Giustizia: niente processo per i reati "lievi", arriva la non punibilità per tenuità del fatto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2015 Arriva una norma che, per una volta, mette d'accordo avvocati e magistrati: al prossimo Consiglio dei ministri, in agenda per martedì, dovrebbe approdare, per l'approvazione definitiva, il Decreto Legislativo che introduce nel Codice penale una nuova causa di non punibilità, per tenuità del fatto. Il testo è ormai pronto e, rispetto alla versione iniziale, recepisce alcune indicazioni delle Commissioni parlamentari. L'obiettivo è di evitare che approdino in giudizio procedimenti per reati ritenuti, dalla stessa autorità giudiziaria, di scarsa offensività. Tutt'altro che una depenalizzazione. Il decreto innesta un nuovo articolo, il 131 bis nel Codice, per escludere da punibilità i reati sanzionati fino a 5 anni di reclusione, a due condizioni: quando l'offesa è di scarsa gravità e quando la condotta non è abituale. Requisiti che al Parlamento sono apparsi bisognosi di qualche precisazione. Così, il testo finale prevede che l'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili oppure con crudeltà, ancora, ha approfittato delle condizioni della vittima, soprattutto se minore, quanto a limitata capacità di difendersi. Il reato poi non può essere archiviato quando l'autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure ha commesso delitti dello stesso tipo "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate". Esclusa invece l'esplicitazione di una lista di reati per i quali escludere espressamente la possibilità di archiviazione. Sull'archiviazione è sempre previsto un doppio intervento dell'autorità giudiziaria, senza alcuna possibilità di automatismi. In prima battuta sarà, come ovvio, il pubblico ministero a intervenire chiedendo al giudice l'archiviazione, ma informando, nello stesso tempo sia l'indagato sia la persona offesa, chiarendo loro che entro 10 giorni potranno presentare opposizione nella quale andranno indicate le ragioni del dissenso. Il giudice, se non ritiene inammissibile l'opposizione, procede in contraddittorio e, dopo avere sentite le parti, se accoglie la domanda di archiviazione decide con ordinanza. Altrimenti, in mancanza di opposizione oppure quando questa è inammissibile, il giudice procede senza formalità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato. Nel caso, invece, in cui il giudice non accolga la richiesta allora restituisce gli atti al pubblico ministero. Dell'archiviazione resta comunque traccia nel casellario a ulteriore riprova dell'assenza di una depenalizzazione che pure prevista dalla medesima delega che ha ora introdotto il nuovo caso di non punibilità deve ancora essere esercitata. L'imminente approvazione della versione definitiva del decreto legislativo avrà poi effetti anche su uno dei temi "caldi" del dibattito politico, la riformulazione del falso in bilancio. Nel testo dell'emendamento del Governo che è già stato messo a punto, ma non ancora presentato in Senato (lo sarà nel corso della prossima settimana), viene infatti esplicitamente previsto che anche per il falso commesso sui conti di una società non quotata sia possibile l'archiviazione per tenuità del fatto. Ed è questa una delle ragioni principali che hanno indotto il ministero della Giustizia a fissare la sanzione massima per il falso nelle non quotate a 5 anni, rendendo così possibile la custodia cautelare ma non l'effettuazione di intercettazioni. Giustizia: dai piccoli furti ai falsi giuramenti, conterà la valutazione del magistrato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2015 È lunghissimo e alquanto eterogeneo il catalogo dei reati - tra codice penale e leggi speciali - che gravitano attorno al Dlgs "tenuità del fatto", elenco ricostruibile sulla base del tetto di pena (5 anni nel massimo), e tenuto conto comunque che ne restano fuori tutti gli indagati - e i fatti - giudicati in sostanza socialmente pericolosi. L'elenco spazia dai reati contro la pubblica amministrazione a quelli contro il mercato, dall'ambito societario a quello tributario, dai reati contro la giustizia agli illeciti contro la persona. Ambiti così diversi dove non sempre sembra ragionevolmente affrontabile il concetto di tenuità del fatto, considerato il disvalore che alcune delle condotte, in astratto domani non punibili, in realtà rappresentano per il solo fatto di essere state commesse. L'esercizio arbitrario delle proprie ragioni (la "giustizia fai da te", molto utilizzata nei rapporti di vicinato e/o in quelli creditori) "con violenza alle persone" è, in astratto, un'ipotesi non più punibile: il giudice dovrà valutare forse allora il "grado di violenza" applicata? Come è difficile capire quando un'istigazione a delinquere è "tenue", e ancor più difficile immaginare un'istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografica non rilevante giudiziariamente. In tema di reati di famiglia, esiste una bigamia in forma lieve, o ancor peggio un incesto tenue? L'occultamento di stato (anagrafico) di un figlio come sarà giudicato in concreto? E l'abbandono di un familiare incapace? In ambito professionale sarà interessante osservare i criteri giurisprudenziali sull'esercizio abusivo di una professione per stabilirne la non offensività: falso medico sempre punibile, avvocato e commercialista anche no? Anche nel corso di un processo - civile, penale, tributario - saranno in astratto non punibili i falsi giuramenti, le false informazioni al pm, il patrocinio infedele, ammesso che i giudici ravvisino la bassa offensività di simili tentativi di deviare la giustizia. In materia economica la legge apre alla non punibilità nella frode in pubbliche forniture, nella turbata libertà degli incanti, nell'indebita percezione di erogazioni pubbliche, ma anche sul versante - spesso correlato - della corruzione, dell'abuso d'ufficio, dell'induzione indebita. Infine un set di reati che spesso occupano le cronache, dall'omissione di soccorso al maltrattamento (e uccisione) di animali, dove la sensibilità sociale sembra divergere da quella del legislatore. Giustizia: la Cassazione sulla responsabilità civile "Legge Vassalli già in linea con la Ue" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2015 La legge Vassalli non aveva bisogno di essere stravolta. Non almeno avendo come "scusante" (sedicenti) obblighi europei. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 4446 della Terza sezione civile depositata l'altro ieri, prende posizione in una fase certo precedente all'approvazione della legge di riforma della responsabilità dei magistrati appena andata in "Gazzetta", ma non certo neutra, visto che del tema si discuteva da tempo e che tra le motivazioni delle correzioni alla legge erano state più volte evocate sanzioni comunitarie in arrivo in caso di perdurante inerzia del legislatore. La Corte però di fronte al ricorso presentato da un avvocato che sollecitava il risarcimento dei danni subiti dalla condotta di alcuni magistrati, sostenendo anche che, dopo la sentenza della Corte di giustizia del 24 novembre 2011, non è più necessario che il magistrato abbia agito con dolo o colpa grave, ma è invece sufficiente la manifesta violazione del diritto vigente. Nel ricorso veniva anche precisato che la sentenza della Corte Ue, riconoscendo la violazione del diritto dell'unione da parte dello Stato italiano sul fronte della disciplina della responsabilità civile dei magistrati impone al giudice nazionale la disapplicazione della legge Vassalli, la 117 del 1988. Dalla sentenza discende, per il ricorrente, il principio che anche l'attività di interpretazione può comportare responsabilità per danni e che la colpa grave esiste anche per la manifesta violazione del diritto vigente dello Stato. La Cassazione non è stata però di questo parere e ha messo in evidenza come la sentenza europea ha inciso nel nostro ordinamento in maniera limitata. La sentenza, ricorda la Corte, ha fondato la responsabilità dell'Italia perché ha escluso ogni responsabilità dello Stato per i danni provocati in seguito a violazione del diritto dell'Unione. A prescindere da ogni considerazione sul profilo della distinzione tra la nozione di colpa grave contenuta nella Vassalli e violazione manifesta del diritto vigente individuata dalla giurisprudenza della Corte Ue. Conclusioni che, per la Corte, non sono però smentite da una lettura complessiva dell'impianto della stessa Vassalli, "essendo pacifico che la responsabilità civile dello Stato sussiste per le violazioni del diritto dell'Unione imputabili a un organo giurisdizionale di ultimo grado". È invece del tutto "arbitrario" affermare che la precisazione contenuta nella sentenza europea possa avere stravolto l'intero sistema della Vassalli. Va invece affermato, sottolinea la Cassazione, che l'attività di interpretazione della legge rimane estranea al perimetro della responsabilità civile dei magistrati. Come pure è evidente, scrive la Corte, che il requisito del dolo o della colpa grave non è stato modificato dalla pronuncia della Corte di giustizia. Ne deriva anche, puntualizza la Cassazione, che la struttura complessiva della legge Vassalli è rimasta nel complesso inalterata anche dopo la sentenza Ue, ed è "fuor di luogo" ipotizzare che ne derivi "addirittura, un obbligo generalizzato di disapplicazione della normativa interna in nome del principio di prevalenza del diritto comunitario. Il che vale sia per la normativa nazionale nel suo complesso che più direttamente per la permanenza della cosiddetta fase di filtro (poi soppressa dalla riforma, ndr) costituita dal giudizio di ammissibilità". Giustizia: il ministro Orlando e lo strappo con le toghe "incomprensibili le loro critiche" di Silvia Mastrantonio Il Giorno, 7 marzo 2015 Il ministro: "Mai cercato scontri. I giudici devono contribuire agli sforzi del Paese". E sulla prescrizione: "Dissenso solo sui tempi, per alcuni reati. Sul punto e sulla corruzione troveremo un equilibrio". "Su corruzione e prescrizione nel governo c'è un orientamento comune, non ho dubbi che si troverà un punto di equilibrio". Andrea Orlando è al timone, da un anno, del ministero della Giustizia. Via Arenula è nell'occhio del ciclone mentre la coda dell'inverno fischia venti di tempesta su prescrizione e corruzione e fuori della porta premono i magistrati che certe novità non le hanno prese bene per niente. Corruzione, prescrizione e scricchiolii nella maggioranza. Partiamo da qui? "Sarebbe importante, invece, mettere l'accento sulle cose condivise che sono tante. C'è un orientamento comune nel governo a rivedere la prescrizione. Il dissenso è solo sui tempi per alcuni reati e non credo sarà difficile trovare un'intesa dopo un'attenta valutazione". Nessuna divisione con Alfano? "Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Tutto il provvedimento sulla prescrizione è costruito su punti condivisi tra le forze di governo, il dissenso, ripeto, è su un paio di reati e sui tempi. Non voglio dire che si tratta di questioni marginali perché non lo sono, ma sono certo che si troverà il punto di equilibrio". La riforma della giustizia procede spedita? Previsioni? "Io sono soddisfatto perché sono stati incardinati in Parlamento tutti i provvedimenti varati con il Consiglio dei ministri del 29 agosto dell'anno scorso: con le Camere così sovraccariche di lavoro e di riforme non era scontato. Alcuni di questi provvedimenti sono già legge: il decreto per la giustizia civile, l'auto-riciclaggio, la responsabilità civile dei magistrati. Ritengo che ci siano le condizioni in 4-5 mesi di poter completare il lavoro scaturito da quel Cdm. Ora stiamo attraversando alcuni dei passaggi più delicati: qualche ostacolo in più era fisiologico". Rapporti con le toghe? "Mi auguro migliorino. Da parte nostra non c'è mai stata alcuna volontà di aprire un conflitto con una categoria nella quale il governo ripone la massima fiducia". Però non hanno gradito alcuni provvedimenti... "C'è una tensione sulla responsabilità civile. Voglio ribadirlo con chiarezza: si tratta di una legge pensata per rafforzare le tutele dei cittadini e in nessun modo punitiva per i magistrati. Peraltro mi sembra corretto ricordare che in materia il governo è intervenuto in Parlamento per impedire che fosse votata un'ipotesi di legge che conteneva alcuni seri condizionamenti per il loro lavoro. Elementi che il governo ha respinto. Per questo davvero non si capisce perché è stato detto che si è intervenuti per "volontà di normalizzazione". E poi c'era l'Europa. "Un'altra forte motivazione. Pendeva sull'Italia una procedura di infrazione Ue che ci esponeva a sanzioni pesantissime". Depenalizzazione di reati per tenuità del fatto. Piccole cose che però destano allarme sociale. "Bisogna capirsi sul concetto di tenue entità. Qualcuno ha fatto terrorismo mediatico: non ci sarà nessun reato grave che resterà impunito, non c'è depenalizzazione. Parliamo di fatti così minori da non giustificare il processo e che cadono già oggi sotto il meccanismo della prescrizione senza però che le vittime abbiano voce in capitolo. Con questa norma il magistrato che ritiene di dover archiviare prima è tenuto a comunicarlo alla vittima che può esprimersi contro". Un provvedimento che volevano i magistrati. Così come volevano personale... "E infatti abbiamo proceduto con l'assunzione di 250 cancellieri e preparato il bando per la mobilità da altri comparti di 1.031 unità. Erano 25 anni che non c'erano simili immissioni". Capitolo ferie dei giudici... "Il nostro intervento è stato preso come la negazione della laboriosità dei magistrati. Non è così. Si è trattato solo di chiedere loro di contribuire allo sforzo che sta compiendo tutto il paese". Lo sforzo è stato accettato? "Accettato no. Abbiamo demandato al Csm il compito di tarare l'attuazione della norma secondo la specificità del lavoro dei magistrati. In ossequio al principio dell'autonomia della categoria". Sulla corruzione. L'ha definita un macigno. Come si scalza? "La vera sfida è la prevenzione. L'autorità nazionale contro la corruzione è fulcro di questa azione però è necessario che l'intervento sia esteso a tutte le amministrazioni, come è successo con la legislazione antinfortunistica, la 626. E non deve riguardare solo chi commette il reato ma anche chi non previene gli illeciti". Nei piani c'è la revisione della legge Severino? "Allo stato non ci sono iniziative del governo in questa direzione" La prima cosa che vorrebbe risolvere subito? "Continuare a rafforzare il personale amministrativo e curarne la qualificazione. Nessuna riforma potrebbe camminare se non ci fossero le persone che la attuano con il loro lavoro". Giustizia: ministro Orlando "troppo lenti sul ddl anti-corruzione? colpa di Forza Italia" di Francesco Grignetti La Stampa, 7 marzo 2015 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, Pd, è un ligure poco incline alla retorica. Eppure stavolta, a proposito dei reati ambientali, approvati due giorni fa dal Senato e ormai in dirittura d'arrivo, dice: "È una svolta storica". Al Senato, però, slitta ancora la legge anticorruzione e non viene fuori il testo del falso in bilancio. "La maggioranza nella sostanza è compatta e i ritardi sono legati all'ostruzionismo di Forza Italia. Per il falso in bilancio, come ha detto il ministro Boschi, è questione di poco. Capisco poi che ogni slittamento possa essere considerato un rallentamento, ma è stato deciso che l'Aula se ne occuperà a partire dal 17 marzo. Una settimana in più non è la fine del mondo, specie se si lavora bene costruendo anche i passaggi successivi. È inutile l'approvazione in un ramo del Parlamento se poi si ferma tutto dall'altra parte, come è accaduto proprio con i reati ambientali". Ecco, ministro, è addirittura un svolta da definire storica? "Può sembrare una frase roboante, ma voglio spiegare perché: l'ambiente diviene un bene giuridico da tutelare; non più una mera tutela dell'igiene pubblica. Ne discende che i reati ambientali diventano delitti. Erano semplici contravvenzioni, con pene minime, tempi di prescrizione veloci, strumenti di indagine inadeguati". L'opinione pubblica è rimasta sconcertata dal caso Eternit, e non solo. Siamo di fronte a disastri ambientali, bonifiche miliardarie, morti, processi. E poi tutto finisce nel nulla. "Appunto. Rendiamoci conto che quando è stato elaborato il codice penale, il concetto di ambiente nemmeno esisteva. Il caso Eternit ha reso evidente a tutti che le fattispecie erano davvero superate. Il disastro ambientale da delitto di condotta, valido solo al momento del fatto con la prescrizione (peraltro troppo limitata) che scatta al momento della chiusura della fabbrica, diventa un delitto di evento, dove contano gli effetti di lungo periodo". Può assicurare che non ci saranno più tragiche beffe come quella di Casale Monferrato? "Il paradosso giuridico era che tutti questi reati fossero considerati minori. E si punivano allo stesso modo sia le violazioni formali, sia i danni irreparabili all'ecosistema". Chiamate il mondo delle imprese a responsabilità nuove. Temete reazioni? "È verissimo che dalle imprese ci attendiamo uno scatto in avanti. Anche in termini di previsione sul lungo periodo. Troppe volte abbiamo visto produzioni che hanno mostrato il loro potenziale distruttivo troppo tardi con costi umani e ambientali inaccettabili. Non vogliamo però inviare esclusivamente un messaggio punitivo. Abbiamo previsto un sistema premiale per cui, nei casi più lievi, quelli che prevedono contravvenzioni, si può operare un ravvedimento, bonificando l'ambiente, e così estinguendo il reato; nei casi di danno grave come l'inquinamento o peggio il disastro ambientale, chi si ravvede potrà godere di uno sconto di pena. L'inquinatore, però, rischia grosso in termini di pene e anche di risarcimenti e confische patrimoniali. Accogliendo un emendamento del M5S abbiamo stabilito che i proventi delle confische debbano essere vincolati alle bonifiche". Il pensiero corre a Taranto. La nuova legge sarà applicabile anche in questo caso? "A tutte le realtà nelle quali è necessario reperire risorse per il risanamento. Siccome le confische sono considerate misure di sicurezza, possono essere anche retroattive". Sui delitti ambientali, ministro, si è vista una convergenza tra maggioranza e grillini. Così pare accadere anche sulla prescrizione, in discussione alla Camera. Siamo alla vigilia di nuove maggioranze? "Guardi, io sono lieto che ci sia una larga convergenza su alcuni provvedimenti di interesse generale come possono essere gli eco-reati o la corruzione. Nessuna maggioranza variabile, quindi, ma dialogo con tutti. E su quanto accaduto alla Camera nei giorni scorsi, il cosiddetto strappo sulla prescrizione, non sottovaluto, ma neanche drammatizzo. Sono convinto che sia soltanto una questione di misura, visto che i punti di intesa sono molti più di quelli di dissenso e che la maggioranza è d'accordo sul principio che in alcuni reati contro la pubblica amministrazione occorrano tempi più lunghi di prescrizione. Troveremo la quadra. Se devo dirla tutta, però, l'unica prova di maggioranza variabile in un provvedimento approvato dall'aula l'ho vista al Senato quando Ncd ha votato contro il governo assieme a Forza Italia e al M5S sull'emendamento che riguardava le trivellazioni, a mio avviso fuori contesto". Giustizia: Alfano; Renzi non faccia prevalere i giustizialisti del Partito Democratico Adnkronos, 7 marzo 2015 su prescrizione aumenti irragionevoli, non è il premier ad averli voluti. Sulla giustizia non può prevalere l'anima giustizialista del Pd. È il messaggio che Angelino Alfano trasmette a Matteo Renzi in un'intervista al "Corriere della Sera", nella quale si dice tuttavia convinto che sulle norme riguardanti prescrizione, corruzione e intercettazioni Ap e Pd troveranno un punto d'intesa. "Prendiamo la riforma del lavoro: Renzi - afferma il ministro dell'Interno - ha potuto fare sponda sull'area riformista e moderata della maggioranza. E così auspichiamo che succeda sul tema giustizia". L'obiettivo, aggiunge Alfano, deve essere "superare quella parte del Pd che è conservatrice sul lavoro e giustizialista sulla giustizia". "Renzi fin qui non ha fatto prevalere le anime giustizialiste e conservatrici. Noi abbiamo già colto un obiettivo storico dei moderati italiani, la responsabilità civile dei magistrati. Anche sul resto non ci sottraiamo al confronto". Alfano ricorda che qualche giorno fa in commissione giustizia alla Camera è stato "approvato l'inasprimento delle pene per corruzione. Siamo favorevoli agli aumenti degli anni per la prescrizione e a una prescrizione ancor più lunga per i reati di corruzione. Ma una parte del Pd ha imposto aumenti ulteriori, non più ragionevoli. Non scarichiamo sui cittadini la lentezza della giustizia: se un uomo viene assolto dopo 30 anni che se ne fa dell'assoluzione?" "Farò un esempio. Reato di corruzione per atto contrario a dovere di ufficio: la prescrizione - spiega il ministro dell'Interno - è stata portata da 10 a 15 anni e mezzo. Il voto in commissione che abbiamo avversato l'ha fatta arrivare a 18 anni. Sono convinto che con Orlando e Boschi troveremo un punto d'accordo. Non è Renzi che ha voluto questo ulteriore innalzamento dei termini". Altro punto dolente è il falso in bilancio sul quale "il governo presenterà un emendamento in commissione con un punto di equilibrio che tuteli le imprese piccole e medie e gli imprenditori in buona fede. Deve essere punito solo chi ha consapevolmente tratto in inganno. Anche in questo caso va sconfitto il giustizialismo: non gettiamo sugli imprenditori l'alone del sospetto per qualsiasi errore commesso". C'è poi l'aspetto delle intercettazioni. Il progetto del presidente del Senato Grasso prevedeva intercettazioni a prescindere dalle pene. "Sulle intercettazioni - conclude il ministro dell'Interno - abbiamo già assistito a troppi abusi. È una materia da regolare in generale, tenendo conto delle esigenze delle indagini, della privacy, della libertà di stampa e del fatto che si tratta di uno strumento molto invasivo". Giustizia: i reati contro la P.A. che vanno in prescrizione? sono soltanto il 3 per cento di Nico D'Ascola (Senatore di Area Popolare) Il Garantista, 7 marzo 2015 Nel complesso dibattito sulla prescrizione e sulla sua applicazione ai reati contro la pubblica amministrazione, occorre partire da un dato ufficiale del Ministero della Giustizia. Risulta che allo stato della vigente legislazione, quindi senza alcun incremento delle pene e dei termini di prescrizione, solo il 3% circa di questi reati si prescrive. Non si può tuttavia negare che la diffusione e la gravità crescente di un simile fenomeno incide sulla efficienza, sul buon andamento e sulla imparzialità della P.A., oltre che sulla economia nazionale e sulla connessa immagine internazionale dell'Italia. Ciò giustifica, pertanto, già sul piano retributivo un aumento delle pene e un più duro regime della prescrizione. È per tali ragioni che Area popolare ha condiviso - sino ad un certo punto - il progetto legislativo volto a punire molto più severamente questi reati. Tuttavia, proprio al fine di escludere ogni dubbio e per comprendere bene gli esatti termini della questione, è necessario esemplificarla, assumendo quale termine di paragone il delitto di corruzione propria. Attualmente il termine di prescrizione di questo delitto è di 10 anni. A seguito degli interventi riformatori proposti e condivisi da Area popolare, raggiungerebbe la soglia di 15 anni e 6 mesi (risparmio al lettore lo strazio dei calcoli intermedi). Un incremento, quindi, molto severo in grado di eliminare del tutto quella fisiologica, ma gracilissima percentuale di prescrizioni del 3% dalla quale siamo partiti. Possiamo pertanto concludere che l'obiettivo di rendere di fatto non prescrittibili tali reati può dirsi così già raggiunto. Ciò peraltro senza nemmeno interrogarsi sulla legittimità di un così drastico risultato. Ma se le cose stanno in questi termini - e sfido chiunque a dimostrare il contrario - c'è da chiedersi per quali ragioni si pretende un ulteriore aumento dei termini di prescrizione sino a 18 anni. Proposta, questa, che ha determinato il voto contrario di Area popolare a Montecitorio e la conseguente rottura in seno alla maggioranza. A ben riflettere, la risposta al quesito è intuitiva. Spingendo i termini di prescrizione ben oltre un limite già molto elevato e di piena garanzia, non sembra si miri al già raggiunto obiettivo di rendere più duro il complessivo trattamento penalistico di questi reati. Infatti, l'eccesso così perseguito trasforma il risultato preso di mira in qualcosa di nettamente diverso. In altri termini, così facendo si rischia, in netto contrasto con il dettato costituzionale, di incidere molto negativamente sulla durata dei processi penali. Ciò peraltro in netta controtendenza con tutti i tentativi di ridurne i tempi, dato che la prescrizione, tra l'altro, ha proprio la funzione di assicurami la ragionevole durata. Su queste posizioni da noi avversate grava poi un vero e proprio cortocircuito. Infatti, taluni ritengono che della prescrizione beneficino soltanto i colpevoli, abili nel sottrarsi alla pena. Ciò però contrasta, non solo con il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza, ma soprattutto con i fatti i quali dimostrano che la magistratura, nei diversi gradi di giudizio, assolve a vario titolo una certa percentuale di imputati di ogni reato e, quindi, anche di quelli contro la PA. Per non dire poi del fatto che così oltretutto si elude una questione della quale le società civili dovrebbero farsi carico. Quella della difesa dell'innocente. Esigenza che, nel contesto di una legislazione davvero equilibrata e costituzionalmente orientata dovrebbe tra l'altro valere di più della pur molto condivisibile necessità di condannare il colpevole. In altri termini, se la durata dei processi dovesse diventare eccessiva, l'eventuale riconoscimento della innocenza dell'imputato, se troppo tardivo, perderebbe il suo stesso significato. Considerazioni analoghe possono farsi anche per la persona offesa che su posizioni opposte ha un identico interesse alla celerità del processo. In conclusione e cercando si semplificare al massimo, quanto alla prescrizione del reato si possono proporre due modelli esplicativi di sistemi politici del tutto opposti, che possono orientare le scelte - per l'appunto altrettanto politiche - dei cittadini. Si può delineare un assetto dei rapporti tra Stato e cittadini che ponga al centro dell'interesse legislativo il primo. Così facendo, però, si prefigurano relazioni di tipo autoritario. Poiché lo Stato ha posto taluno al centro del suo interesse punitivo, per ciò solo avrebbe il potere di perseguirlo anche in tempi irragionevolmente lunghi, con ciò tra l'altro scaricando sul cittadino la sua stessa inefficienza e l'incapacità di dotarsi di un processo di durata contenuta. In alternativa si profila un modello del tutto compatibile con l'assetto democratico della nostra Costituzione. Al centro si pone la persona. Lo Stato, in presenza di condizioni tassative, ha il potere - dovere di punirla. Tuttavia, il potere punitivo è a termine, in quanto il processo deve avere una durata ragionevole e comunque compatibile con il diritto costituzionale di difendersi provando. In assenza di queste garanzie minime, la stessa differenza tra colpevole e innocente finirebbe paradossalmente per premiare il primo. Riflettano i cittadini su quale dei due modelli preferiscono. Giustizia: gli avvocati dell'Aiga sui Tribunali in Italia "spazi e organici sono al collasso" 9Colonne, 7 marzo 2015 Udienze che si tengono negli angusti uffici dei magistrati perché non ci sono aule a sufficienza, organici insufficienti sia tra il personale amministrativo che tra quello togato, un processo civile telematico azzoppato da una scarsità di mezzi e di formazione che rischiano di allungare, anziché accorciare, i tempi della giustizia. È questa la fotografia scattata dal primo Report Aiga sulla giustizia in Italia, realizzato grazie al lavoro di tutte le sezioni territoriali dell'Associazione italiana giovani avvocati e presentato oggi ad Ancona nel corso del Focus nazionale sull'ordinamento giudiziario. Aiga ha raccolto attraverso una serie di questionari diffusi in tutti i tribunali italiani le principali criticità che ancora oggi contribuiscono alla maglia nera assegnata all'Italia dal rapporto Ocse sulla giustizia civile, secondo il quale nel nostro paese occorrono 564 giorni per concludere il primo grado di un procedimento, contro una media di 240 giorni e i 107 giorni del Giappone, primo classificato. Per una giustizia efficiente servono prima di tutto spazi adeguati e, secondo il Report Aiga, i tribunali italiani non sono in grado di soddisfare le necessità del sistema. Alla domanda "Gli spazi riservati alle udienze sono sufficienti allo svolgimento dell'attività?", infatti, il 56,1% degli intervistati risponde di no. Il dato scorporato per territori mostra che il problema degli spazi inadeguati è sentito soprattutto al Sud, dove il no raggiunge il 78,9%. Stesso problema con gli spazi riservati alle cancellerie: a livello italiano, il 53,7% li ritiene inadeguati, con un picco al Sud (63,2%). "Nell'elaborazione del report - spiega la presidente di Aiga Nicoletta Giorgi - sono arrivate molte segnalazioni di udienze saltate per mancanza di spazi o celebrate negli uffici dei magistrati, che certo non sono stati progettati con questa funzione. In generale, a un generale problema di spazi insufficienti o inadeguati si è aggiunta la revisione della geografia giudiziaria: spesso, l'accorpamento di più tribunali non è stato accompagnato da un conseguente adeguamento degli spazi. Del resto, lo stesso è avvenuto sul fronte degli organici". E proprio quello degli organici è il secondo problema evidenziato dal Report Aiga sulla giustizia in Italia. Una problematica a due facce: in tutti i tribunali italiani, infatti, si lamenta una grave carenza sia nel numero di magistrati che in quello degli amministrativi. Nel dettaglio, alla domanda "Il numero di magistrati è sufficiente in relazione al numero di cause esistenti sul ruolo?", la risposta è un secco "No" da parte del 90,2% degli intervistati. Il picco si registra nel Centro Italia, dove il dato è del 100%. Seguono il Nord con il 93,3% e il Sud con l'84,2%. "La condizione di insufficienza degli organici - sottolinea la presidente Giorgi - è certificata dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, che quantifica in 1.081 i posti vacanti negli uffici giudiziari italiani. Sottolineiamo però che lo stesso Csm segnala come 145 magistrati siano attualmente fuori ruolo, cioè distaccati a fare altro: consulenti ministeriali, componenti di uffici legislativi, dirigenti di dicastero. Forse è il momento di ridefinire le priorità ed è tempo che chi ha vinto un concorso in magistratura torni a svolgere l'attività giurisdizionale o scelga di farsi da parte e lasciare posto a qualcun altro". Ma la carenza di personale si fa sentire anche sul fronte degli amministrativi. L'82,9% degli intervistati risponde infatti "No" alla domanda "Le unità di personale amministrativo sono sufficienti in relazione ai magistrati?". In questo caso, il picco si registra nell'Italia settentrionale, con i "No" a quota 93,3%, contro l'85,7% del Centro e il 73,7% del Sud. "La seria intenzione di cambiare l'andamento del sistema giustizia - evidenzia la presidente dei giovani avvocati italiani - deve puntare ad un incremento delle prestazioni anche degli uffici amministrativi trovando una soluzione efficace al sovraccarico esorbitante: lo stesso Ministero della giustizia stima al 18% la scopertura degli organici. È fondamentale, poi, accelerare sull'Ufficio del Processo, struttura stabile di staff capace di affiancare il magistrato nel suo lavoro quotidiano". Le carenze di organico e la riorganizzazione della geografia giudiziaria hanno prodotto in parte un aumento dei tempi necessari agli adempimenti di cancelleria. Alla domanda "I tempi necessari agli adempimenti di cancelleria sono aumentati?" risponde "Sì" il 46,3% degli intervistati. Stesso risultato per la domanda "I tempi necessari alle notificazioni a mezzo Unep sono aumentati?", riferita agli Uffici Notificazioni, Esecuzioni e Protesti. Nel Report Aiga si registra inoltre un certo aumento dei tempi necessari al rilascio di provvedimenti corredati di formule esecutive, aumentati per il 41,46% degli intervistati. "La fase esecutiva del processo - sottolinea la presidente di Aiga - deve essere posta sotto la lente e va prevista una semplificazione per il rilascio delle formule esecutive. Solo in questo modo la Giustizia sarà davvero dalla parte del cittadino, perché è proprio nell'esecuzione della sentenza che questa si compie. In quest'ottica, si deve forse pensare a una riforma dei soggetti che applicano i procedimenti. Grande cavallo di battaglia dell'Associazione italiana giovani avvocati è quella per l'applicazione del Processo Civile Telematico. Su questo fronte, il Report Aiga mostra che, nonostante sia ormai entrato pienamente in vigore, il Pct zoppichi ancora. La domanda "I tempi necessari alla verbalizzazione in udienza sono aumentati con la verbalizzazione telematica?" lo dimostra. Risponde infatti "Sì" un intervistato su tre (34,1%), contro il "No" del 26,8% del campione. Ma a far riflettere sono le risposte "Altro" (39%), che vanno da "Dipende dai giudici" a "Molti giudici fanno ancora uso della verbalizzazione cartacea" ai moltissimi "Non è ancora operativa". E un atto di semplificazione come la presentazione di materiali su pen drive è impossibile nel 70,7% dei casi. "Il Processo Civile Telematico - ricorda Nicoletta Giorgi - nasce con l'obiettivo di snellire i tempi della Giustizia. Se non viene applicato correttamente, l'effetto può essere opposto. Il Report Aiga dimostra che esiste un freno evidente all'applicazione del Pct. Ci chiediamo dunque: è la strumentazione che manca? È una questione culturale? Serve più formazione? La Giustizia, quella telematica in particolare, ha fame di risorse e sete di formazione. Chiediamo al ministro Orlando di provvedere a colmare al più presto queste lacune e a tutte le figure coinvolte nel sistema Giustizia di collaborare per smettere di indossare quella maglia nera che fa dell'Italia il Paese dei tribunali inefficienti". Giustizia: nel rapporto dell'Aiga i Tribunali "condannati" per inefficienza cronica di Luigi Frasca Il Tempo, 7 marzo 2015 Processi in aule di fortuna, organici insufficienti, uso dei computer quasi sconosciuto. Udienze che si tengono negli angusti uffici dei magistrati perché non ci sono aule, organici insufficienti sia tra il personale amministrativo che tra quello togato, un processo civile telematico azzoppato da una scarsità di mezzi e di formazione che rischiano di allungare, anziché accorciare, i tempi della giustizia. È questa la fotografia scattata dal primo Report Aiga sulla giustizia in Italia, realizzato grazie al lavoro di tutte le sezioni territoriali dell'Associazione italiana giovani avvocati e presentato ad Ancona nel corso del Focus nazionale sull'ordinamento giudiziario. Per una giustizia efficiente servono prima di tutto spazi adeguati e, secondo il Report Aiga, i tribunali italiani non sono in grado di soddisfare le necessità del sistema. Alla domanda "Gli spazi riservati alle udienze sono sufficienti allo svolgimento dell'attività?", infatti, il 56,1% degli intervistati risponde di no. "Nell'elaborazione del report - spiega la presidente di Aiga Nicoletta Giorgi - sono arrivate molte segnalazioni di udienze saltate per mancanza di spazi o celebrate negli uffici dei magistrati, che certo non sono stati progettati con questa funzione. In generale, a un generale problema di spazi insufficienti o inadeguati si è aggiunta la revisione della geografia giudiziaria: spesso, l'accorpamento di più tribunali non è stato accompagnato da un conseguente adeguamento degli spazi. Del resto, lo stesso è avvenuto sul fronte degli organici". Proprio quello degli organici è il secondo problema evidenziato dal Report Aiga: in tutti i tribunali italiani, infatti, si lamenta una grave carenza sia nel numero di magistrati che in quello degli amministrativi. Nel dettaglio, alla domanda: "Il numero di magistrati è sufficiente in relazione al numero di cause esistenti sul ruolo?", la risposta è un secco "no" da parte del 90,2% degli intervistati. "La condizione di insufficienza degli organici - sottolinea la presidente Giorgi - è certificata dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, che quantifica in 1.081 i posti vacanti negli uffici giudiziari italiani". Grande cavallo di battaglia dell'Associazione italiana giovani avvocati è quella per l'applicazione del Processo civile telematico. Su questo fronte, il Report Aiga mostra che, nonostante sia ormai entrato pienamente in vigore, il Pct zoppica ancora. La domanda "I tempi necessari alla verbalizzazione in udienza sono aumentati con la verbalizzazione telematica?" lo dimostra. Risponde infatti "sì" un intervistato su tre (34,1%), contro il "no" del 26,8% del campione. Ma a far riflettere sono le risposte "altro" (39%), che vanno da "Dipende dai giudici" a "Molti giudici fanno ancora uso della verbalizzazione cartacea", ai moltissimi "Non è ancora operativa". E un atto di semplificazione come la presentazione di materiali su pen drive è impossibile nel 70,7% dei casi. "Il Processo civile telematico - ricorda Nicoletta Giorgi - nasce con l'obiettivo di snellire i tempi della giustizia. Se non viene applicato correttamente, l'effetto può essere opposto. Ci chiediamo: è la strumentazione che manca? È una questione culturale? Serve più formazione? La giustizia, quella telematica in particolare, ha fame di risorse e sete di formazione. Chiediamo al ministro Orlando di provvedere a colmare al più presto queste lacune e a tutte le figure coinvolte nel sistema giustizia di collaborare per smettere di indossare quella maglia nera che fa dell'Italia il Paese dei tribunali inefficienti". Giustizia: chiusura degli Opg; la Commissione Sanità del Senato in Sicilia e Lombardia www.ilfarmacistaonline.it, 7 marzo 2015 Oggi in Sicilia all'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto e lunedì a Mantova all'Opg di Castiglione dello Stiviere. Sono le prime due tappe di un "viaggio" dei componenti della Commissione presieduta da De Biasi per un confronto sulla situazione dei presidi in vista della loro chiusura. La Commissione Igiene e Sanità del Senato ha deciso di avviare una serie di visite presso alcuni Opg italiani per verificare i percorsi di superamento degli Opg previsti dalla normativa vigente e sostenere il lavoro dei vari soggetti interessati. Oggi, una delegazione composta dai senatori Nerina Dirindin, Venera Padua e Domenico Scilipoti Isgrò dopo la visita all' all'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, avrà una serie di audizioni alla Prefettura di Messina con l'Assessore alla Sanità della regione, Lucia Borsellino, il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina, il Dipartimento salute mentale di Palermo e con altre personalità di associazioni sociali e sanitarie. Lunedì prossimo, invece, sarà delegazione guidata dalla Presidente Emilia Grazia De Biasi a visitare l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione dello Stiviere. Oltre alla Senatrice De Biasi, la delegazione sarà composta dalle Senatrici Nerina Dirindin e Paola Taverna, accompagnate dal Dottor Silvio Biancolatte, Consigliere e Capo ufficio segreteria della Commissione, e dai Marescialli dei Nas dei Carabinieri Massimo Tolomeo e Claudio Vuolo. Anche in questo caso dopo la visita in ospedale sono state programmate presso la Prefettura di Milano audizioni con l' Assessore alla sanità della Regione Lombardia, Mario Mantovani, l'Assessore alla sanità della Regione Piemonte, Antonino Saitta; il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Pasquale Nobile De Santis, e altre personalità impegnate nel settore. Giustizia: chiusura degli Opg; viaggio nell'inferno degli ultimi internati ad Aversa di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 marzo 2015 Opg addio. I sogni e le paure dei 106 detenuti nel più antico Ospedale psichiatrico giudiziario d'Italia, aspettando l'imminente chiusura. "E cosa succederà quando chiuderanno gli Opg? Io non voglio tornare nel reparto psichiatrico di un carcere perché gli unici che mi hanno aiutato sono stati gli infermieri e gli psicologi, mi fanno parlare e ridere… mi hanno fatto capire, e ricordare di quando mi legavano da piccolo perché non volevo lavorare". Gennaro è rinchiuso nel reparto 6 di Aversa, uno di quelli dove la sorveglianza è più accurata, con i poliziotti all'interno, i blindati aperti solo per una parte della giornata e la porta principale sbarrata perché gli internati qui non possono uscire nemmeno nel piccolo cortile recintato e sorvegliato. Nove anni fa Gennaro viveva a Forcella e faceva la vita tra Roma e Napoli, il cubista - "anche al Piper!", dice mentre mostra le foto sbiadite come è il ricordo del mondo oltre le sbarre - a colpi di "cocaina, acidi e anabolizzanti". Ma poi ha passato quasi un quarto della sua vita in carcere per un reato indicibile, cominciando da Secondigliano e finendo il suo viaggio di dolore dentro gli Ospedali psichiatrici giudiziari di mezza Italia. È uno di quegli internati che si sono "ammalati" durante l'espiazione della pena in un carcere "normale" (in gergo, in art.148 del codice penale). Poi ci sono i "prosciolti" (quelli che non sono imputabili perché considerati completamente incapaci di intendere e volere), i "seminfermi", e coloro che sono ancora in attesa di giudizio e che sono - come sempre - la maggior parte: 29 degli attuali 106 ospiti del manicomio giudiziario più antico d'Italia. Una magnifica struttura, quella di Aversa, con padiglioni, giardini e aree verdi, che dal 1876 campeggia nel centro della città campana e che è destinata purtroppo a rimanere un carcere, "non sappiamo se casa circondariale o a custodia attenuata - racconta la direttrice Elisabetta Palmieri -. Sicuramente però riassorbirà tutto il personale penitenziario dell'Opg, gli 80 agenti e i 35 civili". Come saranno riallocati invece gli altri lavoratori, i 130 sanitari che affiancano - con molte difficoltà organizzative - i dipendenti del Dap, nessuno lo sa. Per fortuna di strada, dagli albori, da quando conteneva fino a mille persone compresi donne e bambini, ne ha fatta tanta perfino questo manicomio criminale che oggi appare al meglio possibile, con le pareti riverniciate quasi ovunque, le docce piastrellate e i bagni in ogni cella. Ma nei letti - da due a quattro per stanza - fungono da materassi pezzi maleodoranti e sporchi di gommapiuma. Il mobilio è inesistente, e quando c'è cade a pezzi. E, malgrado tutti gli sforzi del personale, il sudicio e il decadente sono le note preponderanti di ogni ambiente. Eppure, perfino così siamo ben lontani dal panorama che si presentò nel settembre 2008 agli occhi degli osservatori inviati dalla Commissione europea contro la tortura, la cui relazione costò all'Italia una condanna del Consiglio d'Europa. "Un inferno", ammette la direttrice che è qui dal 2012. "C'erano 350 internati per una capienza massima di 200 posti, due stanze con i letti di contenzione e un reparto chiamato "La Staccata", dove si tenevano i prosciolti, che poi venne chiuso perché era in condizioni impossibili", racconta il comandante degli agenti penitenziari, Luigi Mosca, che si ricorda anche di Francesco Caruso, allora deputato di Rifondazione comunista, asserragliato nel 2008 nelle stanze della direzione per protestare contro il sovraffollamento disumano e che se ne andò solo quando arrivarono gli ispettori. E anche i soprusi erano tutt'altro che rari. Forse anche perché, come racconta Mosca, "il personale penitenziario non è mai stato formato adeguatamente per lavorare con i malati psichici". Poi, nel 2011, dopo la visita della commissione parlamentare d'inchiesta sul Ssn capitanata dall'allora senatore Ignazio Marino, dopo il video-choc e le cronache sui giornali, "qualcosa cominciò a cambiare". Ma è negli ultimi mesi - dalla legge 81/2014 entrata in vigore nel giugno scorso che dopo due proroghe ha stabilito la chiusura degli Opg entro il 1° aprile 2015 - che si è impressa una forte accelerazione alle dimissioni degli internati considerati non più pericolosi. "È la stessa magistratura di sorveglianza che sprona ora le Asl a predisporre i progetti terapeutici-riabilitativi (Ptri) necessari per dimettere gli internati che hanno completato un percorso di cura oppure che hanno superato il limite massimo di permanenza negli Opg, il quale non dovrebbe superare la pena edittale del reato", raccontano la direttrice, il comandante e il capo area pedagogica, Angelo Russo. Provengono soprattutto dalla Campania e dal Lazio, i 106 internati nei sei reparti funzionanti di Aversa, qualcuno dall'Abruzzo e dal Molise, pochi gli stranieri. Alla fine di ottobre erano 130, come testimonia Emilio Lupo, di Psichiatria democratica, che periodicamente visita il manicomio aversano. "Ogni settimana ci sono due o tre nuovi arrivi, ma le uscite sono certamente in numero superiore", fa il conto Mosca. Da aprile in poi però, stando alla legge, coloro che rimarranno negli Opg e che non saranno stati considerati nel frattempo dimissibili dovrebbero tornare nei luoghi di residenza, smistati nelle Rems (Residenze sanitarie per l'esecuzione delle misure di sicurezza) che sostituiranno gli Opg, approntate da ciascuna Regione per il proprio bacino di utenza e che a regime saranno gestite totalmente dalle Asl e non più dall'amministrazione penitenziaria (Dap). Il quadro della situazione però, secondo Psichiatria democratica, "è allarmante": "Dalla seconda relazione trimestrale dei ministeri di Giustizia e Salute sullo stato di avanzamento del piano di dismissione degli Opg, si evince che solo quattro Regioni hanno dichiarato di essere in grado di rispettare la scadenza senza ricorrere al privato: Emilia Romagna, Campania, Calabria e Friuli Venezia Giulia, quest'ultima ricorrendo a strutture a gestione mista pubblico/privato. Ben 10 Regioni - Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna - non sono state in grado di indicare un termine certo per la presa in carico dei propri internati". In Piemonte poi, denuncia ancora Pd, si ricorrerà al "privato accreditato" e con paradossi inspiegabili: "La regione invierà gli internati sottoposti a regime di alta sicurezza a Castiglione delle Stiviere ma al contempo la provincia di Bolzano invierà i suoi alla comunità "Mauriziana" in Piemonte, mentre la Liguria invierà i suoi internati a Castiglione delle Stiviere". La Campania avrebbe già quasi pronte due residenze, a Baronia (Av) e a Calvi Risorta (Ce). Un'idea di come saranno queste Rems la si può avere nel reparto 9A, uno dei due padiglioni di Aversa gestiti esclusivamente da personale sanitario, dove vivono gli internati più "dimissibili". La polizia non entra, rimane oltre il giardino; le celle sono aperte tutto il giorno, come pure il portone d'ingresso. Florindo è contento di vedere una cronista del manifesto, perché ha "conosciuto Valentino Parlato" e da giovane faceva "il funzionario del Pdup". Gioca a carte con José Luis, che è uno dei pochi internati (37 su 106) a cui è concesso il lusso di lavorare. Luca, "il sindaco", invece si alza poco dal suo letto, ma è "spensierato e in ottima compagnia". Marco ha 41 anni, da 14 negli Opg, "stavo per fare il carabiniere"; per lui è quasi pronta una comunità terapeutica. Ivano, alle spalle Roma e anni di cocaina, oggi recita poesia su una ragazza che vede "oltre il muro dietro il quale sto morendo". Paolo, viterbese di 40 anni con "quasi una laurea in tasca" e uno sguardo lucido, non si capacita di essere approdato in un manicomio. "Da un mese sono qui e non sono ancora riuscito a vedere il mio avvocato né il garante dei detenuti - dice - malgrado abbia presentato tutte le "domandine" necessarie". Preferirebbe tornare al Regina Coeli, aggiunge, il carcere che ha conosciuto più volte per spaccio di droghe leggere. L'ha scontata tutta, la sua pena a 4 anni, "e non sono mai stato riconosciuto tossicodipendente", però "il marchio di recidivo" non aiuta di certo. Carlo è teramano, ha 30 anni, in cura col metadone da dieci, e da quando ne aveva 17 entra e esce dalle galere: "Ho rapinato tutti i negozi che stanno sulla strada di Pannella", dice con un sorriso contagioso riferendosi al leader Radicale suo concittadino. "Avevo paura del lager di Aversa, ma invece sono qui da otto mesi e mi ha fatto bene". Sicuramente lo ha aiutato poter svolgere, pagato dal Dap, un lavoro così importante come piantonare notte e giorno il suo compagno di cella: "Giacomo è schizofrenico, tenta il suicidio in continuazione, legge la bibbia e mi chiama "fariseo" - racconta Carlo - ogni tanto mi picchia perché non gli faccio fare le docce fredde durante la notte come lui vorrebbe, oppure perché gli do solo 20 sigarette al giorno". "Dopo un lungo percorso riabilitativo - spiega l'educatore - Carlo potrebbe essere dimesso a breve". "Quando esco però - progetta il ragazzo - voglio un certificato di salute mentale. Perché sia chiaro: io qui dentro non ci voglio tornare più". Giustizia: ancora donne detenute con figli nelle carceri italiane, appello per l'8 marzo www.imgpress.it, 7 marzo 2015 A quattro anni dall'approvazione della legge di riforma delle madri detenute con i figli (8 marzo 2011), sono ancora una quarantina i bambini che vivono con le loro mamme nelle carceri italiane. Denunciando questa grave violazione dei diritti dell'infanzia Terre des Hommes, assieme all'Associazione A Roma, Insieme e Bambinisenzasbarre, esprimono forte preoccupazione per l'assenza di una politica nazionale realmente funzionale alla risoluzione di questo delicato e urgente problema. Al 30 giugno 2014 risultano essere 43 le madri detenute in Italia con al seguito i propri figli, per un totale di 44 bambini presenti nelle nostre carceri. Nel 2011 una legge di riforma (n.62/2011) prevedeva per le detenute madri prive di una casa e con un profilo di bassa pericolosità le Case Famiglie Protette come alternativa al carcere, o alla carcerazione attenuata delle cosiddette Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri). A tutt'oggi però non ne risulta aperta nessuna in Italia e i bambini rimangono in carcere, con gravi conseguenze sul loro benessere e corretto sviluppo. Il problema sembra essere di carattere squisitamente economico: le Case Famiglia Protette infatti devono essere identificate dagli enti locali e da loro finanziariamente sostenute. Nulla invece può essere fatto ricadere sull'amministrazione penitenziaria, come chiarisce la legge 62/2011 laddove afferma che il principio del "senza oneri aggiuntivi per il Ministero". All'assenza di Case Famiglia Protette fa da contraltare invece una politica ministeriale di forti investimenti in favore delle Icam, che dal 2011 ad oggi sono diventate tre: Milano, Venezia e Cagliari. Tuttavia queste strutture hanno un costo elevato a fronte di evidenti inadeguatezze, rispetto alle esigenze di protezione, cura e crescita dei bambini ospitati. Si tratta infatti di Istituti detentivi, pur attenuati, l'utenza accolta è molto varia (donne incinte, madri con bambini, padri); e si riscontra un'ampia differenza di età dei bambini che possono accedervi (0 - 10 anni). Di contro le Case Famiglia Protette risponderebbero al bisogno di un ambiente a misura di bambino, di un supporto efficace alla genitorialità e all'inserimento sociale delle madri, di una risposta variabile rispetto alle specifiche esigenze di età dei bambini accolti, nonché infine, di un minor costo di gestione. Pertanto si configurano come la soluzione migliore per le detenute madri con le caratteristiche definite dalla legge 62/11. Terre des Hommes, Aromainsieme e Bambinisenzasbarre tornano a chiedere quindi che, senza alcun onero aggiuntivo per il Ministero della Giustizia, siano stornati dei fondi dal piano di costruzione delle nuove Icam in favore delle Case Famiglia Protette. Stante l'esiguo numero dei bambini presenti nelle carceri, infatti, poche Case Famiglia Protette identificate localmente potrebbero essere finalmente attivate e rese sostenibili se anche il Ministero riconoscesse a esse un minimo contributo. Tale impegno, infatti, sarebbe sufficiente a rendere più accettabile agli enti locali, già stremati dai continui tagli di bilancio, l'assunzione delle proprie responsabilità a tutela di questi bambini. Terre des Hommes da 50 anni è in prima linea per proteggere i bambini di tutto il mondo dalla violenza, dall'abuso e dallo sfruttamento e per assicurare a ogni bambino scuola, educazione informale, cure mediche e cibo. Attualmente Terre des Hommes è presente in 65 paesi con oltre 840 progetti a favore dei bambini. La Fondazione Terre des Hommes Italia fa parte della Terre des Hommes International Federation, lavora in partnership con Echo ed è accreditata presso l'Unione Europea, l'Onu, Usaid e il Ministero degli Esteri italiano. A Roma, Insieme è un'associazione di volontariato che si occupa da diciotto anni dei bambini che si trovano nel carcere di Rebibbia detenuti al seguito delle proprie madri. L'associazione offre una serie di servizi volti a rendere la vita di questi bambini quanto più vicina, nel possibile, a quella che spetterebbe loro di diritto. Parallelamente ai servizi sul territorio e le uscite settimanali del sabato, A Roma, Insieme svolge, da sempre, una forte azione di lobbying sulle istituzioni per incidere positivamente sul quadro legislativo che disciplina questo delicato settore, con particolare riguardo alla condizione dei bambini. Bambinisenzasbarre è un'associazione impegnata in Italia in ambito penitenziario nei processi di sostegno psicopedagogico alla genitorialità in carcere con un'attenzione particolare ai figli, colpiti dall'esperienza di detenzione di uno o entrambi i genitori. Priorità dell'azione di Bambinisenzasbarre è la cura e il mantenimento della relazione figlio/genitore durante la detenzione di uno o di entrambi di questi, nonché la tutela del diritto del figlio alla continuità del legame affettivo. Giustizia: 8 marzo; per la Festa della donna eventi in diversi istituti penitenziari italiani Adnkronos, 7 marzo 2015 In occasione della Festa dell'8 marzo sono molte le iniziative organizzate nelle carceri italiane per le detenute e che le vedono protagoniste. Tra le tante segnalate dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, quella di Rebibbia, a Roma, dove si terrà una manifestazione promossa dall'Ufficio del capo del dipartimento e dal Comitato pari opportunità della Polizia penitenziaria. Uno spazio di circa un'ora sarà interamente dedicato e curato dalle donne detenute. In scaletta anche "La tavola dell'alleanza!, breve proiezione video relativa all'arazzo ricamato dalle donne detenute, che celebra la vita e la pace attraverso la metafora dei fili e della tessitura. Fra trama e ordito, sei donne di nazionalità diversa, detenute a Rebibbia, hanno realizzato l'arazzo che raffigura la mappatura del genoma umano. A Civitavecchia ci sarà una giornata di incontro con le detenute, perlopiù straniere, che daranno lettura di storie di vita vissuta. Il lavoro è stato coordinato dalla mediatrice culturale dell'Ente di formazione Erfap e dall'Associazione teatrale Sanguegiusto, in collaborazione con l'insegnante di lingua italiana. Sarà presente anche il referente territoriale dell'Unicef Pina Tarantino con cui l'istituto da anni collabora per la realizzazione delle Pigotte, le bambole di pezza vendute in beneficenza a favore dei bambini. Riparte dal Villaggio Penitenziario di Uta, nell'area industriale di Cagliari, "Un sorriso oltre le sbarre", il progetto di solidarietà per le donne private della libertà giunto alla sesta edizione. Promossa dall'associazione Socialismo Diritti Riforme, coordinata da Maria Grazia Caligaris, con la collaborazione della sezione cagliaritana della Fidapa (Federazione italiana donne arti professioni affari), presieduta da Silvia Trois, l'iniziativa intende sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni sulla condizione delle donne detenute e delle agenti della Polizia penitenziaria. L'evento, in programma domenica 8 marzo alle 9.30 nel carcere "Ettore Scalas", prevede un incontro nella sezione femminile dell'istituto dove verranno affrontate le diverse problematiche relative alla permanenza in carcere. Spettacolo musicale alla Casa Circondariale di Vercelli, presso la sala teatro dell'istituto, allestita con manufatti a tema realizzati nell'ambito del laboratorio di lavori femminili. Nel corso dell'evento, l'assessore alle politiche sociali consegnerà alle donne detenute i riconoscimenti per aver contribuito alla realizzazione dei manufatti in lana per l'evento "Vercelli si veste di lana 2014". E poi ad Avellino, dove i volontari della Comunità di Sant'Egidio distribuiranno mimose e biscotti per i figli delle detenute, a Perugia, dove è prevista la proiezione di un film a cura dei volontari della Croce Rossa Italiana con dibattito finale, e a Pisa, con un incontro ricreativo organizzato dal gruppo "Donne e carcere" che cura il laboratorio di scrittura creativa all'interno della sezione femminile. Lettere: i tempi di prescrizione tra reato e processo Carlo Nordio Il Messaggero, 7 marzo 2015 I provvedimenti che il governo intende introdurre per combattere la corruzione si possono riassumere così: aumento delle pene e allungamento dei termini di prescrizione. Nella maggioranza si è aperto un vivace dibattito, cioè uno scontro, e si è persino parlato di crisi. Sarebbe un peccato che la stabilità politica, di cui il Paese ha tanto bisogno, fosse compromessa da questioni così futili. L'aumento delle pene infatti non produrrà né vantaggi né danni. In un sistema sfasciato come il nostro, dove i processi sono eterni e le sanzioni incerte, è illusorio pensare che la minaccia di un'ipotetica galera possa intimidire i corrotti. Per capirlo basta formulare una semplice domanda: credete davvero che, se la corruzione fosse stata punita con due o tre anni in più, episodi come l'Expo o il Mose non si sarebbero verificati? Perché se credete a questo potete anche credere all'asinello che vola. Sulla prescrizione invece il discorso è più serio, ma di facile soluzione. Per i pazienti lettori digiuni di diritto proverò a spiegarlo in termini semplici. Prescrizione significa che, passato un certo numero di anni, il delitto si considera come non avvenuto. Questo lasso di tempo, in giuridichese chiamato "termine", è tanto più lungo quanto più il reato è grave. Alla fine, però, quasi sempre cala il sipario: il tempo non è solo padre di verità, ma anche di oblio. L'esempio più lacerante fu il processo a Klaus Barbie, il boia di Lione. La Francia non lo processò per l'omicidio di Jean Moulin, perché erano passati quarant'anni. Il macellaio gestapista fu invece condannato per delitti contro l'umanità, tanto gravi da esser considerati imprescrittibili. Da noi funziona, più o meno, allo stesso modo. La tradizionale giustificazione di questa scelta è che, con il decorso degli anni, lo Stato perde interesse a punire. Ad essa se n'è però aggiunta, di recente un'altra, secondo noi più importante e razionale: che se la lunghezza del processo dev'essere ragionevole, come vuole la Costituzione, un cittadino non può restare indefinitamente sulla graticola giudiziaria. Una volta inquisito, egli ha il diritto di sapere, entro un termine certo e possibilmente breve, se sarà condannato oppure no. E qui arriviamo al nocciolo della questione. Gli attuali termini di prescrizione sono troppo brevi per giustificare la rinunzia dello Stato a punire, ma anche troppo lunghi per la tollerabilità emotiva di una persona inquisita. Si prenda la frode fiscale, o la gran parte dei reati economici: si prescrivono, grosso modo, in otto anni. È ragionevole pensare che dopo così poco tempo lo Stato perda interesse a incriminare l'evasore? Evidentemente no, anche perché questi reati sono di accertamento difficile, richiedono esami documentali, riscontri bancari e altro: quando arriva la denuncia metà dei termini è già trascorsa. E nessuno griderebbe allo scandalo se fossero aumentati, e anche raddoppiati. Ma sette o otto anni sono anche troppi per la durata di un processo. Uno Stato che non sappia concludere in un tempo così lungo è a dir poco incivile: perché per l'inquisito, innocente o colpevole che sia, questi anni sono un'eternità. Aumentarli, come si vorrebbe far ora, sarebbe una dichiarazione di rassegnata impotenza: peggio che un crimine, sarebbe un errore. Si possono comporre i due interessi, quello collettivo a punire il reato e quello individuale alla rapidità del giudizio? Certo che si può. Basta far decorre i termini di prescrizione non, come accade ora, dalla commissione del delitto, ma dal momento in cui il malcapitato viene inquisito. Distinguere cioè la prescrizione del reato, che è troppo breve, da quella del processo, che è troppo lunga. Lo Stato può anche aspettare anni prima di accorgersi che un crimine è stato commesso; ma non può tenere per decenni il l'imputato nell'incertezza. Può accusarti anche dopo dieci anni, ma non impiegarne altrettanti per assolverti o condannarti. Semplice vero? Forse troppo per essere realizzabile. Perché il genio dell'ovvio, diceva Pascal, è come la troppa luce: ti impedisce di vedere. Lettere: la spaventosa responsabilità civile di Guido Vitiello Il Foglio, 7 marzo 2015 In un racconto di Poe, "La Sfinge", un uomo vede dalla finestra un mostro terrificante, più imponente di una nave da guerra, che discende sul pendio di una collina. Scopre poi che si trattava di una sfinge testa di morto, una farfalla piuttosto inquietante ma pur sempre una farfalla, che si arrampicava su un filo di ragno. Solo per via di un'illusione ottica gli era apparsa così grande da oscurare la collina. Più mi appassionavo al dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati, più mi tornava in mente questo racconto. Vezzi letterari, dirà qualcuno: non era più semplice evocare la montagna che partorisce un topolino? E no, qui bisogna aver cura di scegliere bene i simboli, tanto più che la battaglia sulla responsabilità civile, si può dire, non vive che di quelli. È così oggi, e in fondo era così anche nel 1987, l'anno del referendum tradito. Tutto sta a capire che uso si fa delle armi simboliche. Ho ripreso in mano l'utilissimo "Storia di un referendum" di Raffaele Genah e Valter Vecellio. Uscito un mese dopo la vittoria del sì, il libro ricostruiva la campagna referendaria e includeva un'antologia del dibattito dell'epoca. Molte pagine danno un brivido di déjà-vu degno di un racconto di Poe. Il fronte del no agitava già allora le stesse sfingi testa di morto gabellate per mostri: il richiamo ricattatorio ai giudici che rischiano la vita, il sospetto di una vendetta orchestrata dai ladri (i politici) contro le guardie, lo spettro del giudice intimidito dall'imputato ricco, le profezie sul collasso dei tribunali, la denuncia lacrimevole di un clima punitivo. I difensori del sì erano più cauti sugli effetti di un'eventuale legge, ma altrettanto persuasi del suo valore di simbolo: era l'occasione per aprire una discussione nazionale sul ruolo del magistrato e sui confini dell'azione giudiziaria. Uno scontro simbolico quanto si vuole, ma con gli stendardi ce le si dava di santa ragione. Andò a finire come sappiamo, ma fu se non altro un grande momento di verità. Oggi le cose sono diverse, e non solo perché non c'è stata l'occasione, in sé così teatrale, di un referendum. Se Berlusconi per vent'anni ha parlato da lupo e agito da agnello, conducendo una battaglia quasi solo simbolica, il ministro Orlando agisce come un agnello un pò più robusto e dentuto ma parla, inspiegabilmente, come un abbacchio. La timidezza con cui difende la sua stessa legge ha del surreale. Rassicura i magistrati che non devono arrabbiarsi, che la legge non cambierà il loro lavoro, che c'è sempre modo di ritoccarla, che la si potrà correggere (un maligno dirà: sabotare) per via di giurisprudenza, che tanto saranno dei giudici a giudicare altri giudici, e che avranno presto in dote nuovi strumenti d'indagine a segno che la politica si fida di loro. Se il referendum servì ad aprire un dibattito, Orlando mostra una gran fretta di chiuderlo. Ha in mano poco più di un simbolo, e neppure vuole usarlo. Nel 1987 la questione era discussa come un segmento del problema più vasto della responsabilizzazione del pm: si parlava di meccanismi di carriera, di controlli di professionalità, di riforma del Csm, gli audaci sfioravano perfino il tabù dell'obbligatorietà. Ora è più comodo scambiare la parte per il tutto, e qualche incauto festeggia dicendo che finalmente i nostri magistrati saranno responsabili come nel resto del mondo civile, omettendo che i magistrati del mondo civile quella concentrazione abnorme di potere e di arbitrio se la sognano. Ecco perché la montagna che partorisce un topolino mi pare un simbolo inadatto. È semmai un topolino che, ingigantito ad arte, impedisce di vedere la montagna, proprio come la farfalla di Poe eclissava la collina. Busto Arsizio: il pane dei carcerati conquista i palati dei varesotti www.varesenews.it, 7 marzo 2015 Dopo il successo ottenuto con il laboratorio di cioccolateria la casa circondariale di via per Cassano conquista apprezzamenti grazie a quello di panificazione. Il direttore: "Merito di un miglioramento delle condizioni carcerarie". "Un pane così buono non l'ho mai mangiato, sembra fatto nel forno a legna". È questo il tenore dei commenti di chi ha assaggiato il pane prodotto dai detenuti del carcere di Busto Arsizio, un prodotto artigianale che si sta conquistando una fetta di mercato, oltre che allo spaccio interno dove gli agenti di Polizia Penitenziaria ne fanno incetta, anche al di fuori delle mura perimetrali della struttura di via per Cassano. Nella casa circondariale ci hanno preso gusto per il gusto, verrebbe da dire con un gioco di parole, anche perché la fama nella realizzazione di prodotti gastronomici i detenuti bustocchi se l'erano già conquistata con il cioccolato venduto con il nome di "Dolci Libertà". Questa volta tocca al pane e ai prodotti di gastronomia e pasticceria. Non solo pane ma anche pizze, focacce, hot dog, crostate e crostatine, biscotti e pasticceria artigianale escono ogni giorno dal carcere con le loro fragranze per raggiungere le panetterie che hanno stretto un accordo con la cooperativa sociale Luna (cooperativasocialelaluna@gmail.com) che si occupa del trasporto e dei rapporti con i clienti. Uno di questi è il bar panetteria "Non solo pane" di Cassano Magnago. Il direttore del carcere Orazio Sorrentini è orgoglioso del successo che sta riscontrando la panetteria:"Eravamo partiti con tre e ora sono cinque i detenuti assunti nel laboratorio dove si produce il pane, aumentano anche i detenuti che lavorano a quello del cioccolato, altro nostro fiore all'occhiello". Sorrentini aggiunge anche un nuovo progetto legato ad Expo: "Cinque detenuti, tutti stranieri, parteciperanno ad Expo nell'ambito di un progetto per i lavori socialmente utili grazie ad un accordo tra il Tribunale di sorveglianza di Milano e il Provveditorato". Proseguono, infine, i lavori per lo spazio all'aperto che si spera di aprire a giugno. Il direttore non nasconde la soddisfazione per un effettivo miglioramento della qualità della vita all'interno del carcere, dopo gli anni bui del sovraffollamento: "Il calo numerico prosegue permettendo la diminuzione del numero dei detenuti di un terzo rispetto alle medie di oltre un anno fa: ora siamo a 304 - spiega e conclude - questo miglioramento ha fatto sì che diminuissero i gesti di autolesionismo e le sanzioni disciplinari nei confronti dei detenuti". Arezzo: i parlamentari Sel in visita al carcere "buone le condizioni dei detenuti" Adnkronos, 7 marzo 2015 "Abbiamo trovato una struttura piccola e molto particolare, con condizioni di detenzione relativamente buone e un discreto rapporto tra detenuti e personale carcerario. Alcuni aspetti sono da migliorare, a cominciare dalle dotazioni igienico-sanitarie, ma in generale non abbiamo riscontrato problemi gravi come in altre carceri toscane. Tuttavia, è inaccettabile che gran parte del penitenziario sia ad oggi inutilizzabile perché i lavori di ristrutturazione non sono stati portati a termine dalle imprese e da molto tempo l'amministrazione non riesca a sbloccare una situazione paradossale che si traduce in uno spreco inaccettabile di denaro pubblico". Così le parlamentari toscane di Sinistra Ecologia e Libertà, la senatrice Alessia Petraglia e la deputata Marisa Nicchi, dopo la visita alla casa circondariale di Arezzo, conclusasi oggi in tarda mattinata. "Poter contare su un numero aggiuntivo di celle permetterebbe di dare fiato al nostro sistema carcerario, in grande difficoltà, e di rispondere al problema del sovraffollamento - proseguono Petraglia e Nicchi. Lo scaricabarile tra amministrazioni sta portando al deterioramento di un bene pubblico. Chiederemo al Governo di intervenire con risorse e azioni concrete per far ripartire i lavori e per migliorare la sezione occupata fino ad oggi dai detenuti. Poter contare su un sistema carcerario umano, in grado di rieducare chi ha sbagliato preparandolo alla vita fuori è una priorità assoluta per il nostro Paese". Parma: stop rischio blackout con gruppo continuità, nel carcere anche Carminati e Riina Ansa, 7 marzo 2015 Nel carcere di Parma è arrivato il gruppo di continuità che garantirà il funzionamento del sistema di video sorveglianza e videoregistrazione. A darne notizia è il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia, il quale spiega che il gruppo di continuità è stato montato e sarà testato nelle prossime settimane. "Uno strumento atteso - spiega Mattiello - che garantisce prima di tutto il lavoro degli operatori della polizia penitenziaria e del Gom, il gruppo operativo mobile. Sono grato al capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo e ai funzionari del suo dipartimento per la sollecitudine dimostrata. C'è ancora molto lavoro fa fare per verificare complessivamente la tenuta del 41 bis nelle carceri italiane: è diffusa la preoccupazione relativa alla possibilità di fatto che detenuti pericolosi al 41 bis, riescano comunque a controllare i propri traffici. Su questo continuerà senz'altro l'impegno della Commissione Antimafia", conclude Mattiello. La questione del rischio back out al supercarcere di Parma, dove sono reclusi detenuti del calibro di Massimo Carminati, presunto capo di "Mafia Roma" e boss del calibro di Raffaele Cutolo e Totò Riina, era stato sollevato dallo stesso Mattiello che il 30 dicembre scorso era andato in visita al penitenziario di Parma dove aveva incontrato Carminati. Nei giorni scorsi, il neo capo del Dap, Santi Consolo, in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, aveva affermato che la disfunzione del sistema di video sorveglianza e di video registrazione è nota dal gennaio del 2013, che da allora ci sono stati 33 blackout immediatamente ripristinati nel 2013, 47 nel 2014, 10 nel 2015; che ci sono stati 27 blackout lunghi nel 2013, 44 nel 2014, 8 nel 2015. In quella occasione garantì alla Commissione presieduta da Rosy Bindi che l'intervento riparatore sarebbe finalmente stato eseguito nel giro di una decina di giorni. Oggi la notizia che il gruppo di continuità è stato finalmente montato. Padova: la guardia che faceva telefonare il criminale di guerra serbo di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 7 marzo 2015 Il detenuto poteva contare su una scheda sim che in precedenza aveva usato l’agente penitenziario. L’altro secondino portava anche droga nelle celle, solo a chi poteva pagare. L’interrogatorio è lunedì. Tra i detenuti che avevano ricevuto servizi particolari dall’agente di polizia penitenziaria Francesco Corso, 38 anni, c’è un criminale di guerra serbo che fino a poche settimane fa stava scontando una pena molto lunga in una cella del Due Palazzi. Un detenuto che, all’epoca della sua condanna la Serbia non aveva aderito al trattato europeo sulla detenzione, aveva scelto di scontare la pena in Italia. Ora è stato trasferito, anche per i fatti in questione, al carcere di Vigevano. Da una scheda sim che era in uso a Francesco Corso sono partite delle chiamate in Serbia. In sostanza l’accusa del pm Sergio Dini è che l’agente di custodia passasse il telefonino al detenuto, affinchè potesse chiamare in patria. Lo stesso detenuto (che è pure indagato), durante un interrogatorio ha ammesso: "Il telefonino me l’ha dato Corso". Quest’ultimo è stato oggetto di una misura cautelare, il divieto di dimora a Padova e provincia, mentre un suo collega, Giuseppe Cristino, 36 anni, è finito agli arresti domiciliari. Per lui (è difeso dall’avvocato Davide Gianella) le accuse sono di spaccio di droga a detenuti e consegna di alcune schede sim per telefonare. Per entrambi lunedì mattina è in programma l’interrogatorio davanti al gip Mariella Fino dove i due proveranno a ridimensionare le accuse. Altri due agenti penitenziari risultano indagati in stato di libertà. Per tutti le accuse sono di concorso in corruzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Dopo gli arresti dei mesi scorsi e l'inchiesta sui trattamenti di favore per alcuni detenuti nel carcere di Padova sono scattati altri due provvedimenti per agenti penitenziari. Il blitz di ieri è partito da una costola dell’inchiesta avviata nell’estate scorsa che aveva scoperchiato un malaffare all’interno del carcere con molte guardie corrotte che erano al servizio dei detenuti più potenti, di quelli che potevano pagare il servizio. Un marcio portato alla luce anche con l’aiuto degli stessi agenti, quelli “puliti”, che sono la maggior parte. I due agenti oggetto del provvedimento sono stati perquisiti, uno nell’alloggio di servizio all’interno del carcere e l’altro in una abitazione privata. Perquisizione anche nelle due abitazioni degli indagati. Resta una situazione pesante per gli stessi agenti che si trovano ogni giorno a sorvegliare i detenuti, visto che tutti quelli coinvolti nelle varie inchieste giudiziarie, vengono ovviamente sospesi dal servizio e non rimpiazzati. Quindi la situazione è di emergenza. Roma: carcere di Rebibbia ristruttura sala colloqui, per sei mesi stop alle visite di sabato di Loredana Di Cesare Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2015 Serviranno 180 giorni per rifare la sala e rimuovere gli anacronistici e illegali "separatori". Nel frattempo un avviso informa che non si potranno più visitare i detenuti nel giorno di massima affluenza dei parenti. Protesta l'associazione Antigone. Il direttore Mariani: "Disponibili a rivedere la decisione". Da circa una settimana nella bacheca del carcere di Rebibbia c'è un avviso rivolto ai detenuti: "I colloqui del sabato saranno sospesi per sei mesi". Il sabato - a differenza delle altre occasioni di colloquio infrasettimanali - è l'unico giorno in cui i parenti, figli inclusi, possono incontrare i detenuti senza dover rinunciare a scuola o lavoro. "Le visite del sabato sono sacrosante - dice Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale - perché è impensabile che i coniugi, per incontrarsi, siano costretti a prendere un giorno di ferie e che i bambini saltino un giorno di scuola. Speriamo che prevalga il buon senso e che vengano garantiti i colloqui nei giorni extra lavorativi. A rimetterci non devono essere i più deboli". Il punto è che il penitenziario di Rebibbia ha urgenza di ristrutturare alcune aree dell'Istituto, in particolare proprio le sale colloquio, rimuovendo i banconi separatori, vietata per legge e che ancora persistono, nonostante le numerose condanne della Corte europea di Strasburgo che ne vieta l'uso, fatta eccezione per i regimi carcerari duri, come il 41 bis. L'eliminazione di questa barriera anacronistica rappresenta certamente un vantaggio poiché favorirà, nel futuro, un contatto diretto tra il detenuto e i propri familiari. Nell'immediato, però, comporta ostacoli alle visite: i detenuti e gli internati possono usufruire di sei colloqui al mese, della durata di un'ora ciascuno. Gli incontri con familiari, conviventi e terze persone sono richiesti attraverso prenotazioni dal detenuto stesso e autorizzati dal direttore del penitenziario. E il sabato è il giorno della settimana in cui si raggiunge il picco massimo di prenotazioni. Sebbene si tratti di un'interruzione temporanea (180 giorni), è stata sufficiente per destare la preoccupazione dei reclusi, i quali si vedono limitare la possibilità di mantenere un rapporto costante con i loro affetti più stretti. Poi, ci sono coniugi e figli dei detenuti, spesso minori, che incontreranno altre difficoltà, come per esempio, conciliare le visita nei giorni feriali con gli impegni lavorativi e scolastici. E infatti la Commissione ministeriale per le questioni penitenziarie, presieduta da Mauro Palma, per quanto riguarda i rapporti delle persone sottoposte a misure restrittive con il proprio mondo affettivo e relazionale, ha previsto già dal 2013 che i colloqui debbano essere organizzati su sei giorni alla settimana, prevedendo almeno due pomeriggi per i minori che vanno a scuola. E proprio al fine di favorire questa pratica, si sottolinea nel documento, devono essere inclusi anche i giorni festivi. Il fattoquotidiano.it ha interpellato il direttore del carcere di Rebibbia, Mauro Mariani, chiedendogli se fosse una misura necessaria, se non ci fosse un'altra possibilità, senza sospendere questa occasione. "Abbiamo pensato al sabato per accelerare i lavori di ristrutturazione delle sale adibite ai colloqui. Si tratta di un sacrificio chiesto per un periodo limitato". Ma, seppure la decisione sia stata già presa, Mariani al fattoquotidinao.it dichiara anche d'essere pronto a ragionare verso soluzioni alternative: "Se dovessero giungere delle segnalazioni significative da parte dei reclusi, contrari alla scelta dell'Istituto, siamo disposti a rivalutare la decisione". Milano: Expo 2015; 100 detenuti lavoreranno 6 mesi grazie all'intesa tra Prap e ministero di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 7 marzo 2015 Un provvedimento annunciato dal ministro Orlando che prevede il pagamento a mercede per i reclusi nelle carceri del milanese occupati nell'accoglienza dei visitatori o come facchini per tutta la durata dell'esposizione. Saranno cento i detenuti che prenderanno parte all'Expo 2015 di Milano, un evento che richiamerà nei sei mesi della sua durata milioni di visitatori. Grazie a un accordo stipulato dal Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria (Prap) di Milano e la società Expo spa, i cento saranno impiegati nell'accoglienza dei visitatori, nei punti informativi o come facchini. Un lavoro che sarà remunerato in base alla legge 354 del 1975 che prevede per i condannati il pagamento a mercede, ovvero inferiore di un terzo rispetto agli standard previsti nei contratti collettivi nazionali. Dei cento 35 provengono dalla casa di reclusione di Opera, 35 da Milano Bollate, 10 dalla Casa Circondariale di Monza, 20 dagli uffici di esecuzione penale esterna di Milano tra persone sottoposte all'affidamento in prova ai servizi sociali. Prigioni ed Expo. La collaborazione tra il ministero di Giustizia e l'esposizione ha dato vita al programma Le carceri milanesi per Expo che si sviluppa su tre punti. L'assunzione dei cento detenuti è infatti solo il primo passo di un progetto che vuole avvicinare l'opinione pubblica a temi come l'inclusione sociale. La seconda iniziativa, un convegno organizzato dal Prap sull'importanza del lavoro nelle carceri come veicolo di reinserimento per chi torna in libertà avrà luogo all'interno dei padiglioni dell'Expo e vedrà tra i partecipanti anche il ministro della giustizia Andrea Olando. Alimenti "fatti in carcere". Il progetto iniziale prevedeva l'utilizzo di padiglioni all'interno dell'esposizione dove esibire alcuni prodotti coltivati nelle case circondariali del milanese. Ma per mancanza di fondi da parte del ministero di Giustizia, gli stand saranno allestiti nella casa di reclusione di Milano Bollate, non molto distante dall'area espositiva di Rho dove saranno organizzate visite e saranno presentate e vendute le opere dei detenuti. Inoltre la casa circondariale di Milano "San Vittore" grazie al bando dedicato alle "produzioni carcerarie" del padiglione italiano ospiterà la Libera scuola di cucina. Savona: Sappe; ancora latitante detenuto evaso, la Polizia penitenziaria sequestra droga Comunicato Sappe, 7 marzo 2015 Nel penitenziario S. Agostino di Savona è stata effettuata un'operazione di prevenzione all'introduzione di sostanze stupefacenti con l'impiego di unità cinofile della Polizia Penitenziaria, nel mentre Katr Mohamed algerino di 43 anni albenganese di residenza, detenuto per reati di rapina ed altri collegati alle sostanze stupefacenti, si gode la sua latitanza, il reparto della Polizia Penitenziaria che nelle prime ore dall'evasione avvenuta dall'ospedale di Albenga dove era stato ricoverato in quanto sospetto da malattia contagiosa quale la Tbc, durante una perlustrazione in un caseggiato abbandonato nel comune di Loano, presumibilmente frequentato da stranieri e dove poteva aver trovato rifugio l'evaso, la Polizia penitenziaria rinviene un bilancino di precisione, alcuni telefoni cellulari, soldi per circa 150 € e alcune dosi di sostanze stupefacente. Gli uomini della Penitenziaria hanno sequestrato il tutto e messo a disposizione dell'autorità giudiziaria. Il Sappe, nel vivacizzarsi con i colleghi che, anche in maniera volontaria si sono attivati sul territorio dando ampia manifestazione di professionalità. La segreteria regionale del Sappe, ritorna nuovamente sull'argomento della sanità penitenziaria ricordando che più volte il Sappe ha denunciato che il tallone d'Achille per le evasioni è proprio il ricovero ospedaliero o le visite specialistiche che, almeno in Liguria, avvengono senza sicurezza, con i detenuti lasciati anche per ore in luoghi comuni insieme ad altri pazienti, così avviene a Genova e Sanremo. Condizione che praticamente azzera l'aspetto sicurezza e benché il Sappe abbia più volte chiesto all'assessore regionale alla sanità Claudio Montaldo di rivedere tale condizione valutando la necessità di individuare per la scorta dei detenuti che si recano nei luoghi di cura, un percorso o luogo che possa garantire un minimo di sicurezza, ad oggi si sono ottenute solo promesse, ma con le promesse i detenuti evadono. Padova: detenuti vanno dal Papa per l'anniversario di don Giussani Il Gazzettino, 7 marzo 2015 Papa Francesco tra i fedeli in San Pietro prima dell'udienza Ci sarà anche un gruppo di detenuti del carcere di Padova oggi tra le oltre 60mila persone attese a San Pietro da tutta Italia e da 47 Paesi del mondo per l'udienza con Papa Francesco, nel 10. anniversario della morte di don Giussani e nel 60. dell'inizio di Cl. Oltre a personalità del mondo ecclesiastico e ai responsabili delle principali associazioni e movimenti, saranno presenti esponenti di altre religioni (anglicani, ortodossi russi ucraini e bielorussi, e musulmani). Le persone del movimento si ritroveranno in piazza San Pietro di buon mattino. L'arrivo del Papa è previsto per le 12. "Tutti noi siamo stati educati - sottolinea in un messaggio don Julian Carron, presidente della Fraternità di Cl - a riconoscere nella figura di Pietro il fondamento della nostra fede. Siamo contenti di poter esprimere al successore dell'Apostolo tutta la nostra devozione e la nostra gratitudine per come sostiene la nostra fede, ogni giorno, con la sua continua testimonianza e attraverso il suo magistero così pertinente alle sfide del presente. Proprio don Giussani ci ha educato a guardare il Papa per questa sua rilevanza unica nella nostra vita. Per questo andiamo a Roma. Non per un incontro celebrativo, ma solo per il desiderio di imparare da Papa Francesco come essere cristiani in un mondo in così rapida trasformazione". Padova: il regista Pippo Delbono incontra i detenuti-attori del carcere Due Palazzi di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 7 marzo 2015 Il regista e attore in scena al Verdi assieme al gruppo del laboratorio teatrale di Cinzia Zanellato: verità molto dure, l'arte e la vita, un grande scambio. Travolgente Pippo Delbono, fino a domenica al Verdi con "Orchidee", che ieri al Due Palazzi ha incontrato il gruppo di detenuti del laboratorio teatrale di Cinzia Zanellato, assieme ad alcuni attori della compagnia che porta il suo nome e che negli anni ha fatto tappa in più di cinquanta paesi al mondo, caso unico nella storia del teatro italiano. Travolgenti, lui e il suo incontro con il gruppo, dentro l'auditorium con dipinti sui muri i poster di famosi film tipo "I soliti ignoti" di Totò: 55 anni vissuti a piene mani, attore, autore e regista teatrale dal curriculum importante e internazionale, Delbono ha ricevuto e regalato scorci di disarmata e sincera umanità chiacchierando con i detenuti, ascoltando, rispondendo, raccontando. Di lui, del suo essere uomo-artista che ha lavorato anche con i detenuti, che ha fatto un film con Giovanni Senzani (ex Br) e tutti lo guardavano come fosse appestato, che è calamitato dalle contaminazioni, dalla trasversalità. Che vorrebbe i grandi teatri nelle periferie, che gli spettatori in pelliccia dei turni A vadano lì, che la gente si incontri nella diversità e i teatri tornino ad essere mescolanza. E cita Bobigny, teatro pubblico impegnato nella banlieue di Parigi, diventato un dei centri culturali di riferimento in Francia. Delbono che porta in scena in tutti i suoi spettacoli Bobò, il grande Bobò, sordomuto, 47 anni in manicomio, "per la società lui è incapace di intendere e volere. Nei miei spettacoli o film, lui è centrale. È stato uno strepitoso Nerone a teatro. Le Monde gli ha dedicato una pagina". E oltre a Bobò, c'è un altro attore che nella vita affonda il talento, un ragazzo "schizofrenico, così dicono. Ma chissà. L'ho conosciuto per le strade di Napoli: vuoi lavorare con noi? gli ho chiesto. E lui: sì. Ed è salito in macchina senza pensarci. È in compagnia da 17 anni". Per la seconda volta in pochi anni al Verdi, per la seconda volta lo stesso impatto da brivido con la più retriva padovanità: "lo sguardo di riprovazione del pizzaiolo o del tipo del ristorante quando arriviamo e ci sediamo", racconta Delbono; perché c'è Bobò, perché tutti loro hanno una vaghezza sciamannata che è sostanza geniale e vitale, non sono gli attori impostati e imbiancati a cui "decenni di gestione di De Fusco ha abituato Padova. Ma ora è passato, qualcosa si sta muovendo". Per fortuna. E intanto, al Verdi, con "Orchidee", Delbono che nasce nella totale periferia ed è arrivato alle poltrone rosse portandosela dietro quella periferia, spara i Deep Purple a tutto volume mentre vaga in mezzo al pubblico e nello schermo sul palco appare un caleidoscopio di scheletri. "Non è tutto così, alla fine si ricompone in un discorso di amore. Ma ho visto la gente colpita, pure quelli del turno A che io sempre prendo in giro: alla fine è un rapporto di cuore. Il mio teatro arriva a chi ha più esperienza di vita". E sicuramente è arrivato al gruppo dei detenuti attori di Maria Cinzia Zanellato, che da 20 anni al Due Palazzi fa teatro. E fa rete. E fornisce a quelle persone un formidabile strumento di riappropriazione della vita. Di cambiamento. Hanno fatto domande a Delbono, i detenuti, e lui non si è risparmiato, ha tirato fuori anche la sua sieropositività, scoperta nel 1984: "anch'io ho fatto il mio carcere. Ma se potessi tornare indietro e cambiare, non rinuncerei a quel "positivo" che mi ha insegnato a vedere in faccia la vita e la morte. Mi ha fatto essere artista e qualcosa di più. Protagonista". Il mese prossimo la compagnia Delbono (una trentina di persone) parte per una tournée a Casablanca, mentre gli attori del Due Palazzi il 22 marzo debutteranno nel nuovo spettacolo di fiabe dedicato, in quella giornata, ai loro figli che potranno entrare. Torino: i detenuti "adottano" uno scrittore, tre incontri con Margherita Oggero Ansa, 7 marzo 2015 Margherita Oggero per tre volte sarà nel carcere di Torino, il Lorusso e Cotugno, nell'ambito della 13/a edizione di "Adotta uno scrittore", l'iniziativa del Salone Internazionale del Libro. Oggero incontrerà le studentesse del Centro d'Istruzione per Adulti attivato presso la sezione femminile. Il primo appuntamento, l'11 marzo, sarà dedicato ai romanzi proposti dall'autrice, libri che hanno avuto un significato particolare nella sua vita di lettrice. Il secondo, il 25 marzo, sarà incentrato sul romanzo di Margherita Oggero "Risveglio a Parigi"; il terzo, il 15 aprile, saranno le studentesse a proporre i titoli su cui riflettere nel corso dell'incontro. "Adotta uno scrittore", rivolto sin dai suoi esordi alle scuole superiori, quest'anno coinvolge 25 autori. Si tratta però di un'iniziativa che riserva da sempre spazio e attenzione alle realtà formative nate in contesti di disagio o difficoltà. Sono i progetti speciali: quello presso la Casa di reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, quello per i ragazzi ricoverati all'Ospedale Regina Margherita di Torino e, da quest'anno, quello dedicato alla sezione femminile del Lorusso e Cotugno. In dodici anni, Adotta uno scrittore ha permesso a più di 7.000 ragazzi di oltre 240 classi piemontesi, di adottare 217 scrittori e a 97.000 studenti di entrare gratuitamente al Salone Internazionale del Libro. L' iniziativa è realizzata grazie al sostegno dell'Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte che riunisce le Fondazioni Cassa di Risparmio di Alessandria, Asti, Biella, Bra, Cuneo, Fossano, Saluzzo, Savigliano, Torino, Tortona, Vercelli e la Compagnia di San Paolo. Lecce: "Un Attimo", il nuovo video della reggae band Boomdabash girato con i detenuti www.radiowebitalia.it, 7 marzo 2015 "Un Attimo" è il nuovo singolo dei Boomdabash, disponibile da oggi giovedì 5 marzo in free-download. La reggae band salentina si prepara con questo singolo a dare il via ai lavori per il prossimo album, un nuovo capitolo per una delle realtà più interessanti ed innovative del panorama italiano, caratterizzata dal suo inconfondibile sound che intreccia dialetto salentino e inglese giamaicano. Il video di "Un Attimo? è stato prodotto da Soulmatical per la regia di Mauro Russo di Calibro Nove ed è stato interamente girato all'interno della Casa Circondariale Borgo S. Nicola di Lecce con la partecipazione degli attori/detenuti della compagnia teatrale "Io ci Provo", operante all'interno della struttura. Ogni secondo di riprese è un frammento di vita vera e reale nel penitenziario salentino ed il risultato è stato un'esplosione di sorrisi, volti, speranze e sogni. "Incontrare i detenuti e girare il video all'interzo del penitenziario di Lecce è stata una delle esperienze più belle e toccanti di tutti i nostri dodici anni di carriera. L'entusiasmo con cui gli ospiti della struttura hanno accolto l'iniziativa è stato grandioso e prova che purtroppo in questi luoghi ci sono persone, uomini come noi, che amano, si emozionano e sanno sorridere alla vita. Il carcere è uno di quei luoghi contro cui il pensiero comune, troppo spesso mosso da pregiudizi e preconcetti, si scaglia con rabbia, quasi fosse il contenitore di tutti i mali del mondo. "Un Attimo" vuole distruggere questi pregiudizi, è un inno al perdono e alla ragione. Gli errori sono ostacoli che fanno parte del percorso di vita di ogni uomo, avere la possibilità' di potervi porre rimedio un diritto di tutti". Droghe: la relazione della Dna, la necessità di depenalizzare, la "notizia" scomparsa di Valter Vecellio Il Garantista, 7 marzo 2015 La Direzione Nazionale Antimafia ha invitato il Parlamento a depenalizzare la marijuana. Ma contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dai giornalisti, quella che è mia vera notizia la si è potuta leggere ieri solo su questo giornale, e su un paio di siti on line. L'unica cosa che non si può fare in questi casi è proprio quella che si fa: ignorare la notizia, censurarla, evitare di discuterla, magari per dire: che scempiaggini dicono Franco Roberti e i magistrati della Dna. "Spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo almeno europeo, in quanto parliamo di un mercato ormai unitario anche nel settore degli stupefacenti), sia opportuna una depenalizzazione della materia…". La "materia" di cui si auspica la depenalizzazione sono le sostanze stupefacenti; l'invito che il legislatore valuti "se" e "come", viene dalla Direzione Nazionale Antimafia. Si ammetterà che se un simile auspicio, un simile invito, viene dalla Dna, l'unica cosa che non si può fare è proprio quella che si fa: ignorare la notizia, censurarla, evitare di discuterla, magari per dire: che scempiaggini dicono Franco Roberti, i magistrati della Dna; che corbellerie scrivono nella relazione che consegnano al Parlamento. In questo documento, consegnato al legislatore non solo si scolpisce quello che si è appena citato. Si parla anche di "oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo", contro lo spaccio e l'uso di droghe leggere. Se ne dovrebbe fare una traduzione e trarne conclusioni: da una parte una profonda revisione delle modalità e delle misure concrete più idonee a garantire, anche in questo ambito, il diritto alla salute del cittadino; ma anche la loro sicurezza e incolumità; e soprattutto "pesare", le ricadute che la depenalizzazione indiscutibilmente comporta in termini di "alleggerimento" del carico giudiziario: libererebbe energie umane (magistrati, poliziotti), e risorse da utilizzare più utilmente per il contrasto delle mafie nazionali e internazionali che, se ci si pensa bene, hanno tutto l'interesse a che il proibizionismo resti in vigore. Ora direttamente ai direttori dei giornali e dei mezzi di comunicazione, ai giornalisti, ai commentatori di ogni colore politico e tendenza: le affermazioni della Dna sono o no una "notizia"? Se la risposta è no, per favore spieghino perché non lo è. Se al contrario è una notizia, per favore spieghino perché non l'hanno riferita, non l'hanno commentata. Hanno lasciato lo scoop a questo al "Garantista", alla segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini che questo giornale ha ospitato; e a un paio di giornali on line: "Linkiesta" e "ibtimes.com". Dal momento che quella relazione si è parlato e scritto, i casi possono essere: a) hanno parlato, scritto e commentato quella relazione senza leggerla, fidandosi dei bignamini forniti dalle agenzie di stampa, facendo riassunti di riassunti; ma non sono andati direttamente alla fonte; questo può dare la misura delle pigrizie, delle superficialità, che spesso sono la cifra della categoria cui chi scrive appartiene sempre meno orgogliosamente; b) la notizia la si voleva dare, commentare, discutere, ma una superiore volontà, una sorta di "Big brother" lo impedisce. C'è poi una terza possibilità: queste sono notizie sgradite, sgradevoli: ragionare sul fallimento della politica proibizionista implica una serie di conseguenze che si vogliono accuratamente evitare; ma ormai non c'è quasi più bisogno di impartire la "direttiva", modello agenzia Stefani. Ormai il riflesso può dirsi pavloviano, e vale per questo come per mille altre questioni. Per fare un esempio paradigmatico: qualcuno sa dire perché tutte le esternazioni, i messaggi, le comunicazioni dell'ormai presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano sono state tutte ampiamente pubblicizzate, dibattute, condivise o respinte; per una sola presa di posizione non c'è stato nulla: quella relativa allo stato della Giustizia in Italia, il solenne messaggio costituzionale inviato al Parlamento: non è solo la denuncia degli orrori e degli abomini che vengono consumati "in nome del popolo italiano"; contiene precise, inderogabili, obbligate soluzioni, se si vuole come si deve, ottemperare alle prescrizioni delle giurisdizioni nazionali ed internazionali. Un altro esempio: riguarda il presidente della Repubblica in carica Sergio Mattarella; e ci si riferisce a quello che appare quasi un inciso nell'intervento alla Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci del 24 febbraio scorso: "L'ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione…". Acqua fresca in un paese normale. Ma l'Italia non è un paese normale; e infatti il presidente della Repubblica, con la souplesse che è la sua cifra, sente la necessità di sottolineare la "straordinarietà" di quest' "acqua fresca"; la cosa dovrebbe pur far riflettere: Mattarella dice è che la giustizia, per essere tale, deve essere ragionevolmente rapida; un qualcosa che è in continuità con l'"irragionevole durata dei processi" denunciata dal suo predecessore. Nessuno vuole tirare per la giacchetta il presidente; ma è pur significativo quello che ha detto. Non meno indicativo che sia stata lasciata cadere. Per tornare alla questione sollevata dalla Dna, qualche altra non inutile "divagazione": concentrare gli sforzi sui pesci grossi, e non occuparci di quelli piccoli, buoni per rimpolpare le statistiche sulle operazioni condotte brillantemente e con successo, circa diecimila persone uscirebbero dal carcere; oltre che giusto (si tratta quasi sempre di persone bisognose di cure, ed è notorio che nel carcere non ci si cura), si decongestionerebbe la situazione delle nostre prigioni; il criminologo Federico Varese calcola un risparmio di 1.124.640 euro al giorno, che potrebbero essere utilizzati più utilmente. Ovviamente se ne dovrebbe e potrebbe discutere. Non lo si fa. Questa miscela di censura, superficialità, letterale ignoranza non è la prima volta che produce i suoi micidiali risultati. È il 1998 quando l'allora Procuratore Generale della Corte di Cassazione Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, nella solenne cornice dell'apertura dell'Anno Giudiziario, rileva che una politica esclusivamente repressiva, come quella attuata fino ad oggi in Italia, non basta a stroncare il fenomeno, che "occorre dunque trovare nuove strade, nuove soluzioni al problema…è necessario considerare con grande attenzione le nuove impostazioni criminologiche e terapeutiche condotte in alcuni paesi, mediante iniziative non di liberalizzazione, ma di somministrazione controllata delle droghe, sulla base di prescrizioni mediche, inserite in programmi di assistenza e di reinserimento dei tossicomani". Anche allora nessuno si accorge di quel "passaggio" della relazione; solo l'occhiuto Marco Pannella coglie l'importanza dell'affermazione, e la "rivela". Ma anche allora, dopo le rituali polemiche dei soliti Gasparri e Giovanardi, nessun vero dibattito, nessun vero confronto. Del resto… trent'anni fa in un libro che non stranamente non suscita particolare clamore, si può leggere che "… Se le droghe fossero legalmente disponibili, ogni possibile profitto da questa inumana attività, sparirebbe in larga misura, perché il tossicomane potrebbe comperare da una fonte meno cara…il singolo tossicomane avrebbe netti vantaggi dalla legalizzazione della droga. Oggi le droghe sono sia estremamente care sia di qualità molto incerta. I tossicomani sono spinti a collegarsi con i criminali per ottenere la droga e diventano criminali essi stessi per finanziare l'abitudine. Corrono costantemente rischi di morte e di malattia. Si stima che da un terzo a metà di tutti i reati di natura violenta o contro la proprietà negli Stati Uniti siano commessi o da tossicomani dediti ad attività criminali per finanziare la loro abitudine, o da scontri tra gruppi rivali di spacciatori o nel corso dell'importazione e della distribuzione di droghe illegali. Con la legalizzazione delle droghe, la criminalità di strada crollerebbe immediatamente. Di più, tossicomani e spacciatori non sono il soli ad essere corrotti. Quando sono in gioco somme immense, è inevitabile che qualche poliziotto relativamente sottopagato o qualche altro funzionario pubblico - anche tra quelli ben pagati - soccomba alla tentazione del facile arricchimento…per quanto le droghe siano dannose per quanti le usano, è nostra ponderata opinione che cercare di proibirne l'uso fa ancora più male sia a chi le usa sia a noi. La legalizzazione delle droghe ridurrebbe simultaneamente il numero dei delitti e migliorerebbe il rispetto della legge. È difficile immaginare qualunque altro singolo provvedimento che possa dare un maggiore contributo alla promozione della legge e dell'ordine… Questo libro non è stato scritto da Pannella, come pure potrebbe sembrare. Questo libro si chiama "Contro lo Status Quo", ed è stato scritto da un premio Nobel dell'economia americano e da sua moglie, dichiaratamente conservatori, sia pure venati da libertarismo, come solo negli Stati Uniti può accadere, dei Clint Eastwood dell'università, per capirci. Si chiamavano Milton e Rose Friedman. Pensarci sopra non sarebbe male; su quello che dicevano, valido anche oggi; e sul perché non lo si è fatto e non lo si continua a fare. Vedi un po' a che approdi ci può portare la relazione della Dna al Parlamento. Gambia: due pescatori italiani arrestati, sono detenuti in pessime condizioni igieniche www.veratv.it, 7 marzo 2015 I due pescatori italiani arrestati in Gambia "non sono in buone condizioni né fisiche né mentali, sono rinchiusi in celle sovraffollate, senza bagni, senza servizi e senza acqua, e si trovano in due bracci diversi del carcere, reclusi con veri criminali". Lo dice la Italfish di Martinsicuro, società armatrice della nave Idra Q. Le condizioni igienico sanitarie del carcere, secondo quanto riferito dal console onorario in Gambia alla Italfish srl, sono "estremamente scarse. Nelle celle - sottolineano dall'ufficio della società armatrice che sta gestendo il caso - sono rinchiuse anche fino a 20 persone". Il console onorario in Gambia è la prima persona che i due pescatori italiani - il capitano della nave Idra Q., Sandro De Simone, di Silvi Marina (Teramo), e il direttore di macchina, Massimo Liberati, di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) - hanno potuto incontrare dal giorno dell'arresto, avvenuto lunedì, dopo dieci giorni passati in stato di fermo. L'imbarcazione era finita sotto sequestro per la presunta violazione delle dimensioni delle maglie di una rete. In Africa sono al lavoro due rappresentanti della società armatrice, uno a Dakar (Senegal) dove si trova l'ambasciata competente per territorio, e l'altro in Gambia. L'obiettivo è quello di ottenere la revoca del provvedimento di arresto - avvenuto al termine di quella che la Italfish definisce come "udienza sommaria" - e il rilascio dei due marinai. A bordo dell'imbarcazione era presente anche un terzo italiano, il nostromo Vincenzino Mora, di Torano Nuovo (Teramo), non coinvolto nella vicenda giudiziaria. Italfish sottolinea che "la situazione si fa sempre più preoccupante" e "non vorremmo che si trattasse di un nuovo caso Marò". Indonesia: detenuto nigeriano condannato a morte, lettera d'addio alla fidanzata Adnkronos, 7 marzo 2015 Una lettera straziante per dire addio alla sua fidanzata. È quella scritta da un detenuto nigeriano, il 42enne Raheem Agbaje Salami, condannato a morte in Indonesia per traffico di droga. L'uomo è stato trasferito mercoledì a Nusakambangan, l'isola carcere dove sarà fucilato insieme ad altri nove detenuti questo mese. Secondo quanto riporta la stampa locale, Agbaje Salami ha fatto avere tramite le autorità la lettera alla sua fidanzata indonesiano Angela Intan, alla quale ha chiesto di essere forte e di avere fede in Dio. "Voglio ringraziare e dire addio alla mia amata fidanzata: Angela Intan, che mi è stata accanto nei momenti di felicità e tristezza - si legge nella missiva scritta in indonesiano. Grazie di tutto, per il tempo che abbiamo trascorso insieme. Conoscerti e amarti è stato il più bel regalo e anche se è stato solo per un breve periodo di tempo, ha avuto un significato profondo nella mia vita". Raheem è stato fermato dalla polizia al Juanda International Airport nel 1999 con cinque chilogrammi di eroina. Non è chiaro quando l'esecuzione avrà luogo. Con lui verranno giustiziati altri due trafficanti di droga nigeriani, dopo che le richieste di clemenza avanzate dal presidente Goodluck Jonathan sono state respinte dal leader indonesiano Joko Widodo. Iran: Amnesty International denuncia il "crudele accecamento" di un detenuto Askanews, 7 marzo 2015 Amnesty International ha condannato un atto "di una crudeltà indescrivibile" in Iran, dove le autorità hanno accecato un uomo condannato per aver gettato dell'acido sul viso di un altro. L'occhio sinistro della persona condannata è stato accecato sulla base della "qisas" - o principio dell'occhio per occhio - in un carcere di Karaj, a ovest di Teheran, secondo Amnesty. Accusato di aver gettato acido sul viso di un uomo nel 2009, l'imputato era stato condannato a dieci anni di reclusione e a questa punizione. L'occhio destro subirà la stessa, terribile pratica che però è stata rinviata su sua richiesta, ha spiegato l'ong con sede a Londra. "Punire qualcuno rendendolo deliberatamente non vedente è di una crudeltà indescrivibile e scioccante", ha affermato Raha Bahreini, ricercatore sull'Iran per Amnesty, in una nota. "Questa punizione sottolinea la barbarie del sistema giudiziario iraniano e disprezzo da parte delle autorità dei diritti più elementari", ha proseguito il comunicato. Messico: narco-boss si lamentano per condizioni carceri, cibo avariato e sovraffollamento Ansa, 7 marzo 2015 L'ex capo del temuto Cartello di Sinaloa, Joaquin Guzman, detto El Chapo, ha presentato una denuncia insieme a boss del narcotraffico rinchiusi nel carcere di alta sicurezza El Altiplano, per lamentarsi delle presunte "condizioni inumane" in cui vivono, e che rappresenterebbero una violazione dei loro diritti umani. La denuncia, presentata nei giorni scorsi alla Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) è stata firmata da 136 reclusi, fra i quali - oltre al Chapo Guzman - anche Hector Beltran Leyva, fondatore del cartello che porta il suo nome; Edgar Valdez Villareal, detto La Barbie; Miguel Angel Felix Gallardo e altri "nomi illustri" del narcotraffico messicano arrestati dalla polizia e condannati dalla giustizia locale. I boss si lamentano del cibo che viene offerto nel carcere - "pollo con vermi, carne andata a male, fagioli con sassolini" - delle condizioni in cui vengono trattate le persone che vengono a visitarli e dello stato in cui si trovano le istallazioni per le visite coniugali: "materassi vecchi e sfondati, con le molle visibili e una sporcizia e un odore insopportabili". I reclusi eccellenti denunciano anche che soffrono a causa del sovraffollamento del carcere, dove le celle sono previste per due prigionieri ma in realtà ne ospitano tre, "per cui uno di loro deve per forza dormire per terra".