La nuova Giustizia del Grande Fratello di Alessandro Barbano Il Mattino, 8 marzo 2015 Cosa valgono cento corruttori arrestati, altrettante ruberie di denaro pubblico scongiurate, una rete grigia di complicità e di clientele spezzata, cosa vale la fine di questo marciume, che puzza e indigna e accende la fiamma della piazza con la miccia di deputati forcaioli, cosa valgono il decoro delle istituzioni e la trasparenza della pubblica amministrazione rispetto alla sorte di un solo innocente, a cui vengano sottratte per errore o per convenienza investigativa la libertà, gli affetti, il lavoro, la reputazione, con una custodia cautelare ingiusta che suoni come una condanna preventiva? Nulla valgono. Meno di zero. Cento malversazioni scoperte non valgono un solo uomo in carcere senza un motivo fondato. Ma non c'è più nessuno in questo Paese a dirlo forte e chiaro. Anzi, chi osasse sostenerlo sarebbe tacciato di ideologia o di immoralità, o comunque di non capire la gravità del malcostume che affligge l'Italia, di non riconoscere le priorità. Lo diciamo allora noi. Lo assumiamo come paradigma civile: tra la corruzione di molti e l'ingiusta punizione di uno solo, temiamo di più quest'ultima. Non abbiamo mai creduto che la giustizia e la libertà dovessero sgomitare l'un l'altra per farsi spazio. Ma se qualcuno proprio riuscisse a convincerci del contrario, non avremmo dubbi nel preferire una libertà senza giustizia a una giustizia che trionfasse a danno della libertà. Poiché non siamo disposti a riconoscere nessuna emergenza che giustifichi una compressione dei diritti fondamentali. Crediamo che sia giunta l'ora che queste idee tornino a circolare nel discorso pubblico senza paura, a essere promosse nelle scuole, sui media, nei libri, nelle piazze e nelle stanze della democrazia delegata, a illuminare la coscienza di chi decide. A seccare la malapianta del giustizialismo, che uomini accecati e politici senza scrupoli innaffiano senza tregua da un quarto di secolo nel nostro Paese. A fermare la moltiplicazione di leggi illiberali, che confondono le coordinate della Giustizia con quelle della giustizia cautelare. Che considerano la prescrizione un intralcio al trionfo della verità e non una garanzia irrinunciabile del cittadino contro il rischio di essere perseguito, o meglio, perseguitato dall'azione punitiva dello Stato per un tempo inaccettabile. Inaccettabile è di certo l'allungamento della prescrizione per il reato di corruzione da dieci fino a diciotto, o in alcuni casi a ventuno anni e nove mesi, approvato in commissione giustizia alla Camera su proposta del governo. Non solo perché si fa fatica a capire quale sia dopo vent'anni l'interesse pubblico alla punizione. Ma soprattutto perché un simile schema penale finge di ignorare che è una barbarie lasciare il colpevole, e non solo l'innocente, sotto lo schiaffo dell'indagine per un tempo più che doppio rispetto alla pena massima prevista per il reato commesso. Non c'è giustizia che sia tale se non riconosca anche ai rei un processo ragionevolmente rapido e un minimo di garanzie. Nel distretto della Corte d'Appello di Napoli, su cento persone che entrano in carcere per mano della procura e del gip, ce ne sono 40 che escono grazie al Riesame. Vuol dire che quasi la metà delle custodie preventive è indebita, cioè illegittima. E cioè che in uno stato di diritto c'è un numero spropositato di persone private della loro libertà contro le regole del diritto. Può forse considerarsi questo un effetto collaterale, o paradossale, ancorché accettabile della giustizia? Nel frattempo la riforma della carcerazione preventiva salta da quasi due anni di commissione in commissione, tra un ramo e l'altro del Parlamento, senza che giunga ad approvazione. Purtroppo la piega che ha assunto il dibattito sulla cosiddetta riforma della giustizia non dimostra nulla di buono. Pensata per garantire una parità effettiva tra accusa e difesa, per imporre al processo una ragionevole durata, per porre fine alla mostruosità di intercettazioni abnormi usate in maniera abnorme nel circuito giudiziario-mediatico, essa sembra voltarsi in un indiscriminato e spesso incoerente aumento delle pene per singole fattispecie di reato e in una crescente pervasività delle misure cautelari. C'è un disegno preciso dietro questo slittamento persecutorio: alzare sopra i cinque anni la pena minima per reati come corruzione e falso in bilancio non ha nessun significato punitivo, se non quello indiretto di consentire a pm e gip di usare a piene mani - come se non lo facessero già abbastanza - lo strumento delle intercettazioni e degli arresti, altrimenti non consentiti. Di fronte all'emergenza reale di una corruttela diffusa, figlia del blocco sociale, della mortificazione del merito, dell'inamovibilità dei funzionari pubblici e, da ultimo, di una crisi economica che si è tradotta negli anni in un arretramento civile del Paese, la politica non sa inventare niente di meglio che un grande fratello dalle mille orecchie e dalle altrettante manette. Così, in nome di una legislazione che ha sostituito la norma con l'emergenza, crescono dal penale fino al contabile le ordinanze che compulsano la libertà individuale, sottraggono la proprietà privata, condizionano l'autonomia della politica. Tutto in nome dell'urgenza e senza un contraddittorio che sia reale. Se da una parte il governo propone e impone una tardiva ancorché doverosa responsabilità civile dei giudici, dall'altra il fuoco della giustizia si sposta sempre di più dal giudicato alle indagini preliminari, nelle quali le misure mediatico-cautelari giocano il ruolo di una condanna anticipata dagli esiti irreversibili. Con l'effetto, tra l'altro, di depotenziare il processo nei suoi passaggi successivi, marginalizzando la competenza dei magistrati che, in quanto più in alto nella scala gerarchica, potrebbero offrire maggiori garanzie di una valutazione terza e imparziale. Carnelutti diceva che il processo è già una pena. Figuriamoci se non lo sono i verbali su conversazioni private, che non riguardano solo Berlusconi ma anche centinaia di migliaia di cittadini intercettati e messi in piazza. E che dire dei sequestri e delle confische assunte in camera di consiglio o, nel caso della Corte dei Conti, per mano di un procuratore che dispone il blocco di beni e conti correnti senza alcun contraddittorio, come facevano i pretori nel vecchio codice inquisitorio, salvo successiva conferma nell'udienza di convalida? È giustizia o barbarie quella a cui non pochi politici plaudono, finché bussa alla porta degli altri, salvo poi rinnegarla quando giunge anche per loro il giorno del giudizio? Vale per costoro il vaticinio di Danton, diretto al patibolo, davanti alla casa di Robespierre: "Infame, tu mi seguirai". Giustizia: allungare i processi è una barbarie, la colpa delle prescrizioni è dei pm di Filippo Facci Libero, 8 marzo 2015 Sulla giustizia fioccano trattative - essenzialmente tra Pd e Ncd - come se si trattasse di una spartizione politica e non di un confronto tra riforme utili o inutili. Un emendamento Pd-Scelta civica ha addirittura proposto che i tempi di prescrizione della corruzione passino da 10 anni a quasi 22, un'eternità che lascia perplessi anche molti esponenti della maggioranza. Ma in attesa che il disegno di legge approdi in Senato - il 17marzo - è la retorica sulla demonizzata prescrizione a lasciare basiti, stante l'impressionante quantità di sciocchezze che si va sentendo e leggendo. Se i processi vanno in prescrizione, infatti, è essenzialmente colpa dei magistrati e del sistema in cui si muovono: lo dimostra il semplice fatto che tre quarti delle prescrizioni matura durante le indagini preliminari e non dopo il rinvio a giudizio. I dati sono quelli che sono: ecco perché le ipotesi al vaglio della Commissione Giustizia suonano troppo assurde per essere vere, troppo fuori bersaglio per essere serie. Si è parlato, oltretutto, di congelare i termini di prescrizione sino al rinvio a giudizio o addirittura sino alla sentenza di primo grado, senza intervenire sulla durata della fase preliminare che appunto è quella che incide di più, e che dura semplicemente - al di là di ogni termine teorico - quanto pare ai pubblici ministeri. I quali, da una parte, sono costretti a fascicolare anche una spaventosa quantità di notizie di reato farlocche, dovute, destinate all'oblio; ma dall'altra sono comunque coloro che decidono - in virtù dell'ipocrita "obbligatorietà dell'azione penale" - quali fascicoli prenderanno la polvere e quali invece passeranno in corsia di sorpasso. Sono i magistrati a decidere le sorti delle montagne di pratiche che ogni tanto mostrano in tv a proposito di tempi geologici della giustizia: mentre non è chiaro chi controlla i fascicoli che vengono dimenticati e quelli che diventano improvvisamente urgenti. La semplice verità è che, all'ipertrofia della giustizia, i magistrati pongono parziale rimedio in maniera del tutto discrezionale. Che cosa ha dimostrato nei mesi scorsi, tra l'altro, il caso Bruti Liberati-Robledo? Che un cittadino, nel registro degli indagati, può essere iscritto o non iscritto secondo discrezione, che si può farlo, non farlo o farlo sei mesi dopo, farlo col suo nome o con uno di fantasia, si può dimenticarsi di un fascicolo per un mese o addirittura per sei mesi e lasciarlo chiuso in cassaforte. Sono infinite le cose che si possono fare: mandare un fascicolo a un dipartimento oppure a un altro, farlo rimpallare in eterno, rubricarlo a modello 45 o 44 o su altri binari morti, regolarsi diversamente a seconda che ci siano delle elezioni politiche o delle trattative d'affari, riesumare un fascicolo dormiente solo perché è uscito un articolo di giornale. E, se qualcosa non quadra, si può dire che è tutta colpa degli incombenti tempi di prescrizione. Il maggior responsabile dei tempi geologici della giustizia, beninteso, resta un sistema farraginoso e assurdo, quello dei fascicoli appunto obbligati, ciò che porta in particolare alcuni reati - soprattutto ambientali ed edilizi - a prescriversi la metà delle volte. Mentre la corruzione, che in termini di prescrizione non è un'emergenza, si prescrive il 10 per cento delle volte, non di più. Ma è facile che l'occuparsene, ora, sulla base di sondaggi e contingenze, torni politicamente utile al governo Renzi: a costo di ripropinare la balla storica della prescrizione dovuta all'azione dilatoria degli avvocati: perché si sa, il nostro sistema è troppo garantista, c'è gente che se condannata pretende addirittura di impugnare le sentenze. Se un avvocato chiede un rinvio, la prescrizione si sospende: ma i cronisti spesso si dimenticano di ricordarlo; la schiacciante maggioranza dei rinvii è richiesta dai magistrati, ma anche questo passa in secondo piano. I magistrati in compenso incolpano i politici o meglio la legge ex Cirielli, quella che nel 2005 diminuì i termini di prescrizione e però aumentò le pene per i recidivi: ma resta inspiegato come mai i prescritti prima della Cirielli erano 210mila e successivamente sono diventati 113mila: in altri termini, dal 2006 a oggi le prescrizioni sono diminuite del 50 per cento. E si potrebbe ottenere molto dipiù, se non si pretendessero cose assurde (tipo abolire l'Appello) e se i riti alternativi venissero riformati in modo da essere un po' meno respingenti, o, ancora, se si decidesse a procedere a una depenalizzazione vera anziché istituire commissioni su commissioni. Nei ritagli di tempo, poi, si potrebbe addirittura perdere qualche minuto per spiegare agli italiani - magari durante un talkshow, peccato che siano pochi - che cosa sia esattamente la prescrizione e perché appartenga alla civiltà giuridica dei principali sistemi penali d'Occidente: spiegare che non è un oggetto misterioso teso ad assicurare impunità ai colpevoli, ma un istituto che oltretutto tutela il corretto accertamento dei fatti e quindi una giustizia degna di tanto nome. Ai magistrati che lamentano il prezzo sociale ed economico della prescrizione, insomma, andrebbe spiegato che devono guardarsi in casa; di passaggio - a proposito di prezzi sociali ed economici - si potrebbe ricordargli il numero di procedure aperte in vent'annidi ingiusta detenzione: 22mila fascicoli per 567 milioni di euro pagati dallo Stato. Giustizia: tensione sulla riforma del reato di corruzione, la maggioranza si divide di Sara Menafra Il Messaggero, 8 marzo 2015 Tira un vento gelido nei rapporti tra Pd ed Area popolare dopo la rottura di metà settimana sui temi di prescrizione e corruzione. Ncd non sembra disposto a piegarsi, come ha fatto capire anche il ministro Angelino Alfano nell'intervista rilasciata ieri al Corriere della sera. L'obiettivo, ha detto, deve essere "superare quella parte del Pd che è conservatrice sul lavoro e giustizialista sulla giustizia". La mediazione possibile si intravede già nelle sue parole: "Nel reato di corruzione per atto contrario a dovere d'ufficio la prescrizione è stata portata da 10 anni a 15 anni e mezzo. Il voto in commissione che abbiamo avversato l'ha fatta arrivare a 18 anni. Non è Renzi che ha voluto questo ulteriore innalzamento dei termini". Insomma, alla Camera, e dunque per quel che riguarda la prescrizione, il Partito democratico potrebbe limare i tempi della prescrizione, di fatto tornando al testo precedente a quello votato mercoledì o quasi. L'emendamento della discordia, approvato mercoledì scorso, era passato con il parere favorevole del governo. Quel testo prevede che per tre reati di corruzione si innalzi da un quarto alla metà il tempo da calcolare, in aggiunta al massimo della pena, per arrivare alla prescrizione del reato. A questo risultato va aggiunto un altro quarto. Una formula che sommata agli interventi sulla corruzione in elaborazione al Senato, potrebbero fermare la clessidra della prescrizione fino a 21 anni dopo il fatto. Partita difficile anche al Senato, dove la commissione Giustizia attende l'arrivo dell'emendamento Orlando sul falso in bilancio e l'approdo in Aula è già slittato di una settimana. Il testo del Guardasigilli al momento prevede la non punibilità per tenuità del fatto in alcuni casi specifici, la cui definizione potrebbe subire ulteriori aggiustamenti. C'è anche un problema di raccordo con le altre norme i n cantiere: la non punibilità per tenuità del fatto per i reati "minori" non è ancora diventata legge e dunque l'intervento sul falso in bilancio potrebbe dover essere ulteriormente chiarito. Il rischio concreto però, è che l'emendamento non arrivi in tempo utile e che dopo mesi di lavori il testo arrivi in aula così com'era all'inizio e senza neppure la presentazione di un relatore (che al momento è Nico D'Ascola, Ncd). Spostare in avanti la data per iniziare in Aula l'esame del ddl corruzione è stato un modo per fissare "un paletto" in modo da consentire di arrivare con un testo base, ha spiegato ieri il presidente del Senato Pietro Grasso, autore del primo testo: "Spero che la Commissione possa finire il lavoro in tempi rapidi e possa portare in Aula il testo con il relatore". Giustizia: responsabilità civile dei magistrati, in Cassazione arriva lo sciopero bianco di Liana Milella La Repubblica, 8 marzo 2015 Non scrivono di "sciopero bianco". Anzi, ufficialmente lo negano. Ma gli alti magistrati della Cassazione, giusto in queste ore, stanno seriamente pensando a una clamorosa protesta contro la legge sulla responsabilità civile, che è entrata in vigore il 4 marzo. Ufficialmente lo negano. Ma gli alti magistrati della Cassazione, giusto in queste ore, stanno seriamente pensando a una clamorosa protesta contro la legge sulla responsabilità civile, che è entrata in vigore il 4 marzo. Legge odiata e ritenuta fonte di grave delegittimazione. Quasi uno sciopero bianco. Tant'è che, giusto da quattro giorni, i giudici si stanno scambiando mail in cui elencano dubbi e pericoli, e s'interrogano sul da farsi. Ci sono quelli più arrabbiati, i teorizzatori dello sciopero tout court, come nel caso di Magistratura indipendente; quelli altrettanto furibondi, come i seguaci di Pier Camillo Davigo, ex toga di Mani pulite ora alla Suprema corte, protagonista dell'avventura di Autonomia e indipendenza, gruppo di toghe che ha "divorziato" da Mi per mettersi in proprio. Ma ci sono soprattutto tanti magistrati della sinistra di Md e del Movimento giustizia, e gli stessi moderati di Unicost che chiedono ai responsabili dell'Anm della Cassazione di fare al più presto un'assemblea per decidere lì se continuare a lavorare lo stesso come se niente fosse, oppure se cominciare a fare i conti con la responsabilità civile da una parte, e le gravi carenze di organico dall'altra. Dice Luigi Riello, il presidente dell'Anm della Cassazione, ex Csm, e toga di Unicost: "Certo, la richiesta di un'assemblea urgente ci è pervenuta. Tant'è che mercoledì faremo una giunta per decidere che fare. Sulla responsabilità civile il nostro giudizio è drastico. Basti pensare che dentro c'è quella parola, "travisamento dei fatti e delle prove", la più ricorrente nei ricorsi che giungono qui". Quello che Riello non vuole rivelare è che tra i suoi colleghi c'è soprattutto una protesta. Riguarda i cosiddetti "carichi esigibili", il lavoro che ogni toga è tenuta a fare, e tutto quello che invece viene fatto in più, magari in sofferenza, per garantire che i processi non vadano in prescrizione. Se i magistrati rispettassero alla lettera il "carico esigibile" la giustizia della Cassazione, ma non solo quella, si paralizzerebbe. Adesso, con la responsabilità civile che incombe e che potrebbe mettere in mora ogni magistrato per ogni decisione, i magistrati dicono: "Ma vi rendete conto che pericoli rischiamo di correre? Lavoriamo sotto stress, potremmo sbagliare ed essere puniti. Fermiamoci. Rispettiamo rigidamente quello che dobbiamo fare. Fermiamoci lì". È lo sciopero bianco che già molti hanno sollecitato all'Anm. Ad aggravare la situazione a piazza Cavour c'è la legge sul pensionamento anticipato (da 75 a 70 anni) che praticamente falcidia il palazzo. Quasi tutti i presidenti di sezione a casa, uno svuotamento di esperienze giuridiche, denunciato più volte dal presidente Giorgio Santacroce. Adesso, dicono le toghe, è ora di dire basta. Giustizia: pm antimafia Roberti; 41bis? si può rivedere, ma non fiaccato nella sua essenza di Laura Caico Roma, 8 marzo 2015 Dopo il recente caso di Roberto Helgl, ex presidente della Camera di commercio di Palermo, arrestato dai carabinieri in flagranza di reato per aver riscosso una tangente di 100mila euro da un imprenditore, abbiamo chiesto al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti di fare il punto della giustizia in Italia. Procuratore, cosa può dirci in merito al caso di Helgl? "Il suo arresto dimostra che la corruzione riguarda anche il Sud ed è un fenomeno perdurante in assenza di provvedimenti normativi che lo contrastino: occorrono nuove misure per fermare il dilagare della corruzione, norme più severe, va modificato il provvedimento di impunità per il falso in bilancio poiché la soglia attuale di non punibilità consente l'accumulo di denaro nero destinato a tangenti per politici e mafiosi: la lotta alla criminalità economica è prioritaria giacché essa frena lo sviluppo economico della nazione e l'afflusso di investimenti esteri. La corruzione non è un reato contro la Pubblica Amministrazione ma contro l'economia del Paese e altera il regime di leale concorrenza fra le imprese". Procuratore, altro argomento di cui si discute molto è l'articolo 41bis della legge sull'ordinamento penitenziario introdotto dalla legge Gozzini, che riguardava all'inizio solo le emergenze interne alle carceri italiane; nel tempo è stato rivisto ed esteso e le disposizioni in materia di sicurezza pubblica contenute nella legge 18 luglio 2009, n. 94 dispongono la durata del provvedimento in quattro anni e due anni per le proroghe. Come si articola oggi e chi riguarda? "Il cosiddetto carcere duro è una norma preventiva, ovvero un istituto ideato per impedire che i capi mafiosi detenuti potessero continuare a dirigere le loro organizzazioni dall'interno delle prigioni: la territorialità, infatti, favoriva i legami con le locali cosche di appartenenza come fa pensare la costituzione della nuova Camorra di Cutolo, che riteniamo sia avvenuta in carcere: i soggetti in 4lbis sono 714 imputati di delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso e altri 3 accusati di delitti commessi per finalità di terrorismo internazionale". In Campania il 41bis viene applicato nel Centro penitenziario di Napoli Secondigliano e nella Casa circondariale di Napoli Poggioreale: in che consiste esattamente? "Il regime blocca le comunicazioni dei detenuti con le proprie organizzazioni criminali esterne, impedisce i contatti in carcere tra affiliati della medesima struttura criminale e anche fra organizzazioni rivali, al fine di eludere la possibilità di delitti interni e di assicurare l'ordine pubblico anche fuori dalle prigioni: fra le misure applicabili vi sono provvedimenti di massima sicurezza, diminuzioni dei colloqui, restringimento dell'ora d'aria e censura epistolare". Ci sono parlamentari che premono per la revisione di alcuni aspetti, che vanno dai colloqui con i familiari alle telefonate: lei che ne pensa? "Del 4Ihis si possono rivedere alcune specifiche applicazioni ma non va assolutamente fiaccato nella sua essenza poiché si è dimostrato un dispositivo valido per combattere le mafie e portare i loro vertici a collaborare, senza peraltro dover usare misure estreme: dobbiamo anche al regime di carcere duro l'annientamento del clan dei Casalesi e la cattura di tutti i capi di Cosa nostra, il cui ultimo esponente di spicco, Matteo Messina Denaro - che io sono convinto si nasconda nel territorio nazionale - verrà a sua volta presto arrestato". Giustizia: Consiglio di Stato; se l'autore di stalking indossa la divisa può essere licenziato www.grnet.it, 8 marzo 2015 La Sezione Prima del Consiglio di Stato, su richiesta di parere da parte del Ministero dell'Interno in merito agli effetti del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), ha precisato che nei confronti degli appartenenti alle Forze dell'Ordine, "il questore dovrà disporre che allo stesso siano ritirate le armi detenute a qualsiasi titolo, compresa l'arma di ordinanza, anche se ciò comporti per l'interessato l'impossibilità di adempiere a pieno ai compiti d'istituto e lo esponga a provvedimenti disciplinari e di stato". L'articolo 8, comma 2, del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, prevede che: "Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l'ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l'eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni". A tal proposito il Ministero dell'Interno ha interrogato il Consiglio di Stato circa "l'applicabilità dei provvedimenti in materia di armi a coloro che necessitano dell'arma per lo svolgimento dell'attività lavorativa, come nel caso dell'arma di ordinanza in dotazione agli appartenenti alle forze dell'ordine" soprattutto perché "il ritiro dell'arma d'ordinanza comporta l'impossibilità di espletare il servizio con conseguente necessità di definire la posizione giuridico-amministrativa dell'interessato". La risposta del Consiglio di Stato è stata lapidaria: "Per scelta del legislatore, l'ammonimento fa venir meno i requisiti soggettivi al cui possesso è subordinato il rilascio delle autorizzazioni in materia di armi e ne comporta la revoca ai sensi del coordinato disposto degli artt. 11 e 42 del T.U.L.P.S." anche perché "non possono sussistere dubbi che nel bilanciamento dei contrapposti interessi (salvaguardia dell'incolumità delle potenziale vittime degli atti persecutori e necessità di disporre dell'arma d'ordinanza per l'assolvimento del servizio di polizia) debba prevalere il primo sul secondo. Pertanto, nel caso dell'ammonizione di appartenente alle forze di polizia, il questore dovrà disporre che allo stesso siano ritirate le armi detenute a qualsiasi titolo, compresa l'arma di ordinanza, anche se ciò comporti per l'interessato l'impossibilità di adempiere a pieno ai compiti d'istituto e lo esponga a provvedimenti disciplinari e di stato". "Ovviamente - precisa il Consiglio di Stato, nel caso di appartenenti a corpi diversi dalla Polizia di Stato, il provvedimento con cui si dispone il ritiro dell'arma in dotazione non potrà che essere indirizzato ai superiori dell'interessato, sui quali graverà l'obbligo di ottemperare". "Si deve, pertanto, concludere - ribadisce il Consiglio di Stato - che l'applicazione del secondo comma dell'art. 8 del d.l. n. 11 del 2009 da parte del questore non può essere limitata dalle esigenze connesse all'espletamento dell'attività lavorativa, neppure quando si tratti di appartenenti alle forze dell'ordine". Giustizia: Giulia Bongiorno; stalking, ora non c'è più la paura di chiedere aiuto allo Stato di Ilario Lombardo Secolo XIX, 8 marzo 2015 Ma l'ex deputato attacca il governo: mancano aiuti concreti alle vittime. Giulia Bongiorno, avvocato, ex deputato, da presidente della commissione Giustizia alla Camera fu co-protagonista della stesura e dell'approvazione della legge che ha istituito il reato di stalking. Una battaglia, quella contro la violenza sulle donne, che continua a portare avanti attraverso la Onlus Doppia Difesa, fondata assieme alla showgirl Michelle Hunziker. Avvocato, dai dati del Viminale si rileva un aumento delle violenze domestiche, mentre in Liguria si assiste a un incremento di reati di stalking. "Questo avviene perché molte situazioni che prima erano sommerse, adesso vengono alla luce: grazie alla legge tantissime donne che prima avevano paura di denunciare, ora si rivolgono alla giustizia. È qualcosa che mi riempie di orgoglio, anche perché spesso alle denunce seguono risultati immediati". Eppure, la legge appare non avere un effetto deterrente. "Le leggi, soprattutto, quando le scrivi bene, servono e sono efficaci. Certo, però, questo non significa che siano risolutive. Dopo l'approvazione della norma sono mancati aiuti, investimenti, e opportune modifiche al codice di procedura penale. A parte la legge sullo stalking, le donne non hanno ricevuto nient'altro. E la politica, anche ai vertici istituzionali, ha le sue colpe". Tipo? "Per esempio è stato eliminato il ministero delle Pari Opportunità. E quando l'ho fatto presente mi è stato risposto che alla fine non aveva prodotto granché. La reputo una miopia che tradisce un grave disinteresse per i problemi che vivono le donne e non solo. Come dimostra l'operato di Matteo Renzi". Ma come, scusi, Renzi sta aumentando le quote rosa nei ministeri, nelle aziende di Stato, nelle liste elettorali. "Il premier è uno che predica bene e razzola male. Sotto il profilo di un aiuto concreto alle donne non sta facendo nulla. Né leggi, né investimenti. Ho letto che è ancora vacante il ruolo di consigliere per le Politiche di contrasto alla violenza di genere del Viminale e annoto anche una cosa che, in questa cornice, fa un po' da ciliegina: ieri Renzi non è andato al Quirinale, per il discorso del presidente della Repubblica durante le celebrazioni della Giornata internazionale della Donna. C'erano tutte le istituzioni, tranne lui. Non si può non essere presenti in queste occasioni, qualsiasi siano le priorità. È un'assenza gravissima, che prova il suo totale disinteresse per le questioni delle donne". Quali aiuti, economici e non, servirebbero? "Nuove misure per accelerare i tempi delle indagini e consentire ai processi di partire, senza troppi slittamenti. Le donne sono incentivate a denunciare se hanno fiducia nella giustizia, non se si ritrovano ostaggio di essa, senza che i loro persecutori siano puniti. E poi bisognerebbe dare una mano alle tante associazioni, come la mia Onlus, che lavorano da sole e soltanto con le proprie forze". Giustizia: sette "pentiti" per confezionare una balla.. e Mirko si è fatto 10 anni in carcere di Francesco Lo Dico Il Garantista, 8 marzo 2015 Si è preso l'ergastolo che era appena maggiorenne, poi gli assassini veri hanno confessato. Aveva 17 anni e sognava di prendere la patente, Mirko Turco. Era un ragazzo di Gela come tanti. E invece qualcuno ha trasformato la sua vita in un incubo. Nel 1998, sette pentiti lo accusano di aver ucciso selvaggiamente Fortunato Belladonna, un sedicenne arso vivo, e Orazio Sciascio, un salumiere crivellato da un clan. Mirko subisce processi per quindici anni, e si fa dieci anni di galera. Salvo poi scoprire, nel 2011, che il ragazzo, oggi un uomo di 35 anni cresciuto in gattabuia, era innocente. La procura generale di Caltanissetta ha insistito: ha chiesto il rigetto della revisione del processo. Ma la corte di Appello di Messina ha respinto la richiesta della procura generale e ha accolto l'istanza di revisione. Ieri Mirko Turco è stato assolto con formula piena per non avere commesso il fatto. La condanna all'ergastolo è stata revocata. Lo aveva detto dal primo minuto: "Io sono innocente*. Ma qualcuno ha creduto a tante, troppe menzogne. Chissà se c'è qualcuno disposto a pentirsene. Prendi un ragazzo non ancora maggiorenne che sogna la patente. E che a due passi dal traguardo, va a sbattere contro la mala-giustizia italiana: sette pentiti lo accusano, lo condannano per due omicidi, gli danno due ergastoli, si fa dieci anni di galera e quindici anni di processi e poi un giorno di marzo del 2015 gli dicono "scusa, ci siamo sbagliati, sei innocente". È successo a Gela, a un ragazzino che si chiamava Felice Mirko Eros Turco. E che ora, dopo dieci anni vissuti da mostro, è un uomo di 35 anni che ha passato i suoi anni migliori a marcire in galera. Lo hanno incastrato Mirko. Gli hanno fottuto l'esistenza. I mafiosi bugiardi che lo hanno lasciato con il cerino in mano, gli sbirri che lo hanno trattato come un criminale spietato, i magistrati che hanno fatto strame della sua dignità e della sua esistenza, Orazio Sciascio e Fortunato Belladonna. E attorno a questi due nomi, a questi due morti ammazzati come cani, che si attorciglia la storia di Mirko. Tutto comincia nel 1998, quando Mirko ha ancora diciassette anni e gli manca poco per prendere la patente. L'11 agosto di quell'anno viene ritrovato il corpo di un sedicenne: si chiama Fortunata Belladonna ma a dispetto del nome viene ritrovato carbonizzato in un canneto nei pressi del lungomare di Gela. È quasi irriconoscibile. È stato torturato, interrogato e poi strangolato con un cordino. Gli è stato infilato un panno di daino in bocca. Arso vivo. Cosa nostra lo ha ucciso perché ritiene che il ragazzo sia coinvolto nell'omicidio di Orazio Sciascio. Qualcuno mormora che doveva essere solo una punizione. Il giovane, avvicinatosi alla malavita, era un "cane ca nun canusci patruni", come dicono in Sicilia. Di questa morte, la Corte d'assise di Caltanissetta incolpa proprio Rosario Trubia, che confessa altri fatti di sangue e inizia a collaborare con la giustizia insieme ad altri affiliati del clan Emmanuello e i fratelli Emanuele, Sergio e Angelo Celona. E viene incolpato anche il nostro Mirko, lo hanno detto i pentiti. E stato lui: condanna all'ergastolo, i magistrati non hanno dubbi. Neppure il tempo di vedersi sul groppone un omicidio che non ha commesso, che a Turco ne viene appioppato un altro. Quello di Orazio Sciascio. Sciascio è un ex operaio di mulino in pensione, ha 67 anni e gestisce una salumeria insieme alla moglie Rosaria Caci. Alcuni banditi entrano nel negozio, gli chiedono il pizzo, lui reagisce e lo fanno fuori a revolverate. Ha due figli carabinieri. Di pagare non ne vuole sapere. Ma loro, i mafiosi, non vogliono fargli sconti. La firma di questo omicidio è come una macchina usata che nessuno vuole. Passa di mano in mano, di nome in nome, Ma il cerino finisce in mano a Mirko Turco. A incastrarlo è proprio la vedova di Sciascio, Rosaria Caci, che in un faccia a faccia non ha il minimo dubbio. Lo indica. È stato Mirko. Ma il seguito della storia, delle indagini, lo stuolo di falsi pentiti, contro-pentimenti, finalmente porta alla verità nel 2012. Con l'omicidio del salumiere, Turco non c'entra nulla. La corte di appello di Catania revoca la condanna di Turco e lo assolve per l'omicidio di Sciascio. I responsabili individuati sono Salvatore Rinella e Salvatore Collura. Resta però la condanna per Belladonna, il ragazzo arso vivo nel canneto. Tutto è messo nero su bianco soltanto nel dicembre del 2011. Due collaboratori di giustizia, Carmelo Massimo Billizzi di 41 anni e Gianluca Gammino di 37 anni, affiliati al clan Madonia di Gela, vengono condannati rispettivamente a 19 e a 18 anni di reclusione. Si sono autoaccusati dell'omicidio del 16enne Fortunato Belladonna: hanno confessato di averlo ammazzato loro il 14 luglio del 1998. Mirko si è già fatto dieci anni di carcere per due omicidi che non ha mai commesso. Ha ottenuto la revisione del processa e la libertà dalla Cassazione nel 2008. Ma l'ultima parola, la parola definitiva che insieme alla libertà gli restituisce anche la sua dignità di uomo arriva solo ieri, dopo molte altre complicazioni. La procura generale di Messina ha insistito: ha chiesto il rigetto della revisione del processo ai danni dell'ex ragazzino invecchiato in carcere per le chiacchiere di sette pentiti. Ma la corte di Appello di Messina ha respinto la richiesta della procura generale e accoglie l'istanza di revisione. Ieri Mirko Turco è stato assolto con formula piena per non avere commesso il fatto. La condanna all'ergastolo è stata revocata. Lo aveva detto dal primo minuto in galera: "Io sono innocente". Ma qualcuno ha creduto a tante bugie. Chissà se c'è qualcuno disposto a pentirsene. Giustizia: la legge sui "pentiti" travolge la verità e tritura tanti innocenti, va abolita di Piero Sansonetti Il Garantista, 8 marzo 2015 E così un altro poveretto, stavolta un ragazzino, è finito nel tritacarne spietato della legge sui pentiti: si è fatto dieci anni in cella, da prima di compiere i diciotto fino ai ventotto, è entrato in carcere da bambino ed è uscito quando la sua gioventù era già finita. Ha avuto la vita stravolta, non potrà mai essere risarcito. Né lui, né la sua famiglia, i genitori, gli amici. Chi è il colpevole di questa atroce ingiustizia (che sebbene sia atroce, vedrete, avrà pochissimo risalto sui giornali perché è una notizia che non va nella direzione della santificazione della magistratura)? È lo Stato. È possibile affrontare le cause vere di queste ingiustizie, che sono sempre di più, sempre più clamorose e sempre più sottovalutate? Se davvero vogliamo affrontare le cause, in modo molto laico, dobbiamo mettere in discussione la legge sui pentiti. Perché il fenomeno del pentitismo ormai è fuori controllo e oltretutto è maneggiato da una magistratura che molto spesso non è all'altezza. Ogni volta che si prova a criticare la legge sui pentiti e a metterne in discussione la sua modernità e la sua efficacia, qualcuno risponde citando il sacro nome di Giovanni Falcone. Che sicuramente, nel suo lavoro, si avvalse largamente di questa legge. Il problema è che Falcone era un magistrato straordinario, con capacità professionali fuori dal comune e una grande visione dei problemi che fronteggiava. Falcone seppe gestire in modo magistrale un pentito magistrale, e cioè Tommaso Buscetta. E seppe scartare, con grande intelligenza, altri pentiti, che utilizzavano la "collaborazione" come strumento per sviare le indagini, o per ottenere impunità o per demolire i propri rivali. Cioè: la mafia fa un largo uso di questa legge. La magistratura molto spesso - anche per non essere subalterna al pentitismo mafioso - decide di governare il pentito, e quindi non di usarlo per "acquisire" notizie, ma per avere conferme alle proprie ipotesi. In questo modo le testimonianze dei pentiti, in un numero molto alto di casi, non hanno nessuna utilità per la verità e sono un'arma atomica che può devastare il luogo dove viene fatta esplodere, modificare i rapporti di forza nella malavita, modificarli anche all'interno della magistratura, e travolgere carriere, immagini, vite di persone oneste o comunque non colpevoli di quei reati. L'obiezione al mio ragionamento è: se togli ai magistrati l'arma del pentitismo ne indebolisci le capacità di indagine e di contrasto alla mafia. Questo è vero solo in parte. Perché probabilmente la fine della legislazione "premiale" per i pentiti, almeno nell'immediato, indebolirebbe alcune strategia mafiose. E poi perché la fine di questa abitudine a poggiare tutte le indagini solo su pentitismo e intercettazioni costringerebbe la magistratura ad affinare i propri strumenti di indagine, i metodi, l'uso della polizia, lo studio, la ricerca delle prove. Ma ammettiamo anche che la cancellazione della legge sui pentiti dovesse ridurre le capacità di penetrazione dello Stato nei santuari mafiosi. Sarebbe una ragione sufficiente per mantenere in vita una legge medievale e che distorce la verità? La domanda vera è questa. Una volta lo chiesi al Procuratore di Reggio Calabria, Cafiero de Raho: "Lei crede che sia più importante il diritto al diritto o il diritto al risultato"? In altre parole: lei crede che l'obiettivo di avere un risultato nelle indagini giustifica, in alcune occasioni, la violazione dello Stato di diritto? Lui mi rispose senza esitazione: "No". Appunto. Aboliamola questa legge, perché ormai è diventata una legge-schifezza. Lettere: due proposte per riformare la prescrizione di Rocco Buttiglione Il Garantista, 8 marzo 2015 Ferve alla Camera ed anche sui giornali la discussione sulla prescrizione. C'è il rischio che si contrappongano fra di loro in modo assoluto valori ed interessi legittimi fra i quali è necessario raggiungere invece una ragionevole mediazione. Tutti noi vogliamo che i colpevoli (ed in modo particolare i colpevoli di corruzione) siano puniti e vadano in galera. Perché questo possa avvenire ci deve essere il tempo ragionevolmente necessario per fare i processi. Nel caso dei reati di corruzione, si dice, il reato spesso viene scoperto in ritardo perché la vittima non denuncia. Per questo la prescrizione deve essere lunga. Se il reato, per esempio, viene scoperto quindici anni dopo essere stato commesso ed un processo non dura meno di cinque o sei anni per poter fare il processo occorre che la prescrizione non scatti prima che siano trascorsi almeno 21 anni dalla commissione del reato. La prescrizione breve non permetterebbe di perseguire il reato. Incoraggiati dalla prossimità del termine di prescrizione i corrotti utilizzeranno tutti gli artifici dilatori possibili per prolungare il processo fino alla prescrizione. Hanno dunque ragione i cosiddetti giustizialisti, quelli che, se potessero, farebbero una legge che dice: "prescrizione mai"? Forse no. Il mondo infatti è fatto di colpevoli ma anche di innocenti accusati ingiustamente. Ci sono i reati che vengono scoperti in ritardo ma ci sono anche i reati che vengono scoperti precocemente. Immaginate un innocente accusato ingiustamente il cui procedimento giudiziario inizia immediatamente dopo la presunta commissione del reato. Se la prescrizione cade a 20 anni dalla commissione del reato noi a questo innocente rubiamo la vita. Il processo prolungato, infatti, diventa esso stesso una pena. Esso mette in discussione la affidabilità e quindi la vita stessa di una impresa che può vedersi negato l'accesso al credito, la piena disponibilità delle proprie risorse, la possibilità di partecipare agli appalti. Esso mette in discussione la onorabilità di una persona e la possibilità di perseguire il proprio percorso professionale, mette in discussione la stabilità della famiglia... Non è bello sentirsi additare pubblicamente come i figli o il coniuge di un corrotto... Può tutto questo durare venti anni? Quale risarcimento materiale e morale può bilanciare una vita distrutta? Forse dovremmo distinguere fra loro due problemi che oggi in Italia sono invece indissolubilmente connessi. Un problema è quello della prescrizione ed un problema diverso è quello della durata del processo. Il calvario dell'imputato innocente inizia non nel momento in cui teoricamente è stato commesso il reato ma nel momento in cui riceve un avviso di garanzia. E se dicessimo che i termini di prescrizione sono non uno solo ma due? C'è un tempo di prescrizione del reato e c'è un tempo di prescrizione del processo. Il primo può anche essere lungo, il secondo deve essere breve. Dal momento in cui inizia l'indagine, dal momento in cui viene emesso l'avviso di garanzia e viene messa in dubbio la onorabilità del cittadino, lo stato deve avere un tempo limitato per provare la verità del suo sospetto. Se non vi riesce, il processo si esaurisce. Diciamo, per esempio (i tempi indicati hanno solo un valore esemplificativo) che lo stato ha cinque anni per provare la colpevolezza dell'accusato. Il fatto presunto può essere avvenuto quindici anni o solo un giorno prima dell'avvio dell'indagine ma il processo non può durare più di un tempo limitato. In altre parole bisogna impedire che il prolungamento dei tempi di prescrizione si traduca in un aumento dei tempi del processo. Il processo breve è un diritto del cittadino, garantito costituzionalmente. Se la legge garantisse i tempi brevi del processo ci sarebbero certo meno remore nell'accettare i tempi lunghi della prescrizione. C'è infine, in altri stati europei, ancora un altro termine di prescrizione. Esso riguarda la esecuzione della pena. Se lo stato non riesce ad eseguire la pena per un tempo molto lungo deve venire il momento in cui lo stato rinuncia a far valere la sua pretesa. La esecuzione della pena ha la funzione di difendere la società contro una possibile ripetizione del comportamento illegale. Se sono passati molti anni senza che il comportamento criminoso si sia ripetuto è ragionevole pensare che sia venuta meno la pericolosità del reo. La funzione di prevenzione e difesa sociale viene meno. La esecuzione della pena ha anche la funzione di emendare il reo. È vero che tutto quello che facciamo rimane in noi e ci rende uomini migliori o uomini peggiori. E però anche vero che proprio per questo noi cambiamo nel tempo e, dopo molti anni dalla commissione del reato, il reo forse è già stato emendato dalla vita. Rimane la funzione meramente retributiva della pena ma essa, separata dalle altre, perde molta parte della sua ragion d'essere. Dobbiamo ragionare di prescrizione senza chiudere gli occhi ciascuno alle ragioni degli altri: a quelle dei cittadini onesti che hanno diritto di vedere puniti i delinquenti ed a quelle degli accusati innocenti che hanno il diritto di non passare la vita sotto processo. Dobbiamo tenere conto equamente delle ragioni degli uni e di quelle degli altri. Ci riusciremo meglio, forse, se distingueremo i tempi di prescrizione del reato da quelli di durata massima del processo. Infine un ultimo dubbio: c'è oggi in Italia una emergenza prescrizione che ci obbliga a legiferare in fretta e con rigore anche eccessivo per evitare che tantissimi delinquenti sfuggano alla pena per il decorrere dei tempi di prescrizione? Forse no se è vero che i reati che si prescrivono sono solo il 4% del totale. Lazio: il Garante; detenuti in aumento, dati rappresentano piccolo campanello d'allarme Askanews, 8 marzo 2015 La nuova rilevazione del dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria conferma la tendenza: in questo inizio di 2015 torna a crescere, in maniera lenta ma costante, il numero dei detenuti nelle carceri del Lazio. Lo rende noto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Il 5 marzo i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione erano 5.728, 26 in più rispetto a dieci giorni fa 130 in più rispetto al 31 dicembre 2014. Anche se, rispetto ad un anno fa, le presenze fanno registrare un - 1.150 (al 4 febbraio 2014 6.856 presenze). "Avevamo già segnalato questa inversione di tendenza dopo mesi ininterrotti di dati in calo - ha detto Marroni - Il fatto che i numeri crescano in maniera lenta ma costante può voler dire che le norme "svuota carceri" varate in questi anni dai diversi governi stanno perdendo la propria spinta propulsiva, ma anche che, probabilmente, si è arrivati ad un limite fisiologico di presenze ad di sotto del quale non si può scendere con questo tipo di legislazione". Dall'Ufficio del Garante fanno notare che i numeri sono lontani dalle medie di oltre settemila presenze registrate fino a due anni fa ma il sovraffollamento fa sempre segnare un + 600 presenze rispetto alla capienza regolamentare degli istituti regionali, fissata dal Dipartimento a quota 5.114. A livello nazionale, il Lazio si conferma al quarto posto nella graduatoria delle Regioni italiane con il maggior numero di detenuti dietro Lombardia con 7.889 presenze, Campania con 7.327 e Sicilia con 5.895). Sempre nel Lazio, si conferma in aumento la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio definitivo: nel Lazio attualmente sono 2.218, il 38,72% del totale, contro il 37,39% di un mese e mezzo fa. Nel dettaglio, 1036 sono i reclusi in attesa di giudizio di I grado, e 1.182 i condannati non definitivi. I condannati definitivi sono invece 3.506, il 61,21%, conclude il Garante. Larino (Cb): il romeno che voleva evadere tenta suicidio con una lametta, si taglia la gola www.primonumero.it, 8 marzo 2015 Si è ferito con una lametta da barba venerdì sera nella cella di sicurezza del penitenziario di Larino, ma l'agente di guardia se n'è accorto e ha chiamato i soccorsi. Medicato e suturato in ospedale, ora il 32enne arrestato per rapina e violenza non è in pericolo ma le sue condizioni sono serie. Il giovane era scomparso da Crotone ed era arrivato in treno a Campomarino dove con un bastone di legno aveva cercato di rapinare due famiglie per procurarsi un'auto durante una serata rocambolesca, terminata con l'arresto dei carabinieri. In carcere aveva cercato di evadere rinchiudendo gli agenti in cella e prendendo le chiavi. Ha cercato di evadere la notte tra lunedì e martedì scorsi, quando subito dopo l'arresto - avvenuto a Campomarino - ha rinchiuso due agenti di polizia penitenziaria in cella impossessandosi delle chiavi e provando a fuggire. È stato fermato prima, ed è rimasto fino a venerdì sera in una cella di sicurezza del cercare di Monte Arcano a Larino. Poi, ieri, ha tentato di togliersi la vita. Il giovane di nazionalità romena che era scomparso da Isola di capo Rizzuto in Calabria e a Campomarino lido aveva tentato per ben due volte di procurarsi un'auto minacciando le famiglie proprietarie con un grosso bastone, si è tagliato la gola usando una lametta da barba. È accaduto nel tardo pomeriggio di ieri, 6 marzo. I.O., queste le sue iniziali, si è lacerato la gola mentre si trovava rinchiuso in una cella del penitenziario, da solo. L'agente di turno tuttavia se n'è accorto prima che accadesse l'irreparabile. Ha visto l'uomo coperto di sangue e ha chiamato i colleghi, quindi i soccorsi del 118. Il romeno, che evidentemente ha una storia ancora tutta da ricostruire, è stato trasportato d'urgenza nel Pronto Soccorso dell'ospedale San Timoteo e qui affidato ai medici del reparto che lo hanno medicato e suturato. Il taglio è abbastanza profondo ma la lama non è arrivata alla giugulare: dunque l'uomo non è in pericolo di vita sebbene le sue condizioni restino gravi. Si trova in una camera di sicurezza ospedaliera, ma non a Termoli, piantonato dagli agenti penitenziari. L'episodio va ad aggiungersi a una vicenda piena di punti interrogativi, e apre al sospetto che il giovane soffra di gravi disturbi psichici. Era stata sua moglie, dalla Calabria, a dare l'allarme attivando le ricerche a Campomarino. Nel comune molisano, lunedì sera, il cittadino romeno era stato arrestato dai carabinieri della stazione locale e dai colleghi della Compagnia di Termoli al termine di una serata rocambolesca. L'uomo ha minacciato due famiglie residenti in zona Marinelle, al lido, con un bastone di legno. Voleva un'auto per fuggire e allontanarsi dopo essere arrivato - per ragioni ancora ignote - in Molise col treno. Prima la fuga attraverso un canale di bonifica, poi l'aggressione ai militari dell'Arma che erano piombati nel giardino della seconda abitazione. Secondo la ricostruzione dei militari dell'Arma ha fatto di tutto per sfuggire all'arresto, tanto che quando è stato infine trasferito in carcere per tentata rapina e violenza contro pubblico ufficiale, ha cercato di evadere in una maniera che pare ispirata a un film. Ha aggredito gli agenti di polizia penitenziaria, ha rubato loro le chiavi e li ha rinchiusi nel Reparto del carcere dove era stato portato, con l'obiettivo di scappare. Altre guardie lo hanno però affrontato e bloccato. "I poliziotti - aveva fatto il sindacato autonomo d polizia carceraria - nonostante fossero feriti, sono riusciti a contattare gli altri agenti di servizio in carcere, che hanno rintracciato l'uomo all'interno della struttura detentiva e lo hanno immobilizzato, conducendolo in cella". Nei giorni scorsi è stato interrogato dal Gip e si trovava in attesa di processo con rito abbreviato. Ma I.O. in carcere non ci vuole stare. E così ieri ha provato a togliersi la vita usando una lametta per la barba, secondo una modalità diffusa tra i detenuti. Parma: nel 2015 sistema di videosorveglianza dell'istituto penitenziario è saltato 18 volte di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2015 Qui mi danno tutto quello che mi serve, mi trattano bene e sono in buona salute". Parola di Massimo Carminati, considerato dalla procura di Roma il capo indiscusso di Mafia Capitale, detenuto in regime di massima sicurezza (41bis) nel carcere di Parma. Lo aveva già assicurato a Davide Mattiello, deputato della commissione antimafia, il 30 dicembre. E lo ripete all'avvocato Giosuè Bruno Naso a ogni visita, l'ultima poco più di un mese fa. Per Naso, però, la situazione è diversa: "Difendo Carminati da 30 anni. La sua vita è appesa a un filo dal 1981, da quando un agente della Digos gli ha sparato a bruciapelo in faccia da pochi metri e un proiettile gli è rimasto in testa". Succedeva al confine con la Svizzera, il "Nero" di Romanzo Criminale diveniva così il "Cecato", mentre falliva il tentativo di fuga da una retata in corso negli ambienti dell'estrema destra eversiva dei Nar. "Si salvò - dice Naso - grazie all'imprudenza del primo medico che lo operò: sollevò letteralmente a mani nude il cervello di Massimo. Comunque la sua vita rimane tanto appesa a un filo, e al carcere di Parma lo hanno capito, che il 41bis è stato possiamo dire forzato, anche se forse è un'esagerazione, per permettere l'arrivo dall'esterno di alcune speciali bendature". Riguardo il carcere di Parma, luogo di detenzione anche del capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina, proprio il deputato Mattiello ha denunciato la grave disfunzione del sistema di videosorveglianza e videoregistrazione. E inquietante è stata la risposta del capo del Dap Santi Consolo, in audizione alla commissione antimafia: "I problemi alla videosorveglianza sono noti dal gennaio 2013, da quel momento ci sono stati 33 black-out nel 2013, 47 nel 2014 e 10 nel 2015, subito risolti. Purtroppo ci sono stati anche dei black-out lunghi: 27 nel 2013, 44 nel 2014 e 8 nel 2015". Proprio nei giorni scorsi l'impianto è stato sistemato grazie all'installazione di gruppi elettrogeni di continuità in grado di evitare il sovraccarico. Ma per Mattiello "rimane un fatto: non sappiamo e non sapremo mai se qualcuno abbia approfittato di questi black out per eludere le regole previste dal regime carcerario. Chiedo al ministro Andrea Orlando di individuare le responsabilità, anche di un possibile dolo". Sul fronte processuale appare sempre più chiaro che la strategia difensiva proverà a negare l'ipotesi dell'esistenza stessa di una mafia romana, magari arrivando quasi ad ammettere i reati di corruzione: "Da parte di Carminati -replica l'avvocato Naso -non vi sarà alcuna ammissione di sorta, né il processo offre, allo stato delle indagini, alcuna prova di responsabilità dello stesso in ordine di ipotesi di corruzione contestate". I pm accusano il Cecato di associazione mafiosa, estorsione aggravata, trasferimento fraudolento di valori, corruzione, turbativa d'asta e false fatturazioni. "Noi sosteniamo - spiega Naso - che se le indagini hanno fatto emergere un contesto di rapporti, relazioni, condotte, comportamenti tra soggetti operanti nell'ambito delle istituzioni capitoline che in qualche misura sia riconducibile a consuetudini familistiche, partitiche, di gruppi affaristici e di interessi privati nelle quali sono ravvisabili episodi corruttivi, nulla hanno dimostrato in ordine all'esistenza di una realtà di mafia, quella vera, quella che costituisce un pericolo per l'ordine pubblico. Altra cosa è dire che nel nostro Paese è diffusa una cultura mafiosa che è diversa dalla fattispecie penale e che permea in sé anche il funzionamento delle istituzioni. Ad esempio, talvolta lo sfruttamento della prostituzione assume i connotati della riduzione in schiavitù ma sarebbe assurdo, e pertanto illegittimo, vedere in ogni sfruttatore, in ogni pappone, uno schiavista. Lo stesso deve valere per i reati di mafia che non sono tali solo perché riconducibili a gruppi collusi con istituzioni corrotte". Inoltre, per Naso "le accuse di estorsione sono le più risibili, sono state elevate e confermate in sede di riesame, senza interrogare le presunte persone offese, talune delle quali non si sono riconosciute nel ruolo delle vittime sacrificali loro attribuito e non certo per paura di eventuali ritorsioni ma per la distorsione dei fatti generata dalla sola lettura orientata e preconcetta delle intercettazioni". Certo è difficile escludere il ruolo che può giocare in questo caso proprio la paura di ritorsioni, anche rileggendo quanto scrive su Mafia Capitale nell'ordinanza di arresto il gip Flavia Costantini: "La forza di intimidazione del vincolo associativo, autonoma ed esteriorizzata, e le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, sono generate dal combinarsi di fattori criminali, istituzionali, storici e culturali". Un episodio simbolo è quello dell'imprenditore Massimo Perazza, malmenato da Riccardo Brugia (anche lui ora al 41bis) il 5 dicembre 2012 per un debito di 600 euro, in quel caso vittima del sodalizio, ma sparito dai radar, forse al riparo in Sudamerica, già dieci giorni dopo la retata del 2 dicembre 2014; quando veniva accusato dai pm romani, insieme a cinque sospetti complici, dei quali tre graduati della Marina militare, per una truffa da 7 milioni di euro: il rifornimento di carburante (mai arrivato) al porto di Augusta per mezzo di un'imbarcazione naufragata nel 2013, il cui equipaggio risulta in parte ancora disperso. Tornando a Carminati, sostiene l'avvocato Naso, "non è certo un santo, ma ha già patito lunghe e penalizzanti custodie cautelari per fatti dei quali poi è stato ampiamente assolto e scagionato. Il teorema preconcetto indica il mio assistito come personaggio equivoco al soldo di potentati economici e politici che tramano nell'ombra per l'affermazione di forze oscure, ovviamente di destra, antidemocratiche e persecutorie". Alghero: l'Asl taglia servizi, carcere senza infermiere durante la notte La Nuova Sardegna, 8 marzo 2015 Raccolta di firme dei detenuti per chiedere il ripristino del turno: "Molti di noi hanno bisogno di terapie, è rischioso". C'è molta preoccupazione tra i detenuti del carcere di Alghero perché dal primo marzo la struttura penitenziaria rimane senza infermiere durante la notte. Il turno notturno è stato sospeso su decisione del commissario dell'Asl e dietro indicazione del responsabile del servizio. La motivazione sarebbe quella di poche richieste da parte della popolazione carceraria nella fascia notturna, da qui la decisione di spostare l'infermiere nel carcere di Bancali a Sassari, dove a quanto pare sarebbe stata rappresentata una situazione di emergenza. I detenuti hanno predisposto una petizione - corredata da un centinaio di firme - che è stata inviata al commissario dell'Asl e alla direzione del carcere. Firenze: fermato a Prato in un circolo Arci il detenuto dell'Opg sfuggito agli infermieri di Simone Innocenti Corriere Fiorentino, 8 marzo 2015 Alessandro Manca, paziente dell'ospedale psichiatrico, era ricercato da giorni. Nella notte l'avvistamento in un circolo Arci, nella zona di Grignano, da parte di alcune persone e la chiamata al 113. L'uomo è stato riportato all'Opg di Montelupo. È stato rintracciato a Prato dalla polizia nella notte fra venerdì e sabato, Alessandro Manca, il paziente dell'Opg di Montelupo evaso martedì mattina dalla sorveglianza degli operatori sanitari che lo avevano in custodia. Quando gli agenti di polizia lo hanno trovato - alle 22.30 circa di ieri - era al circolo Arci "Cherubini" di Grignano (quartiere di Prato), dov'era in atto una festa per bambini. Il 113 era stato allertato da numerose chiamate di genitori, "preoccupati - come riferisce la polizia - per lo sguardo dell'uomo che continuava a fissare i bambini". Tra i genitori c'era anche uno psichiatra che ha riconosciuto immediatamente Manca: indossava gli stessi abiti del giorno della fuga, appariva malnutrito. Appena rintracciato dagli agenti e portato fuori dal circolo l'uomo ha tentato di fuggire nuovamente, dando calci e pugni ai poliziotti, che lo hanno dunque ammanettato e condotto in questura. L'uomo è stato poi riaccompagnato all'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Nei giorni scorsi c'erano state alcune segnalazioni a San Gimignano e a Signa, alle porte di Firenze, poi rivelatesi inesatte. I carabinieri avevano anche controllato le abitazioni dei familiari dell'uomo, nel Pratese, non trovando però nessuna traccia. L'uomo, 45 anni, originario di Prato, era scappato poco dopo le 10 di mercoledì mattina. Tre infermieri dell'Asl di Prato, secondo una ricostruzione confermata anche dall'azienda, dopo essere entrati nella sala d'attesa dell'ufficio della polizia municipale - secondo quanto ricostruito - hanno atteso che un vigile terminasse alcune incombenze con un'altra persona. Pochi secondo dopo, gli infermieri e l'uomo sono andati fuori. Terminato con la persona, il vigile è andato fuori dato che non li vedeva entrare: li voleva chiamare. A quel punto gli accompagnatori gli hanno detto che era scappato correndo verso la piazza. L'Asl di Prato ha segnalato l'evento al risk manager. Le ricerche, condotte dalla polizia penitenziaria, sono iniziate immediatamente, concentrandosi sulle coline limitrofe alla città della ceramica, soprattutto Malmantile, nel comune di Lastra a Signa, dove sarebbe stato avvistato, ma per adesso non è stato rintracciato. L'uomo, il 18 maggio 1999, aveva ucciso la madre nella loro abitazione di Galciana (Prato). Accusato di omicidio volontario fu assolto perché incapace di intendere e volere e internato all'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino (Firenze), prima di essere ammesso a fruire di una licenza di esperimento in comunità terapeutica. L'uomo lo scorso anno era già fuggito ed era stato poi rintracciato ed arrestato. Nell'aprile dello scorso anno si era allontanato dalla comunità terapeutica "Tiziano" di Aulla (Massa). I carabinieri lo ritrovarono poi a Montecatini dopo alcuni accertamenti e in seguito a una segnalazione dell'Ufficio di sorveglianza di Firenze, che aveva ripristinato la misura detentiva dopo l'arbitrario allontanamento dalla struttura. Napoli: fare giustizia, restituire memoria… come riaprire un manicomio di Dario Stefano Dell'Aquila e Antonio Esposito La Repubblica, 8 marzo 2015 Questo martedì, un collettivo di cittadini e studenti ha riaperto, provocatoriamente, le porte dell'ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Sant'Eframo, struttura monumentale quanto nascosta allo sguardo dei più, all'angolo tra via Imbriani e via Salvatore Rosa. "Restituiamo l'ex Opg al quartiere" è scritto ora su uno striscione che fa bella mostra non solo sulle mura del vecchio manicomio, ma anche sulla pagina Facebook dedicata, che in poco tempo ha raggiunto migliaia di contatti. Chi, assieme a Sergio Piro e a tanti altri, date le condizioni detentive insostenibili e inumane degli internati, si è battuto a lungo perché quel posto chiudesse, non può che sostenere l'importanza di questa "riapertura", non solo per il suo valore simbolico, non solo per il richiamo a restituire uno spazio negato alla città, ma anche e soprattutto per il dovere di costruire memoria. Le testimonianze sulle condizioni detentive inumane e sull'uso dei letti di contenzione a Sant'Eframo erano note sin dagli anni 70. In parte emersero durante il processo che coinvolse nel 1977 l'allora direttore - che fu prosciolto poi da ogni accusa - procedura relativa ai presunti favori concessi all'illustre detenuto Raffaele Cutolo. Una struttura nata come monastero, con celle di reclusione al di fuori di ogni standard penitenziario, che per lunghi anni ha funzionato come luogo di esclusione e sofferenza. Chi scrive è stato testimone, in una visita parlamentare, dell'odore di urina e feci e di internati abbandonati nei propri escrementi in celle lisce e spoglie. Nel 2003, durante una visita ispettiva, il consigliere regionale Francesco Maranta incontrò Vito De Rosa, da cinquant'anni rinchiuso nell'Opg di Napoli. Il suo caso ebbe così risalto nell'opinione pubblica, che nel 2003 Vito De Rosa fu graziato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nel 2008 gli internati furono, frettolosamente, trasferiti nel complesso penitenziario di Napoli-Secondigliano, perché, nonostante inopportune azioni di risistemazione strutturale, restavano non garantite le condizioni minime di sicurezza. Da allora, l'intero complesso, rimasto nella disponibilità del Ministero della Giustizia, giace silenzioso e inutilizzato. Un monumento del dolore lasciato nell'abbandono. L'incuria del tempo sta incidendo su di una struttura che invece ha bisogno di costante manutenzione e cura. La chiusura di tutti gli Opg, fissata al 31 marzo prossimo, seppure con tante zone d'ombra ancora tutte da chiarire, dovrebbe, finalmente, far archiviare questi luoghi, qualcosa di cui parlare in termini passati. Ma archiviare, appunto, non vuol dire dimenticare, tutt'altro. Significa custodire perché tutti possano ricordare, perché si sedimenti una memoria collettiva che faccia da monito e strumento per non ripetere ancora gli orrori del passato. I manicomi sono stati un luogo di violenza istituzionale, dove si sono definite pratiche e discipline di sopraffazione. Come in tante altre parti d'Italia ma non ancora a Napoli e in Campania, occorre, consapevolmente, trasformarli, lasciando, al contempo, traccia di ciò che sono stati, recuperando e restituendo diritto di narrazione e parola alle storie, alle vite che in quei luoghi sono state offese, ridotte al silenzio, cancellate. Bisogna trasformare ciò che è stato luogo di segregazione ed esclusione in spazi di libertà e opportunità. Per questo, salutiamo con gioia questa "spontanea" riapertura del vecchio manicomio, perché ci sembra rappresenti la pratica di chi non si arrende alla banalità del "non può essere altrimenti", di chi vuole rompere le catene dell'oblio. Per questo ci rivolgiamo, in primo luogo, al Sindaco di Napoli, perché compia tutti i passaggi necessari per restituire questo bene alla città nei modi e nelle forme più aperte e inclusive. "Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti" scriveva Jorge Luis Borges. Restituire questo spazio alla città significa, per l'appunto, fare memoria e rimettere assieme i frammenti di tante vite dimenticate e internate come un mucchio di specchi rotti. Avellino: Osapp; difficoltà degli agenti nel carcere di Ariano Irpino, annuncio del sit-in www.ottopagine.it, 8 marzo 2015 Il segretario dell'Osapp Vincenzo Palmieri scrive al direttore Marcello. Problemi al Carcere di Ariano Irpino dove l'Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria protesta per le condizioni di lavoro degli agenti. Da qui la lettera del segretario regionale Vincenzo Palmieri che annuncia manifestazioni e sit-in. "La scrivente segreteria regionale - si legge nella missiva - nonostante le copiose missive inviate in precedenza verso la direzione in indirizzo, le quali a tutt'oggi, non solo non hanno trovato riscontro ma non sono neanche stati adottati da parte della direzione iniziative risolutive tese a eliminare le problematiche evidenziate sulle questioni sia strutturali che organizzative, che continuano a penalizzare in tutti i sensi non solo i diritti soggettivi degli appartenenti al Corpo colà in servizio che ogni giorno tra mille difficoltà adempiono i compiti istituzionali a loro demandati. Per tanto, in mancanza di risposte concrete, questa O.S. annuncia che a breve si vedrà costretta a intraprendere unitamente ai rappresentanti locali iniziative a cominciare dall'astensione della Mos e il coinvolgimento dei mezzi di stampa per denunciare attraverso un sit-in di protesta, le pessime condizioni di vivibilità in cui versa la struttura in questione, il totale abbandono e la scarsa sensibilità dell'Amministrazione Penitenziaria dimostrata a ogni livello verso il personale di Polizia Penitenziaria". Roma: 8 Marzo; i detenuti di Rebibbia celebrano le donne con spettacolo teatrale Adnkronos, 8 marzo 2015 A teatro l'8 marzo per celebrare la festa della donna ricordando il dramma della violenza e del femminicidio: la compagnia "Stabile Assai" dei carcerati di Rebibbia e il laboratorio teatrale dell'Unicredit circolo Roma "Karma e Coraggio", porteranno sul palco del teatro San Gelasio "Nessuno escluso", monologhi e storie di vita quotidiana che raccontano la quotidianità della condizione della donna tra soprusi e violenze. Una rappresentazione che vede coinvolti nella recitazione attori professionisti come Blas Roca Rey, Melissa Manna e Monica Rogledi, il gruppo di attori amatoriali del Circolo Unicredit e i detenuti delle case di reclusione di Rebibbia e di Spoleto, con la regia di Patrizia Spagnoli. "Uno spettacolo - si legge nella nota - che vuole essere un modo diverso per celebrare una festa che rischia di cadere negli stereotipi coinvolgendo diverse realtà sociali e coinvolgendo, operazione coraggiosa, coloro che la società l'hanno tradita violando le sue regole. Il senso dello spettacolo non ricalca lo schema classico dello spettacolo di denuncia ma insegue l'obiettivo di alimentare una presa di coscienza delle persone sul fatto che la questione femminile è un problema di tutti, non solo delle donne". "Le donne dagli inizi degli anni 70 sono vissute come fenomeno antagonista dell'universo maschile. Si tratta di stereotipi difficili da modificare, perché le donne che lavorano, le donne che possono divorziare, le donne che possono abortire, le donne che possono vivere con tranquillità la propria omosessualità, rappresentano una rivoluzione culturale epocale, e quindi difficile da essere introiettata in soli quattro decenni. Ma la via è questa. Superando gli sterili atteggiamenti compassionevoli, ma rivendicando il diritto di esistere. In una sola ottica: quella della comunità solidale, di una comunità in cui tutti siamo disponibili verso gli altri, ad affrontarne i problemi e a tentare una conciliazione mediatrice tra il conflitto e l'identità. Questo deve valere per tutti. Nessuno Escluso", conclude la nota. Santa Maria Capua Vetere (Ce): Giornata mondiale Teatro, due spettacoli per i detenuti Corriere del Mezzogiorno, 8 marzo 2015 Nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere su iniziativa di Casmu e PulciNellaMente. In occasione della Giornata mondiale del Teatro il carcere di Santa Maria Capua Vetere apre ancora una volta le sue porte alla cultura, trasformandosi in un palcoscenico in cui si rivela la straordinaria attitudine del teatro a parlare al cuore di ciascuno di noi e, contemporaneamente, farci riflettere sui grandi temi che toccano la nostra vita, sia come persone che come collettività, mettendo in scena i valori, i sentimenti, le sfide e le speranze in un domani più belle e sereno. Presso il penitenziario casertano saranno due gli eventi che andranno in scena in due diverse date: l'atteso spettacolo "Viviani e non solo", ideato e magistralmente interpretato da Antonio Buonomo, l'ultimo artista vero della tradizione napoletana, si terrà venerdì 13 marzo 2015, alle ore 15; lo spettacolo "Pericolosamente", commedia in un atto unico scritta da Eduardo de Filippo nel 1938, appartenente al filone della "Cantata dei giorni pari", sarà interpretato dalla Compagnia Teatrale Letizia venerdì 27 marzo 2015, alle ore 10.30. L'iniziativa, ancora una volta, è promossa grazie alla felice intesa tra l'Associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, rappresentata dal direttore Elpidio Iorio, e i vertici i vertici della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Carlotta Giaquinto, con il comandante commissario Gaetano Manganelli e il dottor Bruno Boccuni responsabile del progetto per i detenuti. "Da anni - dichiarano il coordinatore Mario Guida e il direttore di PulciNellaMente Elpidio Iorio - non lesiniamo energie pur di testimoniare una solidarietà concreta - piuttosto che evocata - a quanti la vita purtroppo ha riservato sofferenza e disperazione. Il nostro auspicio è che questa iniziativa possa indurci a riflettere sull'importanza del teatro sia a livello artistico che etico: la cultura può, anzi deve, rappresentare per ciascuno di noi il motore per una rinnovata spinta verso il futuro traducendo in realtà le nostre speranze di cambiamento. Un grazie sentito a quanti hanno offerto la loro collaborazione per la realizzazione di questo evento, dai dirigenti al personale del carcere, dagli artisti al personale tecnico". Dunque appuntamento a venerdì prossimo, presso il teatro della struttura sammaritana dell'Amministrazione Penitenziaria, dove andrà in scena il primo evento: lo spettacolo "Viviani e non solo". Un evento teatrale imperdibile per quanti amano l'attore teatrale, il compositore, il poeta e scrittore Raffaele Viviani. I protagonisti di questo spettacolo sono Antonio Buonomo e Patrizia Masiello, al pianoforte il M° Ciro Brancaccio, alle percussioni il M° Bruno Del Grosso, al flauto Noemi Granato. Presenta la serata Cristina Del Grosso, mentre Giordano coordina i services tecnici di audio e luci. Ancora una volta Antonio Buonomo, una grande personalità del teatro e della canzone napoletana, compie un gesto di grande vicinanza verso i detenuti offrendo loro uno spettacolo in cui restituisce una nuova luce all'intramontabile canzone classica napoletana, protagonista dei suoi spettacoli di varietà e prosa, spaziando in particolare tra i capolavori tratti dalla vasta opera del grande Viviani. Cinema: "A tempo debito", un film che racconta il carcere, dall'interno di una stanza recensione di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2015 Presentato in anteprima al Cinema Multiastra di Padova il film "A tempo debito". La stanza composta di banchi e sedie sistemate in cerchio fa pensare a un'aula scolastica qualsiasi, se non fosse per quella porta pesante e le finestre rinforzate con delle sbarre di ferro che rivelano la vera natura di ciò che circonda quel luogo: un carcere. Quella camera è adibita ad aula per svolgere corsi scolastici. E infatti i banchi sono spesso occupati da detenuti che seguono la scuola media oppure i corsi di alfabetizzazione. Sulla lavagna le tracce del tema non dicono se si trattava di un compito da svolgere in classe, o in cella. La porta viene aperta in continuazione da detenuti che infilano la testa per vedere cosa succede. Ma il curioso di turno viene sempre richiamato da qualcuno e la porta si richiude. Il tanto interesse su cosa sta succedendo è dovuto ad una voce di corridoio, secondo la quale in quella stanza si sta girando un film. Infatti nei reparti detentivi è girato un volantino strano che informava la popolazione detenuta che si stavano cercando degli attori per un film. Poi c'era stato il casting, e adesso quindici detenuti sono stati chiamati e si trovano in questa stanza. Di fronte a loro, una donna sistema la telecamera, un'altra regge in alto un microfono, mentre un uomo comincia a parlare di cinematografia, di attori e di interpretazione. Si chiama Christian Cinetto ed è un regista vero che vuole realizzare un cortometraggio. Ha scelto la Casa circondariale perché, dice, "vogliamo mostrare il carcere preventivo, quello dove le indagini sono ancora aperte, e i detenuti non sanno né dove né per quanto saranno ancora rinchiusi". Per fare questo è stato autorizzato ad incontrare il gruppo dei detenuti due volte a settimana nell'aula scolastica. Sono state inoltrate richieste al Ministero per poter girare anche in altri spazi, come il campo da calcetto, qualche corridoio, un reparto detentivo. Intanto c'è una stanza e quindici detenuti con la voglia di sperimentare. Solo due di loro sono italiani, gli altri tredici rispecchiano un po' la composizione degli stranieri che vivono oggi in Italia. Colori diversi, lingue diverse, vite diverse. La prima cosa da fare è coinvolgerli in un progetto comune. Fargli raccontare la loro condizione detentiva può essere un punto di partenza. "Abbiamo capito che se davvero volevamo trovare un punto d'incontro, quello non poteva essere che il loro stesso stato di detenuti in attesa di giudizio", spiega il regista. Inizia così un percorso che dura cinque mesi. Si riprende tutto, le conversazioni e ogni loro espressione, le difficoltà nell'insegnare e ogni loro imbarazzo. Ogni incontro offre la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo sulla loro quotidianità, spesso ti permette perfino di scavare nelle loro anime, ed è tutto prezioso. Il regista lo chiama raccontare il loro "limbo", senza conoscere i reati che questi uomini hanno commesso, per dare una visione autentica dell'essere umano oltre il suo crimine. Le persone imparano a studiare le loro parti, superano gli imbarazzi e interpretano scene di quotidiana galera. Questo le fa avvicinare di più. Scherzano tra di loro, si appassionano insieme, e alla fine sembrano una vera troupe cinematografica. "Abbiamo scavato per trovare qualcosa in comune per creare, tutti e quindici insieme, nonostante le difficoltà culturali, una storia da condividere, nella quale ciascuno di loro fosse protagonista", racconta Christian. I cinque mesi passano in fretta. Le riprese finiscono. Il regista lascia il carcere con decine di ore di registrazione su cui lavorare, mentre i detenuti tornano nelle loro celle ad aspettare il processo. La loro avventura cinematografica è finita. La troupe invece, con quelle riprese, ha realizzato un documentario dal titolo "A tempo debito" per offrire al pubblico la possibilità di vedere un altro racconto della "realtà" dentro le mura della Casa circondariale di Padova. "Lo abbiamo intitolato "A tempo debito", spiega Cinetto, "perché il tempo è l'elemento essenziale: lo è per i detenuti, che vivono in un'attesa che non dipende dal loro arbitrio, ma da chi deciderà per loro; lo è per noi che abbiamo lavorato nel tempo per mettere insieme queste persone e portare avanti un progetto nonostante gli attriti e le chiusure. Debito perché tutti i protagonisti hanno un debito da pagare". A riflettori spenti, quella stanza composta di banchi e di sedie sistemate in cerchio sicuramente oggi è tornata alla sua routine carceraria, occupata da detenuti, mentre gli insegnanti si danno i turni per riempire la lavagna di parole e di numeri. Ma forse proprio grazie a quell'aula scolastica, oggi tutti hanno la possibilità di conoscere un pezzo di carcere in attesa di giudizio. Droghe: legalizzare la cannabis e tassarla… è inutile regalare questo bancomat alla mafia di Dimitri Buffa Il Tempo, 8 marzo 2015 Legalizzare la cannabis e tassarla tanto la fumano tutti in Italia ed è inutile regalare questo bancomat alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta. Il concetto non è nuovo ma adesso la legalizzazione delle droghe leggere non la chiede solo Marco Pannella, che lo fa da 45 anni, o Rita Bernardini, da qualcuno di meno. Né i centri sociali delle feste per la semina o gli hippy post sessantottini. A prendersi la responsabilità di "cambiare verso", è la Direzione nazionale antimafia che nel proprio ponderoso rapporto per l'anno 2014 dedica svariate pagine a questo tema. Sei cartelle piene di proiezioni statistiche. "Ricordiamo - si legge - per dare un significato concreto ai dati che riguardano il presente anno, che, nel periodo precedente a quello in esame (dunque, dal 1 Luglio 2012 al 30 Giugno 2013), in Italia, venivano intercettati: kg 3.748 di cocaina - dato che, già all'epoca, non faceva che confermare la fortissima offerta di questo stupefacente in Italia - kg 830 di eroina (stupefacente che risultava meno richiesto sul mercato rispetto al precedente trend) kg 63.132 di cannabis di cui 35.849 di marijuana, kg 27.282 di hashish e kg 4074 di piante". Poi la considerazione che fa da premessa a una richiesta di depenalizzazione della cannabis: "Quanto al dato sui sequestri di cannabis, lo stesso, come anticipato, evidenzia un picco che appare altamente dimostrativo della sempre più capillare diffusione di questo stupefacente. Per avere contezza della dimensione che ha, oramai, assunto il fenomeno del consumo delle cd droghe leggere, basterà osservare che - considerato che il quantitativo sequestrato è di almeno 10/20 volte inferiore a quello consumato - si deve ragionevolmente ipotizzare un mercato che vende, approssimativamente, fra 1,5 e 3 milioni di Kg all'anno di cannabis, quantità che soddisfa una domanda di mercato di dimensioni gigantesche. In via esemplificativa, l'indicato quantitativo consente a ciascun cittadino italiano (compresi vecchi e bambini) un consumo di circa 25/50 grammi pro capite (pari a circa 100/200 dosi) all'anno". Duecento canne, di media, a testa per ogni italiano, compresi poppanti e novantenni. Quindi il dato quasi certo è che nella popolazione attiva, tra i sedici e i sessanta anni, il consumo potrebbe investire il 50, 60 per cento di tutti loro. Prosegue la relazione a pagina 355 sostenendo che "invero, di fronte a numeri come quelli appena visti - e senza alcun pregiudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia - si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente, e nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione dei cannabinoidi, si deve registrare il totale fallimento dell'azione repressiva... E quando si parla di "massimo sforzo profuso" in tale specifica azione di contrasto, si intende dire che attualmente, il sistema repressivo e investigativo nazionale, che questo Ufficio osserva da una posizione privilegiata, è nella letterale impossibilità di aumentare gli sforzi per reprimere meglio e di più la diffusione dei cannabinoidi. Ciò per la semplice ragione che, oggi, con le risorse attuali, non è né pensabile né auspicabile, non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul fronte anti-droga inteso in senso globale, comprensivo di tutte le droghe (impegno che assorbe già enormi risorse umane e materiali, sicché, spostando ulteriori uomini e mezzi su tale fronte, di conseguenza.. neppure, tantomeno, è pensabile spostare risorse all'interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto al traffico delle (letali) droghe "pesanti" al contrasto al traffico di droghe "leggere". In tutta evidenza sarebbe un grottesco controsenso. La parola depenalizzare è in realtà un eufemismo per legalizzare, così come il termine liberalizzare è un vocabolo che denota la disonestà intellettuale di chi lo usa, e che vorrebbe prefigurare una sorta di anarchia e di "fate tutti come vi pare" che però è più la caratteristica della realtà odierna dominata dal proibizionismo e dal monopolio della criminalità organizzata". Qui finiscono le sei cartelle con cui la Direzione nazionale anti mafia descrive il fenomeno della diffusione delle canne in Italia e il possibile rimedio. A questo punto, fatti due conti a tavolino sono i radicali italiani dei su nominati Marco Pannella e Rita Bernardini, con i loro esperti di area, a dare una cifra sul possibile introito per l'erario, sia in termini di risparmio sulla repressione sia in termini di vere e proprie accise sulla cannabis: dai 7 ai 10 miliardi di euro l'anno. Tanto per cominciare. Gambia: due pescatori italiani arrestati. Appello delle moglie a Renzi "cerchi di salvarli" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 marzo 2015 Un peschereccio italiano della Italfish di Martinsicuro è stato posto sotto sequestro dalle autorità marittime del Gambia per la presunta violazione delle dimensioni delle maglie di una rete. E due italiani sono in carcere da lunedì 2 marzo, dopo essere stati per una decina di giorni in stato di fermo. Si tratta del capitano della nave Idra Sandro De Simone di Silvi Marina, in provincia di Teramo, e del direttore di macchina Massimo Liberati di San Benedetto del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. La società armatrice parla di condizioni di detenzione disumane: "Sono senza cibo da lunedì - hanno riferito all'Ansa. Non abbiamo modo di parlarci, non sappiamo neanche se siano ancora vivi e temiamo per ciò che potrebbe accadere andando avanti così". Finora l'unico che è riuscito a incontrarli, giovedì 5 marzo, è stato il console onorario in Gambia, secondo cui i marinai "non sono in buone condizioni né fisiche né mentali". A bordo ci sarebbe un altro italiano il 60enne Vincenzino Mora, nativo di Torano Nuovo ma da diversi anni residente a Martinsicuro, che svolge le mansioni di nostromo. Mentre il comandante e il primo ufficiale sono detenuti, il nostromo - che è separato e ha un figlio - si trova sull'imbarcazione ormeggiata nel porto della capitale Banjul senza poter scendere dalla nave. L'equipaggio è sorvegliato a vista da guardie armate. Allarmata la moglie di Sandro De Simone che, attraverso l'agenzia Ansa, lancia un appello al premier Renzi e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni "Ogni giorno in più in quel carcere è un giorno di vita in meno. Mio marito rischia di morire, quel posto è come un lager: sono senza servizi igienici e senza cibo, neanche l'assassino più feroce viene trattato così. Sto male solo all'idea che lui stia subendo queste cose da tanti giorni. Chiediamo l'aiuto di Renzi e del ministro degli Esteri, affinché intervengano". Gianna De Simone, dalla sua abitazione di Silvi, ripercorre anche i suoi ultimi contatti con il marito. "Domenica l'ho sentito per telefono, quando era ancora in stato di fermo, e mi aveva detto che il giorno dopo si sarebbe risolto tutto, che avrebbero pagato una multa e la vicenda si sarebbe chiusa. Era tranquillo. Lunedì, verso le 14, mi ha mandato un sms in cui c'era scritto "non si è risolto nulla, ti chiamo appena posso". Ho provato a contattarlo, ma non ho avuto risposta, fino a quando l'armatore mi ha detto che erano stati arrestati. Da quel momento non l'ho più sentito. Dobbiamo renderci conto che tutti i paesi del mondo - tranne i paesi dove i musulmani hanno imposto la loro religione araba in cui esiste solo la legge del crimine a livello istituzionale - strutturano il loro sistema giudiziario su impostazioni mutuate dal diritto occidentale senza essere ancora attuate in modo completo di accusa, difesa, carcerazione preventiva, istruttoria, prove dibattimentali etc. Il dramma della detenzione è ancora più grave di quanto sia in Italia. Egitto: eseguita la prima condanna a morte contro i Fratelli musulmani di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 8 marzo 2015 In corso una faida tra l'élite militare e gli uomini vicini all'ex presidente Mubarak che potrebbe costare la poltrona dello stesso al-Sisi. Mahmud Ramadan è il primo sostenitore dei Fratelli musulmani a essere condannato a morte. Sono state centinaia le pene capitali disposte dalle Corti di Minya, Alessandria e Giza in seguito alla resistenza che gli islamisti opposero alla deposizione forzosa dell'ex presidente Morsi nel luglio 2013. La condanna riguarda l'ormai noto processo di Alessandria, costruito su prove video che mostrerebbero due giovani defenestrati da un palazzo del quartiere di Sidi Gaber. Il primo dei due morì sul colpo, il secondo Hamad Badr, 19 anni, sulla strada verso l'ospedale. Negli scontri del 3 luglio 2013, giorno del golpe militare, ad Alessandria morirono 18 persone, in una manifestazione venne ucciso, a coltellate, anche l'insegnante canadese Andrew Pochter. Il padre di una delle vittime ha raccontato che suo figlio sarebbe stato prelevato dal suo appartamento e condotto da Ramadan sul terrazzo del palazzo e gettato nel vuoto. La Fratellanza si è sempre dichiarata estranea ai fatti. Nei processi sommari e di massa degli ultimi mesi, centinaia di islamisti sono stati condannati a morte nella più dura repressione che il movimento ha subito sin dalla sua formazione. Molte delle pene capitali sono state poi trasformate in ergastoli, ma i leader del movimento ancora rischiano la forca. Dopo il golpe e il massacro di Rabaa, migliaia di sostenitori dei Fratelli musulmani risultato scomparsi in Egitto. Sono centinaia poi le opere caritatevoli, gli ospedali e le scuole chiuse in questi mesi per impedire una rinnovata partecipazione politica del movimento. L'intero movimento è stato dichiarato illegale dalla magistratura egiziana colpendo al ventre la principale forza di opposizione in Egitto. Eppure con l'approssimarsi delle elezioni parlamentari, ora rinviate sine die, sembrava che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi avesse avviato un tentativo di riconciliazione con quei politici islamisti che avessero rinnegato la loro appartenenza al movimento. In realtà, l'esecuzione della prima condanna a morte, sebbene di un caso molto particolare che con le immagini video mostrate dalla televisione pubblica, ha provocato lo sdegno di molti egiziani, arriva a poche ore dal rimpasto di governo che ha visto avvicendarsi al ministero dell'Interno Mohamed Ibrahim, il politico che ha messo in atto la strage di Rabaa, con l'ex capo della Sicurezza di Stato (Amn el-dawla), Abdel Ghaffar. Sarebbe in corso una faida tra l'élite militare e gli uomini vicini all'ex presidente Mubarak che potrebbe costare la poltrona dello stesso al-Sisi in favore dei faccendieri riabilitati del dissolto Partito nazionale democratico in vista di un possibile voto per le parlamentari. Da mesi c'è uno scontro negli atenei e per le strade con continui scoppi di ordigni rudimentali. L'ultimo ha causato un morto a Mahallah al-Kubra, città del Delta del Nilo nota per l'attivismo dei movimenti operai. Afghanistan: rivolta in un carcere del nord, in ostaggio quattro poliziotti e un magistrato Agi, 8 marzo 2015 Rivolta in un carcere nel nord dell'Afghanistan. Un gruppo di detenuti ha preso in ostaggio quattro poliziotti e un magistrato nel penitenziario di Sherbighan, nella provincia di Jawzjan, dopo gli scontri che hanno portato al ferimento di cinque poliziotti e 10 prigionieri. Lo riferiscono i media locali. La rivolta è scattata mentre le guardie stavano sequestrando coltelli, telefoni cellulari e altri oggetti introdotti di contrabbando nel carcere. Alcuni membri del Consiglio provinciale stanno cercando una mediazione.