E se la Commissione Giustizia della Camera si collegasse via Skype con i detenuti? Il Mattino di Padova, 9 marzo 2015 La redazione di Ristretti Orizzonti tempo fa aveva lanciato la campagna per "liberalizzare" le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari. La settimana scorsa abbiamo "suggerito" alla Commissione Giustizia della Camera, che sta esaminando due proposte di legge in materia, di ascoltare le testimonianze dei figli delle persone detenute, ora "osiamo" chiedere al Presidente della Commissione, Donatella Ferranti, una audizione via Skype direttamente durante i lavori, con i detenuti della redazione. Il carcere alla lunga ti divora l'anima, ma non può fare nulla contro l'amore Questa notte in cella non riuscivo a chiudere occhio perché ero in ansia per l'attesa di ricevere una buona notizia che aspetto da ben ventiquattro anni dalla magistratura di sorveglianza ed invece di contare le pecore mi sono messo a pensare che cosa dire se eventualmente la Commissione Giustizia decidesse di ascoltarci. E mi è venuto in mente di raccontare il primo colloquio che ho fatto nel lontano 1992 quando ero sottoposto al regime del 41 bis (il cosiddetto carcere duro). Al momento del mio arresto mia figlia Barbara aveva otto anni, e mio figlio Mirko sei, loro mi sono venuti a trovare in tutte le carceri d'Italia dove sono stato. E ora mi stanno venendo a trovare anche i miei due nipotini, Lorenzo e Michael. Ho visto crescere i miei figli, e ora i miei nipotini, tra sbarre e cemento. I colloqui più brutti li ho fatti quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis perché avevo solo un incontro al mese di un'ora. E veniva effettuato con una parete di vetro che mi divideva dai miei familiari. Mi ricordo, come se fosse ieri, il primo colloquio che ho fatto subito dopo che il Ministro della Giustizia mi aveva sottoposto al carcere duro. La mia compagna mi era venuta subito a trovare da sola, perché a quel tempo non volevo che i miei bambini mi vedessero con un vetro davanti. Mi ricordo che quel giorno mi avevano avvisato di prepararmi verso le undici del mattino. Uscito dalla cella, mi avevano subito preso in consegna tre guardie, che mi portarono in una stanzetta per la perquisizione. Mi fecero spogliare nudo e ispezionarono con attenzione tutto il mio vestiario. Dopo attesi un quarto d'ora davanti ad una porta blindata. Mi batteva forte il cuore, mi capitava sempre tutte le volte che la mia famiglia mi veniva a trovare. Ad un tratto il blindato si aprì automaticamente ed entrai dentro la sala colloquio. I locali colloqui degli "Assassini dei Sogni", come chiamo io il carcere, si assomigliano tutti, ma mi ricordo che la sala visite del carcere di massima sicurezza di Cuneo era più brutta e spoglia delle altre. Notai che non c'erano finestre e c'era un odore che sapeva di sofferenza. Non attesi molto e quando vidi entrare la mia compagna cercai di sorridere perché non si accorgesse che ero preoccupato. Lei aveva l'aspetto stanco, ma era bellissima. La vidi infreddolita e preoccupata. E mi si gelò prima il sangue, poi le ossa e infine il cuore a pensare a tutta la lunga strada che aveva fatto per vedermi per solo un'ora di colloquio. Lei appena vide lo spesso vetro tra di noi si portò le mani al viso e scrollò sgomenta la testa. Era la prima volta che ci vedevamo senza poterci abbracciare e nei suoi occhi passò un'ombra di disappunto. Poi dalla mia postazione alzai il citofono. Lei fece altrettanto dalla sua. Parlammo contemporaneamente. E ci guardammo dritti negli occhi. Prima di riprendere a parlare le sorrisi di nuovo. E compresi subito che il mio sorriso non l'aveva ingannata perché anche lei sorrise con la mia stessa espressione triste. Capii all'istante che i nostri sorrisi erano preoccupati per i nostri figli che sarebbero cresciuti senza il loro papà accanto. E che li avrei potuti vedere poco e sempre con un vetro davanti, senza poterli mai abbracciare e toccare. Mi sentii le gambe molli. E decisi di sedermi. Lei fece altrettanto. Dai suoi occhi capii che si rimproverava di avermi lasciato fare le scelte sbagliate che avevo fatto. Volevo farle una carezza per consolarla, ma non potevo perché c'era un maledetto spesso vetro davanti a me che me lo impediva. E allora l'accarezzai con gli occhi. Che altro potevo fare? A parte farle del male continuando ad amarla. Mi ricordai del suo odore, del profumo dei suoi capelli e del sapore delle sue calde labbra. E anche dal vetro, in quel momento, mi sembrò di sentire il suo cuore battere. Pensai che lei era la cosa più bella che mi fosse capitata nella mia esistenza. Poi le osservai una mano. E pensai che avrei dato dieci anni della mia vita per coprirla anche un solo istante con la mia. Ad un tratto alle mie spalle la porta si aprì e capii che l'ora di colloquio era finita. Mi sentii cadere il cuore. Ad un tratto da un microfono uscì una voce che gridava che la visita era finita, mi venne voglia di spaccarlo, ma lasciai perdere, mi alzai, trassi un respiro profondo e appoggiai le labbra al vetro. Lei fece altrettanto. E ci demmo il bacio più bello della nostra vita. Poi uscii dalla sala colloqui a passi veloci perché non vedevo l'ora di andarmi a chiudere nella mia fossa per essere di nuovo seppellito. In un certo senso a volte le tombe danno sicurezza anche se sono di ferro e cemento. Rientrai in cella. Appoggiai la testa al muro. Chiusi gli occhi e mi misi ad ascoltare il silenzio fitto dell'Assassino dei Sogni. E non so neppure adesso per quanto tempo rimasi in quella posizione a pensare che non avevo nessun barlume di speranza a parte la certezza di essere amato. Quella era la condanna che mi avrebbe fatto continuare a vivere anche nei momenti che non ne sarebbe valsa la pena. Ed infatti dopo ventiquattro anni di carcere sono ancora vivo. Il carcere alla lunga ti divora l'anima, ti mangia il cuore, ma non può fare nulla contro l'amore, può solo farti amare di più quelli che ami. Carmelo Musumeci Quando il telefono ti accorcia la vita 12 dicembre 2012, ore 11:30, a quell'ora sono in comunicazione telefonica tramite le cuffie del call center sito all'interno del carcere con qualcuno delle migliaia di clienti di un'azienda di energia elettrica e gas per cui lavoro. In quel mentre si avvicina una guardia e mi dice: per caso hai avuto un lutto in famiglia? Lo fulmino con lo sguardo e rispondo: che io sappia no, da dove viene questa notizia? Scusami mi era sembrato di capire da un collega una cosa del genere, ho sbagliato persona. Un sospiro di sollievo e dopo un attimo riprendo il lavoro, circa un'ora dopo vado in pausa pranzo, ma non riesco a mangiare, sono inquieto, la notizia di quel lutto, seppur subito smentita, continua a ronzarmi nella testa. Ritorno alla postazione con l'intento di rimmergermi nel lavoro per scacciare quella sensazione di malessere e mentre mi appresto a indossare le cuffie si avvicina un'altra guardia dicendomi che devo recarmi all'ufficio educatori. Sento una stretta al cuore, capisco che la notizia del lutto non era uno sbaglio, adesso sono certo che è morto un familiare, un familiare stretto, visto che il carcere ti comunica anche questo tipo di notizie con parsimonia, cioè solo se il defunto è parente di primo o secondo grado. Il primo pensiero corre alla mia vecchia madre e al fatto che da circa un mese ho in mano un permesso con scorta di tre ore per andarla a trovare a casa e sto aspettando da un giorno all'altro di partire. Percorro il corridoio che mi separa dall'ufficio educatori rimproverando mia madre per non avermi aspettato, incontro l'educatrice e mi comunica che a mancare non è stata mia madre bensì Antonio, figlio di mia sorella, ma nel fax giunto al carcere non è specificato come è morto. Chiedo all'educatrice di chiamare a casa di mia madre ma il telefono non risponde e lo stesso succede a casa di un'altra sorella, a quel punto cerco di ricordare il numero di cellulare della madre di Antonio, ma l'educatrice mi fa presente che dall'ufficio le è consentito chiamare solo numeri fissi. Rientro in sezione e per tutto il pomeriggio provo inutilmente a chiamare casa, l'indomani si ripete la stessa cosa, per cui la sera presento una domandina per poter chiamare il cellulare di mia sorella oppure i due numeri fissi a cui sono autorizzato la sera tardi o la mattina presto. Mi viene risposto che in quei giorni il direttore è assente e nessuno si assume questa responsabilità. Assurdo, tutti i giorni per 8 ore lavoro attaccato al telefono di un call center e nel momento in cui ho una grave e motivata urgenza di chiamare un familiare, la chiamata mi viene negata per motivi di sicurezza misti a quelli burocratici che non consentono di anticipare o posticipare l'orario di inizio e fine delle telefonate. Il 15 mattina, a tre giorni di distanza dalla notizia della morte di Antonio e senza essere ancora riuscito a mettermi in contatto con i miei, mi dicono di prepararmi la roba che sono in partenza per Nuoro, non si trattava, come speravo e come avevo richiesto, di una partenza legata ai funerali di mio nipote, ma molto più semplicemente della partenza legata al permesso con scorta per andare a trovare mia madre.. Il pomeriggio stesso della partenza arrivo nel carcere di Nuoro, entro in una cella occupata da un conoscente che mi viene incontro con le braccia aperte per farmi le condoglianze, lo blocco e gli riverso addosso quella domanda che da tre giorni avevo sulla punta della lingua: Narami de ite es mortu! (dimmi come è morto!) a portarsi via mio nipote era stato un incidente stradale avvenuto in una stradina di montagna, l'avevano trovato tre giorni dopo, lo stesso numero di giorni che sono occorsi a me, grazie ai paradossi burocratici dell'ordinamento penitenziario italiano, per sapere il motivo della fine di quella giovane vita. Dopo un mese dalla richiesta di partecipare ai funerali di mio nipote giunge la risposta del magistrato, "Non luogo a procedere poiché il funerale è già stato svolto. L'istante ha però 24 ore di tempo per impugnare l'ordinanza". Ne sarebbero bastate molte di meno unite a un pizzico di buon senso per concedermi 10 minuti di telefonata per dare un po' di conforto a una sorella che aveva perso il suo bene più prezioso. Sebastiano Prino Giustizia: "Mai più bambini (e madri) in carcere!" di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 9 marzo 2015 Sono soltanto 43 le madri in carcere con i propri (44) bambini. Non un numero insormontabile. Terre des Hommes, A Roma Insieme e Bambinisenzasbarre chiedono che sia finalmente applicata, a 4 anni esatti dalla sua approvazione, la legge che prevede la promozione delle Case Famiglie Protette. Sarebbe un modo concreto per celebrare la Giornata della donna. Tra chi (non) ha festeggiato la Giornata delle donne ci sono le recluse nelle carceri italiane. Sono il 4% della popolazione totale e non possono neanche guardarsi allo specchio: in galera non è permesso. Alcune di loro dovranno invece fissare negli occhi i propri figli, chiusi insieme a loro dietro le sbarre. Una mamma ha raccontato: "La sera, quando chiudono le celle, ho visto bambini con le lacrime agli occhi bussare al blindato per farsi aprire". Con dati aggiornati al 30 giugno scorso, in Italia sono 43 le madri detenute con al seguito i propri figli, per un totale di 44 bambini. Non sempre donne che hanno commesso reati particolarmente gravi, spesso recluse semplicemente perché senza domicilio alternativo. Così il bambino può essere detenuto sia in via cautelare, sia in esecuzione di pena. Se sei bambino, sconti la colpa di tua madre. Vivi con una mamma senza potestà, che non può decidere nulla, con gravi risvolti sulla relazione educativa. Spesso frequentano nidi e asili interni alla struttura, ma capita che il bambino sia l'unico di tutto il carcere e cresca senza coetanei. Non sempre ci sono educatori per facilitare le uscite e molto è lasciato al volontariato. Tante le testimonianze raccolte in questi anni di come le prigioni, già disadatte a donne, lo siano più sciaguratamente ai minori: dalla bambina che, quando usciva, si metteva in tasca la neve per portarla alla madre, ai due bambini che volevano un animale domestico e catturarono uno scarafaggio creandogli una gabbia con due scarpe sovrapposte. Tutto ciò accade a ben quattro anni esatti (8 marzo 2011) dall'approvazione della Legge 62, che recepiva la detenzione per i bambini come extrema ratio, chiedendo di istituire le Case Famiglie Protette. Quella stessa riforma ha innalzato da tre a sei anni l'età in cui i figli delle carcerate possono vivere con le loro mamme: ha ritardato una separazione traumatica, ma paradossalmente rischia di aumentare gli anni dietro le sbarre per i bambini. È per questo che l'Italia è stata più volte richiamata dal Comitato Onu per la Crc, la Convenzione sui Diritti dell'Infanzia. Alla faccia della giustizia. "I bambini crescono in carcere", denunciano le associazioni Terre des Hommes, A Roma Insieme e Bambinisenzasbarre, "a causa dell'assenza di una politica nazionale realmente funzionale alla risoluzione di questo problema". Eppure, parliamo di una quarantina di bambini, non numeri insormontabili. Spiegano le tre associazioni: "La ragione è squisitamente economica: le Case Famiglia Protette infatti devono essere identificate dagli enti locali e da loro finanziariamente sostenute. Nulla invece può essere fatto ricadere sull'amministrazione penitenziaria, come chiarisce la legge 62/2011 laddove afferma che il principio del "senza oneri aggiuntivi per il Ministero...". A tutt'oggi, però, non ne risulta aperta nessuna in Italia. Forse una buona notizia potrebbe arrivare dal Comune di Roma: l'11 febbraio, l'assessore ai Servizi sociali Danese ha annunciato di aver individuato delle possibili strutture in cui realizzare "La casa di Leda", il primo progetto-pilota per sei detenute madri senza fissa dimora, proposto dall'associazione A Roma Insieme. Al contrario, all'assenza di Case Famiglia Protette fa da contraltare una politica ministeriale di forti investimenti in favore delle Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri). Dal 2011 ad oggi sono diventate tre: Milano, Venezia e Cagliari. "Tuttavia", spiegano Terre des Hommes, A Roma Insieme e Bambinisenzasbarre, "queste strutture hanno un costo elevato a fronte di evidenti inadeguatezze, rispetto alle esigenze di protezione, cura e crescita dei bambini ospitati. Si tratta infatti di istituti detentivi, pur attenuati, in cui l'utenza accolta è molto varia (donne incinte, madri con bambini, padri) e si riscontra un'ampia differenza di età dei bambini che possono accedervi (0-10 anni)". Di contro, le Case Famiglia Protette risponderebbero al bisogno di un ambiente a misura di bambino, di un supporto efficace alla genitorialità e all'inserimento sociale delle madri, di una risposta variabile rispetto alle specifiche esigenze di età dei bambini accolti, nonché infine, di un minor costo di gestione. "Pertanto", concludono le tre associazioni, "sono la soluzione migliore in linea con la legge 62/11: chiediamo che, senza alcun onere aggiuntivo per il ministero della Giustizia, siano stornati dei fondi dal piano di costruzione delle nuove Icam in favore delle Case Famiglia Protette". Ecco, potrebbe essere un modo concreto per festeggiare la Giornata della donna. Giustizia: negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con gli ultimi internati della nostra storia di Paolo Giordano Corriere della Sera, 9 marzo 2015 Il 31 marzo è prevista la chiusura degli Opg. Le incognite sul futuro Per i soggetti considerati gravi nuove "residenze" affidate alla Sanità. Ho sempre diffidato, anche letterariamente, di chi vedeva nella follia un accesso privilegiato alla verità. Eppure, mentre parlavo con gli internati dell'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, ho avuto forte la sensazione che guardassero dentro un abisso che competeva anche a me - che compete a noi tutti -, con la sola differenza che su quell'abisso loro si sporgevano pericolosamente, e senza mai riuscire a distoglierne lo sguardo. Ci sono efferatezze nel passato di molti degli internati del "Filippo Saporito" - aggressioni, violenze carnali, patricidi e matricidi - e altrettante sono le atrocità nel passato dell'Opg stesso. Qui entrò la commissione presieduta da Marino nel 2010 e si trovò davanti uno scenario raccapricciante: sporcizia, sovraffollamento, detenuti legati ai loro letti, pratiche che rasentavano le sevizie. A vedere il vecchio letto di contenzione che viene adesso conservato come una reliquia, con l'orrido buco al centro per le deiezioni dei malati, non si può non domandarsi come sia stato possibile che una misura simile fosse ancora in uso cinque anni fa. Ma sarebbe troppo comodo accodarsi alla scia dello sdegno comune, condannare gli Opg come luoghi isolati di sadismo sfrenato, senza rilevare la parte di responsabilità che ognuno di noi ha avuto in tutto questo: la convenienza di una nazione intera che, dopo avere applaudito a lungo se stessa per la chiusura dei manicomi, ha tollerato per decenni delle realtà perfino peggiori, in ragione della presunta pericolosità sociale di alcuni infermi. Oggi, al "Filippo Saporito", si avverte soprattutto una specie di trauma al contrario. La diffidenza del personale nei riguardi del visitatore esterno, di colui che potrebbe giudicare, scrivere e così rinnovare la vergogna, è quasi invincibile, è la diffidenza di chi si è sentito maltrattato (seppure non del tutto ingiustamente) e utilizzato come capro espiatorio. Alcuni degli internati erano stati evidentemente "preparati" per il mio arrivo, al punto da lanciarsi in elogi irrefrenabili e un po' goffi dell'Opg e del suo staff, ma l'intento dietro la "preparazione" non sembrava quello di mascherare qualcosa (ciò che andava svelato è stato svelato, credo), bensì l'ansia che un nuovo ciclone potesse scatenarsi. Molti degli operatori sanitari e di custodia che lavorano nell'Opg erano lì anche parecchi anni fa, hanno vissuto l'ospedale come un luogo con regole a sé, poi i riflettori impietosi e infine la brusca inversione di rotta. Non tentano di nascondere ciò che l'Opg era. La sola giustificazione che portano, e alla quale non è così difficile credere, è questa: "Non avevamo le risorse". Non che l'Opg sia diventato un posto veramente gradevole, nel frattempo. Gli edifici sono tutti malmessi - finestre rotte, soffitti anneriti -, i bagni delle celle si presentano come corridoi angusti e tetri, mentre nel 9bis i servizi sono ancora in comune: alcuni internati sono recalcitranti a utilizzare le docce, ma a vederle non si può dare loro torto. Tutte le migliorie, mi spiegano, dalle parti ritinteggiate ai fornelli con le piastre a induzione per scaldare il caffè, dalla fattoria per la pet therapy alle aule dove si svolgono i laboratori, sono state realizzate su iniziativa spontanea del personale. Dopo la rappresaglia mediatica, si percepisce l'ambizione di migliorare e una psichiatra si lascia sfuggire il proprio rammarico: "Ciò che sta succedendo è un processo evolutivo, ma al tempo stesso ci sentiamo come se ci venisse tolta la terra da sotto i piedi, proprio mentre stavamo imparando a fare la cosa giusta". Ciò che sta succedendo è la chiusura dei sei Opg ancora attivi in Italia. La data prevista è il 31 marzo e non si attendono proroghe. I circa 700 internati verranno ridistribuiti in base a un principio di appartenenza territoriale, affidati al servizio sanitario e alloggiati in comunità, case-famiglia o altri enti di accoglienza. Soltanto quelli considerati non "dimissibili", in ragione della loro pericolosità, saranno destinati a nuove strutture, più piccole degli Opg, battezzate Rems. Anche le Rems, tuttavia, saranno interamente affidate alla sanità: non penitenziari ridotti, dunque, ma luoghi di cura. In un quadro ristretto, questo è l'arrivo di un percorso iniziato con la denuncia della commissione Marino e la frase ormai celebre pronunciata dall'ex-presidente Napolitano, che parlò degli Opg come di un "estremo orrore, indegni di un paese appena civile". In un quadro esteso, la dismissione degli Opg è solo la tappa ulteriore di un cammino assai più lungo e faticoso, passato per gli sviluppi controversi della psichiatria e la legge Basaglia, e la cui immagine seminale si può attribuire già a Philippe Pinel. Nel 1792, Pinel fece togliere le catene ai "pazzi furiosi" di Bicêtre ed essi, invece di dare in escandescenze, camminarono incontro al loro liberatore, per ringraziarlo. Viene da domandarsi perché, se certe idee circolano nella medicina da oltre duecento anni, ci abbiamo impiegato tanto, perché fino a ieri i detenuti psichiatrici del nostro Paese fossero la categoria più radicalmente privata di diritti, perfino di quelli fondamentali che assicurano la dignità dell'essere umano. La risposta era già in grado di fornirla Foucault, quando scrisse: "Quanto al malato mentale, egli rappresenta il residuo di tutti i residui, il residuo di tutte le discipline, inassimilabile a tutte quelle che si possono trovare in una società". In questa prospettiva, gli scempi perpetrati ad Aversa come in altri Opg della penisola non erano un abuso esclusivo di chi in quelle strutture operava, bensì la deiezione di un Paese intero, esso sì, ancora incatenato a un letto di contenzione fatto di paura. Oggi sono molte le aree nelle quali la reclusione in Opg viene già evitata. E il numero esiguo di coloro che sono ancora internati potrebbe far pensare a un cambiamento marginale, più che altro simbolico. Eppure, è soprattutto così che una civiltà perfeziona se stessa: attraverso la destituzione di simboli che ormai appaiono sorpassati, deteriori. Più che il passato sconcertante, occorre adesso considerare il futuro prossimo, che in questo "processo evolutivo" porta con sé preoccupazioni legittime da parte di molti. Da parte della popolazione, innanzitutto. La follia spaventa oggi come duecento anni fa. Se poi si accompagna ad azioni criminali, come omicidi o violenze sessuali (un uomo che ha mangiato sua madre), essa scatena suggestioni incontrollate, finisce per abitare il dominio del terrore. Ma al percorso di reintegro dei malati, accelerato dalla politica sull'onda dello sdegno, non si è accompagnata alcuna iniziativa di sensibilizzazione. È facile prevedere che, quando diverrà chiaro a tutti che all'interno delle Rems non vi sarà per legge alcun personale di custodia o vigilanza, si scatenerà un malcontento diffuso, se non addirittura una paranoia. Un'orda di pazzi violenti a piede libero , sarà il messaggio recepito da alcuni in assenza di un'informazione adeguata. Al contrario, per gli attivisti di "StopOpg" e per molti psichiatri, l'istituzione delle Rems rappresenta una misura contraddittoria ed eccessiva. Essi ne denunciano l'inutilità, nonché il rischio che le Rems si tramutino presto in dei micro-Opg. Non vi è evidenza, sostengono, che i soggetti psichiatrici siano più inclini degli altri a ripetere le loro azioni criminose e forse è il concetto stesso di "pericolosità sociale" a essere errato: secondo Debuyst si tratterebbe soltanto di un retaggio antico, di una "malattia infantile della criminologia". C'è poi il fardello che cade improvviso sul personale sanitario, investito di responsabilità nuove, come il mantenere un livello di sicurezza e ordine fra internati, senza l'ausilio dei secondini. Ad Aversa qualcosa di simile avviene già oggi, ma soltanto in zone specifiche dell'Opg, con pazienti considerati più "gestibili" e comunque con la possibilità di un intervento tempestivo da parte delle guardie. Come regolarsi nelle nuove Rems? Si dovrà assumere una vigilanza privata almeno per l'esterno? E dentro? I responsabili dei nuovi centri stanno affrontando un'infinità di dettagli scomodi, oltre a una burocrazia titanica che promette ritardi. Andrebbero evitate le sbarre alle finestre, per esempio (la Rems non deve ricordare un penitenziario), ma su chi ricadrà la colpa quando in un accesso di delirio il primo degli internati riuscirà a buttarsi di sotto? Il nuovo assetto, più frammentato, sarà in generale meno controllabile di prima. Molti pazienti verranno affidati a enti privati, ad associazioni accreditate di vario genere, religiose e non, e per questi diverranno istantaneamente una fonte di profitto, con tutti i rischi ovvi che ne conseguono. In Italia, è difficile non essere attraversati da un fremito di inquietudine ogni volta che si sente parlare di "comunità" e "associazioni". Qualcuno scommette poi che la criminalità organizzata, quella tutt'altro che inferma mentalmente, stia già preparando dei dossier ad hoc per i suoi, con i giusti precedenti, le giuste perizie, per accedere in caso di necessità alle nuove strutture piuttosto che al carcere. E infine, ci sono le ansie dei detenuti. Al "Filippo Saporito" ho cercato di capire quale chiarezza gli internati avessero dei cambiamenti in atto, del destino che li attende. Per lo più è emersa una grande confusione, qualcuno parlava frettolosamente di ritorno a casa, un altro ha evocato pieno di angoscia luoghi in cui si fanno "esperimenti sulle persone". Ho chiesto a M. se a casa sua, in Abruzzo, ci fosse qualcuno ad attenderlo. "Andrò a stare da mia madre", ha detto. Aveva una fiducia struggente in quel ricongiungimento. "La tua famiglia viene a trovarti spesso? - No, perché abitano lontano. - Ma qualcuno è mai venuto? - Le mie sorelle, una volta". Una volta. In nove mesi. È questa, molto spesso, la realtà dei "residui dei residui": un abbandono radicale che comincia in seno alla famiglia e si estende alla comunità, alla società tutta, lo stesso abbandono che ha perpetuato l'esistenza degli Opg, di piccoli inferni locali come quello di Aversa, proprio nel centro storico, a un passo dalle vie dei negozi e dei locali notturni. Non ci saranno molte famiglie pronte a riprendersi i loro folli, perciò quell'accoglienza viene richiesta a tutti noi in quanto cittadini. A partire dal 31 marzo vedremo sotto una luce nuova che tipo di Paese siamo, quale livello di maturità abbiamo raggiunto, con quanto coraggio siamo disposti a guardare dritto dentro l'abisso. Giustizia: una riforma contro la piaga del giustizialismo… per far crescere il Paese di Massimo Krogh Il Mattino, 9 marzo 2015 L'editoriale del direttore Barbano, pubblicato ieri, racconta con grande efficacia la piaga del giustizialismo che infetta l'Italia, evidenziandone i molteplici e dannosissimi effetti. Ritengo ciò molto importante, poiché la posizione della stampa in generale è sempre apparsa prudente e timida su questo tema, mentre il fuoco mediatico si è spesso accesso implacabilmente al fianco di iniziative giudiziarie di discutibile sapore interventista. Penso sia doveroso per tutti pensare a certe cose, l'innocente che langue in carcere per essere poi assolto, le manette utilizzate più o meno a caso, la carcerazione preventiva come occulta anticipazione della pena, l'allungamento della prescrizione del reato vista come soluzione anziché come causa di malagiustizia, intercettazioni a mai finire, sequestri e confische che piovono senza contraddittorio, e così via in uno scenario che dovrebbe mettere i brividi ma che peraltro sale anche dalla gente, il cui umore, sotto le cose che nel Paese non vanno, si sostanzia generalmente nella richiesta di giustizia. Questo è il nodo del problema, una richiesta che non trova la risposta, anzi che trova da decenni risposte sbagliate, visto che ad ogni intervento del legislatore il funzionamento della giustizia peggiora. Difatti, il morbo della durata del processo penale (che dire del civile!) è ben lontano dalla guarigione né si vedono spiragli di luce nei progetti che ci dà la stampa. Idee confuse e disperse, mancanza di un piano unitario, capace di fondere cultura e organizzazione, assoluta ignoranza sulle ragioni di fondo dello sfascio. Si è abrogato il processo inquisitorio senza riuscire a creare quello accusatorio. Dunque, processualmente parlando, non si sa cosa vige in Italia, forse direi un processo penale senza identità, e ciò francamente mette paura, considerata la organica violenza del diritto penale. Il vero fatto è che la politica ha dimostrato la sua incapacità sui temi della giustizia. Vi sono cose che il cittadino deve sapere, la mancanza di giustizia, la sua disfunzione, incide pure su cose che a prima vista non sembrano vicine al processo penale, ad esempio il problema della disoccupazione. La crescita e quindi lo sviluppo in campo economico-produttivo dipende dalla vitalità dell'impresa, con i relativi effetti sulla occupazione, la cui mancanza produce crisi e depressione sociale. Ora, l'attività dell'impresa può essere condizionata dal processo penale. Barbano accennava a sequestri e confische, infatti è un tema molto scottante. Vi sono spesso mega sequestri societari che paralizzano la vita di una società, talvolta fino a portarla al fallimento; in questi casi, che l'imputato sia o non sia colpevole, resta il fatto del danno che subiscono le persone che nella società lavoravano e che nulla avevano da vedere con il processo. E resta il fermo dello sviluppo sostenibile, che nelle società ha un punto di riferimento. L'eventuale nomina di amministratori giudiziari non elimina il problema, trattandosi in genere di professionisti privi di competenza imprenditoriale e comunque non emotivamente coinvolti nell'impresa. Ancora in tema d'impresa, l'intesa della maggioranza sulla riscrittura del falso in bilancio: abolizione d'ogni soglia di punibilità, niente querela, tutto nel penale. Potrà essere condivisibile l'idea, ma è commovente la fiducia che i nostri politici hanno nella giustizia penale, quella che regala allegramente, meglio tristemente, migliaia di prescrizioni all'anno. Ci si libera di un problema senza accorgersi che rinviarlo al penale equivale più o meno a cestinarlo. Il falso in bilancio è un fenomeno gravissimo, un cancro dell'economia anzi della finanza. Andrebbe affrontato con competenza nelle sue radici, vale a dire non tanto ricorrendo a carcere e castighi - necessari ma non risolutivi - che attengono al momento finale, quando il guasto è fatto, ma operando alla base, la nascita dell'impresa, la figura dell'imprenditore, le regole dell'onestà, il tetto della vigilanza e così via. Oggi ciò è frastagliato in uno scenario societario che ha visto un susseguirsi di riforme poco coordinate con il preesistente, in cui è facile perdersi fra le correlazioni societarie di un gruppo, fra il bilancio consolidato e i singoli bilanci civilistici delle società del gruppo, con ogni possibile manovra e purtroppo manipolazione. Per correggere, l'analisi dell'origine del fenomeno è più importante della sua punizione. Giustizia: corruzione, falso in bilancio e prescrizione, dieci giorni per decidere di Flavio Haver Il Corriere della Sera, 9 marzo 2015 Il presidente del Senato, Pietro Grasso, non ha alcuna intenzione di tornare sulle sue decisioni, fin troppo si è aspettato per portare in Aula la legge sulla corruzione. "È messo un paletto, la data del 17 marzo. Resta quella, oltre non si può andare", confermano a Palazzo Madama: non ci saranno nuove deroghe. Si aprono dieci giorni decisivi sul fronte delle riforme per la giustizia, tema contraddistinto negli ultimi anni da un clima infuocato e da scontri durissimi tra centrodestra e centrosinistra, e non solo. In ballo, tra Palazzo Madama e Montecitorio, le modifiche alle norme anti-mazzette, ai tempi della prescrizione, al falso in bilancio. Temi su cui anche all'interno della maggioranza di governo ci sono state divisioni e contrapposizioni, con Ncd apparentemente ferma su posizioni non "negoziabili" ma sulle quali - a sentire esponenti di primo piano del Pd - c'è ora la disponibilità a trovare un punto d'incontro per dare la spinta decisiva ad un varo il più possibile condiviso delle riforme. "Il rischio è che, dopo due anni di lavoro, si vada in Aula tornando alla fase iniziale con tutti i disegni di legge presentati: sarebbe una complicazione. Spero che il Governo, come promesso, presenti il suo emendamento sul falso in bilancio in commissione Giustizia e che la commissione, come mi ha assicurato il presidente Nitto Palma, possa concludere i lavori in tempo per portare in aula il testo con il relatore", ha osservato ancora Grasso, circoscrivendo i confini temporali. Che non possono prescindere da un'altra scadenza: il Governo deve presentare l'emendamento entro domani, altrimenti non ci sarebbero i tempi tecnici per il 17 marzo. Con una conseguenza: si tornerebbe al disegno di legge Grasso di due anni fa. Alla Camera la scadenza è invece fissata al 16 marzo. Un intreccio di date che rende la partita ancora più complessa. A Montecitorio è previsto l'approdo in Aula del disegno di legge sulla prescrizione: dovrebbe essere "congelata" dopo la sentenza di primo grado e ci saranno due anni di tempo per il processo d'appello e uno per quello in Cassazione. Resta il conflitto nella maggioranza sul limite massimo di 18 anni prima che cadano in prescrizione gli episodi di corruzione, ma le diplomazie di Ncd e Pd sono al lavoro per cercare un'intesa. Giustizia: antiterrorismo; il Csm attacca il decreto "non funzionano i poteri a Roberti" di Liana Milella La Repubblica, 9 marzo 2015 Falso in bilancio e prescrizione verso una settimana "positiva". Ma si apre lo scontro tra Csm e governo sul decreto antiterrorismo e soprattutto sui poteri della Procura nazionale antimafia, che sta per diventare anche Procura nazionale antiterrorismo. Già mercoledì due commissioni di palazzo dei Marescialli, la sesta che valuta la congruità delle riforme, e la settimana che si occupa dell'organizzazione giudiziaria, voteranno un parere che suonerà assai critico sull'impianto del decreto. Non funzionano, in quel testo, né i poteri di coordinamento attribuiti all'ufficio di Franco Roberti, né tantomeno la regolamentazione dei rapporti tra la Superprocura e i servizi segreti. Questioni delicate, che determineranno il futuro effettivo di una struttura che da anni i magistrati impegnati nelle indagini sul terrorismo sollecitano, ma che a questo punto potrebbe nascere zoppa. Sarebbe un'occasione mancata che il nostro Paese non si può permettere soprattutto a fronte di un grave allarme internazionale per via del terrorismo islamico. La commissione Giustizia della Camera sta esaminando il decreto. Il Csm ha fatto altrettanto. Anche con un seminario di approfondimento in cui hanno sfilato sia i protagonisti dell'intelligence che i magistrati, tra cui ovviamente lo stesso capo della Superprocura Roberti. Adesso i presidenti delle due commissioni, l'ex gip di Palermo Piergiorgio Morosini per la sesta commissione, e l'ex pm di Napoli Antonello Ardituro per la settima, stanno già scrivendo il parere. Che mette in rilievo tre criticità. La prima riguarda l'effettivo coordinamento che la futura Superprocura antiterrorismo potrà avere nel rapporto con le polizie centrali. Di fatto essa non se ne potrà avvalere direttamente. La mancanza di informazioni fresche e dirette rappresenta ovviamente un pesante vulnus sull'effettiva possibilità di coordinamento del nuovo ufficio. Ma non basta. Ad aggravare la situazione c'è il capitolo dei futuri rapporti tra la Superprocura e gli 007. Qui, di fatto, l'ufficio di Roberti è tagliato fuori da un'interlocuzione diretta ed effettiva, perché il decreto ha affidato al procuratore generale di Roma il potere di autorizzare sia i futuri colloqui investigativi in carcere, sia il via libera alle intercettazioni preventive. Due "poteri" che Roberti rivendica per sé, per evitare che la Superprocura resti un ufficio più di rappresentanza che operativo. Ovviamente il parere del Csm, di cui si sta occupando anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e che già mercoledì sarà votato in commissione, potrà avere un peso sul futuro dibattito parlamentare. Tra martedì e giovedì invece si dovrebbe finalmente chiudere, tra Senato e Camera, la doppia partita della corruzione, falso in bilancio compreso, e quella della prescrizione che vanno in aula rispettivamente il 16 e il 17 marzo. Ancora ieri chi ha parlato con il ministro della Giustizia Andrea Orlando conferma che il testo del falso in bilancio è, e resta, quello: tre diverse punibilità, 3-8 anni per le società quotate, 1-5 per le non quotate, 6 mesi-3 anni per le piccole imprese, senza alcuna soglia di non punibilità. Resta la procedibilità d'ufficio e il rinvio alla legge sulla tenuità del fatto che domani sarà definitivamente approvata dal consiglio dei ministri, per cui potrà essere ben citata nella legge sulla corruzione. Restano anche ambiguità nel testo, come gli avverbi "concretamente" e "consapevolmente" che sollevano più di un dubbio e saranno sicuramente oggetto di scontro in aula. Come l'impossibilità di fare intercettazioni per le società non quotate, a meno che non "entri" il lodo Grasso, un'aggravante per quotate e non quotate che le renderebbe possibili. Sulla prescrizione per la corruzione è in vista un compromesso tra Pd e Ncd. Giustizia: il "manovratore" Nitto Palma che sfida Grasso sui tempi in Commissione di Fabrizio Roncone Corriere della Sera, 9 marzo 2015 Il responsabile della commissione a Palazzo Madama: ha fatto il furbastro. Iroso, scostante, permaloso. "Se il ritratto che suppongo stia per tracciare contiene accuse infondate, vorrei potermi difendere...". Anche ironico, se vuole. E con una memoria di ferro ("È stato scritto che perdo regolarmente a Burraco con il senatore di Forza Italia Ciro Falanga: è una volgare menzogna messa in giro dalla senatrice del Pd Monica Cirinnà, che si diverte, evidentemente, a diffamarmi. La verità è che a volte vinco, a volte perdo"). Poi rumore di forchette, tavolata in riva al mare, domenica pomeriggio. Francesco Nitto Palma, 65 anni, ex magistrato, è il temuto presidente della commissione Giustizia del Senato: la commissione politicamente meno stabile, meno gestibile dell'intero Parlamento (tra i suoi componenti, alcuni personaggi straordinari: Carlo Giovanardi, Ncd, memorabile su temi come eutanasia, omosessualità, droga; Felice Casson, Pd, che fa Casson, civatiano con ostinazione; Lucio Barani, Gal, che sulla responsabilità civile dei magistrati aveva proposto, in caso di colpevolezza, dovessero chiedere scusa sulla pubblica piazza). Nitto Palma li guida tutti - raccontano - con piglio quasi militare. "Non esageri. Io mi limito ad applicare, in modo ordinato, il regolamento". Lo conosce alla perfezione, e lo sa interpretare e usare. Questo spesso scatena ondate di panico a Palazzo Chigi: quando un emendamento arriva in commissione Giustizia, tutti sanno come entra, nessuno sa come esce. Comprensibile l'apprensione di queste ore: domani, martedì, forse arriverà l'emendamento sul "falso in bilancio" (il governo avrebbe preferito andare direttamente al voto in Aula). "Sulla faccenda, il presidente Pietro Grasso ha fatto il furbastro: dicendo che io gli avrei promesso tempi brevi. Ma io non ho fatto alcuna promessa. Dovrebbe sapere, Grasso, che in commissione non è previsto il contingentamento dei tempi". Però lei è abilissimo a rallentare o accelerare. "Mi vengono attribuite capacità che non ho. Del resto, anche sul mio carattere si fanno sciocche illazioni". Ho scritto che è iroso, scostante e permaloso. "Ho un carattere tosto come tutti quelli che ne possiedono uno". È la stessa cosa che dice Renato Brunetta di sé. "Sì, ma io non sono uno che parte per la tangente senza motivo. E, soprattutto, non mi sentirete mai usare parole forti e sgradevoli". Lei è forse l'unico, tra i potenti di Fi, a non essere inquadrato in qualche corrente. "La mia idea è che Forza Italia esiste solo perché c'è Silvio Berlusconi. La sua leadership è indiscutibile. Ed è necessario, quindi, essergli leali. Punto. Io, perciò, rispondo soltanto a me stesso e a lui". È forse anche questo uno dei motivi che le permette di gestire con severità i lavori della commissione che presiede? "Guardi, si favoleggia troppo su questa commissione: le ricordo che il 95% dei provvedimenti vengono approvati all'unanimità. Se succede che non siamo d'accordo, è perché spesso, all'interno della commissione, si creano maggioranze alternative tra Pd e grillini e qualcosa del genere si creerà, immagino, anche con il ddl corruzione". Non mi ha risposto sulla sua severità: lei è molto severo, quasi autoritario. "Ma chi le ha fatto una descrizione così stupida?". La fonte deve restare segreta. Però la fonte ha anche aggiunto qualche aneddoto; il più divertente è questo: sembra che nel corso di una seduta notturna, durante il passaggio della "responsabilità civile" dei giudici a Palazzo Madama, Nitto Palma fu accusato da alcuni membri della sua commissione di essere stato sleale nei loro confronti. Era notte fonda, tra stanchezza e nervosismo volò qualche parola ruvida. A quel punto, profondamente indignato e offeso, Nitto Palma pretese che ciascun senatore prendesse la parola chiedendogli, formalmente, scusa. Una volta disse: "Ho sfidato le Br e la mafia, figuriamoci se mi spavento più di qualcosa". Quattordici anni alla Procura di Roma (processo Moro, Frank Coppola, Santapaola, ma anche Gladio e Ustica). Dal 2001, deputato per il Cavaliere. Accolto in Transatlantico con il soprannome di "Toga azzurra". Sistematicamente ricordato per essere tra i promotori (2002) di una proposta di legge che reintroduceva l'immunità parlamentare (aiutino per Cesare Previti). Ministro della Giustizia nel governo Berlusconi IV. "L'avverto: se scrive qualche sciocchezza sul mio conto, domani la chiamo e mi arrabbio di brutto". Giustizia: anticorruzione; mix di ingredienti… prevenzione, repressione, responsabilità di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2015 Il rimedio anti-corruzione è composto da tanti ingredienti - prevenzione, repressione, responsabilità, etica - ciascuno di volta in volta esaltato dalle cronache in occasione di arresti, firme di codici etici, denunce, analisi. Ma ancora manca il mix che risulti finalmente efficace. Nessuno degli ingredienti si ritrova in natura, ciascuno di essi va preparato e unito agli altri con cura (il che dovrebbe escludere apprendisti stregoni e disonesti seriali). La repressione funzionerà quando potrà disporre di uomini e risorse adeguati, oltre che dei tempi necessari per arrivare alle condanne; quando norme e procedure saranno concepite per svelare l'illegalità e non per favorirla; quando, infine, polizia e Procure potranno dedicarsi ai pochi casi che deturpano un ambiente sociale sano e dunque ostile a chi voglia delinquere. Quanto alla prevenzione, sappiamo che i più grandi scandali da colletti bianchi sono resi possibili dal silenzio di centinaia di persone. Non sarebbero altrimenti durati così a lungo i traffici intorno al Mose o all'Expo, né si sarebbe raggiunto l'attuale degrado ambientale di certe aree, se in tanti non avessero taciuto nonostante vedessero, udissero, sapessero, o quanto meno intuissero. Esistono, nel nostro Paese, comportamenti borderline, o peggio, che curiosamente non offendono, non spingono il cittadino ad attivarsi per renderli meno facili e meno redditizi: dall'evasione fiscale agli spazi pubblici usati come discarica, all'abusivismo edilizio, fino alla corruzione spicciola e organizzata. Per decenni, nemmeno sono stati contati i miliardi dilapidati in malaffare, mentre il tema della trasparenza (dei flussi finanziari, delle gare d'appalto) era percepito come un problema di qualcun altro, non del cittadino, dell'impresa o della comunità. È stato così a lungo anche per la sicurezza sul lavoro, per i costi della politica, per la tutela dell'ambiente. Se oggi, finalmente, l'esattore del pizzo mafioso è percepito come un pericoloso nemico di cui liberarsi (salvo per chi si ostina a sottomettersi), la reazione non è altrettanto netta verso i gestori meno onesti delle inefficienze della burocrazia, quelle sabbie mobili che consegnano nelle loro mani il rilascio di un permesso o di una concessione. Così come, nel privato, non sempre s'indigna il dipendente che assista (o sia chiamato a collaborare) a passaggi di mazzette, creazione di fondi neri, manovre evasive. Come se alla fine il conto non arrivasse da pagare a tutti. Solo oggi si comincia a parlare con minor avversità, per esempio, di whistleblowing (la denuncia di anomalie sospette sul posto di lavoro), di rotazione di incarichi e di altre modalità che permettono a chi voglia collaborare di attivarsi senza rischiare il mobbing o il licenziamento. Strumenti indispensabili, senza i quali il desiderio di partecipazione diventa sacrificio o eroismo personale. Bene, quindi, che dopo l'impegno volontario di imprese, enti e singoli cittadini, queste possibilità stiano facendo il loro rodaggio anche in contesti sensibili (per esempio, l'agenzia delle Entrate) che incidono sulla vita di milioni di persone. Finché un collega o un capo che preparano bustarelle o un burocrate di qualunque livello che le incassa non faranno scattare la stessa avversione per il ladruncolo o lo scippatore (riprovevoli, ma assai meno dannosi di corrotti ed evasori), non potrà esserci azione repressiva che tenga. Perché non è difficile pizzicare un pubblico dipendente disonesto in un ambiente di onesti impiegati; mentre ha vita difficile chi intenda svolgere onestamente il proprio lavoro in un contesto che pratica diffusamente la corruzione potendo contare su omertà e scambievoli complicità. Rompere questa indifferenza è il presupposto perché le manette per i corrotti non siano un'eccezione, ma una certezza tale da scoraggiare anche i delinquenti in giacca e cravatta più incalliti. Giustizia: l'evasione fiscale punita dal punto di vista tributario, penale e amministrativo di Marino Longoni Italia Oggi, 9 marzo 2015 Dal 1° gennaio di quest'anno l'evasione fiscale sarà sanzionabile anche come auto-riciclaggio. Questo significa che sulle spalle del presunto evasore si andrà in alcuni casi a triplicare il carico delle sanzioni. Con effetti da paura! Facciamo un caso concreto. L'azienda Alfa, a seguito di un accertamento fi scale, viene accusata di aver evaso un milione di euro. Fino a qualche mese fa avrebbe dovuto, se condannata in via definitiva, versare le imposte evase con l'aggiunta di sanzioni e interessi (più eventuali spese di giudizio). Oggi tutto ciò è solo l'inizio, perché la legge sulla voluntary disclosure ha introdotto il reato di auto-riciclaggio tra quelli presupposto della responsabilità amministrativa delle società (legge 231 del 2001). Questo significa che il dirigente che ha progettato e messo in atto l'evasione potrà essere condannato penalmente e, in mancanza dei modelli organizzativi previsti dalla legge 231 (che peraltro oggi ancora nessuno saprebbe come fare), la società potrebbe essere condannata in via amministrativa per lo stesso reato di auto-riciclaggio. E le sanzioni potrebbero essere anche molto salate. Sembra folle, ma è proprio così. Quante migliaia di aziende ogni anno vengono condannate per un fatto di evasione che potrebbe integrare il reato di auto-riciclaggio? E quanti procedimenti penali, e quanti procedimenti amministrativi potrebbero essere innescati dalle indagini finanziarie? Ovviamente i conti non li ha fatti nessuno. Certamente i procedimenti innescabili da queste novità normative sono molti, ma molti di più, di quanto il sistema giudiziario italiano è in grado di reggere. In pratica siamo di fronte alla riedizione delle grida di manzoniana memoria. Oppure all'invenzione della roulette russa fi scale. Più o meno a casaccio, qualcuno sarà chiamato a pagare sanzioni spropositate rispetto all'evasione commessa, e questo dovrebbe fungere da monito per tutte le altre aziende. In realtà le disposizioni sull'auto-riciclaggio dimostrano che è completamente saltato qualsiasi rapporto di ragionevolezza tra l'introduzione di una norma sanzionatoria e la capacità dello Stato di applicarla in modo fermo e uniforme. Sarà comunque uno spauracchio notevole per le imprese che, non appena se ne renderanno conto, cercheranno di tutelarsi con i mitici modelli di organizzazione aziendale, l'unica arma rimasta nelle loro mani. Un castello di carte di nessuna utilità dal punto di vista sostanziale ma, almeno formalmente, utili allo scopo, come può esserlo uno spaventapasseri in un campo di grano. E meno male che questo governo aveva al centro del suo programma la semplificazione amministrativa e fi scale, altrimenti chissà cosa non avrebbe potuto inventare. Giustizia: processo civile telematico, addio alla carta di là da venire di Gabriele Ventura Italia Oggi, 9 marzo 2015 Processo civile telematico ancora schiavo della carta. Dagli atti introduttivi, per i quali non c'è obbligo dell'online, al sistema di tassazione che costringe gli uffici a tornare al cartaceo nella fase di trasmissione di atti e sentenze all'Agenzia delle entrate, alla possibilità, per i giudici, di utilizzare sempre la carta tranne che per i decreti ingiuntivi, fino all'utilizzo troppo frequente, sempre da parte dei giudici, delle eccezioni all'online previste per legge. Se da un lato, infatti, gli ultimi dati diffusi dal ministero della giustizia sul processo civile telematico, aggiornati al 31 gennaio scorso, mostrano una accelerazione decisiva dei depositi telematici da parte di avvocati e magistrati, soprattutto nel primo mese dopo l'entrata in vigore definitiva del Pct, il 31 dicembre 2014. Dall'altro i problemi, in questa prima fase, di certo non mancano: dal punto di vista tecnologico, gli avvocati denunciano spesso difficoltà di collegamento. Addirittura, a Bologna, a causa di un problema di sistema a livello ministeriale, risulta che i documenti depositati telematicamente nei procedimenti avanti al tribunale non vengano acquisiti dalla Corte d'appello, sebbene risultino correttamente visibili e acquisiti. Per non parlare del recente provvedimento del tribunale di Milano, che ha condannato la parte assistita da un avvocato che non ha depositato la copia di cortesia (in formato cartaceo) al pagamento di una multa di cinque mila. Ma vediamo meglio lo stato dell'arte del processo civile telematico. I numeri. Il ministero della giustizia ha diffuso i dati del processo civile telematico che riguardano il periodo 1° febbraio 2014-31 gennaio 2015, da cui emerge che le comunicazioni telematiche sono state attivate in tutti i tribunali e le corti d'appello. Nel 2014, sono state consegnate più di 12,8 milioni di comunicazioni, per un risparmio stimato pari a oltre 44 milioni di euro. Vengono consegnati ogni mese, in media, circa 1,2 milioni di depositi telematici a valore legale, da parte di avvocati e professionisti. Inoltre, sono stati ricevuti più di 1,5 milioni di atti, di cui 273.195 ricorsi per decreto ingiuntivo, 1,18 milioni di atti endoprocedimentali e 88.536 atti introduttivi. A gennaio 2015, invece, primo mese dall'entrata in vigore definitiva del pct, sono stati depositati 383.911 atti telematici, il 105% in più rispetto a dicembre e il 500% in più rispetto a giugno 2014. Sono stati inoltre 121.950 i professionisti univoci che hanno depositato almeno un atto (+26% rispetto a novembre), di cui 102.612 avvocati. Sempre nel mese di gennaio, via Arenula ha registrato un aumento di quasi 20 mila avvocati (+23%) rispetto a dicembre e di quasi 60 mila rispetto a luglio (+141%). I depositi telematici da parte di magistrati, invece, sono stati pari a 1,72 milioni di provvedimenti, di cui 507.770 verbali di udienza e 149.553 sentenze. I giudici (o i Got) che da inizio 2014 hanno depositato almeno un provvedimento sono invece 3.766. A gennaio 2015, si è registrato un aumento di 348 magistrati e Got rispetto a dicembre (+10%), 903 rispetto a luglio (+31%). Criticità. Il Consiglio nazionale forense e gli ordini degli avvocati non mancano di segnalare al ministero della giustizia le criticità legate al processo civile telematico, riscontrate dagli avvocati. In particolare, l'Ordine degli avvocati di Milano, ai primi di febbraio, ha segnalato al tribunale e, di concerto con questo, alla direzione del ministero, una serie di criticità, che riguardano le categorie investimenti, normativa e tecnologia. A partire dal fatto che gli avvocati segnalano difficoltà di collegamento al sistema giustizia in determinati orari, dovuti probabilmente a picchi di richieste. Anche il flusso di comunicazioni via Pec subisce temporanei ritardi, a causa del sovraccarico di richieste che si crea in alcuni orari della giornata. Dal punto di vista della normativa, invece, segnala Filippo Pappalardo, referente processo telematico degli ordini della Lombardia, è necessario "introdurre una norma che autorizzi a priori il deposito telematico di tutti gli atti relativi al rito ordinario del contenzioso civile, delle esecuzioni mobiliari, immobiliari e presso terzi. In quest'ottica sarebbe poi opportuna una disciplina che consenta il deposito degli atti telematici con una separazione per "rito" invece che per giurisdizione subordinando l'avvio della facoltatività o dell'obbligatorietà a una decisione del presidente dell'ufficio da prendere di concerto con gli ordini forensi". Inoltre, va regolamentato il sistema di pagamento di copie, marche e contributi "recuperando lo spirito del Contributo unificato quale unica voce di spesa del processo e rendendo obbligatorio il flusso telematico, prevedendo la possibilità di allargare a breve termine il novero dei prestatori di servizi", afferma Pappalardo. Dal punto di vista tecnologico, invece, secondo l'Ordine di Milano, bisogna uniformare Reginde (Registro generale degli indirizzi elettronici Pec del ministero con tutti i dati degli avvocati) e Ini-Pec, prevedendo per entrambi un registro cronologico che certifichi le variazione di indirizzo tempo per tempo effettuate da ciascun soggetto. "In generale", conclude Pappalardo, "il processo civile telematico sconta il fatto che la procedura, con tutti i suoi attori protagonisti, ha ancora un legame fortissimo con la carta o, per meglio dire, con il supporto della carta. Avere ancora fuori dall'obbligo telematico tutti gli atti introduttivi del processo, di per sé produce carta. Gestire carta è un costo per tutti. Gli uffici non possono destinare tutte le risorse al telematico proprio perché il cartaceo esiste". In slalom tra decreti e prassi, di Antonio Ciccia In rodaggio il processo civile telematico. Tra decreti ministeriali, protocolli dei singoli tribunali e sentenze altalenanti, il deposito elettronico di atti e documenti si perde in una selva di regole giuridiche, di prassi e di cortesia, in cui non è sempre facile districarsi. L'avvocato farà bene a cadenzare la sua attività, tenendosi ampi margini per poter fronteggiare gli imprevisti che non mancano mai. Se il quadro normativo base è omogeneo, la possibilità di una applicazione più o meno estesa della trasmissione telematica dipende anche dalla struttura tecnologica dei singoli uffici giudiziari. Molto dipende anche dalla predisposizione degli operatori a lavorare con gli strumenti telematici. In realtà convivono in misura più o meno ampia sia il processo telematico sia il tradizionale processo cartaceo. Ci sono giudici che compilano il verbale sulla piattaforma informatica e l'avvocato, tornato, in studio se lo legge dal suo computer; ma ci sono giudici che lo scrivono a mano (anche se poi viene scansionato e inserito nel fascicolo elettronico). Ci sono tribunali in cui si chiede agli avvocati di nominare i fi le in modo che descrivano il contenuto e altri tribunali in cui legali e magistrati uniscono le loro forze per stampare gli atti. Ma vediamo come trovare il bandolo della matassa. Decreti. Il processo civile telematico non funziona allo stesso modo in tutti i tribunali. Bisogna, quindi, controllare se e per quali atti è obbligatorio o facoltativo il deposito telematico. Se per gli atti successivi a quelli introduttivi la norma obbliga al deposito telematico, la situazione per gli atti introduttivi è a macchia di leopardo. Quindi, una memoria in corso di causa o una comparsa conclusionale vanno depositati in modalità telematica con la posta elettronica certificata. Un atto di citazione o una comparsa di costituzione e risposta, invece, possono essere depositati telematicamente. Ma solo se c'è un decreto autorizzativo del ministero della giustizia appositamente adottato per la singola sede giudiziaria. Per conoscere le regole in uso nel singolo tribunale si può consultare il portale del ministero della giustizia (http://pst.giustizia. it/pst/). In particolare bisogna accedere alla sezione dedicata alle informazioni sui servizi telematici attivi presso i singoli uff ci giudiziari. Seguendo il percorso guidato si sceglie il distretto di Corte d'appello e poi l'ufficio e si arriva alla pagina che contiene l'elenco dei servizi telematici: dalle comunicazioni telematiche, ai depositi telematici distinti per tipo di procedimento (esecuzioni, fallimentare, volontaria, giurisdizione, lavoro, processo ordinario ecc.). Sempre da questa posizione si possono conoscere le possibilità di consultazione dei fascicoli delle cause, suddivisi nei vari registri (contenzioso civile, esecuzioni, procedure concorsuali, e così via). Il dettaglio dei servizi di deposito è descritto nei decreti ministeriali in cui si individuano i depositi telematici aventi valore legale. Per esempio, il decreto per il contenzioso civile ordinario del tribunale di Ivrea del 24 novembre 2014 dispone l'attivazione della trasmissione come documento informatico "di tutti gli atti introduttivi di qualsiasi processo civile comunque denominato"; il tribunale di Catanzaro, per effetto del decreto 11 aprile 2014, ammette la trasmissione telematica di comparsa di risposta, comparsa conclusionale e memoria di replica, memorie autorizzate dal giudice e questo, per esempio, nei procedimenti di ingiunzione, nel contenzioso civile e nei procedimenti di lavoro. La norma di riferimento è l'art. 16 bis del decreto legge 179/2012, il cui primo comma prevede che in tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche. La circolare del ministero della giustizia del 28 ottobre 2014 ha spiegato che dal 30 giugno 2014 le cancellerie devono accettare qualsiasi atto endoprocessuale depositato in via telematica. La stessa circolare spiega che è necessario un provvedimento ministeriale per l'abilitazione alla ricezione degli atti introduttivi e di costituzione in giudizio. Nel caso in cui si proceda a deposito telematico in una sede non abilitata, sarà, però, il giudice a dover decidere sulla regolarità del deposito (e si arriva a esiti contrastanti); mentre le cancellerie devono, comunque, procedere all'acquisizione dei documenti. Protocolli. I tribunali si sono dotati di protocolli sul processo civile telematico, approvati d'intesa con gli avvocati. Si tratta di documenti che individuano prassi da seguire per una maggiore efficienza del sistema. Anche qui il deposito di atti e documenti è da conformare a regole non cogenti, ma che integrano la procedura da seguire. Sul sito www.jusdicere.it è possibile consultare i protocolli tribunale per tribunale. Si tratta di vademecum con indicazioni pratiche per il deposito e anche per le cosiddette copie di cortesia, e cioè copie cartacee che, pur non avendo valore legale, sono inserite nei fascicoli per una maggiore comodità. A Roma si prevede che le copie di cortesia siano inserite in una busta, contrassegnata con i dati delle parti e della causa, e imbucate in un cassetto del magistrato. A Milano il protocollo raccomanda una numerazione standard dei documenti (sempre due cifre, con lo "zero" davanti ai numeri da 1 a 9) e preferisce che, nelle scansioni di documenti con più pagine, si antepongano quelle che contengono l'informazione rilevante (così da evitare di leggersi tutto un lunghissimo fi le per arrivare al punto specifico); stessa accortezza si ritrova nel protocollo del tribunale di Firenze, in cui si chiede di ingrandire la parte del documento che interessa e di inserirla in un file separato, per una migliore fruibilità del testo soprattutto se l'originale è scritto in piccolo (si pensi a minuscole condizioni di un contratto concluso con formulari). A Foggia ci si preoccupa del nome "parlante" dei fi le dei documenti, raccomandando agli avvocati, quando si deposita un atto telematico, di inserire nella denominazione del fi le che apparirà al cancelliere e poi sulla scrivania del giudice, la natura dell'atto e per i documenti di assegnare un nome descrittivo del contenuto. A Bologna avvocati e magistrati si sono accordati per le stampe delle memorie istruttorie con: i legali forniscono carta, toner e stampanti e i magistrati si impegnano a stamparsi da soli le comparse conclusionali e ad autolimitarsi nella richiesta di stampe agli avvocati. Giustizia: questo giornale, orgoglioso di non pubblicare la spazzatura delle intercettazioni di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 marzo 2015 Passati alcuni giorni, a bocce ferme, è doveroso mettere tutto insieme. Rewind. L'oscena pubblicazione delle inutili e pruriginose intercettazioni tra Silvio Berlusconi e Gianpaolo Tarantini. L'incapacità per molti giornalisti e molti magistrati di saper distinguere una pettegola conversazione rubata da un capo di imputazione. La confusione tra materiale probatorio e materiale da rotocalco. L'utilizzo dei tabulati telefonici come nuovo definitivo strumento per dare ai magistrati la possibilità di lavorare per far rispettare la moralità e non solo la legalità. La scelta dei grandi giornali di utilizzare le proprie pagine come una buca delle lettere, o peggio uno sciacquone giudiziario, e non come strumento con cui informare e formare i propri lettori. L'incapacità delle gazzette delle procure di trattenersi dall'infilare in modo gratuito nel ventilatore tonnellate di ottimo sterco (giù le mani dal Pupone). La tentazione del governo di riequilibrare il piccolo affronto rivolto alla magistratura con la legge sulla responsabilità civile regalando ai magistrati (vedi le modifiche al falso in bilancio) nuovi strumenti per agire con sempre maggiore discrezionalità all'interno dei processi. La giustificazione ridicola ("Ma non ti preoccupare, non cambierà nulla, alla fine pagherà lo stato, i magistrati saranno pur sempre giudicati da altri magistrati") offerta in privato da alcuni esponenti del governo di fronte alle critiche dell'Anm sugli effetti drammatici che potrebbe avere sulla magistratura l'approvazione di una legge sulla responsabilità civile. E infine - ma potremmo continuare per ore, per giorni, per mesi - l'assurdo principio di voler aumentare i tempi della prescrizione in un paese come il nostro dove la lunghezza dei processi è di per sé uno degli elementi centrali dell'ingiustizia del sistema giudiziario. Scusate, ma ci siamo un po' rotti le palle. Il punto ci sembra semplice e lineare. La giustizia italiana si presenta al paese come un mosaico con una grande crepa al centro, che coincide con il disgustoso mondo del processo mediatico. Di fronte a ciò che si osserva in questi giorni, tra sputazzamenti vari, fango, intercettazioni date in pasto ai giornalisti, continue violazioni della privacy, la chiave per capire quello che sta succedendo non è la battaglia scema tra chi dice che i magistrati che sbagliano devono essere puniti e chi invece rivendica la sostanziale impunità della casta - perché c'è qualcuno, a parte l'Anm, che sostenga che sia possibile che un magistrato che sbaglia non debba pagare? E c'è qualcuno che può dire che da quando è stata introdotta la legge Vassalli, negli ultimi ventotto anni, i magistrati hanno sempre pagato per i loro errori giudiziari? A domanda diretta del direttore di questo giornale al presidente dell'Anm, l'onorevole Rodolfo Sabelli come provocatoriamente lo chiama Roberto Giachetti, il dottor Sabelli ha ammesso di non sapere un solo nome di un solo magistrato condannato negli ultimi ventotto anni per dolo o colpa grave. No, il punto non è questo. La vera battaglia culturale che si combatte oggi attorno alla giustizia è invece un'altra. Da una parte c'è chi considera uno schifo sputtanare a mezzo stampa qualcuno senza pagarne le conseguenze, chi vomita di fronte alla continua violazione della privacy messa in scena dalle intercettazioni; chi insiste a denunciare un incredibile squilibrio dei poteri, tra politica e magistratura; chi gode quando la politica sceglie di sanare questo equilibrio; chi apprezza che la parola garantismo venga utilizzata non come un modo per difendere i propri amici da qualche indagine ma come un principio costituzionale semplicemente da rispettare; chi di fronte all'utilizzo strumentale di un'inchiesta si ribella e si incazza; chi di fronte a un magistrato che utilizza la sua attività da magistrato per fare politica si indigna e non ci sta; chi di fronte a un processo costruito sul nulla non si ricopre gli occhi di fette di prosciutto; chi pensa che i magistrati debbano applicare le leggi e basta, senza proporle e senza avere la presunzione di essere potere legislativo oltre che giudiziario; chi pensa che c'è qualcosa di anormale, se c'è una magistratura che da vent'anni e più dice che ogni riforma della magistratura è un attacco alla magistratura; chi, ancora, pensa che non sia doveroso che un magistrato che con dolo o colpa grave calpesta i diritti fondamentali di un cittadino violando manifestamente la legge o travisando macroscopicamente fatti o prove vada espulso senza diritto di reintegro; chi pensa che costruire inchieste e indagini con il sentito dire, con le impressioni più che con le prove, sia un atto da denunciare non da assecondare; chi pensa che il giornalista ha il diritto di pubblicare quello che è presente in un fascicolo giudiziario non coperto da segreto ma ha il dovere di distinguere il cioccolato dal letame. E infine - come facciamo in questo giornale - chi pensa che non pubblicare un'intercettazione priva di rilievo penale, e che sputtana qualcuno che magari non c'entra nulla con l'indagine, è una scelta che non farà guadagnare copie, ma farà di certo guadagnare un po' di dignità. Da una parte c'è chi la pensa così. Dall'altra parte c'è invece chi pensa che tutto quello che abbiamo elencato sia solo un modo per stare dalla parte dei furfanti. A volte, pensandola con i principi che abbiamo elencato, si potrà anche finire per difendere qualcuno che si dimostrerà essere un furfante. Ma ne sarà comunque valsa la pena. Perché, parafrasando Ligabue, per chi viene sputtanato senza una ragione valida per essere sputtanato, semplicemente non va più via l'odore del cesso. E se leggete questo giornale sapete già da che parte stiamo. Non contro i magistrati. Ma contro chi utilizza i processi e le indagini con lo stesso criterio con cui si utilizza un ventilatore per sparare spazzatura addosso a qualcuno. Giustizia: Soffiantini "ho perdonato i rapitori ma oggi sparerei anch'io come il benzinaio" di Fabrizio Boschi Il Giornale, 9 marzo 2015 Giuseppe Soffiantini, sequestrato nel 1997, fu liberato dopo 237 giorni di prigionia. "Nella vita odio e vendetta non servono. Adesso però la violenza è diventata spaventosa. Con le rapine in villa abbiamo paura anche di stare in casa". "Bene, abbiamo parlato di molte cose. Ma non ne capisco una: come le è venuta l'idea di tornare a parlare proprio di me?". Un uomo d'altri tempi, mite e gentile, che conserva la pacatezza propria di un uomo perbene. Da un sequestro si torna cambiati. Per sempre. E di questa semplice ma terribile verità Giuseppe Soffiantini appare ancora oggi, mentre spegne le sue 80 candeline, consapevole. La memoria resta l'unica difesa per riappropriarsi del proprio corpo e della propria storia. È il 17 giugno 1997 quando, allora 62enne, l'imprenditore viene sequestrato nella sua villa di Manerbio, paese di 13mila abitanti a 20 chilometri da Brescia e 30 da Cremona. Sono le 22,30. I rapitori legano e imbavagliano la moglie Adele e la chiudono in un sottoscala. La donna riesce a dare l'allarme solo la mattina successiva. Prima di andarsene con l'ostaggio, i banditi dicono alla donna: "Non ti preoccupare, te lo faremo ritrovare". Passeranno 237 interminabili giorni. È il 9 febbraio 1998, sono circa le nove di sera quando Adele risente al telefono la voce del marito: "Sono libero, venitemi a prendere". Soffiantini è all'Impruneta, alle porte di Firenze. "Il mio primo pensiero è stato quello di tenere il cuore calmo perché mi batteva talmente forte che avevo paura mi scoppiasse. L'unica cosa che mi preoccupava in quel momento era dire ai miei cari che le lettere che avevo scritto erano state dettate sotto la minaccia delle armi. Avevo paura che ci fossero rimasti male...". Soffiantini apre la porta della sua bella villa di Manerbio. La stessa dove venne rapito 18 anni fa. Non l'ha mai cambiata. Il primo a fare gli onori di casa è Olly, un labrador tutto feste e coccole. "Mi piace stare qui. Adesso ci vivo solo con mia moglie. Ma prima c'erano anche i miei figli. È una casa in campagna molto comoda, abbiamo anche i polli, con un grande giardino come piace a me. Io amo le piante e stare fra la natura. Pensi che ho tre tipi di querce e molti pini ? precisa compiaciuto - guardi". Si avvicina alla finestra e punta il dito fuori. È domenica. Oggi non si va in azienda. Ma Soffiantini mantiene la sua solita eleganza. Anche in casa. "Metto sempre giacca e cravatta, in particolare quando vado in ufficio. Ho continuato a fare la mia solita vita diminuendo man mano il mio impegno diretto, ma faccio sempre parte del consiglio di amministrazione - sorride. Ogni mattina affido i compiti da fare al mio giardiniere e poi vado in azienda. Poi pranzo a casa. La famiglia per me è la cosa più importante. La domenica stiamo tutti insieme. Mi riposo un po' e torno al lavoro anche il pomeriggio, a rompere un po' le scatole". Anche dopo la sua drammatica esperienza, Soffiantini non ha mai smesso di occuparsi della sua azienda di abbigliamento femminile che ha fondato negli anni Sessanta. "Ho vissuto molto intensamente e ho lavorato tanto nella mia vita. Ogni mattina andavo in azienda alle 7, un'ora prima dei miei collaboratori. Giravo l'Italia per vendere i nostri prodotti, ma ho sempre fatto un lavoro che mi piaceva". Seduto nello studio del salotto a leggere i giornali, tanti libri intorno a lui, molte foto in cornici d'argento, innumerevoli ricordi. Avvolto dall'affetto di sua moglie, dei suoi sette nipotini e dei tre figli che oggi si occupano di mandare avanti l'attività di famiglia: Paolo, 44 anni, il più giovane, colui che i rapitori avrebbero voluto sequestrare al posto del padre. "Per fortuna all'epoca faceva il servizio militare e quella sera era stanco, così decise di rientrare in caserma un'ora prima del solito. Altrimenti avrebbero preso lui e non me", sospira. Carlo, 54 anni, il più grande, che abita a Brescia e Giordano, 47, a Manerbio. "Tre bravi figlioli". "Qui ho tutta la mia vita. Ma non è una casa da ricchi. È stata fatta da un geometra, non da un architetto", puntualizza. Negli anni bui dei sequestri, mai avrebbe pensato che sarebbe toccato pure a lui. "Mi dicevo, se dovesse succedere a me morirei ancor prima di essere sequestrato. Ma evidentemente tutti noi abbiamo dentro delle risorse impensabili. Arrivati all'estremo, quando la paura supera tutti i limiti, non abbiamo più paura di niente: tanto è vero che dopo due giorni dal sequestro affrontavo verbalmente i carcerieri chiamandoli bestioni: ?Guardate che voi avrete pure diritto di morte su di me ma non paragonatemi a voi, perché voi siete dei banditi e io sono una brava persona!?". E il pensiero scivola sui sequestri del terzo millennio, molto diversi per i modi, ma identici per un aspetto. "Il dolore è lo stesso. In quel periodo ci sequestravano a casa nostra, oggi andiamo a farci sequestrare all'estero. Ma è una questione troppo delicata per essere banalizzata così. Non voglio entrare in questi argomenti perché le sofferenze personali e dei familiari sono identiche. Voglio solo dire che nei sequestri di adesso lo Stato italiano si comporta diversamente. A noi bloccavano i conti correnti, congelavano i beni per non permetterci di pagare il riscatto mentre oggi lo Stato paga tanti e tanti soldi per liberare gli ostaggi. Denaro che serve per armare i terroristi. Per il mio riscatto abbiamo pagato 5 miliardi di lire, soldi che non ho più rivisto, e che sono stati autorizzati otto mesi dopo il sequestro per dare il tempo alla polizia di fare le ricerche. Otto mesi però sono moltissimi. L'unica consolazione è che dopo di me i banditi hanno capito che questo tipo di crimine non conveniva più e gli specialisti del sequestro sono stati tutti catturati". Orecchie mozzate, vestito di stracci fradici in pieno inverno, senza lavarsi per quasi un anno, come cibo una fetta di lardo e una mela, come rifugio buche nel terreno o tende improvvisate e incatenato. Questo il trattamento riservato a Soffiantini. Ma lui ha deciso di voltare pagina. "L'ho fatto quasi subito, in verità, per istinto di sopravvivenza. Vede, io non ho perdonato quelle bestie per spirito di buonismo. Sarei uno sciocco. L'ho fatto per me, per salvarmi. Ho imparato che nella vita covare sentimenti di odio e di vendetta non serve a niente. Quello era l'unico modo per liberarmi dalle catene della prigionia. Se non l'avessi fatto mi sentirei sequestrato ancora oggi. La giustizia degli uomini ha fatto il suo corso: Farina è in carcere a vita, altri sono stati condannati a 25, 18 e 12 anni. Qualcuno è già fuori. Uno di loro, Cubeddu, non è neppure mai stato trovato e il basista di Manerbio dopo 8 anni di galera l'ho rivisto in giro per il paese. La giustizia divina farà altrettanto. Per quanto mi riguarda ho voluto prendere le distanze da tutto e tutti". Malgrado tutto questo Soffiantini oggi ha ancora un po' paura. "Noto una spaventosa recrudescenza della violenza. Non siamo più sicuri nemmeno nelle nostre case. Le rapine, soprattutto ad opera di extracomunitari, sono sempre più frequenti". Come il caso di Graziano Stacchio, il benzinaio che ha sparato a un bandito nomade per salvare una commessa: "Bisogna vedere come sono andate esattamente le cose, ma come si fa a non essere dalla sua parte? Anche io ho un'arma e se dei rapinatori entrassero in casa mia farei lo stesso". Oggi, come 17 anni fa, mantiene quell'aria serafica di un uomo appagato dalla vita che tanto gli ha dato e tanto gli ha tolto. "Vede, la vita dà e toglie e a 80 anni ci si accorge che è passata in un baleno". Una grande fede l'ha sempre guidato sulla strada giusta, permettendogli di superare quel trauma. Tanti oggetti e tante foto in casa ne sono la testimonianza. Una su tutte quella con Papa Wojtyla: "Una volta mi disse: ringraziamo il Signore, sia tu che io l'abbiamo scampata bella?". Le uniche immagini che restano ben nascoste sono quelle che raccontano quella terribile storia. Sono lì, schiacciate sotto i suoi ottant'anni straordinari. Giustizia: bufera per la foto su Facebook dell'ex camorrista in permesso premio di Dario Del Porto La Repubblica, 9 marzo 2015 La barba lunga e bianca, il cellulare all'orecchio: è l'ex boss della camorra di Mondragone Augusto La Torre, oggi collaboratore di giustizia anche se non più sotto protezione, ritratto mentre lascia il carcere di Ferrara per un permesso premio di tre giorni, già terminato. La foto, postata fu Facebook dal figlio e poi rimossa, ha scatenato aspre polemiche sui social network e anche in alcuni familiari delle vittime di camorra, come l'assessore regionale Daniela Nugnes, cui il clan di Mondragone uccise il padre, che hanno parlato di "beffa" per il permesso a La Torre. Laureatosi in Psicologia durante la detenzione, reo confesso di numerosi delitti fra cui molti omicidi, La Torre è stato protagonista di una controversa collaborazione con la giustizia che va avanti nonostante la revoca del programma di protezione decisa a seguito di un'accusa di estorsione dalla quale è stato assolto. Ora si è affidato a un legale d'eccezione: l'ex pm di Palermo Antonio Ingroia che, a Repubblica, spiega: "Quella della foto su Facebook è una leggerezza, le polemiche sono esagerate. Comprendo però le reazioni dei familiari delle vittime. La Torre ha scontato un bel pezzo di pena e la sua collaborazione, controversa ma non sul piano dell'attendibilità, ha permesso di processare e arrestare numerosi criminali. Pur dopo aver commesso tanti reati, gli si può consentire un breve permesso, per giunta lontano dal territorio d'origine". Lettere: colpevoli per tutta la vita di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2015 Nel cocktail di veleni che un uomo o una donna portano con sé quando escono dal carcere due mi sembrano i principali ingredienti: la rabbia e l'insicurezza. Non sono più detenuti ma nemmeno cittadini a pieno titolo, perché abitano il limbo dei pregiudicati: un banale controllo dei documenti in auto può diventare una perquisizione, in caso di divorzio, anche quando ne hanno titoli e ragioni, è quasi impossibile che ottengano l'affido dei figli, si sentono spesso rifiutare un appartamento in affitto e i nuovi amici e i nuovi fidanzati prendono non di rado le distanze quando vengono a sapere della detenzione. Per non parlare del lavoro. "Siamo colpevoli per sempre" mi disse un giorno un ex detenuto. Come sorprendersi che ne derivi una rabbia indifferenziata verso tutto e tutti? Allora avere affrontato la vergogna del processo, la condanna, la solitudine del carcere con tutte le sue tremende limitazioni, avere accolto il senso di colpa, allora tutto questo, tutti questi anni, non contano niente? Il debito non si estingue mai? Solo i potenti non pagano? Forse è anche per questo che la recidiva nel nostro Paese è così alta: la rabbia è in questo caso una cattiva consigliera, ma ormai so che è una recidiva in molti casi indotta proprio da noi, da istituzioni e cittadini. L'insicurezza ha invece origine nella regressione infantile che il sistema carcerario impone: i diritti in prigione sono solo sulla carta, tutto è discrezionale e dipende da variabili sconosciute. Il detenuto può solo fare la "domandina", cioè compilare un modulo con la richiesta: avere un colloquio prolungato, una medicina urgente, parlare con l'educatore… la risposta forse arriverà e forse no. Il detenuto diventa debole e passivo come un minore sotto tutela, sottoposto a un'autorità con cui non si confronta e da cui tutto dipende. Quando uscirà porterà con sé una penosa sensazione di inadeguatezza, come un bambino catapultato in un mondo di adulti. Lanciano (Ch): 150 detenuti rinunciano al vitto "contestiamo l'Ufficio di Sorveglianza" di Stefania Sorge Il Centro, 9 marzo 2015 Circa 150 detenuti del carcere di Villa Stanazzo hanno intrapreso, dai primi di marzo, una protesta contro i provvedimenti adottati dall'Ufficio di sorveglianza di Pescara. "Per ristabilire la centralità della legge nel sistema giudiziario e a salvaguardia della nostra dignità", sostengono in una lettera sottoscritta da tutti i detenuti ostativi delle sezioni 1, 2, e 3B e inviata, tra gli altri, al ministero della Giustizia, "abbiamo deciso ciò in quanto in possesso di copie di ordinanze di magistrati di sorveglianza di altri uffici nazionali, Bologna, Roma e Napoli, per citarne alcuni, le cui decisioni favorevoli riflettono e rispettano gli ultimi decreti leggi promulgati in materia di liberazione anticipata speciale e risarcimento del 10%. Il magistrato di sorveglianza di Pescara, contrariamente e diversamente dai suddetti colleghi, non applica alcun beneficio. L'inammissibilità delle richieste è motivo preponderante e unico nei rigetti che formula, creando in tal modo anche i presupposti della non ricorribilità alla decisione ad organi superiori, quale il tribunale sorveglianza dell'Aquila o la Cassazione. Per non dire poi che le istanze vengono corrisposte a distanza di mesi e anche di anni. Nelle more di una decisione che il magistrato, se tempestivamente rispondesse, potrebbe dimagrire i termini del fine pena consentendo la scarcerazione, qui a Lanciano", sottolineano, "i detenuti scontano la pena fino all'ultimo giorno di detenzione. Quando, dopo lunghe attese, è ottenuta la decisione per il beneficio, ovviamente negativa e sfavorevole, per ricorrere non si ha più tempo. Questa situazione ci umilia", continua la lettera, "così risultano inutili anni e anni di percorso tratta mentale e viene inficiato l'operato dell'amministrazione della Casa circondariale, le valutazioni e i pareri dell'area educativa e della direzione". Senza contare le condizioni disumane in cui sono reclusi i detenuti di Villa Stanazzo. È del 18 febbraio scorso il decreto del tribunale dell'Aquila, uno dei primi in Abruzzo, che condanna il ministero al risarcimento di un detenuto recluso, per 717 giorni, in condizioni "inumane e degradanti" nel carcere di Lanciano. Come protesta i detenuti hanno intrapreso la battitura giornaliera contro le sbarre delle celle, lo sciopero della spesa del sopravvitto e la rinuncia del vitto giornaliero. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; detenuta 82enne festeggia compleanno in cella a Uta Ansa, 9 marzo 2015 Il simbolo della giornata è la nonnina detenuta di 82 anni: sta scontando la pena nel carcere di Uta e proprio oggi ha festeggiato, insieme alla ricorrenza dedicata alle donne, anche il compleanno. È una delle venticinque donne ospiti dell'istituto penitenziario alle porte di Cagliari che hanno partecipato ad un incontro con una delegazione femminile nell'ambito del progetto "Un sorriso oltre le sbarre", iniziativa di solidarietà giunta alla sesta edizione. Promossa dall'associazione "Socialismo Diritti Riforme", coordinata da Maria Grazia Caligaris, con la collaborazione della sezione cagliaritana della Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari), presieduta da Silvia Trois, l'iniziativa intende sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni sulla condizione delle donne detenute e delle agenti della Polizia Penitenziaria. C'erano, insieme a Trois e Calligaris, anche la consigliera regionale Anna Maria Busia, suor Angela Niccoli, Giuseppina Pani, dell'Area educativa, e Alessandra Uscidda, comandante delle guardie. In occasione dell'appuntamento, ciascuna detenuta ha ricevuto un pacchetto contenente dei prodotti per la cura personale. Si tratta di un kit con spazzolino, dentifricio, bagnoschiuma, crema per il corpo e sapone per l'igiene intima. Nel contenitore, grazie alla solidarietà di farmacie e profumerie, anche campioncini di shampoo, balsamo e altri prodotti per la cura del viso. Sarà inoltre donata una pianta per la sezione femminile della Casa Circondariale. "La lontananza del centro urbano dell'istituto penitenziario - sottolineano Caligaris e Trois - richiede da parte delle istituzioni una maggiore attenzione e richiama l'opinione pubblica a una più intensa partecipazione alle problematiche della perdita della libertà. Per le nostre associazioni acquista un particolare significato soprattutto in questo momento dell'anno. La Festa della Donna è infatti un momento anche per riflettere sulla realtà di chi sconta una pena. La condivisione di idee, sentimenti, sensazioni in una mattinata da vivere insieme è un modo per dare significato all'8 marzo senza cadere nella retorica". Tre le donne incontrate anche due rom incinte di sei e tre mesi. Il parere delle detenute su Uta? Hanno raccontato di trovarsi molto bene, anche se qualcuna ha parlato con nostalgia del clima, definito più raccolto, di Buoncammino. Per le recluse in arrivo dei corsi con un progetto portato avanti dalle studentesse del liceo Siotto che presto le incontreranno. Nelle prossime settimane partiranno anche lezioni di cucina e allestimento della tavola. Torino: sì del Consiglio comunale all'impiego di detenuti in lavori di pulizia della città Ansa, 9 marzo 2015 Sì del consiglio comunale alla mozione per l'impiego di detenuti in lavori di pulizia della città durante i grandi eventi che Torino ospita nel 2015, in particolare l'Ostensione della Sindone. Primo firmatario del documento il capogruppo di Sel Michele Curto. L'assessore all'ambiente Enzo Lavolta ha sottolineato: "nel 2015 vari eventi necessiteranno di interventi straordinari per la cura e la pulizia della città ed è utile avere questo tipo di risorse straordinarie. Questi lavoratori - ha poi precisato - non svolgeranno attività sostitutive dei lavoratori dell'Amiat (l'azienda pubblica di igiene ambientale, ndr)". È stato approvato anche un ordine del giorno presentato dalla consigliera del Pd Domenica Genesio che invita Governo e Parlamento "a riprendere i progetti di lavoro in carcere nel settore della ristorazione che nella loro sperimentazione - ha sottolineato - hanno permesso di migliorare la qualità della vita in carcere e consentono l'inserimento lavorativo una volta usciti dal carcere". Ancona: Sappe; detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato dalla Polizia penitenziaria www.vivereancona.it, 9 marzo 2015 È stato salvato dalla Polizia penitenziaria il detenuto che, venerdì, ha tentato di farla finita tentando di impiccarsi nella sua cella. Attimi di paura a Montacuto. Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Montacuto, ad Ancona. Protagonista, venerdì mattina, un detenuto tunisino di 32 anni, che scontava una pena, fino al 2016, per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Fortunatamente tempestivo l'intervento dei poliziotti penitenziari. Anche se Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria del Sappe ricorda che questo è "l'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria". Ancora critica la situazione nei carceri locali. "Al 28 febbraio scorso erano - precisa il segretario regionale delle Marche Nicandro Silvestri - detenute a Montacuto 166 persone. Nel penitenziario, negli ultimi dodici mesi del 2014, si sono contati il suicidio di un detenuto, 7 tentati suicidi sventati in tempo dai Baschi Azzurri, 103 episodi di autolesionismo e 36 colluttazioni. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Montacuto - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri marchigiane e del Paese tutto". Trento: detenuto picchia due agenti, riceve ordinanza di custodia e reagisce con violenza Il Trentino, 9 marzo 2015 Violento episodio nel carcere di Spini di Gardolo. Un detenuto tunisino ieri ha ricevuto la notifica di un'ulteriore ordinanza di custodia cautelare e ha reagito con violenza scagliandosi contro due agenti della polizia penitenziaria. Un episodio che preoccupa e dimostra come dietro le sbarre del nuovo carcere la situazione sia peggiorata. Alcuni mesi sempre a Spini si sono registrati due suicidi e la morte di un giovane detenuto. Adesso arriva anche questa aggressione. Il sindacato degli agenti penitenziari Sappe è preoccupato: "La situazione resta allarmante nelle nostre carceri. Ieri mattina si è registrata un'aggressione ai danni di due agenti di Polizia Penitenziaria, ad opera di un detenuto di nazionalità tunisina, ristretto per vari reati tra i quali spaccio droga, che li ha improvvisamente colpiti con calci, pugni e sberle. Il fatto è successo durante una normale operazione di notifica di alcuni atti per altri episodi violenti commessi dal carcere. Parliamo di un soggetto che giusto l'altro ieri era uscito da un isolamento proprio per la sua turbolenza e che, improvvisamente, ha aggredito due poliziotti e sputato su un terzo collega. Eventi del genere sono sempre più all'ordine del giorno e a rimetterci è sempre e solo il personale di Polizia Penitenziaria. Il Sappe esprime solidarietà al personale coinvolto e augura una veloce ripresa e ritorno in servizio. Queste aggressioni sono intollerabili e inaccettabili. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". La notizia arriva dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe per voce del segretario generale Donato Capece: "La situazione, a Trento e nelle carceri italiane, resta grave e questo determina difficili, pericolose e stressanti condizioni di lavoro per gli agenti di Polizia Penitenziaria, nonostante vi sia chi non sta in prima linea a contatto con i detenuti ma si affretta sempre a dire che va tutto bene". Giovanni Vona, segretario nazionale Sappe per il Triveneto, sottolinea le criticità delle carceri italiane e interregionali: "Nei 201 penitenziari del Paese il sovraffollamento resta significativamente alto rispetto ai posti letto reali, quelli davvero disponibili, non quelli che teoricamente si potrebbero rendere disponibili. A Trento, nei dodici mesi del 2014, abbiamo contato il suicidio di 2 detenuti, 6 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 17 episodi di autolesionismo e 6 colluttazioni". Bologna: mercoledì alla Dozza nuova lezione del Corso "Diritti doveri solidarietà" Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2015 Mercoledì 11 marzo 2015 alla Casa circondariale Dozza di Bologna, Domenico Cella, Presidente dell'Istituto De Gasperi e Ignazio De Francesco, della Piccola Famiglia dell'Annunziata, terranno la lezione: "Il lavoro come valore fondante della Costituzione italiana e come strumento di emancipazione sociale. Focus: la posizione della donna lavoratrice, con particolare riferimento alla situazione dei Paesi arabo-islamici". Si tratta della sedicesima di un ciclo di ventiquattro lezioni dedicate ai detenuti della Casa Circondariale Dozza di Bologna iscritti ai corsi dell'anno scolastico 2014-2015, nell'ambito del Progetto "Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico", realizzato a seguito dell'Accordo quadro tra la Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e il Centro per l'istruzione degli adulti Cpia Metropolitano di Bologna. Ferrara: teatro-carcere; la libertà… un bene prezioso da regalare a chi non l'ha Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 9 marzo 2015 Il Nucleo oggi vola in Germania per il progetto europeo di teatro in carcere A guidare il gruppo il regista Horacio Czertok coordinatore di "Breaking Limits". Se è vero che solo il teatro ti permette di aprire una porta e trovarti davanti all'infinito, allora è altrettanto vero che il teatro consente a un detenuto di "evadere" dal carcere ogni volta che vuole. Horacio Czertok, insieme al Teatro Nucleo, da anni lavora alla Casa Circondariale di Ferrara, accompagnando i detenuti in un percorso che non è solo passatempo, è molto di più: è un insieme di culture, approfondimenti, storie, approcci, studi, scoperte e interazioni. Nel 2013 nasce "Breaking Limits", progetto europeo di teatro in carcere in Europa. Il Teatro Nucleo è coordinatore dell'iniziativa e i partner sono l'azienda Asp di Ferrara - Italia, l'Alarm Theater di Bielfeld (Germania), il Teatro del Norte di Oviedo (Spagna), l'Ures Ter di Pecs (Ungheria), l'Università di Liegi (Belgio) e il Ministero della Giustizia della Turchia. Oggi Czertok e i suoi partono alla volta di Bielfeld. Qui incontrano i loro colleghi, le istituzioni per scambiarsi pareri, opinioni, impressioni e idee riguardanti l'attività teatrale all'interno dei penitenziari. Noi della "Nuova" compiremo questo viaggio con loro per raccontarvi da vicino questo "insolito" gemellaggio culturale. Prima di partire però abbiamo intervistato proprio Horacio Czertok per scoprire da lui la nascita, lo svolgimento e il futuro di questo percorso. Quando e perché è nata la voglia di portare il teatro all'interno del carcere? "In trent'anni - dice - ho portato il teatro nelle piazze e nei "luoghi senz'anima" di centinaia di città in tre continenti, constatando ovunque entusiastiche e profonde adesioni che andavano oltre le differenze culturali o etniche. Il carcere è l'opposto all'apertura della piazza, dell'estrema libertà immaginabile e praticabile: una mia naturale predisposizione alla contraddizione mi ha portato a pensare che proprio laddove minima è la libertà, massimo è il desiderio per il bene più importante dell'uomo. Il teatro è la massima espressione della libertà e portarlo dentro il carcere avrebbe arricchito tutti: detenuti e teatro, ma anche chi lavora nella struttura e i cittadini tutti. Dopo dieci anni di teatro nel carcere di Ferrara posso dire che così è stato, e che così è tuttora". Il teatro diventa in un certo senso uno strumento… "Usiamo il teatro per tante cose: intraprendere un percorso di alfabetizzazione ad esempio o imparare la lingua italiana in modo più dinamico e partecipato. Durante una lettura o un'improvvisazione riemerge la componente ludica e allora l'ostacolo, in questo caso la lingua, non è più una montagna insormontabile ma fa parte del gioco". Ora a cosa state lavorando? "Alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso - sorride; difficile no? Bene, più alta è la sfida più ampio è il lavoro; noi la pensiamo così. Nell'opera di Tasso ci sono guerra, religione, ma soprattutto poesia. Le ottave Tassiane sono una sfida, è come scalare una vetta di 5mila metri a mani nude: è difficile, ma noi non semplifichiamo le cose. La poesia è complessa e tramite tale complessità si scavano delle vie nell'anima dei "nostri" detenuti". Come si svolge l'attività laboratoriale? "All'Arginone facciamo quattro ore a settimana, suddivise in due giorni. In media ci sono una ventina di partecipanti ma non abbiamo numeri fissi. La Casa Circondariale di Ferrara ha un turnover molto ampio e quindi fare percorsi a lungo termine con i detenuti è difficile, però lavoriamo con tante persone. Cerchiamo di mettere al centro dell'attività il vissuto e le esperienze di ciascuno di noi. Questo non significa che seguiamo una corrente di "teatro biografico", però a volte, mettere in campo sé stessi può essere utile". Le prospettive future? "Buone: il coordinamento regionale che abbiamo voluto fondare a Ferrara con il Forum del 2009 e le successive azioni hanno portato dal solo supporto del Comune di Ferrara all'adesione convinta di Regione, Università di Bologna e, soprattutto, Provveditorato all'amministrazione penitenziaria. Le realtà teatrali - chiude - che agiscono nelle carceri in regione crescono ogni anno, sia per volume di attività e sia come qualità di interventi. C'è ancora molto lavoro da fare, ma siamo sempre pronti". Gambia: la moglie del pescatore italiano "mio marito in cella per 2 millimetri di rete" di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 9 marzo 2015 Gianna De Simone: "Niente bagni né letti e malnutriti". L'armatore: "Erano in regola. Temiamo per la loro vita". Si muove la diplomazia. "Ho più paura oggi che nel 1992, quando mio marito, Sandro De Simone, sempre in mare sulle barche da pesca, finì nelle mani dei pirati somali. Rimase sequestrato per un mese, all'epoca, in attesa che dall'Italia la sua compagnia pagasse il riscatto per liberarlo. Ma almeno i pirati somali gli facevano telefonare a casa due volte alla settimana e alla fine nacque quasi una fratellanza tra di loro, mangiavano insieme, a bordo, il pesce pescato. Questa volta, invece, è buio fitto...". Gianna De Simone, al telefono dal comune abruzzese di Silvi, è angosciatissima. Suo marito, Sandro De Simone, 55 anni, da trenta comandante di pescherecci, dal 2 marzo scorso è recluso insieme al suo direttore di macchina, Massimo Liberati, di San Benedetto del Tronto, nel temibile penitenziario di "Mile Two", a Banjul, la capitale del Gambia, descritto da "Amnesty International" più come un lager che come una prigione, tra "carenti condizioni igieniche, malattie, sovraffollamento, caldo estremo e malnutrizione". "Ma è una pena troppo crudele il carcere - continua la signora Gianna - rispetto al reato che avrebbero commesso. La Marina del Gambia li accusa, infatti, per una sola rete da pesca, trovata sul ponte di coperta il 12 febbraio durante un'ispezione, con le maglie strette 68 millimetri invece di 70, la misura massima consentita. Avete capito bene: per 2 millimetri di differenza, li hanno messi in prigione!". L'ambasciatore italiano in Senegal, Arturo Luzzi, competente anche per il Gambia, ieri ha telefonato alle mogli dei due marittimi per rassicurarle. Oggi stesso il vice ambasciatore, Domenico Fornara, sarà a Banjul. Le autorità locali hanno condannato De Simone e Liberati a un mese di detenzione e l'obiettivo minimo - dice la signora De Simone - sarà quello di ottenere "una riduzione della pena". Giovedì scorso il console onorario italiano in Gambia, che in realtà è un indiano, Dayal Daryanani, ha fatto visita ai due, poi all'uscita ha raccontato tutto all'armatore della "Italfish" di Martinsicuro, Federico Crescenzi, subito arrivato dall'Italia: "Sandro e Massimo sono rinchiusi in celle separate, due gabbie di quattro metri per tre, senza bagni né letti, ciascuno in compagnia di altri quindici o sedici detenuti comuni". Condizioni disumane, situazione da incubo. Intanto, il peschereccio del comandante De Simone, l'"Idra Q", 42 metri di lunghezza e 30 tonnellate di pescato tuttora fermo nella stiva refrigerata, è ormeggiato al porto dal 12 febbraio, sorvegliato dalle guardie armate. A bordo è rimasto solo il nostromo, Vincenzino Mora, 60 anni, a cui è stato ritirato il passaporto. "Noi siamo come una famiglia - racconta da Banjul l'armatore -. Lavoriamo insieme da anni e adesso temiamo per la vita di Sandro e Massimo". L'Italfish fu fondata 40 anni fa dal padre di Federico, Santino Crescenzi, e oggi conta una flotta di 6 navi. "Quest'anno siamo finiti in Gambia - racconta il direttore commerciale, Massimo Sabato - perché l'Ue non ha rinnovato gli accordi bilaterali con Marocco, Mauritania, Senegal, Guinea Bissau e dunque tutti questi Paesi, ben più pescosi del piccolo Gambia, ci sono stati interdetti. Banjul, insomma, era un ripiego". Cinquanta chilometri di coste sull'Atlantico, quasi davanti a Capo Verde: "Avevamo una regolare licenza trimestrale per pesci e cefalopodi - sospira il direttore commerciale -. Ci sentivamo tranquilli, poi all'improvviso il 12 febbraio è salita a bordo la Marina e si è messa a misurare le reti col righello. Giuro... Noi invano abbiamo spiegato loro che non esistono in commercio reti con maglie da 68 millimetri, quelle per forza dovevano essere maglie da 70 che col sole dei Tropici si sono deformate. Ma non ci hanno voluto ascoltare. O forse semplicemente cercavano un pretesto". Russia: cinque ceceni in cella per il delitto Nemtsov, ma nell'inchiesta molti punti oscuri di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 9 marzo 2015 Uno degli arrestati avrebbe confessato. I molti punti oscuri di un'inchiesta che accusa i caucasici. Due ceceni formalmente accusati di aver ucciso l'ex vicepremier Boris Nemtsov il 27 febbraio; altri tre che rimangono in carcere, mentre un sesto si sarebbe fatto saltare in aria a Grozny per non essere catturato. L'hanno ucciso perché da "ferventi mussulmani" non sopportavano il fatto che il leader dell'opposizione aveva espresso solidarietà ai giornalisti di Charlie Hebdo massacrati a Parigi. Anzi, no. L'agguato sotto le mura del Cremlino e l'omicidio di un personaggio di spicco della vita politica russa è avvenuto per motivi di denaro, connessi con la rapina, l'estorsione o il banditismo. Questo secondo la lettura degli articoli del codice penale in base ai quali è avvenuta la formale incriminazione degli accusati. Una gran confusione, insomma, mentre non si fa parola sui mandanti, sulle cause di una esecuzione che pare assai difficile poter addossare solamente a un gruppetto di ceceni di basso rango. Uno dei due uomini incriminati, Zaur Dadayev è stato per dieci anni nelle truppe del ministero dell'Interno ceceno (battaglione Sever, guardia presidenziale) ed è stato anche decorato per coraggio. È stato il presidente della repubblica caucasica Ramzan Kadyrov a confermare l'identità dell'uomo e a raccontare quanto fosse turbato per la vicenda Charlie Hebdo: "Tutti quelli che conoscono Zaur confermano che è un vero credente e che, come tutti i musulmani, era sconvolto dall'attività di Charlie e dai commenti di solidarietà con chi aveva stampato le vignette", ha scritto Kadyrov su Instagram. Fin dall'inizio, potremmo dire pochi minuti dopo l'omicidio, le autorità avevano avanzato proprio queste ipotesi per spiegare l'accaduto. Una "provocazione" come aveva sostenuto il presidente russo. Un gruppo di estremisti islamici o dei volgari banditi, secondo ipotesi fatte dagli inquirenti sul campo. Adesso pare che tra giudici, politici e responsabili dei servizi di sicurezza non ci si riesca a mettere d'accordo. E le due ipotesi più banali vengono portate avanti contemporaneamente. Gli accusati sono comparsi davanti ai giudici trascinati in manette (e in malo modo) da agenti mascherati. Dadayev avrebbe confessato, salvo poi non ammettere nulla davanti ai magistrati. Anzor Gubashev è il secondo incriminato, che ha negato qualsiasi coinvolgimento. Fra gli altri tre ancora trattenuti in attesa di sviluppi delle indagini, c'è anche il fratello più giovane di Gubashev, un certo Zahid. Il tutto sembra un "pacco" confezionato per dimostrare che gli alti vertici russi non c'entrano nulla, che giudici e poliziotti si sono dati da fare, come chiedevano opposizione e leader internazionali. Gli amici di Nemtsov, naturalmente, ci credono poco e chiedono che venga fatta piena luce. A molti la vicenda ricorda troppo da vicino quella di Anna Politkovskaya, la giornalista scomoda che venne freddata nel 2006. Anche in quel caso uscì fuori che gli esecutori erano un gruppo di ceceni, tre dei quali fratelli (i Makhmedov). A organizzare i pedinamenti e tutto il resto erano stati altri personaggi di basso livello, tra i quali un ex poliziotto. Sempre tra gli organizzatori spuntò un boss criminale di Grozny, tale Lom-Alì Gaitukayev. Di mandanti nemmeno l'ombra. E perché tutti questi manovali della criminalità organizzata si erano dati tanto da fare per eliminare Anna? Per odio, antipatia, avversione politica. La stessa strada sulla quale sembra avviata la vicenda Nemtsov. Afghanistan: 3 agenti uccisi in carcere, scontri scoppiati dopo controllo routine in cella Ansa, 9 marzo 2015 I detenuti in rivolta di un carcere della provincia settentrionale afghana di Jowzjan hanno ucciso tre poliziotti, tra cui il vice capo della sicurezza. Lo riferisce la tv 1TvNews. Negli scontri è rimasto ucciso anche un detenuto, mentre sono rimasti feriti cinque agenti e dieci detenuti. Il capo della polizia provinciale di Jowzjan, Faqir Mohammad Jowzjani, ha riferito che la rivolta è scoppiata durante un'ispezione nelle celle alla ricerca di materiale illegale in possesso dei detenuti. Con il rilascio dell'ultimo ostaggio e il controllo della struttura da parte delle forze di sicurezza si è conclusa in serata la rivolta nel carcere di Jowzjan (Afghanistan settentrionale), costata la vita a due agenti di polizia e un detenuto. Il capo della polizia provinciale, Faqir Mohammad Jowzjani, ha confermato ai giornalisti assiepati all'ingresso della prigione che un negoziato intrapreso dalle autorità con i carcerati in rivolta si è concluso con successo, permettendo il progressivo ritorno alla normalità. Una delle richieste principali dei detenuti - la sostituzione del direttore del centro penale - è stata accettata e questo ha permesso la fine della protesta. Nella prigione si trovano circa 800 persone, molte delle quali militanti talebani o di altre organizzazioni antigovernative. La rivolta era cominciata durante una perquisizione delle celle mirante al sequestro di armi e cellulari, anche per una notizia circolata di un trasferimento di massa di detenuti verso Pul-i-Charqi, il carcere di massima sicurezza di Kabul. India: stupratore linciato in carcere, 22 persone arrestate nello Stato di Nagaland Ansa, 9 marzo 2015 La polizia dello Stato nord-orientale indiano di Nagaland ha arrestato 22 persone che sarebbero implicate nel linciaggio giovedì scorso di una persona accusata di stupro portata via a viva forza dal carcere di Dimapur. Lo riferisce l'agenzia di stampa Ians. Per cercare di ridurre la tensione, il governo locale ha imposto la sospensione dei servizi di messaggeria telefonica, utilizzati a quanto sembra da movimenti sociali che hanno aizzato la folla a fare irruzione nel carcere per "punire duramente" il presunto violentatore, Syed Farid Khan. Un responsabile della polizia ha confermato che "finora abbiamo arrestato nel complesso 22 persone implicate nell'uccisione del detenuto. Stiamo ancora esaminando i video delle telecamere a circuito chiuso, e non è escluso che altri arresti seguiranno". Stati Uniti: detenuto uccide compagno di cella "aveva stuprato bimba, meritava di morire" Ansa, 9 marzo 2015 Nel dicembre del 2013, l'ex poliziotto Theodore Dyer è stato condannato in primo grado per violenza sessuale su una bambina di 9 anni. Dyer, 66 anni, è stato condannato al carcere a vita per i suoi crimini disgustosi, ma non aveva idea che la sua vita sarebbe effettivamente finita in prigione: l'uomo è stato ucciso dal suo compagno di cella, Steven Sandison, per niente pentito dell'omicidio. Il 51enne Sanderson, ha infatti educatamente spiegato al giudice il motivo per cui ha ammazzato Dyer: "L'ho ucciso perché era uno stupratore di bambini". Sandison, in galera per un omicidio commesso nel 1991, ha spiegato di essere venuto a conoscenza del crimine commesso dal suo compagno di cella poiché l'ex poliziotto ne parlava in continuazione, e non riusciva più a sopportarlo.