me lo fanno potare, perché sfoltendolo dei rami inutili forse crescerà più in fretta. Detenuto ucciso. Il diario, la bicicletta e il sangue. I misteri del ragioniere sardo di Giovanni Viafora Corriere Veneto, 10 novembre 2015 Viaggio all’interno dell’Oasi, la casa di accoglienza di Padova per detenuti, dove è stato ritrovato il cadavere di Antonio Floris. Nella sera di nebbia fitta, che tutto avvolge, ci si raccoglie ai piedi del monumento illuminato da un faretto giallo. Serve un po’ di luce per scrivere. Siamo all’interno dell’"Oasi", la casa di accoglienza di Padova per detenuti, gestita dai padri Mercedari, dove è stato trovato il cadavere di Antonio Floris. Il monumento, che emerge dal buio, è composto da tre statue di gesso, inaugurate appena qualche mese fa. Giuseppe V., che frequenta la struttura perché è in regime di semilibertà ed era compagno di cella di Floris nelle notti del "Due Palazzi", ce le indica con la mano: "Una rappresenta San Pietro Nolasco, il fondatore dell’ordine - spiegala seconda raffigura invece un frate, intento ad abbracciare; la terza riproduce un detenuto. Ecco, quello era proprio Antonio. Avevano fatto fare la statua a sua immagine, tanto lui era considerato e benvoluto. Ne era fiero, anche se da sardo non lo mostrava. Riservato com’era". Tutto si confonde dentro questa sera umida. Attorno alle 18.30 arriva una gazzella dei carabinieri, quindi un’auto della polizia. Militari e agenti si rinchiudono dietro alla porta d’ingresso del palazzetto, su cui è affissa l’immagine sorridente del nuovo vescovo di Padova, Claudio Cipolla. Da una finestra si intravede il responsabile dell’"Oasi", don Giovannino: è sotto choc e sembra piangere. È stato lui a vedere per l’ultima volta Antonio, venerdì sera. A raccontarci la scena è un altro testimone, "ospite" della casa (sono circa 25 in tutto). Indossa una tuta grigia, ci prega di restare anonimo: "Venerdì sera abbiamo cenato assieme - ricorda, poi a una certa ora è arrivata la telefonata dal carcere: ci avvertivano che Antonio non fosse rientrato. Don Giovannino, allora, ha preso una torcia ed è uscito a cercarlo. Temeva che potesse essersi sentito male. Nei pressi della serra il prete ha trovato la bicicletta di Antonio, quella con cui lui veniva tutti i giorni dal carcere: era sporca di sangue. E lì vicino c’era anche il suo zainetto con dentro l’orologio e uno spray per l’asma. C’era dell’acqua per terra. Don Giovannino ha pensato che qualcuno avesse tagliato la carne per metterla sul fuoco, come spesso accadeva, e poi avesse deciso di pulire. A quel punto è rientrato". E le forze dell’ordine, quando sono state avvertite? "Le ricerche sono cominciate il giorno dopo, quando qui è venuta una coppia di amici di Antonio da Treviso. E non l’hanno trovato". Dicono che "radio carcere", il tam tam di voci all’interno della casa di reclusione, già da sabato parlasse di "omicidio". "Una rissa", meglio. Ma come è possibile che fino a lunedì il corpo non sia stato trovato? I buchi sono troppi. Attorno al monumento compaiono alla spicciolata altri compagni di Antonio. Uno è basso, grassoccio, stempiato. Si chiama Francesco, lavora in una cooperativa all’esterno del carcere. Sardo anche lui. "I carabinieri sono venuti a prendermi oggi - ripete frenetico. Mi hanno interrogato, volevano sapere cosa ho fatto venerdì sera. Ma io non centro. Ero al ristorante quando lui è scomparso". Spunta anche don Marco Pozza, il cappellano del "Due Palazzi". "È l’ennesima morte tragica del nostro carcere - sussurra. Lì dentro ci sono fili che si intrecciano, il bene e il male. Forse è stato qualcosa che è venuto dal passato". Ecco, la pista sarda. "Venerdì abbiamo visto un’auto con quattro persone entrare qui dentro", azzarda qualcuno. Si dice che Antonio durante la latitanza sarda tenesse un diario cifrato. Una spedizione punitiva? Sembrano solo voci, magari per scacciare incubi vicini. Il buio è sempre più fitto. Al telefono chiamiamo Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista dei detenuti. Antonio era un suo "redattore": "Era una persona intelligente, studiosa - sussurra - Si era da poco diplomato in ragioneria. Un vanto per lui, che veniva da una famiglia colta. Nessuno pensava potesse scappare, tra un anno gli avrebbero dato l’affidamento in prova. Chi può avergli fatto del male?". Floris non era evaso: il corpo trovato sotto la legna nell’Oasi dei Padri Mercedari di Enrico Ferro Il Mattino di Padova , 10 novembre 2015 Ucciso a bastonate e nascosto sotto una catasta di legna. Dopo due giorni e mezzo la polizia ha scoperto che Antonio Floris, 61 anni, detenuto sardo condannato a sedici anni di carcere per due tentati omicidi, non era evaso. È sempre stato lì dove la sua vita doveva ripartire, nell’Oasi gestita dai Padri Mercedari a Chiesanuova. Qualcuno l’ha aggredito venerdì sera dopo cena mentre stava per salire in sella alla sua bicicletta per tornare al Due Palazzi. Una o due bastonate alla nuca. Colpi inferti al buio prima di trascinare il corpo a una quindicina di metri distanza, dove è stato sepolto con la legna tagliata per l’inverno. È la fine di un uomo che da qualche anno stava assaporando una rivalsa sociale. È la tragedia che ha sconvolto la piccola comunità religiosa dove ai detenuti viene data un’altra possibilità. È il giallo su cui stanno indagando gli uomini della Squadra mobile di Padova. Gli investigatori stanno interrogando tutte le persone che vivono e lavorano nella comunità di via Righi. Lì ci sono due sacerdoti, con don Giovannino che da appena due mesi è stato nominato direttore della struttura. Poi ci sono trenta detenuti che, dopo un periodo dietro le sbarre, vengono ammessi al programma di reinserimento nella società. Molti di questi arrivano la mattina, lavorano tutto il giorno e poi tornano in carcere la sera. Altri rimangono anche lì a dormire. È l’anticamera della libertà, una fase delicatissima in cui il detenuto viene valutato sotto vari punti di vista. E se c’è un aspetto che emerge con forza ora che tutti stanno cercando di decifrare questa tragedia, è che Antonio Floris di quella comunità era un punto di riferimento. Venerdì sera era rimasto a cena con i due sacerdoti e con qualche ospite della struttura. Poco prima delle 20.30 ha salutato tutti ed è andato a recuperare la bicicletta per tornare al penitenziario di via Due Palazzi. Ma verso le 23 qualcuno dal carcere ha telefonato alla struttura dei Padri Mercedari chiedendo notizie di Floris e del suo mancato rientro. I pochi rimasti svegli sono usciti in cortile e hanno trovato la sua bicicletta ancora legata alla catena. A terra c’erano lo zainetto con alcuni indumenti e poco distante anche il suo orologio. Con il buio della sera nessuno si è reso conto di tutto il sangue che c’era intorno. Le macchie rosse e i ciuffi di capelli sono stati notati il mattino successivo, quando il sole ha ripreso a illuminare questa fetta di campagna dietro il cimitero maggiore. A quel punto è stato dato l’allarme alla polizia. Da sabato mattina gli uomini della Scientifica non se ne sono più andati, perché bisognava dare un senso a quella scomparsa. Improbabile che si trattasse di una semplice evasione. Ad Antonio Floris mancavano più o meno due anni e mezzo prima di tornare a essere un uomo libero. E poi c’erano quelle tracce di sangue vicine agli effetti personali e alla bicicletta. Gli investigatori della Questura, contestualmente, hanno iniziato a interrogare persone a ritmo incalzante. C’era un dopocena da ricostruire, c’erano dinamiche di gruppo da intrecciare. La svolta è giunta nel primo pomeriggio di ieri. Scandagliando il terreno agricolo a ridosso degli orti e delle serre gestite dai Padri Mercedari, i poliziotti si sono focalizzati su una catasta di legna poco distante da un canale di scolo, un’area mai presa in considerazione durante le prime ricerche. Hanno spostato alcuni ceppi ed è emerso il volto tumefatto di Antonio Floris. Era stato ricoperto completamente impedendo che le temperature di questi giorni ne causassero la decomposizione. Con l’esame esterno il medico legale ha scoperto le lesioni alla nuca: ferite compatibili con una o più bastonate. Anche sul volto e sulla fronte c’erano tagli profondi ma è possibile che siano le conseguenze del tentativo di nascondere il cadavere. Gli uomini della Squadra mobile stanno cercando di capire chi possa aver covato nel suoi confronti così tanto odio da ucciderlo a bastonate. La dinamica ricostruita fino ad ora consegna nelle mani degli investigatori un delitto d’impeto il cui movente è ancora ignoto. Diritto all’affettività e al sesso in carcere, da Padova un segnale di civiltà giuridica Il Mattino di Padova, 10 novembre 2015 Infuria già la polemica sulla proposta di legge di Alessandro Zan e di altri deputati Pd che vogliono riconoscere il diritto all’affettività e al sesso per chi è rinchiuso in carcere. Zan denuncia che "molti quotidiani riducono banalmente il tutto alla sessualità in carcere, ma questa proposta di legge prevede l’introduzione nel nostro ordinamento di una norma di civiltà già vigente nei principali Paesi europei: l’obiettivo è garantire la continuità affettiva ai familiari dei detenuti, ai coniugi e ai figli, che si vedono costretti a visitare in carcere i propri cari senza alcuna garanzia di riservatezza e in locali inadeguati". Dal carcere di Padova una proposta di grande civiltà giuridica. Il Parlamento entra al Due Palazzi Martedì 3 novembre in una stanza della Casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova è entrato un pezzo di Parlamento: la Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge recanti disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti, ha deciso di fare un’audizione in videoconferenza di persone detenute, di loro familiari, di operatori penitenziari e volontari. È un’audizione che nasce da lontano: da un convegno organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti alla fine dello scorso anno, dal titolo "Per qualche metro e un po’ di amore in più", a cui avevano preso parte tre parlamentari, Alessandro Zan, Gessica Rostellato, Sergio Lo Giudice, che hanno ascoltato davvero (lo sottolineiamo perché troppo spesso tanta politica è invece lontana dai cittadini e incapace di ascoltarli) le testimonianze, soprattutto quelle di figlie, mogli, sorelle di detenuti. E hanno capito quanta sofferenza c’è nelle vite di queste famiglie e quanto è importante che si abbia il coraggio di cambiare la legge, che regola i rapporti affettivi delle persone che sono state private della libertà personale. Perché attualmente le famiglie hanno a disposizione in tutto sei ore di colloquio al mese e dieci minuti di telefonata a settimana, davvero una cosa misera, che non permette in alcun modo di salvare gli affetti. Una legge che permetta rapporti più umani è una legge che crea sicurezza, perché chi esce dal carcere dopo aver scontato la sua pena, se ritrova la sua famiglia, se non si sente abbandonato, è senz’altro una persona che ha più possibilità di essere riaccolto anche dalla società. La Commissione Giustizia ha sentito una figlia e una sorella raccontare dei loro viaggi angoscianti in giro per le carceri d’Italia per incontrare i loro cari dietro un bancone senza poter strappare neppure un abbraccio, e poi ergastolani spiegare cosa significa vivere senza la speranza, un giorno, di rivedere i loro figli fuori dalle fredde mura della galera, e ancora un padre detenuto testimoniare la sofferenza delle sue bambine, che non vogliono capire perché lui stia così poco al telefono, il loro pianto e la loro protesta rabbiosa "Ti odio papà, perché non vuoi parlarmi più?". Ora la speranza è che questa audizione possa costituire una spinta a fare più in fretta possibile questa legge, di cui c’è davvero un grande bisogno, perché i figli, i famigliari delle persone detenute sono innocenti e vengono invece spesso trattati da colpevoli dall’opinione pubblica. Amore tra le sbarre: se ne può parlare senza tabù Tempo fa mia figlia ha scritto queste parole: Nessun uomo al mondo potrà mai essere paragonabile al mio dolcissimo papà… nessuna persona sa amare come lui! Ed io ti aspetto. (Diario di un ergastolano carmelomusumeci.com) Da tempo è stata presentata una proposta di legge per cercare di mantenere e migliorare le relazioni affettive con i propri famigliari di chi vive dietro le sbarre. Qualche giorno fa, nel carcere di Padova, dalla Redazione di "Ristretti Orizzonti", in collegamento via skype, alcuni detenuti e i loro familiari hanno dato la loro testimonianza alla Commissione Giustizia della Camera sul tema degli affetti in carcere. Contemporaneamente alcune dichiarazioni di certi politici "bordelli in carcere"; "I nostri penitenziari non devono diventare postriboli e i nostri agenti penitenziari non devono diventare guardoni di Stato" mi hanno fatto cadere le braccia per terra. E ho pensato come a volte sanno essere "cattivi" i "buoni" che non commettono reati, che hanno la fedina penale pulita e che forse fanno la comunione le domeniche durante la messa. È difficile che un detenuto si senta responsabile quando su certi giornali legge certi titoli come "celle a luce rosse". È difficile pentirti del male che hai fatto quando una volta in carcere, in nome del popolo italiano ti proibiscono di dare, o ricevere, un bacio una carezza in intimità con i propri genitori o con la propria compagna o con i propri figli. In questo modo con il passare degli anni in carcere smarrisci la forza e la voglia di amare. E la cosa più tremenda è che non ti accorgi neppure di perderla perché con il passare del tempo "l’Assassino dei Sogni" (come chiamo io il carcere) ti mangia tutto l’amore che avevi prima di entrare in galera. Il carcere divora l’amore di chi sta fuori e uccide l’amore di chi sta dentro. E l’amore in carcere quando finisce non fa rumore, ti spezza solo il cuore. Credo che nessuna pena, nessuna legge, neppure Dio, dovrebbe impedirti di amare, di dare un bacio, una carezza alle persone che ami, neppure in nome della sicurezza sociale. Eppure nelle nostre patrie galere accade anche questo. Sembra che l’Assassino dei Sogni odi l’amore e usi le sbarre, i blindati e i cancelli per non farlo entrare. Credo che in fondo i detenuti italiani non chiedono molto, neppure la luna, chiedono solo, come accade in moltissimi paesi del mondo, di continuare a rimanere umani per potere amare ed essere amati. Carmelo Musumeci, ergastolano Una storica audizione Ho ascoltato anche le loro famiglie Desidero esprimere grande soddisfazione per l’audizione svoltasi ieri in commissione Giustizia in collegamento via skype con la Casa di reclusione di Padova sul tema degli affetti delle persone private della libertà personale. Le testimonianze dei detenuti e dei loro familiari, del direttore Casarano, degli operatori del carcere, del cappellano don Marco Pozza, tutti coordinati dall’instancabile Ornella Favero nella redazione di Ristretti Orizzonti, hanno contribuito a rompere un muro di ipocrisia e di sospetto verso tutto ciò che riguarda la vita dentro e fuori dal carcere. Sì, perché ieri è stata una giornata storica per le nostre istituzioni, perché per la prima volta il parlamento entrava dentro il carcere e dentro le storie che lo attraversano. Storie pulite, quotidiane, piene di ostacoli dovuti alle istituzioni ancora troppo sorde, che per paura delle reazioni dell’opinione pubblica non intervengono per il pieno rispetto dei diritti umani dei detenuti e dei loro cari. Le testimonianze che abbiamo ascoltato sono state molto sincere, senza filtri, né troppe prudenze. Storie commosse di un legame affettivo familiare troppe volte spezzato da regole rigide e ormai anacronistiche; ogni tanto mentre qualcuno oltre il video parlava dal carcere mi soffermavo a guardare i colleghi deputati commissari ma anche i dipendenti della commissione Giustizia ed erano tutti incantati nell’ascoltare quelle storie così autentiche, così incredibilmente consapevoli. Erano davvero contenti di aver avuto questa grande opportunità e alla fine del collegamento hanno tutti ammesso: questa è stata davvero una giornata storica per il paese ma anche per noi. Ora dobbiamo continuare questa battaglia di civiltà e non fermarci. Il percorso forse non sarà facile, ma questa volta ce la possiamo fare. Alessandro Zan (deputato del Pd della Commissione Giustizia) Giustizia: depenalizzazione, non c’è accordo politico, l’attuazione è a rischio di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2015 Manca ormai solo una settimana alla scadenza della delega, ma il destino della depenalizzazione dei reati minori è ancora politicamente appeso al filo di un accordo che finora non c’è stato, soprattutto sul reato di immigrazione clandestina (già bocciato dall’Ue) e su quello di coltivazione, senza autorizzazione, di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, oltre che sul reato di disturbo del riposo delle persone. Le relative norme di depenalizzazione messe a punto dal ministero della Giustizia e portate la settimana scorsa al pre-consiglio dei ministri sono state infatti stralciate dal testo e rimesse alla decisione politica del Consiglio dei ministri, in una seduta ancora da definire. Che, però, dovrà tenersi entro martedì 17 novembre, altrimenti la delega scadrà, com’è già avvenuto per quella sulle pene alternative al carcere. Allora come ora, il governo è diviso e teme "l’impopolarità" di queste misure e dell’opposizione più demagogica, come quella leghista e del centrodestra. Fino a ieri non c’erano stati neanche incontri di maggioranza per arrivare a un accordo. La voce si è diffusa negli uffici giudiziari che, dal profondo Sud al profondo Nord, sono in fibrillazione. Anche perché, confidando nell’attuazione della legge delega da parte del governo, da tempo hanno congelato (d’accordo con la difesa) centinaia di migliaia di procedimenti relativi ai reati da depenalizzare (soprattutto immigrazione clandestina e omesso versamento di ritenute previdenziali fino a 10mila euro) rinviandoli a dopo l’approvazione dei decreti legislativi. Che, se dovessero saltare in tutto o in parte, rovescerebbero quei procedimenti sulle spalle degli uffici, con conseguenze pesanti sui carichi di lavoro e sulla durata dei processi. Sarebbe un "colpo mortale", fanno sapere dai moltissimi uffici di Procura e Tribunale, considerando "assurda" la frenata del governo su questi reati minori laddove nessuna frenata c’è stata, invece, per la depenalizzazione dei reati tributari, come l’omesso versamento Iva fino a 250mila euro. Lo scontro politico, però, non riguarderebbe la norma che depenalizza l’omesso versamento di ritenute fiscali, rimaste nel testo che approderà al Consiglio dei ministri. Una norma "giusta", sempre secondo gli uffici giudiziari, perché oggi il reato costringe a condanne detentive irrisorie, di due mesi o poco più, al termine di un procedimento che dura tre gradi di giudizio per un mancato pagamento di fatto già accertato dall’Inps. Laddove, con la depenalizzazione, oltre a risparmiare tempo e risorse, scatterebbe una (più rapida) sanzione amministrativa tra 10mila e 50mila euro, a meno che il datore di lavoro non versi le omesse ritenute entro 3 mesi dalla contestazione. Al di sopra dei 10mila euro, invece, resterebbe il reato, punito con 3 anni di reclusione e 1.000 euro di multa. Lo scontro politico ha esclusivamente una carica simbolica perché riguarda due temi - immigrazione e droghe - di forte valenza populista. Quanto all’immigrazione clandestina, lo schema di decreto predisposto dalla Giustizia prevedeva l’abrogazione secca del reato (punito con una multa) e lasciava sopravvivere la procedura amministrativa di espulsione. Già la Corte Ue aveva bacchettato l’Italia ritenendo che il reato di clandestinità sia contrario alle direttive europee perché non garantisce l’obiettivo dell’effettiva espulsione dello straniero. Tant’è che la relativa norma viene spesso disapplicata anche se, rimanendo il reato formalmente in vita, i migranti spesso si ritrovano indagati con gli scafisti per reato connesso. Una bizzarria, tanto più che nel frattempo la giurisprudenza ha cancellato sia l’aggravante di clandestinità (che aggravava qualunque reato commesso dallo straniero semplicemente perché "clandestino") sia la responsabilità penale dello straniero che, entrato in Italia clandestinamente e destinatario di un foglio di via per lasciare il Paese, rimanesse nel territorio italiano. Giustizia: figli e donne di ‘ndrangheta, nuove tutele per chi ha il coraggio di cambiare vita di Domenico Marino Avvenire, 10 novembre 2015 Dare protezione e possibilità di ricominciare a madri e figli di ‘ndrangheta che rompono coi clan. Donne che hanno il coraggio di chiudere con una "vita "sbagliata e bambini che rischiano di pagare il prezzo più alto. Arriva dalla Calabria un segnale forte affinché siano concretizzate leggi utili ad aiutare chi decide di provarci. In prima fila il Centro comunitario Agape e la Camera minorile di Reggio Calabria che chiedono aiuto alla politica. In particolare, come fatto nel passato prossimo dal presidente di Libera, don Luigi Ciotti, si spinge sul cambiamento d’identità anagrafico per i piccoli. Un passo decisivo perché essi possano cominciare una nuova vita senza il terrore continuo d’essere individuati e magari puniti. Per insistere su questo tema, coinvolgendo anzitutto i parlamentari calabresi, il centro Agape, il laboratorio sociale "La Calabria che vogliamo" e la Camera minorile reggina, col patrocinio della presidenza del Consiglio regionale, hanno organizzato per sabato prossimo un forum alla presenza del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Marco Minniti, e di altri politici, professionisti e giornalisti. "I tempi sono maturi - spiegano i responsabili dell’iniziativa - per ripensare a un sistema nuovo di tutela di questi minori. La stessa presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, parlando in Calabria del triplice omicidio di Cassano costato la vita anche al bambino Coco Campolongo, ha sottolineato che mancano strumenti adeguati per tutelare i minori, ci sono carenze legislative". "Stiamo aiutando e nascondendo decine di donne che ci hanno chiesto una mano per scappare e lasciare la loro terra poiché non vogliono che i loro figli crescano nella cultura mafiosa", ha dichiarato di recente a TV2000 don Luigi Ciotti, aggiungendo: "Le grandi protagoniste di queste storie sono le mamme di questi bambini, le donne che per amore nei loro confronti stanno dicendo basta e chiedendo aiuto". Il presidente di Libera insisteva proprio sul cambio di identità anagrafica. Anche strutture calabresi accolgono mamme che hanno rotto con famiglie invischiate in esistenze criminali. Iter seguiti dalla magistratura e gestite nella massima riservatezza a causa della delicatezza delle varie situazioni. È ancora lacerante il dolore per Lea Garofalo la donna di ‘ndrangheta divenuta testimone di giustizia e per questo uccisa e sciolta nell’acido in un capannone della periferia milanese dal suo ex compagno, elemento di primo piano della mala crotonese. L’appello di don Ciotti è stato raccolto dal deputato del Pd, Davide Mattiello, coordinatore del gruppo della commissione antimafia che si occupa di testimoni di giustizia. "La protezione speciale per le donne che decidono di rompere con famiglie criminali è prevista nel progetto di riforma di legge sul sistema tutorio per i testimoni di giustizia. È l’articolo 21 della proposta di legge che ho messo nelle mani della presidente Bindi perché possa diventare una proposta di tutta la Commissione. È l’articolo che prevede il cambio di generalità e il sostegno per quei famigliari che pur non avendo un contributo informativo apprezzabile da offrire all’autorità giudiziaria, decidono di rompere con la famiglia cui appartengono. Cosa aspettiamo?" Giustizia: il ministro Orlando; prevale l’antimafia vera, nonostante lo scandalo Saguto di Mario Barresi La Sicilia, 10 novembre 2015 Nonostante lo scandalo Saguto, "un’ombra così forte in un settore importante" e le altre devianze affaristiche, nell’Isola ci sono "storie di successo" nella lotta a Cosa Nostra: quelle "dei giudici, dello Stato e della società civile". Ovvero, "l’antimafia vera, quella che prevale in Sicilia". Non vuole buttare via l’acqua sporca con tutto il bambino, Andrea Orlando. Che, ammettendo i timore per il ritorno della stagione dei veleni a Palermo ("il rischio esiste"), è certo dell’efficacia degli anticorpi anche dentro il Palazzaccio: Di Vitale e Lo Voi hanno dato prova di "capacità di reazione". Il ministro della Giustizia - oggi in visita a Catania e a Caltagirone, domani a Messina - minimizza le lungaggini nell’abbreviato di Mannino, "un processo con importanti implicazioni, non lo prenderei come parametro sui tempi della giustizia". E in questa lunga intervista ci parla anche di altri temi: dal caso Crocetta-Tutino all’evaso di Lecce, fino al Ponte sullo Stretto. È un modo "per accontentare Alfano" come definì il tetto dei contanti a 3mila euro sul quale lui era contrario? "No, qui siamo tutti d’accordo: prima si devono fare le strade, poi si vedrà". Ministro Orlando, a Catania parteciperà alla commemorazione dei 20 anni dalla morte di Serafino Famà. Nell’Isola-cimitero di giudici e poliziotti, ci fu un avvocato, forse non ricordato come meriterebbe, che fece il suo dovere e venne ucciso dalla mafia. "Assolutamente. Ho aderito volentieri a questo invito, mi pare un’occasione anche per ricordare il fatto che l’avvocatura, per la sua funzione, ha un ruolo essenziale nella tutela dei diritti, e quindi nel contrasto di soggetti che pongono in discussione l’affermazione dello stato di diritto, a partire dalla mafia". A Catania c’è un’emergenza sugli spazi giudiziari. In attesa della Cittadella, c’è la necessità di reperire degli immobili in affitto. Come interverrà? "Questi incontri che stiamo facendo nei territori sono occasioni di scambio di informazioni, ma anche un momento per affrontare alcuni problemi. Mi auguro che questo passaggio ci consenta di portare a compimento l’interlocuzione che già esiste con gli enti locali. Tanto più in seguito al fatto che la competenza sull’edilizia è passata da settembre al ministero. Per Catania ci sono delle soluzioni importanti in campo, le stiamo valutando dal punto di vista tecnico". Nel pomeriggio sarà a Caltagirone. Dove, come a Sciacca, c’è preoccupazione per la chiusura del tribunale. "Sto visitando le sedi che hanno una situazione di difficoltà sulla base di parametri oggettivi, cioè l’andamento dell’arretrato e i tempi del processo nell’ambito civile. Si tratta di capire intanto che cosa non funziona e cercare di dare una mano al miglioramento della situazione". Allora non è una visita al capezzale di un tribunale moribondo, né una sorta di "estrema unzione" a una struttura che verrà accorpata? "Ho visitato altri tribunali la settimana scorsa con lo stesso criterio, come quello di Nola che ha competenza su 500mila abitanti, e martedì visiterò il tribunale di Messina. Si può ipotizzare anche solo in astratto la chiusura di queste sedi? Il punto fondamentale, invece, è come restituire efficienza in un campo specifico come quello del civile, fondamentale per la competitività del Paese. E queste sedi sono emerse come quelle con una situazione di maggiore difficoltà". A Palermo tiene banco il caso Saguto. Lei è stato molto duro, ha inviato anche degli ispettori. Che idea s’è fatto di questo enorme scandalo nella gestione dei beni confiscati alla mafia? "È presto per tirare delle conclusioni. Il lavoro degli ispettori deve ancora concludersi e la vicenda deve svilupparsi dal punto di vista penale. E poi io non sono stato duro: ho ritenuto che nel momento in cui c’era un’ombra così forte in un settore così importante come quello del contrasto patrimoniale alla mafia, fosse nostro dovere, anche a titolo cautelare, intervenire". Ma ci sono stati, per fortuna, anche gli arresti di Bagheria, grazie a chi ha denunciato il racket. In Sicilia allora c’è una antimafia sana, che fa da contraltare a quella degli affari con protagonisti pezzi dello Stato e dell’imprenditoria? "Non parlerei di contraltare. Credo che l’antimafia, compresa quella delle misure di prevenzione, sia una vicenda di successo della giurisdizione, dello Stato e della società siciliana che ha saputo mobilitarsi in momenti cruciali determinando un salto di qualità nella capacità di contrasto alla mafia. Una capacità che caratterizza la grande maggioranza della attività degli uffici giudiziari. La vicenda in sé è molto grave e non va sottovalutata, proprio perché rischia di dare un’ombra negativa su tutto questo lavoro, che è assolutamente quello prevalente. È l’antimafia vera, quella che prevale in Sicilia". Eppure a Palermo c’è chi parla di nuova stagione dei veleni in tribunale. C’è da aver paura di arsenico e vecchi merletti? "Il rischio, quando esplode una vicenda come questa, esiste. A far sì che questo rischio sia evitato ci sono personalità forti e capaci come il presidente Di Vitale e il procuratore Lo Voi, che mi pare anche in questa vicenda abbiano dato segno di capacità di reazione. Lo stesso si dica per chi guida Corte d’Appello e Procura generale, magistrati autorevoli chiamati a supportare gli uffici direttamente interessati. L’equilibrio e la tempestività con cui si sta muovendo la Procura di Caltanissetta mi paiono ulteriori elementi di rassicurazione". E nel pieno della lunga estate calda siciliana c’era stato il caso della telefonata Crocetta-Tutino, la cui esistenza è stata smentita, che rilanciano il tema delle intercettazioni sul quale lei sta lavorando con molta attenzione. "Mi pare che questo sia un caso assolutamente "sui generis", per il resto ritengo che l’intervento che si deve realizzare è un intervento finalizzato a ridurre il rischio di fuga di informazioni attraverso un processo di scrematura del materiale, tanto di quello destinato alla emanazione delle ordinanze, tanto di quello destinato a finire nei fascicoli". Restiamo a Palermo: Mannino è stato appena assolto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Era un rito abbreviato, ma è durato quasi tre anni. L’ex ministro s’è detto "vittima di pm ostinati". "Si tratta di un processo che aveva una serie importante di implicazioni. Quindi non prenderei questo processo come un parametro sui tempi della giustizia in generale. Perché credo ci fosse un elemento di particolare complessità". Ma è una sconfitta del teorema della trattativa o un semplice incidente di percorso? "Ogni processo deve avere la sua storia. Dopo di che io non commento i processi in corso e non commento le sentenze, anche per un dovere di carattere istituzionale". Il detenuto evaso all’ospedale di Lecce pone un tema di qualità del sistema penitenziario. Ci sono delle falle? "Anche qui non trarrei conseguenze da una vicenda specifica. Il numero delle evasioni è assolutamente inferiore a quello degli altri Paesi. C’è sicuramente un problema di riconoscimento delle funzioni della polizia penitenziaria e da fare un salto di qualità anche nell’organizzazione. Credo che un primo obiettivo da perseguire subito sia quello del riallineamento di carriera. Che mi auguro possa essere un risultato conseguito in breve tempo". Ultimamente si invoca Cantone per qualsiasi problema. Perché in Italia abbiamo così bisogno di un "supereroe" anticorruzione? La pubblica amministrazione non ha gli anticorpi? Il sistema giudiziario non basta? "L’Authority è un anticorpo! Ce ne vogliono molti altri, da quelli istituzionali, a quelli tecnici. Oltre a un ruolo che devono svolgere i soggetti sociali, i corpi intermedi, con la partecipazione democratica come condizione essenziale per ridurre il rischio di corruzione. Un piano regolatore o un piano sanitario, se costruiti nella discussione pubblica, è molto più difficile che possano essere il campo di scorreria per i criminali e reti corruttive. Spesso abbiamo visto che la corruzione nasce anche da scorciatoie procedurali, strade che riducono quanto più possibile il confronto democratico". La corruzione ha un suo manuale in Mafia Capitale, che ha avuto delle ricadute in Sicilia con la gestione del Cara di Mineo. Cosa pensa di questa brutta pagina della nostra storia? "Come le ho detto non ho la facoltà di commentare indagini in corso per ovvie ragioni di carattere istituzionale. Però devo dire una cosa: ci sono elementi che possono sicuramente suscitare particolare reazione perché, se si dovessero confermare vicende di malaffare in un campo così delicato e così legato al senso di umanità, credo che la cosa non possa che suscitare ulteriore indignazione. Tuttavia, vorrei in questo caso ricordare che la storia che l’Italia può raccontare non sta solo in questa vicenda. Noi abbiamo dato nell’accoglienza una grandissima risposta di civiltà, anche a livello europeo, che non può essere oscurata da singole vicende di malaffare". Ha proposto una stretta sul caporalato, una piaga che colpisce profondamente la Sicilia. Cosa vuole fare? "È un risultato che molto presto sarà approvato dalla Camera e mi auguro entro la fine dell’anno dal Senato. Si tratta di una risposta che determina un salto di qualità nel contrasto a questo fenomeno. Non più la criminalizzazione soltanto di chi recluta la manodopera attraverso questa forma, ma anche di chi da questa manodopera trae dei proventi. Con una sanzione non soltanto di carattere reclusivo, ma anche di carattere patrimoniale ed economico come la confisca del terreno. Perché non si tratta di soggetti isolati o di funghi che spuntano: sono reti consolidate che vanno smantellate anche in questo caso colpendo appunto la dimensione patrimoniale". Renzi ha rotto il silenzio sul Ponte: si farà, ma non subito. Cos’è, un altro modo "per accontentare Alfano" come lei stesso definì l’innalzamento del tetto dei contanti a 3mila euro? "Per ora mi sa che siamo tutti d’accordo sul fatto che prima di parlare di Ponte si debbano fare le strade. Poi questo tema si vedrà. Oggi abbiamo bisogno di colmare un deficit di infrastrutture e il punto di partenza non mi pare davvero quello del Ponte. C’è un lavoro da parte del governo non solo per un salto di qualità di carattere infrastrutturale, ma per consentire anche che le condizioni di investimento nel Mezzogiorno siano migliori". Anche nel settore della giustizia? "Il lavoro che stiamo facendo, per esempio, sul fronte della giustizia civile si inquadra in questo ambito. Una parte delle ragioni per cui gli investitori internazionali non sceglie il nostro Paese è quello dei tempi della giustizia, e purtroppo al Sud ci sono dei tribunali che sono il fanalino di coda a livello nazionale. Ma nel frattempo ci sono dei tribunali che hanno fatto dei salti di qualità enormi, come il caso che spesso cito del tribunale di Marsala. C’è un lavoro specifico di innovazione e di supporto alla ripresa nel Mezzogiorno che, come abbiamo visto, è più faticosa e più difficile che nelle altre realtà italiane ma essenziale per uscire dalla crisi di tutto il Paese". A proposito di difficoltà. Il governatore siciliano, al suo quarto rimpasto, ha avuto un rapporto burrascoso col governo nazionale. Qual è il suo giudizio sull’esperienza Crocetta? "Come ministro della Giustizia ho un osservatorio molto parziale. Non sono in grado di dare un giudizio, mi auguro semplicemente che la giunta siciliana con questo passaggio ultimo abbia trovato una sua stabilità. Perché credo che quello sia il presupposto fondamentale a realizzare un obiettivo, l’azione riformista, di cui ha necessità la Sicilia". Giustizia: Csm; per i magistrati l’anzianità non è parametro, gli incarichi a chi li merita di Marzia Paolucci Italia Oggi, 10 novembre 2015 "La meritocrazia quale valore fondante di ogni scelta selettiva". È il principio espresso a più riprese nel nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria del Consiglio superiore della magistratura oggetto della delibera del 28 luglio 2015 che ridisegna i criteri per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi della precedente circolare del 3 agosto 2010. Sei le linee guida del Testo: razionalizzazione e semplificazione, apertura massima dell’accesso alla dirigenza, valorizzazione della cultura dell’organizzazione e delle nuove competenze maturate nella gestione di realtà complesse, distinzione e specificazione dei requisiti attitudinali in base ai tipi di uffici direttivi, adozione di criteri chiari e precisi per il giudizio di comparazione tra candidati e massima semplificazione del procedimento con standardizzazione dei tempi e modi valutativi. Indipendenza, imparzialità ed equilibrio continuano a rappresentare imprescindibili condizioni per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi e per la relativa conferma dei magistrati. Ma il cuore del giudizio comparativo riguarda merito e attitudini con cambiamenti sostanziali soprattutto per il secondo parametro, quello attitudinale dove accanto agli indicatori generali costituiti da esperienze giudiziarie ed esperienze maturate fuori dalla giurisdizione, vengono elaborati indicatori specifici differenti per tipologia dei posti messi a concorso. Per quel che riguarda, invece, l’anzianità, con la riforma dell’Ordinamento giudiziario del 2007, cita l’articolo 24, "è esclusa la rilevanza quale parametro di valutazione". Rispetto al passato, è però previsto dal nuovo Testo unico che il positivo esercizio delle funzioni giudiziarie per almeno dieci anni, anche se non continuativi, costituisca a parità di condizioni, di regola, elemento preferenziale per il conferimento delle funzioni direttive e semi-direttive. Il profilo del merito investe la verifica dell’attività giudiziaria svolta i cui parametri ormai noti - gli stessi delle valutazioni di professionalità - sono capacità, laboriosità, diligenza e impegno in modo da ricostruire in maniera completa la figura professionale del magistrato. Per le attitudini, invece, il nuovo T.u. prevede accanto agli indicatori generali, l’elaborazione di indicatori specifici che variano secondo la tipologia di uffici messi a concorso. Gli indicatori generali sono costituiti da esperienze giudiziarie e non: funzioni direttive o semi-direttive in atto o pregresse, esperienza nel lavoro giudiziario, collaborazione nella gestione dell’ufficio, soluzioni elaborate nelle proposte organizzative e soluzioni odinamentali e organizzative svolte anche fuori dalla magistratura. Ciò che rileva non è il formale possesso della carica direttiva quanto piuttosto i risultati conseguiti durante l’incarico. Ma la chiave di volta in termini di specializzazione e modernizzazione della carriera sono proprio gli indicatori specifici destinati ad assumere particolare rilievo in sede di giudizio comparativo tra magistrati dando attuazione al principio della distinzione dei requisiti attitudinali in base alle tipologie di uffici classificati in semi-direttivi di primo e secondo grado, uffici direttivi giudicanti e requirenti di piccole e medie dimensioni, direttivi requirenti e giudicanti di grandi dimensioni, uffici direttivi giudicanti e requirenti specializzati, uffici direttivi giudicanti e requirenti di secondo grado, uffici direttivi giudicanti e requirenti di legittimità. In particolare, la delibera fa riferimento al "principio di specializzazione" per i semi-direttivi di primo e secondo grado mentre per i direttivi giudicanti e requirenti di primo grado di piccole e medie dimensioni, il criterio di riferimento è l’apertura massima alla dirigenza degli uffici a vantaggio del magistrato neofita con un’ esperienza giudiziaria significativa. E per dirigere gli uffici di grandi dimensioni, invece, oltre alle pregresse esperienze direttive e semi-direttive, occorre una figura multifunzionale: un presidente comunicatore con i media e al contempo esperto di fund raising per raccogliere risorse da pubblici e privati, anche in ambito internazionale, bravo nelle pubbliche relazioni e in contatto costante con il Foro e le diverse professionalità che gravitano sempre in ogni aula giudiziaria. Giustizia: nelle carceri minorili 449 detenuti, 3.621 ragazzi "messi alla prova" nel 2014 Ansa, 10 novembre 2015 Nei primi sei mesi del 2015, sono 23 gli omicidi, tra consumati e tentati, imputati ai minori entrati negli istituti di pena (Ipm) per minorenni: reati in maggioranza a carico di italiani (16), tutti ragazzi maschi; 7 agli stranieri, di cui due femmine. Tra i delitti commessi dai minori figurano anche 89 casi di lesioni volontarie. Pure in questo caso si tratta di reati in maggioranza a carico di italiani, 53 contro 36 degli stranieri. I dati riferiti, invece, all’intero 2014 rilevano 58 imputazioni di omicidio a carico di minori, 43 a italiani, tra cui una ragazza, e 15 stranieri. Le lesioni, sempre nello stesso anno, sono state 151; 14 le violenze sessuali, di cui 5 da parte di italiani, 9 di stranieri. Si tratta di ragazzi che non hanno avuto accesso a misure alternative, reclusi in via cautelare o per scontare una pena nei 16 istituti minorili, cui la giustizia fa ricorso come "extrema ratio": sono infatti solo 449 i ragazzi fino a 25 anni detenuti, un dato stabile da 15 anni, come rileva l’associazione Antigone, nel suo rapporto "Ragazzi fuori", realizzato quest’anno in collaborazione con l’Isfol e presentato oggi a Roma. Un dossier che evidenzia luci e ombre. È un sistema dove le misure alternative sono la maggioranza: tra il 2001 ed il 2014 si è passati da 1.339 collocamenti in comunità ai 1.987 del 2014; la messa alla prova è passata da 788 provvedimenti del 1993 ai 3.261 del 2010, con l’83% dei casi con esito positivo. E dove la funzione educativa è più pregnante che quella repressiva. Sono circa 37mila i procedimenti davanti al gip o al gup nei confronti di minorenni, stabili i reati denunciati, questo a dimostrazione del fatto che "meno detenuti non significa più reati". "Rivendichiamo - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione che si batte per i diritti nelle carceri - che il sistema funziona chiedendo di fare passi avanti. Ci piacerebbe avere più insegnanti e più educatori. Sarebbe un investimento per risparmiare in costi sociali domani". Il sistema di istruzione all’interno delle carceri minorili viene garantito dal Miur a tutti i livelli, ma non in tutti gli istituti si tengono lezioni quotidiane, mancano gli insegnanti, il cui ruolo viene spesso svolto da volontari. Si tengono corsi di alfabetizzazione linguistica, di scuola primaria, media, fino alle superiori, con classi in 7 istituti e 60 detenuti-alunni. Specie al Sud si dà molta importanza alla formazione professionale, con corsi riconosciuti dalla Regioni. Ci sono poi tre ragazzi che frequentano l’università, uno fa Scienze agrarie, uno Scienze infermieristiche e uno il Politecnico di Torino. La pena illegale può essere annullata senza impugnazione sul punto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2015 Corte di cassazione, Quinta sezione penale sentenza 9 novembre 2015 n. 44897. L’illegalità della pena inflitta può essere dichiarata d’ufficio dal giudice, anche se non è stata presentata impugnazione sul punto. Soprattutto se prima della formazione del giudicato. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 44897 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato senza rinvio la condanna a 2 anni di carcere per il reato di lesioni personali decisa dal giudice unico di Cesena e confermata dalla Corte d’appello di Bologna. In realtà, osserva la Cassazione, non ci sono dubbi sul fatto che il reato in questione sia di competenza del giudice di pace, dal momento che si tratta di lesioni giudicate guaribili in 10 giorni. Con la conseguenza che avrebbe dovuto essere applicata la sola pena pecuniaria. Nel caso esaminato, quindi, è evidente agli occhi della Cassazione che la pena inflitta deve essere ritenuta illegale, visto che il concetto di pena illegale comprende sia la pena diversa per specie da quella che la legge stabilisce per quel particolare tipo di reato sia la pena inferiore o superiore ai limiti previsti dalla legge. In queste circostanze, infatti, infliggere una sanzione diversa per specie o quantità rispetto ai confini normativi coinvolge il valore costituzionale della legalità della pena (articolo 25 della Costituzione) che risulterebbe compromesso se non si potesse mettere rimedio anche d’ufficio all’errore del giudice del grado precedente di giudizio. A queste considerazioni va aggiunto anche il principio della funzione rieducativa della pena, principio sempre più centrale visto che le Sezioni unite penali hanno di recente riconosciuto essere in conflitto con l’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, anche successivamente alla formazione del giudicato, in contrasto con la Costituzione e la Convenzione dei diritti dell’uomo (sentenza n. 18821 del 2013). "Ne deriva come possa pacificamente ritenersi - osserva la sentenza - che la illegalità della pena inflitta, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato, come verificatosi nel caso di specie, debba essere rilevata prima della formazione del giudicato, anche prescindendo dall’articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione". Inoltre, nel caso approdato al giudice di legittimità, la pena in contrasto con la norma è stata inflitta anche in senso sfavorevole al ricorrente e a questo errore la Corte può porre rimedio nel rispetto dell’articolo 1 del Codice penale oltre che per il compito "istituzionale" di correggere le deviazioni da questa disposizione. Ma a fare propendere la Cassazione per un’applicazione diretta, che conduce alla rideterminazione della sanzione, c’è anche un principio di economia processuale. Nel rispetto del giusto processo, così, senza dovere formulare un nuovo giudizio di merito oppure senza dovere condurre accertamenti di fatto, entrambi incompatibili con il grado di legittimità, la Cassazione può arrivare a quantificare l’importo da corrispondere applicando i criteri già utilizzati dal primo giudice, senza dovere coinvolgere il giudice dell’esecuzione. Delitto di evasione ed attenuante di cui all’articolo 385, comma quarto, del codice penale Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2015 Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Circostanze - Attenuante della costituzione in carcere - Persona sottoposta alla detenzione domiciliare - Rientro spontaneo nel luogo di esecuzione della misura - Configurabilità dell’attenuante - Esclusione. Non integra la circostanza attenuante di cui all’articolo 385, comma quarto, cod. pen., il solo fatto che la persona evasa dalla detenzione domiciliare rientri spontaneamente nel luogo di esecuzione della misura da cui si è arbitrariamente allontanata, essendo indispensabile che la stessa si presenti presso un istituto carcerario o si consegni ad un’autorità che abbia l’obbligo di tradurla in carcere. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 3 febbraio 2015 n. 4957. Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Circostanze - Attenuante di cui al comma quarto dell’articolo 385 cod. pen. - Soggetto agli arresti domiciliari - Presentazione ad autorità avente l’obbligo di tradurlo in carcere - Configurabilità. L’attenuante prevista dal comma quarto dell’articolo 385 cod. pen. è integrata anche nel caso in cui colui che si è allontanato senza autorizzazione dagli arresti domiciliari si consegni ad autorità che abbia l’obbligo di tradurlo in carcere. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 13 ottobre 2014 n. 42751. Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Circostanze - Arresti domiciliari - Breve allontanamento - Rientro - Circostanza attenuante - Applicazione - Esclusione - Ragioni. In tema di evasione, la circostanza attenuante della costituzione in carcere prima della condanna non trova applicazione in ogni caso di evasione temporanea e quindi non può essere riconosciuta in favore del soggetto che si sia allontanato, per breve tempo, dall’abitazione di restrizione domiciliare per farvi subito dopo rientro. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 31 luglio 2008 n. 32383. Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Circostanze - Attenuante della costituzione in carcere - Persona sottoposta alla detenzione domiciliare - Rientro spontaneo nel luogo di esecuzione della misura - Configurabilità dell’attenuante - Esclusione. Non integra la circostanza attenuante di cui all’articolo 385, comma quarto, cod. pen., il solo fatto che la persona evasa dalla detenzione domiciliare rientri spontaneamente nel luogo di esecuzione della misura da cui si è arbitrariamente allontanata, essendo indispensabile che la stessa si presenti presso un istituto carcerario o si consegni ad un’autorità che abbia l’obbligo di tradurla in carcere. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 23 giugno 2008 n. 25602. I maltrattamenti in famiglia diventano stalking se continuano dopo fine della convivenza di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2015 Corte d’appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 30 aprile 2015 n. 1711. Le condotte persecutorie poste in essere nei confronti dell’ex partner, già precedentemente vittima di episodi di maltrattamenti in famiglia, avvenute in epoca successiva alla cessazione della convivenza, non possono configurare il delitto di cui all’articolo 572 c.p., bensì quello previsto dall’articolo 612-bis c.p. nella forma aggravata di cui al secondo comma, da ritenersi commesse in esecuzione di un medesimo disegno criminoso rispetto alle condotte commesse durante la relazione. Questa delucidazione sul rapporto tra i reati di maltrattamenti in famiglia e stalking arriva dalla Corte d’appello di Palermo con la sentenza 1711/2015. La vicenda - Le condotte incriminate erano state poste in essere, prima e dopo la fine della convivenza, da un uomo nei confronti della sua partner, dalla quale aveva avuto anche dei figli. Proprio le testimonianze di costoro erano state gli elementi determinanti per la condanna inflitta in primo grado. Era emerso, infatti, che l’uomo aveva più volte ingiuriato e percosso la donna a causa del suo carattere irascibile e del suo stato di frustrazione per l’incapacità di conservare un posto di lavoro. In seguito all’allontanamento dalla casa familiare, l’uomo aveva continuato a prendere di mira la sua vecchia compagna attraverso appostamenti sotto casa, danneggiamenti, telefonate offensive e minacciose, al punto da costringerla a farsi scoetare nel tragitto casa-lavoro dal figlio. Il rapporto tra i due reati - Il Tribunale aveva ritenuto assorbita l’imputazione per il reato di atti persecutori previsto dall’articolo 612-bis c.p. in quello più grave di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 c.p., aderendo ad un orientamento giurisprudenziale secondo cui la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla sussistenza del reato di maltrattamenti. In sostanza, le condotte poste in essere dopo la fine della relazione devono considerarsi come una "esplicazione di un medesimo atteggiarsi dalla volontà dell’imputato, che ha proseguito nel comportamento vessatorio nei confronti della convivente, pur dopo la cessazione della convivenza". La Corte d’appello sul punto la pensa diversamente ed accoglie il ricorso dell’imputato che ottiene un ricalcolo al ribasso della pena, essendo lo stalking un delitto meno grave rispetto a quello di maltrattamenti. Per i giudici, l’impostazione adottata dal Tribunale può andar bene per le condotte poste in essere dal coniuge separato di fatto, ma "non può ritenersi applicabile, sic et simpliciter, nelle ipotesi di rapporto di convivenza more uxorio, in cui la cessazione della convivenza stessa determina la fine del nucleo familiare costituito dalla coppia". Pertanto - conclude il collegio - "le condotte persecutorie poste in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza, dopo l’introduzione dell’art. 612 bis c.p., non possano configurare il delitto di maltrattamenti bensì quello di atti persecutori, sia pure nella forma aggravata di cui al secondo comma, da ritenersi commesso in esecuzione di un medesimo disegno criminoso rispetto agli altri delitti oggetto di contestazione". Lettere: morire in carcere senza un perché di Luigi Cancrini (Psichiatra e psicoterapeuta) L’Unità, 10 novembre 2015 Una donna straniera di 34 anni, arrestata con l’accusa di avere ucciso il figlio e di averlo messo del congelatore, è morta per cause naturali, lo scorso 30 ottobre, nell’infermeria della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia. La donna era entrata in carcere a Roma Rebibbia il 16 ottobre, rifiutava il cibo ed era affetta da una grave patologia e per questo portata nell’infermeria del carcere. Leggo e rileggo la notizia ma non la capisco. Una donna che ha ucciso il proprio bambino, mi dico e so, per dolorosa esperienza umana e personale, è una donna malata. Le leggi in vigore in Inghilterra e in molti altri paesi, lo dicono con chiarezza e con chiarezza lo dice chi nell’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere a Mantova, di questi casi si occupa quotidianamente. Portarla in carcere e tenerla lì per 16 giorni mentre non si alimenta finché non muore di morte "naturale" ha un senso? L’infermeria del carcere è un luogo adatto ad una situazione del genere? Uno psichiatra l’aveva visitata? L’ambulanza per l’ospedale era in ritardo? Di 14 giorni o di poche ore? Chi è responsabile di questa morte "naturale"? Chi era il magistrato che (non) si occupava di questo "caso"? Lasciarsi morire dopo aver ucciso il proprio figlio è un comportamento in qualche modo naturale. Atteso. Lasciare sola con se stessa una persona che ha compiuto un gesto così contrario alla sua stessa natura è di per sé un assurdo. Non nutrirsi in una infermeria fino a morirne se le cause "naturali" erano queste, porta alla morte dopo un certo tempo e solo se di quella persona ci si è dimenticati. Perché? La verità, angosciosa, è che fra diritto alla salute e reclusione in un carcere nell’Italia di oggi, nella Roma di oggi, c’è una contraddizione aperta. Tutto si svolge oggi come se il passaggio al sistema sanitario nazionale delle responsabilità attribuite fino a qualche anno fa alla sanità penitenziaria avesse lasciato completamente sguarnite le carceri. Tempi di tagli come quelli a cui è sottoposta la sanità pubblica (quella privata è fiorente, i soldi corrono dal pubblico al privato nel modo indecente di cui qualche volta ma non sempre la Giustizia si accorge) sono tempi in cui estendere ai detenuti le garanzie di cui godono gli altri cittadini italiani, avrebbe dei costi troppo elevati? Intanto "due detenuti su tre sono malati" scrive il sindacato della Polizia Penitenziaria soprattutto di disturbi psichiatrici, ma curarli è sempre più difficile ora che i consulenti (pochi) vengono dall’esterno e le infermerie non dispongono di personale e di presidi all’altezza. È in un contesto disperante di incompetenza e di abbandono sostanziali, dunque, che è finita questa povera "donna straniera di 34 anni"? Di cui non conosciamo neppure il nome. Per sua fortuna? Per fortuna di quelli che avrebbero potuto e dovuto intervenire prima del suo gesto folle o dopo che questo gesto folle era stato compiuto? Sfuggono al carcere ogni giorno, sostenuti da avvocati bravi, potenti e ben pagati, tanti di quelli che in carcere dovrebbero stare. Muoiono in carcere, per cause naturali (quali?) e no, quelli che non hanno i soldi né gli avvocati. Soprattutto se a schiacciarli c’è un dolore grande. Anche se in pochi pensano che a soffrire e a morire sono soprattutto quelli che provano rimorso per quello che hanno fatto. Essere cinici conviene, almeno (o anche) in carcere. Aiuta. Salva la vita. E a quando, invece, un carcere a misura d’uomo e di Costituzione? A quando un carcere in cui la pietas sia di casa anche nei giorni in cui non c’è la visita di un Papa o di un politico importante? A quando uno scatto di dignità e di orgoglio degli italiani e di chi li governa sul problema della giustizia e della pena? I diritti, anche di Carminati di Valerio Spigarelli e Andrea Colombo Il Manifesto, 10 novembre 2015 Uno dei legali degli imputati nel processo di Mafia capitale scrive al manifesto, spiegando perché seguire questo processo in videoconferenza è ingiustificato e lesivo dei diritti di difesa. Su questo, tra l’altro, è in corso una protesta delle camere penali italiane. "Sarà l’emozione del debutto" motteggia il pm in risposta alle obiezioni degli avvocati che nel processo Mafia Capitale contestano la decisione del Tribunale di far seguire l’intero processo in video conferenza ad alcuni degli imputati. Sarcasmo a buon mercato, come vedremo, che però colpisce favorevolmente il cronista del manifesto, che lo riporta compiaciuto e ci mette di suo che "gli avvocati strepitano" su questa questione, e il tribunale ovviamente respinge. L’incipit del pezzo che ho letto su questo giornale mi ha colpito di più di altre cronache, più o meno fedeli, sul Barnum Capitale che questo processo è stato, e probabilmente sarà, perché lo considero un giornale attento ai diritti. Premetto subito che io sono uno di quegli avvocati "strepitanti" e non mi offendo certo - ci sono abituato - per l’immagine caricaturale che il termine evoca. Piuttosto mi stupisce la caricatura che ne esce della questione videoconferenze, che dunque va spiegata proprio perché liquidata come strepitus fori mentre è ben più seria. Con buona pace del Pm del processo, e anche delle ordinanze del Tribunale, stare o non stare in un acquario, posto a qualche centinaio di chilometri di distanza, ad osservare su di un francobollo catodico di pollici 6 x 6 il processo in cui si deciderà del tuo futuro - tra l’altro con una possibilità di interloquire in diretta col tuo avvocato che definire farsesca e già un complimento - non è quel che si può definire una robetta. Checché se ne pensi, infatti, la questione fatalmente incrocia il diritto dell’imputato di partecipare "personalmente" al proprio processo, quello che viene sancito dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, dall’articolo 111 della Costituzione italiana. Certo, e questo nessuno di quelli che strepitavano lo metteva in discussione, nel nostro ordinamento esiste una norma (mai troppo vituperata a parere di chi scrive), l’articolo 146 bis delle disposizioni di attuazioni sul c.p.p., che permette la celebrazione del processo "a distanza", tra l’altro nella ipotesi in cui ricorrano "motivi di sicurezza". Se non che, in questo caso, sempre secondo gli avvocati, questi motivi non sussistono affatto, posto che il processo verrà celebrato in un aula bunker, cioè dentro un carcere, e dunque nessuno spostamento a rischio di evasione è seriamente ipotizzabile. Mentre è ipotizzabile, o perlomeno questo ipotizzavano gli avvocati, che la decisione di non far seguire il processo in aula, in corpore vivo, agli imputati, si risolva in un trattamento deteriore e punitivo proprio perché sfornito di giustificazioni. Peraltro, al riguardo, alcuni di quegli avvocati sottolineavano che, a leggere bene le altalenanti decisioni del Tribunale sulla faccenda, emergesse in maniera chiara che il diritto degli imputati a stare o non stare nel processo veniva di fatto delegato dal Tribunale stesso alla Procura, da un lato, o alla amministrazione penitenziaria, dall’altro, rinunciando, questo era il punto, ad una prerogativa che doveva rimanere nelle mani del giudice, non dell’accusa e men che meno della burocrazia ministeriale. Anche qui un problemuccio non da poco - soprattutto per un processo in fase di partenza - riassunto nel fatale interrogativo circa la sussistenza, da parte del Tribunale, di una funzione di garanzia e di equidistanza tra le parti. Fine della trasmissione sulla materia degli "strepiti" sulla quale, si badi, non si pretende consenso. Qualcuno penserà che gli avvocati ponevano una questione fondata, altri, tra questi il collegio e il pm, no, ma non è questo il punto. Il punto è che se si mette in berlina una questione del genere, sulla quale gli avvocati penalisti, prima a Roma e poi in tutta Italia, stanno protestando, proprio perché sintomatica di una deriva efficientista del processo che asfalta i diritti degli imputati (in parlamento giace una legge del governo del fare che vuole disporre la video conferenza per tutti i processi con detenuti, ndr) si fa una informazione embedded sul carro dell’accusa, il che per questo giornale sarebbe una novità. Non mi resta che sperare, allora, che sia stata "l’emozione del debutto", ed attendere una cronaca del processo in cui i diritti degli imputati non siano oggetto di sarcasmo. La replica di Andrea Colombo Qualche volta si strepita a ragion veduta: ad esempio in questo caso. Sono infatti del tutto d’accordo con l’avvocato Spigarelli, come si evince chiaramente da una lettura dell’intero articolo sul "debutto" del processo per Mafia Capitale. Trovo del tutto immotivato e gravemente lesivo dei diritti della difesa impedire agli imputati di seguire in aula il processo che li riguarda. Il delitto di Ancona, l’amore come una bomba di Ferdinando Camon Avvenire, 10 novembre 2015 Sono fidanzati assassini? Più che assassini: sono matricidi e parricidi. È costume tra fidanzati che lui chiami "madre" la madre di lei, e "padre" il padre di lei. Mi correggo: "era" costume. Non infondato. Se ami una ragazza, ami quelli che lei ama, e prima di tutti suo padre e sua madre. Non è più così, non sempre almeno. Amare una ragazza e voler stare con lei, diventa sempre di più un’altra cosa: voler scappare con lei e abbandonare la propria famiglia. Non si ama ‘per’, si ama ‘contrò. L’esempio, naturalmente, è quello di Erika, che piombò in casa col suo ragazzo per sterminare la famiglia: il fratellino, vedendo la sorella corrergli addosso come una furia, saltò su una finestra per buttarsi giù, ma lei riuscì ad afferrarlo per un calcagno e tirarlo indietro. La domanda è: cos’è questo amore tra adolescenti? Come può manifestarsi con le coltellate e i colpi di pistola? Questi ragazzi al primo amore vogliono, in maniera disordinata e caotica, scappare dalla famiglia in cui sono nati. Non è un fenomeno raro. Molti matrimoni (parlo di quelli senza omicidî) nascono così. Si corre verso una nuova famiglia, ma soprattutto si scappa dalla vecchia famiglia. Solo che non si scappa facendo una strage. E non si scappa dalla famiglia del fidanzato o della fidanzata come da un accampamento di nemici mortali. Non si entra in quella famiglia armati. E non con tre caricatori. Se fai questo, tu con quella famiglia non sei in disaccordo: sei in guerra. Quando ci vai per l’ultima volta, a regolare i conti, non ci vai per uccidere questo o quello, ma tutti. Più altri ancora, quelli che incontrerai fuori di lì, magari in strada. O quelli che vengono per arrestarti. Questo fidanzato (lei è una "fidanzatina", perché è minorenne, ma lui è un fidanzato) va in casa della sua ragazza con una pistola calibro 9: per chi non lo sa, il calibro 9 è molto largo, le pallottole sono grosse, entrando nel corpo del bersaglio aprono un buco enorme, da cui il sangue esce abbondante, e in poco tempo muori. La pistola calibro 9 da noi si trova con una certa facilità, è la pistola d’ordinanza. Il ragazzo ha con sé tre caricatori, uno infilato nell’arma (nel calcio, nell’impugnatura) e due di riserva. Ogni caricatore ha 14 colpi, più un colpo in canna. Fanno un totale di 43 colpi. Andava nella casa della fidanzata, questo ragazzo? È chiaro che, purtroppo, si tratta di omicidi premeditati. Organizzati. In questi ragazzi il primo amore gli esplode nel cervello come una bomba, glielo devasta. Sono inadatti a vivere. Ho imparato, scrivendo romanzi, che ogni scrittore ha una sua chiave, per aprire l’uomo e vedere cosa c’è dentro. C’è un grande scrittore russo per il quale questa chiave è l’omicidio. Lui, Dostoevskij, accompagna il suo personaggio per le vicende della vita, gli fa compiere l’omicidio, poi si curva su di lui e gli guarda dentro. Vuol sapere cosa c’è. E in primo luogo se c’è l’idea di Bene e di Male e l’idea di Dio, che per Dostoevskij sono la stessa cosa. Quando l’uomo uccide, quest’idea non c’è. Otto, dieci anni dopo, a espiazione inoltrata, se torni a guardarci dentro, un barlume di questa idea lo vedi. Leggo e rileggo su più giornali le cronache di questo doppio omicidio, vedo la scena in cui lui spara alla madre della ragazza, che gli viene incontro, e quella muore. Poi spara al padre che scappa, quattro colpi, e quello cade. Poi si volta alla ragazza e le dice: "Vieni, a te non succederà nulla". Che significa: "Io sono la morte, ma non per te". Aggiungerei: "Non ancora". Perché dove non c’è la linea di separazione tra Bene e Male, non c’è distinzione tra amore e odio. Quello può convertirsi in questo alla prima difficoltà. E "vivere insieme" comporta sempre delle difficoltà. È un guaio se il marito pensa di risolverle procurandosi una pistola. Questo fidanzato, per non perdere tempo, se l’è procurata in anticipo. E tutto ciò non può che farci pensare a quanto siamo in ritardo nel disarmare le vite nostre e dei nostri figli. Lettere: la vera forza dell’Autorità anticorruzione è l’imparzialità di Raffaele Cantone (presidente dell’Anac) Corriere della Sera, 10 novembre 2015 Gentile direttore, il corsivo di Marco Demarco - giornalista bravissimo che ho imparato ad apprezzare come direttore del Corriere del Mezzogiorno e con il quale si è creato un rapporto di amicizia e stima che dura da anni - apparso sul Corriere della Sera di ieri dal titolo "anticorruzione e giustizia, un conflitto da evitare" mi sembra richiedere qualche garbata e, spero utile, precisazione. In primo luogo, la sospensione decisa dal Tar Lazio il 4 novembre scorso ha riguardato il provvedimento del Responsabile della corruzione della Regione Calabria (Rpc) e non il parere dell’Autorità sull’esistenza di una causa di inconferibilità dell’incarico a Gioffré. Al contrario, la lettura dell’ordinanza del Tar dimostra come essa ha confermato in pieno la validità del nostro operato - e cioè l’equiparazione tra Direttore generale e commissario straordinario - ma ha trovato una contraddizione interna al provvedimento del Rpc della Regione Calabria (che è bene ricordarlo non è un dipendente dall’Autorità ma un dirigente della medesima Regione!) che doveva dare attuazione a essa. Quindi, se dobbiamo proprio registrare un risultato "calcistico" di 1 a 0, non è certo nei confronti dell’Autorità anticorruzione, che non ha proprio partecipato alla partita, svolgendo, al massimo, il suo ruolo di arbitro "super partes". Quanto alla questione più generale, da tempo l’Autorità ha segnalato, in modo formale e in ben due diverse occasioni, a Parlamento e governo che il meccanismo sanzionatorio congegnato dalla legge del 2012 non va bene, perché affidato a un soggetto, il Rpc (dirigente interno dell’ente, nominato dall’organo politico) che non è in posizione di sufficiente indipendenza rispetto al soggetto da sanzionare. Abbiamo anche richiesto di affidare all’Anac, autorità indipendente e sottratta a pressioni e condizionamenti, il potere di accertare i fatti e di irrogare le sanzioni. Ne deriverebbe una notevole semplificazione e una maggiore efficacia di una disciplina innovativa e da salvare, perché mira a impedire proprio quegli impropri "salti di ruolo" di cui parla Demarco. Nel salutarla molto cordialmente mi consenta, infine, due precisazioni di carattere più generale che - sono convinto - l’amico Marco Demarco, melius re perpensa, condividerà certamente; il ruolo di prevenzione della corruzione affidato ad un’Autorità come quella che presiedo non è affatto una "forzatura verticistica", ma una garanzia imparziale, offerta a tutti i cittadini; sanzionare chi conferisce incarichi in modo illegittimo, non è opera di "governo dall’alto", ma di indipendente applicazione della legge. Abruzzo: Magi (Ri) "Berlusconi e Grillo aiutino a superare resistenze su Rita Bernardini" radicali.it, 10 novembre 2015 Dichiarazione di Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani: "Rita Bernardini è, a evidenza di tutti, il miglior candidato possibile per il ruolo di Garante dei detenuti Abruzzo. Una scelta di alto profilo in un ruolo di prima linea per il rispetto dello stato di diritto democratico. Voglio dunque rivolgermi direttamente a Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, affinché aiutino i consiglieri regionali abruzzesi dei loro partiti a superare le contingenze tattiche, interne al consiglio, che finora hanno impedito l’elezione di Rita Bernardini, nonostante il favore consolidato - dopo decenni di impegno costante - dell’intera comunità penitenziaria, dai detenuti agli operatori. Là dove i principi liberali ci dicono si misuri la condizione democratica di un paese, non è ammissibile che prevalga altro che il senso di responsabilità. Oggi i consiglieri regionali possono scrivere una pagina importante per la vita di centinaia di persone e dei loro cari, mandando un segnale all’intero Paese, o ridursi a protagonisti di un banale e, poco edificante, episodio di politica locale. Per questo mi appello ai leader nazionali di Forza Italia e Cinque Stelle perché anche loro comprendano la portata di questa occasione e intervengano in queste ore. La storia del nostro Paese ci insegna che a tutti può capitare di trovarsi, ingiustamente o giustamente, implicati in un processo o addirittura in carcere per mesi in attesa di giudizio. In una situazione del genere chiunque vorrebbe avere una militante del diritto come Rita Bernardini a ricoprire quell’incarico istituzionale". Perugia: Cassazione; responsabilità senza attenuanti per la morte in carcere di Bianzino globalist.it, 10 novembre 2015 Rese note le motivazioni con le quali l’alta Corte ha confermato la condanna per l’agente della polizia penitenziaria che non soccorse il falegname. Giustizia è fatta. Niente attenuanti all’agente della Polizia penitenziaria Gianluca Cantoro che non soccorse Aldo Bianzino, il falegname detenuto nel carcere di Perugia, morto in cella nell’ottobre 2007 per non aver ricevuto assistenza dopo aver lamentato un forte mal di testa dovuto alla rottura di un aneurisma. Lo ha stabilito la Cassazione - nelle motivazioni di conferma della condanna dell’agente, depositate oggi - rilevando che è una vicenda di "ritenuta gravità". Il caso Bianzino è uno dei casi più eclatanti di morte in carcere. Nel verdetto, inoltre, la Cassazione mette in luce l’attendibilità delle testimonianze di altri due detenuti - stranieri - che, dopo una iniziale "titubanza", accusarono Cantoro di essersi disinteressato dalla sorte di Bianzino che aveva chiesto all’agente di chiamare un medico. I supremi giudici osservano che questa esitazione dei due detenuti era dovuta "alla consapevolezza dei rischi cui andavano incontro nel denunciare un agente penitenziario, rischi in seguito verificatisi dal momento che, come sottolineato dalla sentenza di merito, i due sono stati trasferiti in altri istituti di pena". La Suprema Corte, inoltre, respingendo la tesi difensiva dell’agente, osserva che non sono "emersi intenti vendicativi da parte dei due accusatori nei confronti del Cantoro". Ad avviso degli ‘ermellini, la sentenza con la quale la Corte di Appello di Perugia, il sedici aprile 2014, ha accertato come e perché Bianzino è morto mentre era affidato dalla sorveglianza dello Stato, ha una "motivazione logica e coerente" e "non merita censure". In proposito, la Cassazione afferma che i giudici dell’appello "hanno anche giustificato la compatibilità della ricostruzione dei fatti operata" dai due detenuti stranieri, accusatori di Cantoro, "con gli accertamenti medici legali sull’ora del decesso del Bianzino, precisando che la morte è stata causata da una emorragia sub aracnoidea provocata dalla rottura di un aneurisma che non ha provocato l’immediato decesso". "Il Bianzino - prosegue la sentenza della Cassazione - si sarebbe sentito male poco dopo la mezzanotte e avrebbe suonato il campanello per attirare l’attenzione del Cantoro, che però non ha avvertito il medico; e la malattia sarebbe progredita nella notte, manifestandosi con un forte mal di testa che avrebbe portato Bianzino ad aprire al finestra per tentare di alleviare il dolore e prendere aria; il decesso sarebbe avvenuto poche ore dopo". Dopo aver inizialmente chiesto aiuto suonando il campanello per farsi aiutare dal Cantoro, Bianzino potrebbe non essere stato in grado di reiterare ad altri agenti la richiesta di aiuto in quanto "come sostenuto anche dai consulenti medici, non può escludersi che abbia perso i sensi o che si sia assopito a causa del progredire della malattia". Per quanto riguarda il no alla concessione delle attenuanti, i supremi giudici la ritengono una scelta "coerente" con "riferimento alla ritenuta gravità del fatto, in rapporto al ruolo svolto dall’imputato e al contesto in cui si è verificata al vicenda, sottolineando la reiterazione delle condotte omissive che hanno portato l’imputato a disinteressarsi delle richieste di aiuto di un detenuto". Cantoro è stato condannato definitivamente a un anno di reclusione per omissione di atti di ufficio a conclusione dell’udienza svoltasi in Cassazione lo scorso quattro giugno. Per quanto riguarda la condanna del Ministero della giustizia, in quanto datore di lavoro di Cantoro, a risarcire i figli e della moglie di Bianzino, per la morte del loro congiunto, la Cassazione ha stabilito che l’entità della cifra deve essere stabilita in una apposita causa civile in grado di appello. I familiari di Bianzino sono stati difesi da Massimo Zaganelli e Fabio Anselmo il legale che si occupa anche della morte di Giuseppe Uva e di quella di Stefano Cucchi. Lucca: Mia Pisano, nuovo Garante dei detenuti "ecco come intendo operare" di Lodovico Poschi Il Tirreno, 10 novembre 2015 È una donna, ha 33 anni e due lauree: una in diritto internazionale con percorso formativo in diritto penitenziario, l’altra in diritto sportivo. Mia Pisano, patentino di procuratore sportivo e collaboratrice in uno studio legale lucchese, riceverà domani, mercoledì 11 novembre, l’investitura ufficiale di garante dei detenuti dalle mani del sindaco Tambellini. Che non l’ha nominata direttamente, ma attraverso un bando a cui si doveva affidare la propria candidatura. Alla fine, dopo una burrascosa seduta, è arrivato il via libera del consiglio comunale con 25 voti a favore, due contrari e un astenuto. "Sono stata accusata da un paio di consiglieri di avere scarso curriculum - dice la dottoressa Pisano -, ma credo invece di aver convinto la commissione di avere i requisiti necessari per ricoprire questo delicato incarico. Il sindaco poteva anche andare a nomina diretta, ma ha preferito scegliere la strada del band pubblico per valutare candidature spontanee". Che cosa l’ha spinta a partecipare al bando? "Conosco il diritto e in particolare quello penale. All’Università ho fatto un percorso formativo proprio in questo campo, poi ho svolto anche uno stage presso l’ufficio del Gip di Lucca (il giudice per le indagini preliminari, ndr), che mi ha portato spesso ad entrare in carcere in occasione degli interrogatori. Ho tante idee e una gran voglia di mettermi al lavoro". Finalmente anche Lucca si è dotata di questa figura… "Siamo stati gli ultimi in Toscana, nonostante da più parti si fosse sollecitato questo passaggio. Sino ad oggi la responsabilità ricadeva sul garante regionale, Franco Corleone, figura istituzionale che ha compiti di coordinamento più generale. La mia elezione riempie un vuoto normativo ma direi soprattutto di carattere strettamente operativo". Come intende operare? "Mercoledì riceverò l’investitura dal sindaco e venerdì sarò a Firenze per l’assemblea nazionale di tutti i garanti italiani. Sabato o al massimo lunedì sarò al S. Giorgio per avere il primo contatto col direttore e le altre componenti che operano all’interno della struttura carceraria. Preciso che lavorerò su base volontaria, ma chiederò al sindaco un minimo di dotazione per svolgere le mie funzioni". Da dove pensa di partire? "Intendo basarmi sulle relazioni fornite da Corleone, l’ultima delle quali, a seguito della visita del 22 settembre scorso, parlava di una situazione generale leggermente migliorata ma con forti criticità nell’infermeria, un’unica stanza che ospita tre scrivanie accanto al letto per i pazienti e ai presidi medici necessari. Occorre invece recuperare spazi separati per malati e personale, con accesso diretto al bagno e soprattutto in un’adeguata igiene". Già, un carcere, ormai è noto, che sotto questi aspetti lascia molto a desiderare… "Sulla struttura ho le mie idee, ma siccome non rientra fra le mie competenze preferisco tenerle per me. Il mio compito è quello di vigilare affinché all’interno del carcere non siano cancellati i più elementari diritti dell’uomo. Faccio un esempio: in alcune carceri la doccia viene concessa una volta ogni quindici giorni, questo non è un trattamento umano. Ecco, partendo dai bisogni anche più elementari intendo preparare una relazione per avviare un progetto di media-lunga durata". Lucca però, rimane una struttura con caratteristiche de tutto particolari. "E su questo si può intervenire ben poco, così come bisogna tener conto che il S. Giorgio non è un carcere di lunga detenzione. Ma non per questo si devono trascurare le condizioni di vita di vi trascorre anche solo qualche mese di detenzione, che devono essere assicurate come in qualunque altra struttura. Conosco bene il carcere di Massa e mi piacerebbe prenderlo come esempio da seguire. All’interno del S. Giorgio operano tante associazioni che svolgono un lavoro importante per aiutare i detenuti a migliorare se stessi e poter reinserirsi nella società una volta usciti. Ecco, il mio obiettivo è riuscire ad integrare queste attività rieducative a condizioni di vita degne di questo nome". Como: Ucpi; asilo del carcere del Bassone in pessime condizioni, chiesto il trasferimento Il Giorno, 10 novembre 2015 Unione camere penali: "Lo si riconosce solo dai disegni sui muri". Con una lettera inviata al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Unione Camere Penali chiede l’immediato trasferimento delle madri con i loro bambini e la chiusura della "area nido"che ha carenze igieniche e strutturali. La richiesta nasce dalla visita fatta a Como il 22 ottobre scorso, quando i rappresentanti dell’Osservatorio Carcere hanno constatato la presenza di quattro donne, detenute assieme ai loro bambini. "Tale incresciosa circostanza - dicono - sappiamo essere comune anche ad altri istituti di pena. Nel ricordare l’impegno assunto dal Ministro, di arrivare a "quota zero" entro la fine dell’anno, vogliamo denunciare l’assoluta urgenza d’intervenire nella Casa Circondariale di Como". L’area nido fu chiusa alla fine del 2013, con il trasferimento delle madri all’istituto di Bollate, ma recentemente ne è stata disposta la riapertura. "Lo spazio dedicato - prosegue l’intervento - lo si riconosce solo dai disegni sui muri. Una stanza accoglie una donna con un bambino appena nato, mentre in un altro locale vi sono le altre tre, una delle quali madre di due gemelle. Il bagno, situato fuori dalle stanze, è comune ed è costituito da box docce e box wc aperti. Le condizioni igieniche sono pessime, con un lavandino che perde acqua. Spigoli e scalini non garantiscono l’incolumità dei piccoli, tre dei quali hanno da poco iniziato a camminare. Ai bambini, inoltre, non è consentito guardare oltre il muro di cinta, con gravissime ricadute sulla vista, che vanno ad aggiungersi agli altri concreti pericoli per la salute, dovuti ad ambienti certamente a loro non adatti". Fermo (Ap): due detenuti in semilibertà per fare lavori di pulizia con il Comune Corriere Adriatico, 10 novembre 2015 Comune e Casa circondariale di Fermo hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che prevede il coinvolgimento di alcuni detenuti in attività di pubblica utilità. Il progetto nasce a livello nazionale, da un protocollo firmato dalle carceri italiane e l’Anci. Si tratta di un tentativo concreto per agevolare il reinserimento e l’inclusione sociale delle persone che sono finite nel braccio della legge e che sono prossime all’uscita dalla loro condizione di detenute. "Mi sono incontrato con la direttrice del carcere di Fermo subito dopo il mio insediamento e ho detto sì a questo progetto - esordisce il sindaco-avvocato Paolo Calcinaro -. Sono estremamente soddisfatto e felice che dopo soli 4 mesi si sia concretizzato. Cose come queste mi fanno apprezzare ancor di più l’incarico che ricopro. Con questa convenzione il Comune di Fermo si potrà avvalere del lavoro volontario di alcuni soggetti reclusi, ritenuti meritevoli dall’amministrazione carceraria. In questa maniera si concretizza il valore riabilitativo del carcere, inteso non solo come luogo fisico in cui viene espiata la pena, ma anche come ambiente rieducativo". L’argomento è di particolare importanza dato che la riabilitazione sociale e lavorativa dei detenuti ed ex detenuti non costituisce solo l’occasione per iniziare una vita nuova per i soggetti direttamente coinvolti, ma è un vantaggio per l’intera comunità, oltre a prevenire il fenomeno della recidiva. "La nostra equipe interna - spiega la direttrice del carcere Eleonora Consoli - ha individuato i detenuti che possono partecipare al progetto. Sono due persone che stanno per finire di scontare la pena e sono prossime alla rimessa in libertà". Un intervento lodevole e vantaggioso per il Comune di Fermo, che può contare su forza lavoro gratuita per far fronte alle innumerevoli necessità di decoro urbano, se non fosse che le persone coinvolte, purtroppo saranno solamente due dei sessanta detenuti della casa circondariale e che svolgeranno il lavoro di pubblica utilità solo attorno al carcere e nelle zone limitrofe. "Si tratta di un progetto pilota - sottolinea Nicola Arbusti, direttore dell’Area trattamentale - che speriamo possa essere in futuro ampliato. La nostra è la politica dei piccoli passi. Intanto Fermo è il secondo Comune marchigiano dopo Ancona che ha aderito". L’esiguo numero dei detenuti impiegati nel progetto dipende, oltre che dalla rispondenza a precisi requisiti richiesti dalla normativa penitenziaria, anche dal fatto che al momento presso il carcere di Fermo i posti a disposizione per ospitare questi detenuti sono solo 4. "Purtroppo lo spazio ridotto ci impone un tetto massimo, per ora - precisa il comandante della polizia penitenziaria Nicola De Filippo -. I soggetti coinvolti nel programma, per ovvi motivi, non possono più vivere a stretto contatto con gli altri detenuti perché usufruiscono di un regime di semilibertà. Infatti entrano ed escono dall’istituto tutti i giorni. Il progetto prenderà il via prima di Natale. Noi, come polizia penitenziaria, saremo vigili, ma non li controlleremo a vista. Il servizio prevede 4 ore di lavoro al giorno. In questa maniera il detenuto meritevole, può accedere anche a misure alternative di pena". Lodi: sospetta tubercolosi nel carcere di via Cagnola, i casi ora sono tre di Carlo D’Elia Il Giorno, 10 novembre 2015 Salgono a tre i casi sospetti di tubercolosi riscontrati nel carcere di Lodi della Cagnola. I detenuti ammalati, tutti di nazionalità romena, sono in quarantena. Venerdì mattina hanno accusato sintomi riconducibili a tubercolosi polmonare e tra le mura della struttura di via Cagnola, si è subito scatenato l’allarme che tuttora permane. Intanto si attendono i risultati delle analisi che dovrebbero arrivare nelle prossime ore. Nelle giornate di sabato e domenica, gli agenti della polizia penitenziaria, hanno dovuto limitare i contatti con i detenuti in isolamento respiratorio, in attesa di ulteriori accertamenti. Gli esami strumentali, un semplice test cutaneo, effettuati dai medici dell’ospedale Maggiore di Lodi, sono fondamentali per riuscire a chiarire con esattezza i contorni della vicenda. Intanto l’intero personale operativo nella struttura, che è venuto in contatto con i tre romeni, è stato costretto a lavorare con mascherine e guanti in lattice per evitare ogni tipo di scambio diretto con gli infetti. Da una primissima analisi, i sintomi non hanno potuto escludere la possibilità che si tratti di una forma di tubercolosi polmonare, i cui sintomi sono difficilmente confondibili: dolore al petto, tosse che si accompagna talvolta all’emissione di sangue e febbre. Per questo le prime visite dei medici del carcere e dello staff medico dell’ospedale Maggiore non hanno escluso la possibilità di contagio tra personale e detenuti. I tre giovani infetti, tutti appena ventenni, sono da poco finiti in carcere, in seguito ad una indagine dei carabinieri di Lodi e della Procura, per una lunga serie di furti in diverse zone della Bassa Lombardia. Per questo è da escludere che la malattia possa essere stata contratta in cella. Nel frattempo alla Cagnola i controlli sugli altri detenuti sono quasi conclusi. Per il momento infatti si tratta ancora di un sospetto caso di Tbc, ma in questa fase non si può escludere nessuna diagnosi, visti e considerati che i tre detenuti hanno manifestato dei chiari problemi all’apparato respiratorio. Il ricovero in ospedale, almeno per ora, è stato evitato. La diagnosi in questi casi è tanto più efficace quanto più è precoce, con ripercussioni positive sia per la guarigione del soggetto colpito, sia per la prevenzione del contagio di altre persone. Importante è anche il controllo dei contatti, basato sul monitoraggio periodico delle condizioni di salute dei soggetti che nelle ultime ore sono venute a stretto a contatto con il malato di tubercolosi. Pisa: Uil "troppi detenuti e spazi degradati, gran parte delle celle misura dai 6 agli 8 mq" Il Tirreno, 10 novembre 2015 Spazi ristretti, luoghi che mostrano evidenti segni di degrado e un organico insufficiente a garantire la sicurezza di detenuti e personale. È l’istantanea scattata dalla Uilpa-Penitenziari al termine di un sopralluogo all’interno del carcere Don Bosco. "Abbiamo visitato e fotografato i luoghi di lavoro e, per la prima volta, anche le camere detentive e l’intera struttura - spiega Nicola Di Matteo, coordinatore provinciale della Uilpa-Penitenziari. La Casa Circondariale di Pisa offre il massimo del degrado, proprio all’interno delle celle: camere detentive piccolissime (gran parte delle celle misura dai 6 agli 8 mq), uno spazio ridotto e un sovraffollamento che rappresenta la maggior criticità. La realtà strutturale del carcere pisano risale a più di 80 anni fa e dove nel corso degli anni sono stati fatti solo lavori di "rattoppo", lavori in economia e non risolutivi. Tra i diversi reparti visitati, sicuramente quello messo peggio sia in termini strutturali che a livello igienico sanitario, è il reparto "Giudiziario". Circa gli impianti elettrici, idraulici e di riscaldamento sono vecchissimi e in uno stato di evidente decadimento". Secondo la Uil Le postazioni della polizia penitenziaria dislocate in varie aeree del carcere non sono sempre fisicamente visibili e dove sono presenti, sono logore e inadeguate agli standard di legge e si caratterizzano per la loro "essenzialità", un tavolino e uno sgabello di legno messo in un angolo. Non esistono all’interno della struttura adeguamenti per l’abbattimento delle barriere architettoniche. "L’automazione è praticamente inesistente, in tutto il carcere solo in due postazioni di servizio è presente, il resto e tutto manuale - prosegue Di Matteo - la carenza di organico della polizia penitenziaria rischia di mettere in ginocchio l’istituto: sono una cinquantina i poliziotti in meno". Il personale effettua ogni giorno turni di otto / nove ore, quando ne sono previste sei garantendo sempre e comunque la sicurezza, sia all’interno che all’esterno dell’istituto. "Di fatto - commenta il sindacalista - la polizia penitenziaria spesso si trova da sola, nella scarsità di risorse umane, strumentali ed economiche a dover fronteggiare le inefficienze del sistema talvolta lottando persino contro la burocrazia ministeriale". Alcuni numeri forniti dalla Uil: al momento della visita c’erano 273 detenuti (di cui circa 80% di nazionalità straniera) a fronte di una disponibilità regolamentare di 219. L’organico dovrebbe essere di 250 unità, "ma ne sono amministrati 225 di cui 30 distaccate in altre sedi, 21 impiegate al nucleo traduzioni e 35 impiegate in compiti di ufficio, in definitiva una carenza reale di 55 unità". Reggio Emilia: rissa tra detenuti con lamette e bastoni, coinvolte cinque persone reggionline.com, 10 novembre 2015 Coinvolte cinque persone, prontamente separate dall’intervento del personale penitenziario che qualche giorno fa ne aveva salvata un’altra dal linciaggio Rissa tra detenuti nel carcere reggiano. Intorno alle 15 di ieri è scoppiata una violenta rissa tra detenuti all’interno del carcere reggiano, una sorta di resa dei conti tra magrebini e napoletani con tanto di lamette e bastoni appuntiti ricavati dai piedi dei tavolini presenti nell’edificio. È stato l’unico agente di polizia penitenziaria addetto alla vigilanza del reparto ad allertare i colleghi che sono intervenuti e hanno separato i contendenti provvedendo anche a disarmarli e a sistemarli in luoghi sicuri all’interno della struttura in attesa di venire medicati. "Corre obbligo di evidenziare - ha riferito il segretario provinciale Sappe Michele Malorni - che pochi giorni fa sempre al campo sportivo del carcere, un altro detenuto tunisino è stato letteralmente sottratto al linciaggio che sarebbe avvenuto per mano di una quindicina di altri detenuti grazie al celere intervento del poliziotto penitenziario". Malorni ha quindi lanciato un nuovo grido d’allarme affinché vengano "innalzati i livelli di sicurezza all’interno della struttura penitenziaria, con il ripristino della sala regia e quindi dell’impianto di videosorveglianza, videoregistrazione, anti-scavalcamento, antintrusione e non per ultimo l’integrazione dell’organico del reparto di polizia penitenziaria che a oggi è in carenza di 4 commissari, 11 ispettori uomini, 1 ispettore donna, 11 sovrintendenti uomini, 2 sovrintendenti donne e almeno 20 agenti. Inoltre, non è più rinviabile l’immediata assegnazione definitiva di due 2 funzionari del corpo con funzioni di comandante del reparto e un suo supplente per garantire continuità in una necessaria attività d’intelligence per la gestione dell’attività di comando di una struttura penitenziaria complessa come quella di Reggio Emilia". In ultimo, "invito i vertici dell’amministrazione periferica a seguire le ultimissime direttive impartite dal capo Dap Consolo Santi riguardante le modalità esecutive delle pene detentive e cioè regime aperto per i meritevoli, regime chiuso per i non meritevoli e isolamento cautelativo per i pericolosi e per i trasgressori delle regole interne agli istituti penali, opportunatamente sanzionati con misure esemplari". Milano: apre mostra di disegni "Di sole e d’ombra. Le mamme dell’Icam si raccontano" Agi, 10 novembre 2015 Le mamme milanesi ospiti dell’Icam si raccontano attraverso decine di disegni e un film nell’ambito di un’iniziativa ospitata dalla Biblioteca Fra Cristoforo. Dal 6 fino al 27 novembre è possibile assistere alla mostra allestita nella biblioteca con una selezione di opere realizzate all’interno della struttura dove risiedono donne condannate a una pena carceraria che hanno figli piccoli. Un ambiente accogliente, con asili nido, cucine, ludoteche, in cui alle madri detenute che non possono usufruire di una pena alternativa al carcere viene consentito di tenere con sé la prole, pur rispettando le regole della detenzione. I disegni che compongono la mostra intitolata "Di sole e d’ombra. Le mamme dell’Icam si raccontano", sono stati realizzati nel corso di laboratori svolti all’interno dell’Istituto tra il 2011 e il 2015 e tenuti da Alice Tassan, Ilaria Curti e Vincenzo Samà. Le illustrazioni sono accompagnate dal documentario "Storie aperte - La Paura e la Rabbia" girato da Bianca Maria Neri che racconta le attività di Ana Paula Giolli, un’educatrice italo - brasiliana, ripresa mentre interagisce con mamme e bambini durante un laboratorio di narrazione. Radio Carcere: "Mafia Capitale, anomalie di un processo", di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2015 Lo sciopero della Camera Penale Roma (che non convince), l’eccessiva sovraesposizione mediatica (che danneggia la Giustizia) e l’accusa di mafia (che appare sproporzionata). Per ascoltare la registrazione: www.radioradicale.it/scheda/457960/radio-carcere-mafia-capitale-anomalie-di-un-processo/radio-carcere . Libri: "Oltre le sbarre", l’agente di polizia penitenziaria racconta il carcere e i pregiudizi di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 10 novembre 2015 È uscito da meno di un mese un libro sulle carceri italiane scritto da Dario Esposito, giovane agente di Polizia Penitenziaria. Il libro si intitola "Oltre le sbarre" ed è edito da Falco Editore. L’ho appena finito di leggere e non potevo non farlo occupandomi di detenzione e di detenuti, convinto come sono che il carcere è un fallimento, dove la recidiva è al 68,5 per cento, dove chi entra e chi esce sono sempre le stesse persone: padri, figli, nipoti, cugini che addirittura si alternano nella stessa cella. Ma questo è il mio pensiero. Giusto e necessario perciò sentire e ascoltare il pensiero di chi lavora dentro un carcere, di chi porta una divisa e crede fermamente in quello che fa, per vocazione, per scelta di vita e che dentro la sua uniforme, che è come una pelle, fa sicurezza. Al servizio dello Stato, con orgoglio e rispetto. "Che - come scrive nella prefazione Gianfranco De Gesu, dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria - ha ben chiaro il proprio ruolo e che consegna al lettore un racconto fatto di forza e passione". Dico subito che la lettura di "Oltre le sbarre" è stata una piacevole lettura perché Dario Esposito è uno che scrive col cuore, perché si mette a nudo, mette a nudo le sue certezze e le sue insicurezze e mostra le giornate di chi passa quotidianamente da un mondo all’altro, dal fuori al dentro. Dove il fuori è il concerto di Caparezza, gli incontri e le amiche, insomma la vita di un ragazzo (Esposito oggi ha 31 anni e il suo libro si dipana in un arco di tempo di circa 8 anni, da quando entra giovanissimo nella corpo della Polizia penitenziaria) e il dentro sono i corridoi e le sezioni, l’ordinaria battitura di sbarre, le chiavi che girano, i comandi da eseguire, i passi da fare, l’apertura e la chiusura dei blindi, il giro di conta, il passaggio di consegne... i turni notturni. Tutto sui "binari dei minuti", tutto scandito nel nome della vigilanza e del controllo... "per intuire le ragioni di un atteggiamento, il rischio che si cela in un movimento, la ragione di una frase che fende l’aria". Giornate vere e dense quelle vissute dall’autore di "Oltre le sbarre", le giornate di un ragazzo del sud, "umanità in movimento" che cresce e matura attraverso questo viaggio tra il fuori e il dentro, passando per Montorio Veronese e Chiavari, il centro addestramento di Roma e il carcere di Pavia, l’Istituto per minorenni di Catanzaro e il carcere di Vibo Valentia. Un viaggio tra le storie di colleghi e le storie di detenuti, un cammino che "allarga le vedute" attraverso inquietudini e soddisfazioni: un giorno la sorveglianza e l’aiuto al detenuto che ha appena cercato di uccidersi, il giorno dopo il piantonamento a un detenuto ai domiciliari o il servizio di scorta al processo nell’aula bunker. No, qui non ci sono ricette, dita puntate, barricate: è un venir fuori di emozioni e sentimenti. Vittorie e sconfitte. Dentro un carcere che è "luogo di agonia e rabbia pure per me... una cristalleria e un campo minato" e dove Dario Esposito ("e i tanti come Dario) è "quello che deve capire e risolvere i problemi di chi è dentro". Mentre scrivo sfoglio il libro e a ogni pagina che apro trovo altre chiavi di lettura, altre visioni, nuove scoperte: questo libro è la storia di un lavoro difficile, di un disagio vissuto dagli agenti di polizia fatto di turni spesso massacranti, carenza di organico (36 mila su una pianta organica di 45 mila), suicidi (10-12 all’anno). Un libro che porta allo scoperto storie poco note ma comuni come la "carcerite" che trasforma il carcere in un guscio di protezione. Lo racconta ancora Esposito: "Appuntà - gli dice un detenuto in permesso premio di 48 ore e rientrato dopo 24 - che ci faccio fuori? Qui conosco tutti e tutti mi rispettano. Lavoro, parlo con voi... fuori cosa devo fare?". Dal retro copertina: "Fuori e dentro. Tutti i giorni. Anche se io ho una vita sola, è come se passassi continuamente da un mondo all’altro. È quello che leggo negli occhi di chi incontro, entrando e uscendo. Certo, è ormai una sorta di abitudine, ma non mi piace. O ne ho paura, forse. Poiché la terra è terra e gli uomini sono uomini, non dovrebbe esserci la malattia del baratro. Ma è tutta natura. E la mia pelle di agente di polizia penitenziaria lo sa. Non è un istinto. È respiro e lavoro di ore, mesi, anni. Di pensieri e momenti, di amarezze e scoperte. Un po’ alla volta. Con il ritmo della libertà nella mia strada di ragazzo e con quello dei turni e delle sbarre nei passi". Soprattutto è un libro che denuncia il processo di rimozione del carcere da parte della società: un luogo da tenere lontano, dove isolare il male e buttare la chiave, dove i detenuti non sono più persone e dove anche gli stessi agenti partiscono lo stesso pregiudizio e vengono considerati o aguzzini o corrotti e, come scrive Dario Esposito: "Elenco di numeri, inghiottiti dal vortice delle frasi fatte, dei pensieri incancreniti, dei polveroni vili. Basta il sopruso di un collega e siamo bollati tutti...fa parte di quella manovra alla Ponzio Pilato con la quale la società si scrolla dalle spalle quello che invece dovrebbe affrontareEcco, mi piacerebbe il ponte. Per scongiurare il malanno oscuro...". Alla fine questo "Oltre le sbarre"...tra vertigini e paracadute...è un libro sulla speranza dove al centro di tutto c’è l’uomo, le sue sfumature, i suoi errori, il suo coraggio, le sue responsabilità. L’essere e il dover essere. Senza eroi e senza effetti speciali. Solo un po’ di verità. E per questo lo consiglio. Immigrazione: "l’effetto Aylan" sui giornali è durato una settimana di Matteo Bartocci Il Manifesto, 10 novembre 2015 European Journalism Observatory. Una ricerca condotta sulle testate di 8 paesi europei ha dimostrato che l’uscita della foto del piccolo siriano morto a 3 anni sulla spiaggia di Bodrum ha "spostato" la cronaca a favore degli immigrati. Ma soltanto per una settimana. A fine settembre, anzi, gli articoli critici con l’Europa sull’immigrazione sono aumentati in tutti giornali esaminati. La prima ricerca sulla copertura giornalistica dell’immigrazione nell’Ue dimostra che la foto del piccolo Aylan Kurdi (2 settembre 2015) ha effettivamente spostato in senso favorevole ai rifugiati la cronaca. Ma tale effetto, appunto, ha avuto durata limitata: dopo poco più di una settimana dalla tragedia di Bodrum, i giornali hanno continuato a raccontare la crisi europea dell’immigrazione esattamente come prima, peggio di prima. Infatti, alla fine di settembre, tutti i giornali esaminati riportavano notizie meno positive verso i profughi rispetto a un mese prima. La ricerca - la prima di questo genere - è stata condotta dall’Ejo, European Journalism Observatory. I ricercatori hanno preso in esame testate di 8 paesi europei (Lettonia, Gb, Germania, Polonia, Italia, Repubblica Ceca, Portogallo e Ucraina) rappresentative di varie posizioni (per l’Italia sono stati considerati il Giornale, Repubblica e Corsera) e hanno catalogato gli articoli sull’immigrazione usciti due giorni prima e due giorni dopo alcune date chiave del mese di settembre: morte di Aylan Kurdi (2 settembre), reintroduzione dei controlli alle frontiere della Germania (13 settembre), vertice Ue del 23. Secondo gli studiosi dell’Ejo, la foto del piccolo Aylan, morto a 3 anni sulla spiaggia turca di Bodrum, ha cambiato la cronaca giornalistica in senso più favorevole e simpatetico verso gli immigrati in particolare in quattro paesi: Italia, Gb, Portogallo e Germania. Nei giorni successivi alla morte del bambino, gli articoli positivi verso gli immigrati sono triplicati in Germania, Portogallo e Italia mentre sono raddoppiati in Gran Bretagna. Tuttavia, già al 10 del mese, in tutti i giornali esaminati il numero di storie favorevoli è tornato ai livelli di agosto. In Gran Bretagna, in particolare, prima della morte di Aylan gli articoli favorevoli ad accogliere più immigrati erano praticamente zero, sono cresciuti nella settimana successiva allo scatto della foto per tornare a zero a metà mese. Un dato che dimostra un inequivocabile "picco emotivo" in tutti i paesi esaminati ma non un cambiamento profondo o a lungo termine. La ricerca dimostra anche che i giornali dell’Europa occidentale sono in generale più compassionevoli verso gli immigrati mentre quelli dell’Europa dell’Est (Rep. Ceca, Polonia, Lettonia e Ucraina) sono rimasti generalmente, "negativi, privi di compassione e anti-Ue" con l’unica eccezione della Gazeta Wymborcza in Polonia. Tra i giornali più costantemente negativi verso gli immigrati a livello europeo spicca il Giornale della famiglia Berlusconi. Da notare che alla fine del mese, mano a mano che la gestione della crisi passava nei vari organismi politici dell’Unione, in tutte le testate le storie sugli immigrati sono diminuite del 50-80% e sono cresciuti gli articoli eurocritici. La logica dell’emergenza non passa mai, ma produce sprechi che si potrebbero evitare di Filippo Miraglia (Arci) Il Manifesto, 10 novembre 2015 Profughi. Una migliore organizzazione potrebbe far risparmiare allo Stato centinaia di milioni. Il sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia è caratterizzato, oramai da 5 anni (dalla cosiddetta Emergenza Nord Africa) da un modello stabilmente emergenziale che produce molti effetti negativi e soprattutto non garantisce risposte che rispettino la dignità delle persone, lasciando al caso la possibilità di incrociare nel proprio percorso strutture adeguate e operatori competenti. A metà ottobre 2015 erano circa 99mila le persone ospitate in strutture d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati finanziate dallo Stato. Di queste 71mila circa (il 72% del totale) sono ospitate nei CAS (Centri d’Accoglienza Straordinari), gestiti dalle prefetture attraverso convenzioni con organizzazioni private (non profit, ma molte profit) che spesso sono operatori turistici o organizzazioni prive dell’esperienza necessaria. Questi 71mila posti letto si trovano in 3090 centri di accoglienza, molto diversi tra loro (piccoli, grandi e i c.d. HUB), i cui gestori devono rispettare quanto prescritto dalle convenzioni, ma restituiscono alle prefetture solo una fattura e delle relazioni periodiche, senza nessun altro controllo definito. 22mila persone circa sono invece ospitate in 430 progetti Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), gestito dai comuni in convenzione con organizzazioni sociali di comprovata esperienza. La rete Sprar è coordinata dal Servizio Centrale, che risponde all’Anci. Questa rete garantisce standard uguali in tutta Italia, vi si accede attraverso un bando nazionale (rivolto ai comuni) e prevede controlli periodici e una rendicontazione dettagliata delle spese. Due modelli molto diversi, che prevedono servizi, competenze, controlli e procedure diverse e che danno risultati diversi. Ci sono poi 13 grandi centri governativi (Cara) per circa 7000 posti, anche questi gestiti da organizzazioni private, generalmente non profit, con esperienza, che forniscono i servizi previsti dalla convenzione, con obbligo solo di fattura e relazioni periodiche, senza rendiconti dettagliati sulle spese. L’approccio emergenziale ha determinato la prevalenza di strutture d’accoglienza reperite e gestite in regime straordinario, con diversi effetti negativi, anche sul piano della spesa. Proviamo a sintetizzare le principali conseguenze negative della mancanza di programmazione e del ricorso a procedure e strutture straordinarie. Innanzitutto affidare l’accoglienza a società e organizzazioni non competenti comporta che nel periodo di ospitalità il percorso di integrazione non venga avviato o venga avviato male. Non viene curata la relazione tra gli ospiti e il territorio, con conseguenti conflitti ed episodi di razzismo. Il richiedente asilo non viene preparato per il colloquio con la Commissione esaminatrice. La formazione linguistica è per lo più inadeguata. E così, quando lo straniero esce dal centro, deve ricominciare da capo in una condizione addirittura peggiore di quella di partenza. La scarsa preparazione ai colloqui con le Commissioni genera esiti negativi e quindi ricorsi, con ulteriori aggravi per lo stato. A ciò va aggiunto che il tempo passato in queste strutture (in media un anno) per la lentezza degli uffici coinvolti, impedisce una rotazione e quindi aumenta la necessità di trovare posti, allargando la rete dentro l’area della straordinarietà (Cas). Inoltre, le persone e le famiglie coinvolte hanno diritto al welfare pubblico, al quale provvedono gli enti locali che, nella maggior parte dei casi, devono fornire servizi senza ricevere risorse aggiuntive e senza poter programmare gli interventi. Infine va detto che i tempi per la formalizzazione della domanda d’asilo e per l’accesso al colloquio con la Commissione sono troppo lunghi (6 mesi per presentare la domanda e oltre un anno per il colloquio). Nel 2015 la spesa per le 42 Commissioni ammonta a circa 4,3 milioni di euro (ogni componente riceve un gettone di 90 euro). La spesa per l’accoglienza ammonta a circa 1,162 miliardi di euro. Se i tempi d’attesa diminuissero, ad esempio raddoppiando il personale delle Commissioni, lo stato spenderebbe circa 9 milioni per le commissioni e risparmierebbe diverse centinaia di milioni per l’accoglienza. Più strutture e personale competente, più personale qualificato per le Commissioni Territoriali, potrebbero far risparmiare allo stato centinaia di milioni e generare percorsi virtuosi di integrazione sociale. Per ora si è scelta la strada opposta. Rivolta a Christmas Island, si ribella la prigione degli immigrati di Guido Caldiron Il Manifesto, 10 novembre 2015 Australia. Mentre nel Paese cresce la destra anti-islamica. Qui e nel Pacifico Camberra ha costruito fortezze per richiedenti asilo e profughi. A scorrere le immagini diffuse dalle maggiori emittenti televisive internazionali è davvero difficile credere che quanti sono reclusi nel centro di detenzione dell’isola Christmas possano rappresentare una qualche minaccia per la società australiana. Eppure in questa lingua di terra sperduta in mezzo all’Oceano Pacifico e distante più di 1600 chilometri dalle coste dell’Australia, ma poche centinaia da quelle dell’isola indonesiana di Java, le autorità di Camberra hanno costruito una delle molte prigioni nelle quali sono costretti migliaia di richiedenti asilo e di migranti considerati in posizione irregolare. Donne, uomini e anche molti bambini tenuti lontano dal territorio australiano e reclusi in autentiche fortezze disseminate in tutta quest’area del Pacifico, altri centri di detenzione sorgono sull’isolotto di Nauru o a Manus Island in Papua-Nuova Guinea, in uno stato che Amnesty International ha più volte definito lesivo della dignità umana e esposti al rischio di subire violenze e abusi sessuali. E proprio le dure condizioni di vita che regnano in questi luoghi sarebbero state all’origine della rivolta scoppiata ieri nel centro per richiedenti asilo dell’isola Christmas: a far precipitare una situazione già tesa, sarebbe stato in particolare il tentativo di fuga, avvenuto nel weekend, di un giovane kurdo iraniano, identificato come Fazel Chegeni, poi trovato morto ai piedi di una parete di roccia. Poco prima di tentare l’evasione, l’uomo aveva spiegato ai suoi compagni di cella di non sopportare più quella condizione e di voler passare qualche ora in libertà. Confermando a sera che la rivolta era ancora in corso, il portavoce del ministero dell’immigrazione australiano ha spiegato che le guardie hanno scelto di ritirarsi dagli edifici per ragioni di sicurezza; alcuni locali sono stati poi dati alle fiamme da parte di gruppi di detenuti. "Come molti altri sull’isola, Fazel soffriva delle conseguenze di una lunga detenzione arbitraria", ha spiegato al quotidiano Sidney Morning Herald, Ian Rintoul, esponente di uno dei maggiori gruppi di assistenza ai rifugiati che ha aggiunto come questa rivolta rappresenti "un’esplosione di rabbia di fronte alle morti assurde e alla brutalità che i detenuti subiscono ogni giorno". Negli ultimi anni, l’Australia ha messo in atto una politica rigidissima in materia di immigrazione e di asilo che ha suscitato le dure critiche della organizzazioni umanitarie che hanno sottolineato come in molti casi le autorità operino in aperta violazione del diritto internazionale. Le imbarcazioni che cercano di avvicinarsi alle coste senza permesso sono sistematicamente respinte dalla marina australiana e quanti riescono in ogni caso a raggiungere il paese sono trasferiti nelle prigioni sparse in vari punti del Pacifico e questo anche nel caso si tratti di famiglie che hanno regolarmente presentato domanda come rifugiati politici. Il dibattito pubblico è del resto da tempo dominato dai toni allarmisti sull’invasione dei migranti e sulla minaccia del terrorismo islamico. In un paese di 24 milioni di abitanti, l’incrementro della popolazione di fede musulmana, stimata in circa 500mila unità è al centro di continue polemiche. E l’egemonia elettorale del Partito liberale, tradizionalmente su posizioni ultraconservatrici, che a settembre ha sostituito il premier Tony Abbott con Malcolm Turnbull, certo non aiuta a migliorare il clima. Così, ogni fatto di cronaca contribuisce ad alimentare paure e sospetti. A Sideny, dopo la presa d’ostaggi da parte di un uomo che diceva di appartenere all’Isis, avvenuta in un caffè del centro cittadino alla fine dello scorso anno e conclusasi con due vittime, all’inizio di ottobre un ragazzo di 15 anni proveniente dal Kurdistan iracheno ha esploso alcuni colpi di pistola contro un commissariato di periferia ferendo a morte un impiegato prima di essere a sua volta ucciso dagli agenti. Due settimane più tardi, è stato il leader islamofobo olandese Geert Wilders a fare da padrino a Perth al lancio dell’Australian Liberty Alliance, un movimento che si batte per "fermare l’islamizzazione del paese". Questo, mentre negli ultimi tre mesi manifestazioni dell’estrema destra e delle reti di solidarietà ai migranti hanno avuto luogo in varie parti del paese. Arabia Saudita: quelle cose che Renzi non dice al Re Salman di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 10 novembre 2015 Forse della lotta al terrorismo. Tantissimo dei rapporti commerciali tra i due Paesi. Di certo non gli parlerà di diritti umani, dei 30.000 prigionieri politici nelle carceri saudite, del blogger Raif Badawi incarcerato e frustrato in pubblico e dei dissidenti crocifissi. E chissà se gli parlerà delle armi che l’Italia vende all’Arabia Saudita, primo compratore al mondo. Come le bombe made in Italy Mk84 e Blu109, ritrovate inesplose in diverse città yemenite. Matteo Renzi è in Arabia Saudita per una visita lampo di 24 ore. Due grandi temi in agenda: lotta al terrorismo, da alleati nella coalizione internazionale anti-Isis, e rapporti commerciali. Il premier incontrerà il re e il principe ereditario, visiterà il cantiere della metropolitana "driverless" (con vagoni senza autista) di Riad, realizzata da un consorzio italiano. Di certo non parlerà di diritti umani, dei 30mila prigionieri politici nelle carceri saudite, del blogger Raif Badawi incarcerato e frustrato in pubblico e dei dissidenti crocifissi. Chissà se invece parlerà delle armi che l’Italia vende all’Arabia Saudita, primo compratore al mondo. Come le bombe made in Italy Mk84 e Blu109, ritrovate inesplose in diverse città yemenite. O le tonnellate di ordigni caricate sul Boeing 747 decollato il 29 ottobre dall’aeroporto di Cagliari con destinazione la base militare di Taif della Royal Saudi Armed Forces. È il mercato, bellezza! Peccato che da sette mesi l’Arabia, con l’appoggio dei paesi sunniti della regione, bombarda lo Yemen per contrastare il movimento sciita Houthi, senza mandato internazionale e con l’esplicita condanna dell’Onu. Finora il conflitto ha causato almeno 4mila morti (400 bambini), 20mila feriti (di cui almeno la metà civili), un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari. "La Farnesina - dice Giorgio Beretta dell’osservatorio Opal - non ha mai smentito che le forze militari saudite stiano impiegando anche ordigni prodotti in Italia". Invece la nostra legge 185 parla chiaro: "Vieta espressamente l’esportazione di armamenti "verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite". Dopo un appello di Amnesty International, Rete Disarmo e Opal, sono state depositate in Parlamento alcune interrogazioni per chiedere se l’Italia venda armi agli sceicchi impegnati nella guerra contro lo Yemen. Il ministro degli Esteri Gentiloni continua a trincerarsi dietro il silenzio. Nel frattempo definisce il viaggio in Arabia l’occasione "per rendere più forte e vitale l’antica amicizia", che nel 2014 ha fruttato un interscambio da 9 miliardi di euro. Proprio in occasione dell’arrivo di Renzi a Riad, alle proteste pacifiste si è aggiunta la voce della Comunità Papa Giovanni XXIII. "Siamo indignati - dice Giovanni Ramonda, responsabile generale del movimento cristiano - contro la politica del Governo italiano che, aggirando la legge 185 e disattendendo le richieste dell’Onu di cessare i bombardamenti, alimenta questo dramma con i suoi carichi di morte. Chiediamo l’immediato blocco di ulteriori consegne". Siamo nel momento storico in cui nel mondo ci sono più rifugiati (60 milioni) dal 1945, Papa Francesco parla di "Terza guerra mondiale a pezzi". Alimentare la violenza vendendo armi nel Medio Oriente in fiamme è ipocrita: "L’Italia - continua Ramonda - con una mano siede ai tavoli negoziali, operando a parole per la cessazione delle ostilità, mentre con l’altra attraverso la vendita di armi consente al conflitto di proseguire. Quanti altri morti, feriti, sfollati, rifugiati, a quanti drammi ancora dovremo assistere, prima che il nostro governo inizi a contribuire concretamente alla fine di questa strage?". Da decenni, dal sostegno al terrorismo in Cecenia fino al finanziamento dell’Isis in Siria, gli "amici" sauditi sono in prima linea nel fomentare l’estremismo, seguendo la corrente di Islam, quella wahabita, che fa da religione di Stato ed è la più intransigente di tutta la galassia musulmana. Ma l’impunità garantita ai sauditi ha radici lontane, economiche e politiche. All’inizio degli anni Settanta, l’alleanza con il primo estrattore al mondo di greggio ha messo l’Occidente al riparo dalla crisi petrolifera del 1973. E dalla fine dello stesso decennio, l’asse con l’Arabia Saudita (e gli alleati sunniti) è stato funzionale a contrastare l’Iran sciita, soprattutto dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Prima o poi bisognerà fare i conti con il prezzo - molto caro - pagato ai petrodollari: terrorismo, instabilità, indifferenza ai diritti umani di cui, per altri Paesi, così tanto ci preoccupiamo. Pare essersene accorto Barack Obama, insistendo per l’accordo sul nucleare con l’Iran, che tanto ha fatto arrabbiare i sauditi. In ogni caso, che qualcosa della strategia occidentale in Medio Oriente non abbia funzionato, è sotto gli occhi di tutti. Sicuri che vendere armi agli sceicchi in guerra sia la mossa giusta? Per firmare l’appello di Amnesty International "Stop ai trasferimenti di armi in Yemen!" http://appelli.amnesty.it/conflitto-yemen/. Stati Uniti: l’Italia chiederà la grazia per Chico Forti di Daniele Peretti Il Trentino, 10 novembre 2015 L’annuncio è dell’onorevole Mauro Ottobre che nei giorni scorsi ha visitato in Florida il detenuto trentino in carcere con l’accusa di omicidio. La diplomazia politica potrebbe diventare la via alternativa a quella legale per ridare la libertà a Chico Forti. A promuoverla è l’onorevole Mauro Ottobre che ieri ha illustrato in una conferenza stampa tempi e modalità di questa iniziativa che ha come termine massimo, il viaggio che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, farà a breve negli Stati Uniti. Dovrebbe essere lui il portatore della richiesta di grazia fatta dallo stesso Stato italiano e che Obama potrebbe concedere annoverandola tra i provvedimenti di clemenza che normalmente caratterizzano il fine mandato. L’onorevole Ottobre il 2 di novembre si è intrattenuto in carcere con Chico Forti dalle 11 alle 17, accompagnato dal nuovo Console di Miami Maria Gloria Bellelli, alla quale è stata illustrata tutta la vicenda. Tecnicamente la mozione è già stata presentata, ma i tempi del suo iter burocratico potrebbero impedirle di essere emendata prima della partenza del Presidente, prevista per fine mese. "Se così fosse, la richiesta di grazia diventerebbe - ha osservato Ottobre - una richiesta privata da parte di Mattarella che però avrebbe identico valore ed in considerazione dell’andamento delle vicende giudiziarie che hanno visto protagonisti cittadini americani, ci potrebbero essere dei buoni presupposti". La richiesta di grazia si basa su tre punti: il più forte è la mancata applicazione "dell’accordo di Miranda" che prevede l’obbligo della presenza di un difensore agli interrogatori che negli Stati Uniti è un diritto acquisito ed imprescindibile. Ottobre spiega anche come questa iniziativa sia stata presa in accordo con l’avvocato difensore Tacopina che sarebbe pronto a presentare l’istanza di revisione del processo che comunque andrebbe al 2016. "Quella della grazia è una via alternativa a quella legale e decisamente più breve. L’avrebbe potuta chiedere anche Chico, ma non l’ha fatto perché per avviarne il percorso si sarebbe dovuto riconoscere colpevole, ammissione nemmeno presa in considerazione sulla base della certezza dell’innocenza". Ottobre ci tiene anche a tranquillizzare amici e parenti di Chico Forti sulle sue condizioni di salute: "Sta bene ed è tranquillo. È riuscito a ritagliarsi uno spazio di tranquillità in una situazione per nulla bella. I suo compagni sono infatti detenuti con pene lunghe o condannati a morte, ma a Chico fa riferimento una classe di quaranta studenti ai quali insegna italiano e spagnolo ed è anche l’autore della cartellonistica interna". Gran Bretagna: Manchester, si schianta il drone che portava droga ai detenuti Agi, 10 novembre 2015 Un drone che trasportava "materiale illegale" destinato quasi sicuramente ad alcuni carcerati è precipitato nel cortile di un istituto penitenziario di Manchester. Già nei mesi scorsi le forze dell’ordine britanniche avevano lanciato l’allarme legato a questa nuova modalità messa in atto dalle associazioni criminali per consegnare ai prigionieri armi, droga o telefoni cellulari. Ora, appunto, stando a quanto riporta il Manchester Evening News, si è registrato il primo vero incidente di questo genere, con un apparecchio volante - di quelli che ora è possibile comprare persino nei supermercati - che trasportava droga e telefonini. Nella città del nord dell’Inghilterra sono così state aperte le indagini su chi fosse il reale mittente della spedizione finita con lo schianto del mezzo e soprattutto su chi fossero i destinatari, che si presume fossero a conoscenza del tentativo di consegna. Secondo alcune fonti anonime intervistate dal quotidiano, è almeno "da un anno" che a Manchester vengono effettuate queste tanto inconsuete quanto illegali spedizioni, anche se le autorità cittadine non hanno confermato questa indiscrezione. "Per l’operazione servono in genere 30 secondi - ha spiegato una di queste fonti - e il tutto è facilitato dal fatto che nessuna delle telecamere di sorveglianza è puntata verso il cielo". Secondo le ricostruzioni, ai carcerati basterebbe arrampicarsi sui termosifoni per arrivare ad ‘acchiapparè il drone, svuotarlo e poi rilanciarlo verso il mittente. Il fenomeno, che si teme possa arrivare presto anche nel resto d’Europa, del resto pare essere partito proprio dal Regno Unito. "È come ordinare dal cinese - ha aggiunto la fonte riportata dal Manchester Evening News - e questo significa che è facile e redditizio, considerando che una busta di eroina da 20 sterline se consegnata all’interno può fruttarne 100, mentre uno smartphone viene venduto a un prezzo che oscilla fra le 800 e le 1.000 sterline". Stati Uniti: in California i detenuti transessuali potranno operarsi a spese dello Stato di Benedetta Frigerio Tempi, 10 novembre 2015 Non solo potrà cambiare sesso a spese dello Stato, ma potrà essere trasferito nella prigione femminile. La battaglia legale di Rodney J. Quine, ormai noto come Shilon Quine, condannato all’ergastolo per omicidio, sequestro e rapina, è servita a fare della California il primo Stato in cui tutti i detenuti potranno operarsi a spese dei contribuenti e scontare la pena nel carcere del sesso a cui si sentono di appartenere. Questi nuovi diritti sono stati riconosciuti dai giudici con due sentenze emesse ad aprile e agosto, ma fino ad ora erano rimasti sulla carta, visto che erano stati accordati a un uomo in stato di libertà vigilata. La California ha adottato delle linee guida generali per i 363 detenuti uomini che affermano di essere donne e le 22 femmine che si dicono maschi. Le nuove regole includono una commissione costituita da due medici generici, due psichiatri e due psicologi che valuteranno quando si può procedere alla rimozione e ricostruzione dell’apparato genitale del detenuto, per un costo che varia dai 50 ai 100 mila dollari solo per l’operazione, senza considerare le terapie ormonali (500-3.000 dollari). Per accedere al servizio a carico dello Stato, un detenuto deve manifestare ripetutamente per "almeno due anni" "il desiderio di vivere ed essere accettato come membro del sesso che preferisce, incluso il desiderio di rendere il suo corpo il più coincidente possibile con il sesso preferito". Per quanto riguarda il trasferimento nel carcere del sesso opposto a quello di nascita si legge invece che "non ci sono controindicazioni". Perciò, quando Quine sarà operato, diverrà il secondo detenuto maschio in un carcere femminile. Prima di lui Richard Masbruch, dopo aver violentato una donna ed essersi castrato, era stato trasferito e poi ripetutamente spostato da un carcere all’altro a causa delle numerose minacce e aggressioni verso le detenute. Kris Hayashi, direttore esecutivo del Transgender Law Center di San Francisco, ha sottolineato che la decisione "è particolarmente importante perché il tasso delle persone transessuali in carcere è di sei volte superiore a quello della popolazione generale". Joyce Hayhoe, direttore dell’agenzia indipendente che sovrintende l’assistenza medica carceraria, ha definito le linee guida "abbastanza conservative", riporta il New York Times, dal momento che non verranno pagati trattamenti ulteriori come la chirurgia plastica cosmetica.