Giustizia: non pagheranno mai… di Maurizio Tortorella Panorama, 6 marzo 2015 La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l'arma è già spuntata in partenza. Parlano giuristi, avvocati e vittime di malagiustizia. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all'indipendenza violata, strepitano all'attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una "punitiva ditata negli occhi". Tutti paventano "uno tsunami di ricorsi". Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista dì Vittorio Emanuele dì Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d'appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l'ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d'immagine, Calvetti, però, non è riuscito nell'impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l'indagine, quell'Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: "Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione" spiega il legale "e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale". Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l'ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse "non tempestiva": avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell'ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l'orologio scatta dal momento in cui l'arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. "Ma come faccio a iniziare un'azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?" protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l'80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto "filtro": un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C'è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: "La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande". Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l'Eurispes e l'Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C'è il caso di un'azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l'errato sequestro di una tenuta, deciso in un'inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C'è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L'ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un'inchiesta guidata nel 2004 dall'ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non. ha mal nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l'imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un'altra, mitica inchiesta di De Magistris: la "Why not", che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: "Citarlo in giudizio? Quell'inchiesta mi ha rovinato economicamente" dice Saladino "però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi". È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l'ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo., rischia di non cambiare nulla. "Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d'ordine" dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un'autorità, in materia. Nell'aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un'inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell'aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l'applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. "Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini" ricorda Caiazza, "Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l'articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d'indipendenza e autonomia della magistratura". Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? "A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo" dice Caiazza "ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere". Il ricordo dell'avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: "La questione sull'abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa". Anche Davigo è d'accordo: "La Consulta si è già pronunciata: l'eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima". Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l'ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l'Associazione nazionale magistrati. 11 Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c'è nulla di cui preoccuparsi, che il governo "non ha alcun intento punitivo", che "resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre", e addirittura che tra sei mesi sarà fatto "un tagliando" per verificare "eventuali eccessi". Nella storia d'Italia non s'era mai vista una legge con "retromarcia integrata". Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: "Il tagliando è un'assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c'è una sentenza di Cassazione". Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: "Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice". Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l'omicidio di due carabinieri e solo dopo 22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. "E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune" dice Cellini. "Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario". Perché? Ma perché l'avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: "È un sistema che non funziona e non funzionerà" sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l'avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta. "La vicenda Gulotta" conclude Cellini "mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata". Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: "La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione" dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l'ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere "Unabomber", l'autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. "La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia" dice Paniz "perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato". La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: "Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforma sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla". Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: "Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev'essere buttato fuori dalla magistratura". Chissà se Orlando ne terrà conto, nel suo "tagliando". Giustizia: cari magistrati, dormite sonni tranquilli di Giovanni Fiandaca (Docente di Diritto penale a Palermo) Il Garantista, 6 marzo 2015 Il grande allarme della categoria è esagerato e frutto del "conflitto nevrotico" con la politica. Perché, a decidere sulla responsabilità civile dei magistrati, saranno sempre altri magistrati. Per farsi un'idea della riforma della responsabilità civile dei magistrati, è necessario aver chiare le principali innovazioni introdotte. Proviamo a esporle. La legge Vassalli del 1988 ha introdotto per la prima volta anche una forma di responsabilizzazione patrimoniale indiretta delle toghe per gli errori commessi nello svolgimento delle funzioni giudiziarie. La responsabilità risarcitoria configurata da questa legge aveva come presupposto che l'errore del magistrato fosse dovuto a dolo (cioè fosse volontario: ipotesi rara) ovvero a colpa grave (cioè causato da involontaria ma inescusabile negligenza: ipotesi più frequente). Inoltre il legislatore specificava i casi di colpa grave facendovi rientrare: la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; l'affermazione o la negazione, determinate sempre da negligenza inescusabile, rispettivamente di un fatto incontestabilmente escluso o di un fatto risultante dagli atti; l'emissione di un provvedimento relativo alla libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge, o senza motivazione. In presenza di uno dei suddetti presupposti (e altresì in quello di diniego di giustizia: cioè di rifiuto, omissione o ritardo nel compimento di un atto), la persona danneggiata poteva esercitare presso il tribunale competente per territorio un'azione di risarcimento contro lo Stato. Ma era previsto uno sbarramento precauzionale: la domanda era sottoposta a un filtro preventivo, cioè a un giudizio di ammissibilità da parte dello stesso tribunale, in modo da sbarrare sin da subito la strada a richieste di risarcimento pretestuose, manifestamente infondate o strumentali. Nel caso di superamento del filtro, e poi di effettivo accoglimento della domanda di risarcimento, la responsabilità patrimoniale del magistrato era disciplinata in forma di azione di rivalsa nei suoi confronti da parte dello Stato, e la rivalsa non poteva superare una somma pari al terzo di un'annualità dello stipendio. Questo meccanismo, alla luce dell'esperienza, è risultato poco efficace. Per migliorarlo, la recente riforma ha apportato alcune modifiche che puntano a una maggiore responsabilizzazione dei magistrati, mantenendo però buona parte del precedente modello di responsabilità indiretta. In primo luogo, viene esteso il novero dei casi di colpa grave aggiungendovi innanzitutto, e com'era doveroso per vincolo europeo, la violazione manifesta del diritto dell'Unione; e, inoltre, il travisamento del fatto e delle prove. In effetti, questa seconda aggiunta rientra tra i maggiori motivi di allarme dei magistrati. Come intendere il concetto generico di "travisamento"? Poiché la stessa legge di riforma ribadisce espressamente che non può dare luogo a responsabilità l'attività di valutazione del fatto e delle prove, lo spazio assegnabile al travisamento dovrebbe restringersi a eccezionali e abnormi casi limite di ricostruzione manifestamente e macroscopicamente errata dei fatti e dei dati probatori. Certo, possono esservi margini di apprezzamento discrezionale nel distinguere tra ricostruzione giudiziaria opinabilmente errata e ricostruzione macroscopicamente infondata. Ma dovrebbe rassicurare il fatto che a operare questa distinzione saranno altri giudici, colleghi dei giudici accusati di sbagliare. Altre due importanti novità, anch'esse foriere di allarme, consistono nella eliminazione del filtro preventivo di ammissibilità della richiesta di risarcimento e nell'aumento della misura della rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato (elevata da un terzo alla metà di una annualità di stipendio). Si tratta di innovazioni davvero sintomatiche della volontà politica di punire o normalizzare la magistratura e produttive di un reale rischio di ridimensionamento della sua autonomia e indipendenza, così come paventa l'Associazione nazionale magistrati? L'eccessivo allarmismo è senz'altro anch'esso effetto del conflitto nevrotico che da anni contrappone politica e magistratura. Anche dopo la legge Vassalli si temettero conseguenze devastanti, che la realtà ha smentito. Sarà l'esperienza e sarà, soprattutto, la futura attività interpretativa a opera pur sempre di magistrati a confermare o smentire la paventata pericolosità della nuova riforma. Come giurista, so che non meno della legge così com'è scritta conta il modo di interpretarla e applicarla. Giustizia: la fate o no quest'amnistia? Quel Roberti parla quasi come Pannella di Rita Bernardini (Segretario di Radicali Italiani) Il Garantista, 6 marzo 2015 La notizia è clamorosa e forse, proprio per questo, l'Italia bigotta dei proibizionismi l'ha volgarmente celata. Nulla è uscito sui mass-media televisivi e radiofonici, nulla sulla carta stampata, tranne l'eccezione del Garantista e di due siti internet che meritano di essere citati per il loro scoop: mi riferisco a Linkiesta e Ibtimes.com. Qual è la notizia? Giudicate voi se sia clamorosa o meno: la Direzione nazionale Antimafia (Dna), nella sua relazione annuale (730 pagine), si è espressamente pronunciata per la depenalizzazione delle sostanze stupefacenti leggere, fornendo dati eclatanti e proponendo argomentazioni che sembrano strappate dalla bocca di Marco Pannella. Il quale, da quando fumò in pubblico il famoso spinello - era il 1975 - non ha mai smesso di battersi per la legalizzazione, peraltro ottenendo successi da più parti giudicati impossibili, come accadde nel referendum radicale del 1993. Quello che sancì la non punibilità dei consumatori di droghe illegali. La relazione della Dna riferisce di un rilevantissimo picco di incremento dei sequestri di cannabis rispetto allo scorso anno: siamo arrivati ad un aumento pari al 120 per cento, con 147.132 chilogrammi intercettati e distrutti; il che vuol dire che - essendo il quantitativo sequestrato inferiore di almeno 10-20 volte a quello consumato - la massa circolante di cannabinoidi soddisfa un mercato di "dimensioni gigantesche". Ogni abitante in Italia, compresi vecchi e bambini, ha a disposizione dalle 100 alle 200 dosi all'anno. Il fenomeno del consumo di cannabis, secondo la Dna, è paragonabile "quanto a radicamento e diffusione sociale" a quello dell'utilizzo di altre sostanze lecite quali alcool e tabacco. La Direzione nazionale Antimafia ammette il "totale fallimento dell'azione repressiva" nonostante il massimo sforzo profuso dalle Forze dell'ordine nel contrastare il fenomeno, e suggerisce al legislatore di valutare, seppure in un contesto più ampio come quello europeo, la depenalizzazione della materia, di cui descrive con precisione i vantaggi: deflazione dei carichi giudiziari, possibilità da parte delle Forze dell'ordine e della magistratura di dedicarsi con più incisività al contrasto di fenomeni criminali più gravi e, non ultimo, sottrazione alle associazioni di tipo mafioso di un mercato altamente redditizio. Fra i vantaggi non vengono contemplati gli introiti che lo Stato italiano ricaverebbe da una legalizzazione simile a quella di alcool e tabacco; si tratterebbe di svariati miliardi di euro che potrebbero essere destinati ad una corretta informazione rivolta alle fasce giovanili sui rischi da abuso. Abbiamo, dunque questa notizia eclatante appena esposta. Abbiamo avuto ima manciata di giorni fa la decisione della Corte di Cassazione che per la seconda volta è intervenuta sulla ex legge Fmi-Giovanardi (dichiarata incostituzionale un anno fa) sancendo la necessità di rivedere al ribasso le pene comminate durante gli otto anni di vigenza della famigerata legge. Cosa fanno Parlamento e governo, mentre migliaia di persone continuano a subire nelle infami carceri italiane una pena dichiarata illegale? Niente. Ad un anno di distanza dalla dichiarazione di incostituzionalità, non hanno mosso una paglia. Noi radicali, con l'instancabile leadership di Marco Pannella, diciamo - insieme al Presidente Emerito Giorgio Napolitano - che è obbligato un provvedimento di amnistia e di indulto e su questo torniamo a mobilitarci, con la nostra nonviolenza e le nostre disobbedienze civili. Personalmente, a sostegno dell'azione di Palmella, ho iniziato dalla mezzanotte del 5 marzo uno sciopero della fame ad oltranza sugli obiettivi che ho esposto e che, posso dirlo, sono oggi completamente avallati non solo dall'ex Presidente Napolitano che si è pronunciato un anno e mezzo fa con il suo inascoltato messaggio alle Camere, ma anche dalla Consulta, dalla Suprema corte e, udite udite, dalla Direzione nazionale Antimafia. Giustizia: l'Antimafia "droghe leggere da legalizzare. Troppo diffuse, inutile reprimere" di Errico Novi Il Garantista, 6 marzo 2015 Clamoroso appello nella relazione annuale della Dna: cannabis troppo diffusa, inutile reprimere Nel rapporto annuale (2014) consegnato al Parlamento dalla Direzione Nazionale Antimafia (cioè dalla massima autorità giudiziaria preposta alla lotta alla mafia) c'è un capitolo dedicato al traffico di cannabis. La Dna spiega che secondo una proiezione statistica, basata sui sequestri di cannabis effettuati dalle forze di polizia, la diffusione di droghe leggere, in Italia, è pari a circa 2 o 3 milioni di chili all'anno, che vuol dire che mediamente ogni cittadino (da zero a 100 anni) consuma tra le 100 e le 200 dosi all'anno. Dunque una diffusione paragonabile a quella del tabacco o dell'alcol. E allora - si chiede l'antimafia - non sarebbe più logico legalizzare le droghe leggere, risparmiando forze investigative enormi che possono essere destinate al contrasto della criminalità vera? Non lo dice Marco Palmella. Non è una campagna dei radicali. Signori, è il procuratore nazionale antimafia, che parla. O meglio, l'organismo da lui presieduto, la Dna: depenalizzate. Rendete lecito l'uso e la diffusione delle droghe leggere. Non perdete tempo. Perché di tempo, a dare la caccia agli spinelli, ne stiamo perdendo pure troppo. Lo dice con una chiarezza micidiale la relazione annuale 2014 della Direzione nazionale Antimafia. Ci sono sei cartelle interamente dedicate alla questione degli stupefacenti - e riportate integralmente in questa pagina. C'è un'analisi impietosa del fenomeno, con dati che fanno impressione: in Italia l'anno scorso sono state immessi sul mercato 3 milioni di kg di cannabis, tra hashish, marijuana e piantine. Tradotto in dosi, fanno 200 per ciascun italiano. Duecento spinelli a testa, vecchi e bambini compresi. Parliamo dunque di qualcosa come 10 miliardi di dosi, o canne, commercializzate ogni anno nel nostro Paese. E questo, si legge nella relazione dell'antimafia, nonostante siano impiegate "enormi risorse umane e materiali" per contrastare il fenomeno. Ma è come voler svuotare il mare con un secchiello da spiaggia. "Con le risorse attuali, non è né pensabile né auspicabile, non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul fronte anti-droga inteso in senso globale, comprensivo di tutte le droghe", ma neppure "tantomeno, è pensabile spostare risorse all'interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto al traffico delle (letali) droghe "pesanti" al contrasto al traffico di droghe "leggere". In tutta evidenza sarebbe un grottesco controsenso". Ecco: sarebbe un grottesco controsenso. Si darebbe la caccia agli spinelli, anziché perfezionare per esempio l'azione nei confronti di produttori e spacciatori di droghe sintetiche, campo nel quale "la tecnica d'indagine" non è ancora sufficientemente "matura". Tenete poi conto, ci dice ancora la Direzione antimafia guidata da Franco Roberti, di altre due questioni. Da una parte "le ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse disponibili delle forze dell'ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali" e, soprattutto, "di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite" (e qui nulla si aggiunge quanto a introiti che lo Stato potrebbe ricavare con la vendita legale). Dall'altra parte, l'antimafia ricorda opportunamente la "minore deterrenza delle norme penali riguardanti le cosiddette droghe leggere, sancita dalla recente sentenza numero 32/2014 della Corte costituzionale, che sostanzialmente non consentono l'arresto in flagranza". Quest'ultimo particolare aspetto fa prevedere, sempre nella relazione, una diffusione sempre in maggiore crescita delle droghe leggere. E d'altra parte se la Dna è arrivata a chiedere apertamente la depenalizzazione della cannabis (del suo uso privato e, evidentemente, anche della sua commercializzazione) è proprio perché i dati del 2014 sopra ricordati corrispondono addirittura al 120% di quelli del 2013. Cioè, nel nostro Paese, in un anno appena, la quantità di hashish e marijuana che c'è in giro è assai più che raddoppiata. Si tratto ormai di "un fenomeno oramai endemico, capillare e sviluppato ovunque, non dissimile, quanto a radicamento e diffusione sociale, a quello del consumo di tabacco ed alcool". La conclusione del documento difficilmente avrebbe potuto essere più chiara: "Spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo, in quanto parliamo di un mercato oramai unitario anche nel settore degli stupefacenti) sia opportuna una depenalizzazione della materia". Ma a questo punto, come si fa ad avere ancora dubbi? Giustizia: ora sull'anticorruzione un traguardo accettabile, per non fermarsi agli annunci di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 marzo 2015 Se per le nuove norme anticorruzione non si arriverà a un traguardo con soluzioni accettabili, vorrà dire che la propaganda ha avuto la meglio sui fatti. Tra tanti annunci e promesse di riforme, le nuove norme anticorruzione possono diventare il banco di prova decisivo per la credibilità di Matteo Renzi e del suo governo. Perché quasi ogni giorno arrivano notizie di episodi e indagini che dimostrano come il fenomeno sia lungi dall'essere sconfitto, e occorre intervenire con urgente efficacia; ma anche perché la "questione giustizia" è la più complicata da affrontare per una maggioranza di centro-sinistra-destra in cui convivono componenti che su questo tema, durante il ventennio berlusconiano, se le sono date di santa ragione. Continua ad essere questo il principale ostacolo per procedere spediti e arrivare a soluzioni logiche e razionali, come traspare dal dibattito sulle riforme della prescrizione e del falso in bilancio che ha prodotto nuove spaccature tra le forze politiche che sostengono l'esecutivo. Sulla prescrizione, il voto su cui il Pd s'è diviso dai centristi e dal partito di Alfano ha più che raddoppiato i tempi utili a celebrare un processo per corruzione, rispetto a quelli attuali che troppo spesso garantiscono l'impunità grazie un verdetto fuori tempo massimo. Provocando le proteste del centrodestra (di governo e di opposizione) per il rischio di "processi infiniti". Ma i procedimenti per corruzione sono diversi da quelli per altri reati che vengono alla luce appena commessi (come l'omicidio o un furto); di norma le indagini vengono avviate a mesi o anni di distanza dai fatti, se e quando il presunto illecito si scopre per vie traverse. Per questo i tempi normalmente concessi per giudicare non sono quasi mai sufficienti. Di qui l'idea di una "specificità" che richiede norme ad hoc, come ha detto il ministro Orlando, che però ha fatto riemergere le vecchie divisioni e provocato la spaccatura. Ora si annuncia un accordo vicinissimo (l'ha detto Alfano dopo un colloquio con la collega Boschi) ma di accordi fatti se ne sono sentiti molti e visti pochi. La versione votata l'altro giorno dalla Camera da un pezzo di maggioranza e sostenuta da un pezzo di opposizione porta la prescrizione per quei reati intorno ai 18 anni (a seconda dei calcoli), che rispetto agli attuali sette e mezzo sono un bel balzo in avanti. Se l'accordo dovesse contemplare il taglio di un paio d'anni, quel balzo resterebbe e non sarebbe uno scandalo; se invece si dovesse tornare ancora più indietro, significherebbe perdere l'ennesima occasione. Discorso analogo vale per la riforma del falso in bilancio, dove pure siamo già alla seconda o terza "svolta" annunciata, ma il testo scritto e definitivo ancora non c'è. Pare che debba essere svelato la prossima settimana e non dovrebbe contenere quelle soglie di non punibilità (inizialmente previste al 5% del valore dei bilanci) fortemente volute dal centrodestra e sostenute dai ministeri che si occupano di economia. Soglie pericolose, perché garantirebbero una quota di "falsi impuniti" dietro i quali si può nascondere la malapianta dei fondi neri, necessari a pagare il racket e la corruzione. Governo e maggioranza (non si sa ancora se e quanto compatta) avrebbero trovato la soluzione di una pena ridotta per i fatti di "lieve entità", da valutare anche in base alle dimensioni dell'azienda e altri parametri. Il che consentirebbe di accedere alla non punibilità per l'irrilevanza del fatto, quando entrerà in vigore quest'altra riforma, messa in calendario dal consiglio dei ministri la prossima settimana. Ma non ci saranno automatismi, la decisione spetterà sempre al giudice, ed è questo che più preoccupa qualche forza politica e imprenditoriale. Il che fa immaginare, pure in questo caso, un non semplice percorso a ostacoli. E comunque resterebbero molte altre cose da fare, a cominciare dalle norme premiali per corrotti e corruttori che decidessero di rompere il patto di omertà e denunciare i fatti agli inquirenti. Il ministro Guardasigilli si mostra fiducioso, sulla scia dell'ottimismo del premier. Ma entrambi devono essere consapevoli che se non si arriverà al traguardo con soluzioni accettabili, si potrà lecitamente sostenere che su un tema decisivo come l'anticorruzione, la propaganda avrà avuto la meglio sui fatti. Giustizia: strategie difensive indebolite sulla prescrizione di Antonio Ciccia Italia Oggi, 6 marzo 2015 Il disegno di legge licenziato dalla Commissione Giustizia della Camera di riforma della prescrizione neutralizza il tempo per le perizie e per la ricusazione del giudice e anche per le rogatorie. Si tratta di tempi morti e il ragionamento è che del periodo di attesa non se ne deve avvantaggiare l'imputato. Il disegno di legge fissa, però, l'inizio e la fine del periodo di sospensione per ciascun caso, anche se non lascia l'imputato in balia di decisioni altrui. Per ogni periodo di sospensione si fissa, infatti, un termine massimo. Per le rogatorie all'estero il tempo della prescrizione si ferma dal provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l'autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria. Per le perizie la sospensione del termine di prescrizione opera solo per quelle che comportano pareri di particolare complessità. Su questo punto potranno scatenarsi battaglie processuale, perché può essere incerto il grado di complessità del parere. D'altra parte la legge non fissa i parametri per valutare la complessità della perizia (numero quesiti, particolare difficoltà del quesito, o altro). Questo implica che è fortemente in dubbio la predeterminazione del termine necessario a prescrivere, e questo contraddice l'esigenza di calcolo certo del momento in cui si estingue la pretesa punitiva dello stato. Si consideri, infatti, che è rimessa alla discrezionalità del giudice la decisione se ammettere o meno una perizia, ma anche la valutazione della sua complessità ai fini del calcolo della prescrizione. La legge fissa termine iniziale e termine finale della sospensione: si va dal provvedimento di affidamento dell'incarico sino al deposito della perizia e comunque per un tempo non superiore a tre mesi. Va anche aggiunto, però, che il termine di tre mesi non è congruo rispetto al parametro della particolare complessità. Se la perizia è particolarmente complessa gli accertamenti peritali possono trascinarsi ben oltre il trimestre. Altro caso di nuova sospensione è rappresentato dalla presentazione di dichiarazione di ricusazione del giudice ai sensi dell'articolo 38 del codice di procedura penale. Qui siamo di fronte alla iniziativa della difesa l'imparzialità dell'organo giudicante. Al fine di scongiurare azioni strumentali, la prescrizione risulterà sospesa dalla data della presentazione della stessa fino a quella della comunicazione al giudice procedente del provvedimento che dichiara l'inammissibilità della medesima. Del tutto originale è, poi, il nuovo istituto che neutralizza un certo periodo di tempo a partire dalla sentenza di condanna tra i vari gradi di giudizio. Quindi l'avvenuta condanna allungai termini di prescrizione tra i vari gradi di giudizio: in sostanza vi è motivo di ritenere che la pretesa punitiva sia fiondata e non si vuole dare al condannato motivo per sfruttare lungaggini processuali. Tra il primo e il secondo grado di giudizio la prescrizione si accantona per un biennio, mentre tra appello e sentenza definitiva la sospensione dura un anno. Se però la condanna non viene confermata i periodi di sospensione ritornano a essere conteggiati ai fini della prescrizione: la legge dice, infatti, che i periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computai ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha assolto l'imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all'accertamento di responsabilità. Altro profilo rilevante della legge è l'aumento del termine di prescrizione dei reati di corruzione. Si prenda per esempio la corruzione per atti di ufficio. Si prevede l'incremento della metà del termine di prescrizione, che passa da sei a nove anni. Inoltre con le sospensioni previste, a partire da quelle descritte in caso di condanna il periodo si allunga ulteriormente. Giustizia: processo su trattativa Stato-mafia. Cirignotta "Sul Dap comandava Di Maggio" di Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2015 Un ex funzionario spiega il ruolo dell'uomo voluto da Scalfaro. Adalberto Capriotti era un'animella, non contava nulla. A comandare era Di Maggio". Parola di Salvatore Cirignotta, nel 1994 dirigente dell'ufficio detenuti del Dap, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, oggi manager della Asp di Palermo, che ieri ha deposto nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Rispondendo alle domande del pm Nino di Matteo, il manager ha confermato in aula che a volere Di Maggio nel ruolo di vice-direttore del Dap era stato nel 1993 l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro: "Di Maggio lo diceva apertamente: mi devono sopportare - ha spiegato Cirignotta - perché sono stato messo qui da Scalfaro e per tutti i sette anni del suo mandato non mi possono fare niente". Il testimone ha poi parlato della fuga di Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, evaso dal carcere di Padova nel 1994. Sottolineando i rapporti stretti tra Di Maggio e il colonnello Enrico Ragosa, che proveniva dai servizi segreti e poi divenne responsabile della segreteria di sicurezza del Dap, ha detto: "Ragosa mi chiese il fascicolo di Maniero. È una mia congettura, ma penso che i servizi potrebbero avere contribuito all'evasione". Recentemente rinviato a giudizio per una fornitura milionaria di pannoloni alla Asp di Palermo, Cirignotta ha infine raccontato che Di Maggio a Roma "abitava nella stessa casa del colonnello Umberto Bonaventura", in servizio al Sismi, e che quest'ultimo gli era stato presentato come "un collaboratore del generale Mori". Dulcis in fundo: "Dopo l'inchiesta Mani Pulite, Scalfaro e il capo della Polizia Parisi erano convinti della necessità di far entrare il Viminale nell'amministrazione delle carceri, a tutela della classe politica. La gestione dei pentiti era considerata importante, c'era un interesse a tenerli sotto controllo per quello che potevano dire dei politici. Nicolò Amato, l'ex capo del Dap, non avrebbe mai acconsentito ad una cosa del genere". Poi il manager ha ritenuto di precisare: "Sto parlando di sensazioni". Il pm Di Matteo, infine, ha chiesto di citare in aula i pentiti Vito Galatolo e Carmelo D'Amico. Giustizia: processo per irregolarità in appalti Dap, cadono accuse a ex direttore Ragosa Askanews, 6 marzo 2015 Non fu commesso alcun reato di turbativa d'asta o abuso d'ufficio nel centro amministrativo Giuseppe Altavista del Dap, all'epoca in cui Enrico Ragosa era direttore generale risorse materiali, beni e servizi del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il Gup del tribunale di Roma, Maria Grazia Giammarinaro, in particolare, ha fatto cadere tutte le contestazioni. Nei confronti di Ragosa, assistito dall'avvocato Marco Franco, è stato dichiarata una sentenza di non luogo a procedere "perché il fatto non sussiste", come sottolinea il suo difensore che si dice "soddisfatto per la decisione odierna, ma dispiaciuto nel dover constatare che si è dovuti arrivare fino all'udienza preliminare, quando c'erano a nostro parere tutti gli elementi per una sollecita archiviazione". Il caso che ha coinvolto Ragosa, chiamava in causa anche altri tre funzionari del Dap ed un imprenditore. In particolare, in base alla ricostruzione del pubblico ministero, si faceva riferimento all'acquisto di apparecchi radio da collocare sulle auto di servizio. Dopo una ispezione ministeriale erano state riscontrate alcune improprietà e di lì era stata avviata in breve una indagine. Ragosa è stato una vita nell'antimafia, anche al fianco di Giovanni Falcone. Il generale, carriera di grande merito nell'esercito, vanta un curriculum di tutto rispetto. Dopo gli incarichi al Sismi c'è stato il lavoro nel settore delle carceri e la fondazione del Gom (Gruppo operativo mobile), fiore all'occhiello della penitenziaria. Nel procedimento concluso oggi era stata coinvolta anche Claudia Greco, la donna che per oltre trent'anni aveva ricoperto il ruolo di direttrice del centro Altavista. Anche per lei è stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Giustizia: il teatro-carcere torna protagonista per la giornata nazionale a fine marzo Adnkronos, 6 marzo 2015 Al via, il 27 marzo 2015, la seconda Giornata nazionale del teatro in carcere. L'iniziativa, istituita solo lo scorso anno, si celebra in concomitanza con la 53a Giornata mondiale del Teatro (World Theatre Day) indetta dall'Istituto Internazionale del Teatro presso la sede Unesco di Parigi. Nei primi giorni di marzo sarà reso noto il nome della personalità alla quale la Comunità internazionale del Teatro affiderà la composizione del messaggio per il World Theatre Day che sarà, come di consueto, tradotto in oltre 35 lingue e letto in tutte le sedi nelle quali si svolgeranno le celebrazioni. Alla passata edizione hanno aderito 44 istituti penitenziari con 60 iniziative in 17 regioni italiane: uno scambio tra dentro e fuori che evidenzia l'importanza di costruire ponti tra il carcere e il proprio territorio, utilizzando proprio l'arte del teatro. Quest'anno si prevede un ulteriore incremento delle iniziative e dei contesti coinvolti (il programma sarà costantemente aggiornato sul Sito del Coordinamento nazionale Teatro in carcere (www.teatrocarcere.it). Le attività teatrali costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute: questo è il punto di partenza che ha indotto il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e il Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) a sottoscrivere, il 18 settembre 2013, il protocollo d'intesa per una maggiore promozione del Teatro in Carcere in Italia. L'obiettivo è di realizzare in ogni regione una Scuola di formazione professionale di arti e mestieri collegati al teatro, al cinema, all'arte e alla cultura in generale. Il 23 luglio 2014 il protocollo viene esteso alla partecipazione dell'Università Roma Tre al fine di collaborare in modo non episodico per la promozione di iniziative di studio e ricerca. In funzione di tale intesa sarà celebrata la seconda Giornata nazionale del Teatro in Carcere. Il teatro è presente in oltre cento carceri italiane e non c'è altra nazione al mondo con un'esperienza così diffusa e qualificata sia dal punto di vista artistico che educativo. Giustizia: Mario Rossetti "Credo nella giustizia dei tribunali, non in quella delle carceri" intervista di Vittorio Zincone Sette-Corriere della Sera, 6 marzo 2015 L'ex direttore finanziario di Fastweb, arrestato nel 2010, è stato a San Vittore, Rebibbia e poi ai domiciliari. Assolto in primo grado, ha scritto un libro: "Le celle educano solo a delinquere, costano 3 miliardi all'anno e tanti suicidi". Sei finanzieri che arrivano all'alba, lo ammanettano e portano via pure le catenine d'oro dei figli con incise le dediche dei nonni. Il sequestro di tutti i beni. Anche di quelli della moglie. L'accusa infamante di associazione a delinquere transnazionale. L'immersione nel gorgo kafkiano delle carceri italiane. L'assoluzione, nel silenzio imbarazzato di chi lo aveva sbattuto in prima pagina. Quella di Mario Rossetti, 51 anni, ex direttore finanziario di Fastweb, è una storia da film. Lui ci ha scritto un libro: "Io non avevo l'avvocato" (Mondadori) Rossetti entra a San Vittore il 23 febbraio 2010. È accusato di aver partecipato a un carosello di false fatturazioni milionarie nel caso Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Poi viene trasferito a Rebibbia. Si fa otto mesi di domiciliari, il 17 ottobre 2013 arriva la sentenza di primo grado: assolto. L'intervista si svolge nella sua casa meneghina. Il terrazzo si affaccia (beffardamente?) sulla sede del Tribunale di Milano, il manager legge e traduce la frase di Cicerone incisa sulla facciata: "Sumus ad iustitiam nati... Siamo chiamati alla giustizia sin da quando siamo nati...". Sorride amaro. Appena ci sediamo confesso: "Di lei e di Silvio Scaglia, l'ex amministratore delegato di Fastweb, anche lui accusato, incarcerato e poi assolto, ho sempre pensato: se sono finiti in prigione un motivo ci sarà". Replica: "In Italia sembra naturale diffidare di chi ha successo professionale. E ipotizzare che uno possa essere bravo e innocente è troppo banale". Io: "È difficile immaginare che nel 2015 si possa finire nelle patrie galere senza aver fatto nulla e senza aver nulla da rimproverarsi". Lui: "Se così non fosse non avrei avuto il coraggio di scrivere questo libro". Chiedo: "Non lo ha scritto per influenzare il processo d'appello?". Risponde: "No. Gli avvocati me lo hanno addirittura sconsigliato. L'ho scritto per tre motivi: i miei figli, l'utilizzo violento della custodia cautelare e l'inutilità del carcere". Partiamo dalla custodia cautelare. "Io sono figlio di un carabiniere. Credo nella giustizia e ho avuto giustizia in un'aula di tribunale. Ma perché in Italia si nega così facilmente la libertà a un indagato? Se anche fossi stato colpevole io non avrei potuto reiterare il reato né inquinare le prove perché nel 2010 avevo lasciato il mio ruolo operativo in Fastweb da 5 anni. E non c'era nessun pericolo di fuga. Sa qual è la verità?". Quale? "Gli stessi magistrati hanno talmente poca fiducia nel sistema giudiziario che intanto ti fanno scontare la pena preventivamente. Mentre parliamo ci sono circa diecimila persone in carcere senza aver subito neanche il processo di primo grado. Nel mio caso c'è stato anche lo sputtanamento mediatico gratuito, che ha avuto un ruolo importante nel procedimento". Perché? "Inserire tra gli accusati i vertici di una società telefonica ha dato visibilità a un'inchiesta che altrimenti sarebbe stata una semplice storiacela di malavita". Mentre era in carcere ha mai pensato di confessare qualcosa pur di uscire? "Se avessi avuto qualcosa da confessare lo avrei fatto dopo 30 secondi. I pm mi hanno accusato seguendo il principio per cui una persona con la mia competenza non poteva non capire che era in corso una truffa miliardaria con la complicità di due dipendenti Fastweb". Lei crede nella giustizia, ma non ama i pm. Le piace la "riforma Orlando" che prevede la responsabilità civile dei magistrati? "Mi pare che vada nella giusta direzione. Se un chirurgo perde sotto i ferri cinque pazienti il sesto lo si fa curare a qualcun altro. Se su dieci persone che un pm sbatte in galera poi nove risultano innocenti gli si può consigliare di fare un altro mestiere? Lo sa ogni anno quante persone finiscono in carcere e poi risultano innocenti?". No. "Nemmeno io. Ho chiesto il dato a ministeri, tribunali, giornali, radio... Ma niente. È un mistero. Le pare normale? Ecco, senza modificare le prerogative dei pm e magari affidandone a loro la gestione, sarebbe bello che nei nostri tribunali ci fosse più trasparenza e accountability". E carcere. "Non rieduca. Educa... a delinquere. Sono uscito con una cultura approfondita sullo spaccio e le rapine". Non esageri. "Bisognerebbe fare una riflessione seria e culturalmente alta su che cosa vogliamo che sia il carcere in Italia. Invece gli unici a parlarne sono i radicali". Lei si è fatto un'idea? "So che non dovrebbe essere come è. In questo momento ci sono circa 50 mila persone che poltriscono dentro strutture antiquate e inadeguate a qualsiasi intento rieducativo. Il sistema carcerario costa circa 3 miliardi di euro all'anno. Tre miliardi per mantenere luoghi in cui ci si animala e si muore. L'anno scorso ci sono stati 43 suicidi tra i detenuti e una dozzina tra le guardie carcerarie. Lì dentro si vive nell'illegalità e nel disagio". Il suo disagio. "Oltre alla claustrofobia di cui nessuno ha tenuto conto? L'impossibilità di provvedere alla tranquillità della mia famiglia, dei miei figli. Al momento dell'arresto erano troppo piccoli per capire che cosa stesse succedendo, ma abbastanza grandi da ricordarsi il padre in manette. La violenza principale i pm l'hanno usata contro di loro, E contro mia moglie Sophie, lasciata con tre figli senza i soldi per pagare le bollette". I magistrati pensavano che i suoi beni fossero frutto di illeciti. "Neanche i figli minorenni di Totò Riina andrebbero lasciati senza i soldi per mangiare e sopravvivere". Dopo il carcere e gli arresti domiciliari lei ha ripreso a lavorare? "Sì, faccio soprattutto consulenze. Quando ho lasciato Fastweb, nel 2005, mi sono iscritto a un master triennale per imprenditori ad Harvard. Ogni volta che tornavo in Italia pensavo con tristezza alle differenze tra il modo di fare business negli Stati Uniti e in Italia. Se potessi vorrei spiegare ai pm che mi hanno fatto arrestare che cosa vuol dire fare impresa nel nostro Paese". A cena col nemico? "Con Piero Grasso". Il presidente del Senato? "Sì. Nel 2010 era procuratore nazionale antimafia. Il giorno del mio arresto commentò soddisfatto che quello che emergeva dalle indagini era una "strage di legalità". Ora, un magistrato non può e non deve scusarsi, ma la seconda carica dello Stato, forse qualche parola sul nostro caso potrebbe spenderla". Nel suo libro lei racconta che al momento dell'arresto chiamò Lucio, un amico avvocato. Perché allora ha intitolato il volume "Io non avevo l'avvocato?". "Il titolo me l'ha suggerito l'attore Antonio Albanese, a cui una sera ho raccontato la mia storia. Il senso è che non essendo io un delinquente al momento dell'arresto non avevo un avvocato pronto a intervenire. Chiamai Lucio perché con lui corro spesso all'alba e ho immaginato che fosse sveglio". Corre ancora? "Quattro volte a settimana. Con un gruppo di amici. Ci chiamiamo i Turbolenti. La corsa è uno dei segreti della mia sopravvivenza". Il suo libro diventerà un film? "Non lo so. Non credo". Il suo film preferito? "Dovrei dire Train de vie perché è il film mio e di mia moglie. Ma ho amato molto anche La versione di Barney". La trasmissione tv? "Master Chef è un must per i miei figli. Lo vedo con loro". La musica? "The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd". Il libro? "La linea d'ombra di Joseph Conrad". Ha letto molto in carcere? "Sì, ma cose leggere, soprattutto gialli, Camilleri...". Pensavo che mi dicesse che ha studiato a memoria "Il conte di Montecristo": storia di una carcerazione ingiusta e di una vendetta feroce. "Non credo che la vendetta ti possa restituire nulla. E mi creda quando le dico che non ho scritto il libro per un interesse personale. L'ho scritto per chi non può reagire. Io, a differenza di migliaia di persone che subiscono ingiustizie, ho la fortuna di avere una voce e, paradossalmente, ho avuto la fortuna di essere stato costretto dalla sfortuna ad andare oltre". La fortuna della sfortuna? "È un paradosso. La sfortuna è stata la malattia che si è portata via il mio figlio più piccolo, Leone, nel febbraio 2014. Aveva cinque anni. Da quel momento la prospettiva della mia vita è cambiata. E i miei guai giudiziari sono andati sullo sfondo". Lettere: ma il carcere forma o deforma? dipende da noi di Gemma Brandi (Psichiatra psicoanalista) Corriere Fiorentino, 6 marzo 2015 Caro direttore, lo sprezzante cinismo e l'arrogante superficialità con cui degli operatori penitenziari hanno commentato il suicidio di un recluso sono stati in grado, per antitesi, di portare a galla il ricordo di un giovane agente di Polizia Penitenziaria calabrese che conobbi negli anni Ottanta: Spallato, di nome ma non di fatto, era un ragazzo fermo e gentile. Intanto perché parlo di cinismo. La sofferenza, intima o esportata all'esterno, giustifica il lavoro di chi opera nei settori sanitario, sociale, giudiziario, della sicurezza e dunque meriterebbe il rispetto che si porta a ciò che si fa, per quanto complesso sia affrontarla. Il cinico - letteralmente colui che vive come un cane - avendo pagato in anticipo, si sente autorizzato a compiere malefatte senza sperimentare colpa. Se la sua anestesia etica non si concilia con il compito di rispondere al dolore, il degrado imboccato dalle carceri italiane - e a girare dalle altre istituzioni: scuola, strade, sanità, giustizia - corrobora tendenze ciniche strutturali grazie al diffuso, persistente, gratuito supplizio che accomuna agenti e reclusi trasformando la pena in punizione e il lavoro in tormento, e alimentando una profonda certezza creditoria. Questo non giustifica gli atteggiamenti sotto accusa, ma li rende meno inspiegabili e ammette la prevenzione di gesti degenerati grazie a una ritrovata sollecitudine per il grido di aiuto che si leva dal carcere, e non solo oltre le sbarre. È che il crimine sembra avere poco a che fare con il bello comunemente inteso, specie a chi, dotato di mediocre sensibilità artistica, evoca scontate bellezze, ma non avverte l'incanto delle vicende umane, la magnanimità creativa della sofferenza, l'ispirazione artistica della trasgressione che pure riempie le pagine della letteratura e del cinema. Tali forme nascoste del bello spingono una diciottenne newyorkese di oggi a definire, non importa quanto consapevolmente, il carcere cool, come sanno bene i fratelli Taviani. E ora un breve accenno alla superficialità. Gli osceni commenti sulla morte di un romeno imprigionato suscitano la pressoché unanime condanna. La sottovalutazione del rischio di diffonderli è prova di superficialità, forse facilitata da un uso poco critico della rete, quindi del "vizio supremo", stando all'Oscar Wilde di De profundis, il testo che scrisse da detenuto, auto accusandosi di superficialità appunto. Per agire con autorevolezza servono pensiero e convinzione: né l'uno, né l'altra si colgono nelle macabre frasi in oggetto. Veniamo infine a Spallato. Non ricordo il nome proprio del giovane agente dagli occhi azzurri, un Gran Normanno "gettato" ventenne a lavorare in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ero allora una psichiatra di poco più adulta. Osservai che, quando nella sezione montava di servizio lui, il luogo era tranquillo, contrariamente al solito. Lo interrogai su tale disparità, ottenendo questa spiegazione: "Ho fatto un esperimento, se non rispondo alle domande degli internati e non sono garbato e disponibile nei loro confronti, smonto dal turno stanchissimo. Se invece presto attenzione alle loro richieste e faccio il possibile, non l'impossibile badi, per soddisfarne i bisogni, torno in caserma riposatissimo". Chiamai questo "il metodo Spallato", il metodo che consiste nel lavorare meglio per lavorare meno. Quel giovane aveva scoperto da solo la condotta che pagava con i malati di mente, e direi con gli uomini in genere: una forma di rispetto gentile per l'altro, per umile e fastidiosa che appaia la sua condizione, senza strafare. Il carcere forma o deforma. Di Spallato non ho avuto più notizia. Talvolta mi domando dove sia oggi, dove lavori, dove applichi e se applichi ancora il suo metodo. Certo il suo cuore non era cinico e voglio sperare che il carcere lo abbia ulteriormente formato, come ha fatto e potrebbe fare con molti operatori penitenziari e in tal caso anche con molti detenuti. Lazio: Angiolo Marroni (Garante detenuti) "i direttori sono prigionieri della burocrazia" di Giancarlo Capozzoli www.huffingtonpost.it, 6 marzo 2015 Dopo dieci anni come Garante dei diritti dei detenuti, uno fra i primi ad essere nominato nel 2005, da qualche giorno l'avvocato Angiolo Marroni è in procinto di liberare gli uffici all'Eur, della regione Lazio, destinati al Garante dei detenuti. Lo abbiamo incontrato per discutere con lui di quanto sia cambiata, in meglio e in peggio, la situazione dei detenuti, non solo nel Lazio, ma in tutta Italia. "Intanto le dico che non vado in pensione. Stiamo mettendo su una Associazione a favore dei detenuti, si chiamerà "Art. 27", come l'articolo della Costituzione che riguarda la funzione della pena". Avvocato Marroni, come è oggi la situazione dei detenuti in Italia? "Rispetto a dieci anni fa, posso affermare con assoluta certezza, che la situazione è nettamente migliorata". In che termini? "Innanzitutto il problema principale della situazione carceraria, come ben sa, è il sovraffollamento. Rispetto a dieci anni fa, anche da questo primo punto fondamentale la situazione è decisamente migliorata. Oggi in Italia i detenuti sono circa cinquantaquattromila. Nel Lazio cinquemila e settecento due. Questo è potuto accadere grazie alla possibilità concreta di attuare misure alternative alla carcerazione". La ascolto, continui. "Non solo sotto questo aspetto la situazione è cambiata in meglio. Ma anche rispetto alle stesse condizioni interne. Voglio dire che, nei quattordici istituti di pena presenti nel Lazio, ad esempio, non si sono verificati, se non raramente, episodi di violenza sui detenuti. Tutto questo avviene ed è avvenuto in questi anni, grazie anche ad una consapevolezza della polizia penitenziaria stessa, che, ora, è più attenta anche ai diritti dei detenuti stessi". In generale possiamo dire, quindi, che c'è stata, anche grazie alla istituzione della figura del Garante dei detenuti, una maggiore attenzione alla condizione e ai diritti dei detenuti. "Sì certo. In questi anni molto si è fatto in vista di un trattamento realmente educativo e socializzante dei detenuti stessi. Nonostante tutto, però, non bisogna dimenticare che il problema di fondo rimane. C'è stato un miglioramento, non una risoluzione del problema. Il numero, tanto per fare un esempio, di educatori e psicologi per i detenuti, è sempre minore a fronte della richiesta". Tra i diritti fondamentali della persona umana, e quindi anche della persona umana detenuta, c'è il diritto alla salute... "Certo. E da questo punto di vista, c'è stato un cambiamento di rotta, netto. Il sistema sanitario carcerario non è più affidato all'Amministrazione penitenziaria, ma alle Asl di riferimento. Voglio dire che il cittadino detenuto è a tutti gli effetti un cittadino affidato alle Asl di competenza di quel territorio in cui è detenuto". Mi sembra un cambiamento davvero rivoluzionario. "In parte lo è davvero. Abbiamo portato avanti questa battaglia in questi anni fino a stabilire dei protocolli di intesa con le Asl. Abbiamo ottenuto le Carte dei servizi sanitari, appunto". Un altro diritto fondamentale è il diritto al lavoro... "Sì certo. In parte, posso affermare che molti detenuti lavorano già all'interno degli istituti di pena. Ad esempio, la manutenzione ordinaria del carcere stesso, la distribuzione del cibo, la preparazione in cucina, le pulizie degli ambienti, quasi tutte le manutenzioni ordinarie sono affidate e svolte dai detenuti stessi. Ma il problema vero riguarda la possibilità reale per un detenuto di trovare un lavoro fuori, una volta che finisce di scontare la pena, o anche con l'art. 21 dell'ordinamento penitenziario". Le cooperative sociali.... giusto? "Guardi, questo è un punto fondamentale. Le cooperative sociali sono state e sono ancora una conquista in vista del reintegro sociale degli ex detenuti. La cronaca attuale purtroppo ci ha spinti indietro di anni". Si riferisce alla inchiesta Mafia Capitale.... "Sì.... voglio solo dire che ci sono attualmente millequattrocento detenuti impiegati nella cooperativa 29 giugno, che devono essere tutelati, ora. Inoltre ad oggi, in seguito a quanto emerso finora dalle indagini, non si vuole più affidare lavori alle cooperative sociali, nonostante il sistema abbia funzionato a dovere". Lei ha portato ad esempio Buzzi e la sua cooperativa sociale. Si è fatto una idea? "Naturalmente no, non ci eravamo accorti di nulla. Voglio solo dirle che, a mio avviso, parlare di Mafia, è servito per poter utilizzare una procedura investigativa, diversa. Più aspra, anche". Torniamo ai detenuti comuni.... e ai loro problemi. Dicevamo del diritto al lavoro... "Guardi: il 15% dei detenuti lavora oggi, alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria. Questo implicherebbe, secondo i dettami della Costituzione stessa, uno stipendio ordinario garantito. E invece ci si appoggia poi a contrattazioni semplici. Questo perché l'Amministrazione penitenziaria stessa ha pochi soldi da investire in questo, e in generale, ed inoltre la maggior parte del lavoro manutenutario ordinario è, nella quotidianità, diviso per molti detenuti per poche ore al giorno". Si vuole dare, vuole dire, la possibilità che molti lavorino, e di conseguenza occupino il proprio tempo, naturalmente dividendo il poco stipendio in tanti. "Sì esatto. Una precarietà costretta diciamo. Nonostante tutto però si deve anche riflettere sui passi in avanti fatti in questi anni. Rispetto, ad esempio, alla formazione professionale che ha registrato davvero dei balzi in avanti grazie soprattutto ad Enti di formazione come l'Enaip delle Acli, ma non solo". Sì anche io ho notato la quantità di corsi di formazione professionale attualmente a Rebibbia... "Sì... ma anche questo obiettivo sta registrando, per il motivo a cui facevo prima riferimento, un certo rallentamento". Mi sembra di poter affermare con una certa sicurezza che uno dei problemi principali dei detenuti, sia l'analfabetismo. Quanto è davvero un problema, attualmente? "Guardi, che il carcere sia pieno di uomini, ragazzi che sanno a stento leggere e scrivere è chiaro. Ed è un grosso problema. Però posso affermare che in questi anni anche in questo ambito c'è da registrare un certo miglioramento. Pensi che attualmente sono centoquaranta i detenuti che seguono i corsi universitari. Abbiamo creato un vero e proprio polo universitario in collaborazione con le Università di Tor Vergata, della Tuscia, La Sapienza. Il numero dei detenuti laureati aumenta, alcuni anche detenuti dell' Alta Sicurezza. Uno studente-detenuto, Giulio Silvano, si è laureato in Giurisprudenza ad esempio e parlo di una laurea magistrale a Roma 3". Sì, mi sembra un buon risultato. Considerando poi che molti appunto partono da condizioni drammatiche di alfabetizzazione. "Ci sono le scuole per tutti i livelli. Ed ora anche il polo universitario. Si sta tentando di rendere il carcere un luogo meno violento di quello che è ed è sempre stato". Violenza... Credo sia la parola giusta... "La violenza c'è, è un luogo deputato alla violenza... direi... eppure il rapporto stesso tra detenuti e polizia penitenziaria sta migliorando". Possiamo dire che l'istituzione di figure mediatrici come gli educatori o gli psicologi ha mitigato questa violenza tra guardie e detenuti anche? "Sì sicuramente. Ma il numero degli educatori e degli psicologi è risibile e inadeguato. Una figura molto importante istituita in questi anni e molto richiesta dagli amministratori penitenziari è quella degli intermediatori culturali. Si abbattono le barriere, culturali e linguistiche, soprattutto per i detenuti stranieri". Secondo Lei, cosa si è ottenuto maggiormente in questi dieci anni? "Che il carcere sia diventato un luogo aperto. Aperto a noi, esterni, osservatori e garanti. Aperto alle istituzioni. Questo ha portato ad una rasserenamento generale dell'ambiente. Certo il problema, la carcerazione, resta. Ma c'è un miglioramento dei rapporti detenuti-guardie che condividono davvero lo stesso spazio. Io stesso ho tenuto dei corsi agli uomini della polizia penitenziaria, e posso dirle che dopo una certa diffidenza iniziale, si è potuto registrare un netto miglioramento delle relazioni". Il sistema penitenziario sembra sempre in emergenza... "I soldi sono pochi. La burocrazia pesante. Voglio dire: i direttori sono prigionieri della burocrazia interna. Accade, è accaduto, che i fondi regionali non si siano potuti spendere". All'inizio ha fatto un cenno veloce al sovraffollamento delle carceri che è costato all'Italia una condanna da parte della Corte europea dei diritti. In che modo si potrebbe ovviare a questo enorme problema? Costruendo nuove carceri? "No assolutamente. La costruzione di nuove carceri non ha senso. Anzi, alcuni andrebbero chiusi. Regina Coeli ad esempio è un carcere anomalo, senza campo sportivo e senza area verde. Il carcere di Latina anche andrebbe chiuso: è un istituto vecchio, e con poco spazio. Credo che ne sia prevista la chiusura". Dalla sua esperienza, si è fatto una idea della composizione della popolazione detenuta? "Poveri. Poveri. E poveri. Meridionali. Molti in attesa di giudizio. Nel Lazio sono mille e ventisei in attesa di giudizio. Se non sbaglio quelli in attesa di un procedimento conclusivo sono circa tremila, solo nel Lazio". Prima faceva riferimento ai quattordici istituti del Lazio... "Sì ma a questi va aggiunto il Cie che è come un istituto di carcerazione. Ora finalmente nel Cie di Ponte Galeria la reclusione può durare al massimo tre mesi. Prima era di diciotto mesi. Si immagina uomini e donne recluse per diciotto mesi senza aver compiuto un vero reato in condizioni estreme? Un vero e proprio carcere con le sbarre, e le pessime condizioni ambientali e sanitarie proprie di un carcere. E senza una vera attività trattamentale. In attesa, semplicemente". L'ozio forzato... In attesa di cosa esattamente? "In attesa di essere rimpatriati intanto. Quando escono, se non rientrano nei paesi di origine, stando alla legge di immigrazione clandestina, tornano in carcere. Questa volta in uno vero. È una situazione disperata e degradante, mi creda. Il Cie poi è situato vicino all'aeroporto di Fiumicino proprio come per agevolarne i rimpatri". Possiamo affermare che oggi in Italia c'è una effettiva tutela dei diritti dei detenuti? "Sì e no. C'è un miglioramento delle condizioni di base. Ma, ad esempio, se la sessualità, come è, è un diritto, allora già questo è un diritto violato... In altri paesi europei, penso alla Spagna, è possibile far incontrare i detenuti con le proprie compagne, mogli... Perché in Italia non si dà questo diritto?". C'è, a suo avviso, un'altra palese violazione del Diritto in Italia, secondo lei? "Sì. Il 41 bis è una palese violazione della Costituzione. Non prevede trattamento, solo pena". Sardegna: carceri Macomer e Iglesias per il Dap sono ancora operative, anche se chiuse Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2015 "Le strutture penitenziarie di Iglesias (Cagliari) e Macomer (Nuoro), benché senza detenuti, risultano ancora operative. Lo si evince dai dati diffusi dal Ministero relativi alla situazione delle carceri al 28 febbraio scorso dove vengono conteggiati, al fine di indicare la capienza regolamentare, sia i posti di "Bonu Trau" (46) sia quelli di "Sa Stoia" (62)". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme" sottolineando che "a fronte di questa disponibilità risultano invece in sofferenza per sovraffollamento ancora tre Istituti". "La Sardegna registra attualmente la presenza di 1.834 detenuti (40 donne e 421 stranieri) con 2.774 posti regolamentari. Tuttavia la distribuzione delle persone private della libertà - viene fatto osservare da Caligaris - risulta disomogenea con una concentrazione negli Istituti di Oristano (285 detenuti, la maggior parte in regime di alta sicurezza, per 266 posti) e di Tempio Pausania (198 per 167) dove per far fronte al sovraffollamento è stato necessario introdurre la terza branda in diverse celle destinate a due persone. In difficoltà anche Lanusei con 40 persone per 34 posti. Mentre la Casa Circondariale di Sassari-Bancali è al limite della capienza (331 detenuti per 363 posti). Un'eccedenza di disponibilità di spazi si registra nelle Colonie Penali (complessivamente tra Mamone, Isili e Is Arenas si tratta di 561 posti) e nella Casa di Reclusione di Alghero (67 detenuti per 158) dove però è in atto un progetto innovativo trattamentale per il reinserimento sociale dei condannati". "Insomma facendo un po' di conti, la Sardegna - conclude la presidente di SDR - non sembra quella felice realtà che il Dipartimento rappresenta con i numeri. È quindi opportuno un approfondimento sulle reali disponibilità e occorre fare chiarezza sul destino delle strutture penitenziarie di Macomer e Iglesias anche perché se come più volte ribadito dal Ministero devono restare chiuse non si comprende perché risultino disponibili 108 posti ormai cancellati" Paliano (Fr): un carcere davvero "speciale"… per i detenuti lavoro, istruzione e cultura Dire, 6 marzo 2015 Nei giorni scorsi il carcere di Paliano (Fr) ha fatto parlare di sè "perché ospita un detenuto con un Fine Pena Mai che, in 20 anni di reclusione, si è laureato per ben tre volte". Ma la storia del plurilaureato - resa nota dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni- può essere considerata "l'emblema di quanto accade all'interno del carcere del frusinate". Il garante spiega che "nella struttura ci sono 59 detenuti che provengono prevalentemente dal meridione d'Italia. Hanno tutti lunghe condanne da scontare ma la stragrande maggioranza di loro ha intrapreso un percorso di revisione critica della propria condotta criminale". Per le caratteristiche climatiche della zona, "la struttura è l'unico sanatorio-convalescenziario dell'Amministrazione penitenziaria; attualmente, 4 detenuti sono in cura per patologie connesse alla Tbc. Tutti i reclusi presenti (sia uomini che donne) lavorano, chi in cucina, chi nella manutenzione del vecchio castello Colonna, altri ancora nelle ristrutturazioni delle celle detentive, tutte in regola con i requisiti europei (bagno in camera e acqua calda)". L'attività trattamentale "prevede che i reclusi seguano la strada lavorativa o istruttiva a seconda delle proprie capacità ed attitudini. Oltre che in cucina, nella pasticceria e in pizzeria, è possibile ad esempio lavorare anche nel piccolo allevamento di animali presente". Ancora, "le attività di formazione professionale sono legate alla falegnameria e al restauro; di recente è stato attivato anche un primo con un corso di iconografia. Per quanto riguarda cultura e istruzione, ci sono una compagnia teatrale e un coro formato da operatori e detenuti". Infine, "la campanella dell'anno scolastico 2014-2015 è suonata anche qui. Oltre alla prima laurea, ci sono stati i primi diplomati in ragioneria, iscritti all'istituto tecnico di Anagni, che hanno deciso di iscriveranno all'università di Cassino". Secondo Angiolo Marroni, "lavoro, istruzione e cultura sono i capisaldi del percorso di recupero sociale di coloro che perdono la propria libertà personale. Colpisce, in alcuni commenti la non comprensione della funzione della pena ai fini del reinserimento sociale di chi ha commesso un reato". Per questo, conclude il Garante, "sotto questo punto di vista, Paliano, con le sue attività, rappresenta sicuramente un esempio di buone pratiche. L'emblema di come, pur fra mille difficoltà, si possa comunque perseguire quella funzione trattamentale prevista dall'articolo 27 della nostra Costituzione". Modena: due detenuti tentano suicidio; uno salvato da agente, il secondo da un compagno Ansa, 6 marzo 2015 Due detenuti stranieri hanno tentato il suicidio, mediante impiccagione, nei giorni scorsi nel carcere di Modena. Uno è stato salvato da un sovrintendente della Polizia penitenziaria che si è accorto che qualcosa non andava nel suo comportamento; l'altro, invece, è stato salvato da un primo intervento del compagno di cella e, subito dopo, dalla polizia penitenziaria e dai medici che ne ha disposto l'invio in ospedale. Lo racconta Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe con Francesco Campobasso, segretario regionale. "Sono sempre tanti gli eventi critici compiuti dai detenuti nelle carceri italiane e Modena non è da meno - ha detto Durante. Ciò dimostra quanto sia necessaria la presenza della polizia penitenziaria nelle sezioni detentive". Firenze: leggere per non sentirsi diversi, progetto della Lila Toscana Onlus per i detenuti di Annalisa Lista www.west-info.eu, 6 marzo 2015 I detenuti hanno il diritto di leggere? Una questione di cui si è occupata la Lila Toscana Onlus, avviando il progetto Leggere è un diritto? nella casa circondariale "Mario Gozzini" di Firenze per promuovere l'avvicinamento dei reclusi alla letteratura. Un ciclo di letture che durerà da marzo a novembre, durante le quali un gruppo di detenuti è chiamato a svolgere una serie di riflessioni su quattro testi di scrittori italiani. Con i quali si incontreranno alla fine di ogni ciclo di appuntamenti. Filo rosso nella scelta dei brani sarà il tema della diversità, come valore in sé ma anche come fonte di stereotipi. Un modo per sentirsi liberi e per diventare consapevoli dell'impegno necessario al reinserimento sociale. I testi scelti per il commento sono: A piedi nudi sulla terra (Mondadori 2011) di Folco Terzani, Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori 2014) di Antonella Cilento, Ogni altra vita, storia di italiani non illustri (Il Saggiatore 2015) di Paolo di Stefano e, per finire, Pugni (Sellerio 2006) di Pietro Grossi. Savona: Sappe; un sospetto caso di tubercolosi si è trasformato in evasione www.savonanews.it, 6 marzo 2015 Acque agitate nel carcere di Savona per un sospetto caso di tubercolosi, patologia alla quale potrebbe essere incorso uno dei 55 reclusi nella casa circondariale di Savona, ma alla fine il ricovero si trasforma in evasione. La pensa bene un detenuto di origine marocchine recluso per reati collegati agli stupefacenti ad evadere dall'ospedale dove era stato ricoverato in quanto si sospettava affetto da tubercolosi, patologia poi rilevatasi infondata. In questa evasione, secondo il parere di Michele Lorenzo segretario del Sappe il maggiore sindacato di categoria dei poliziotti penitenziari, non vi sono responsabilità da imputare a nessuno in quanto il detenuto non aveva obbligo di scorta benché prevista nella fase iniziale del ricovero ospedaliero. il Sappe minimizzare quindi l'episodio ma ci tiene però a soffermarsi sull'aspetto della gestione dei detenuti affetti da patologia infettiva. Non è il primo caso sospetto in Liguria, e per questo sono stati molti i nostri interventi interessando anche l'assessore alla sanità Claudio Montaldo il quale aveva fornito garanzie affinché il personale di Polizia che opera negli istituti liguri potesse essere dotato di idonei strumenti di protezione per arginare e fronteggiare in sicurezza questi casi anche organizzando corsi di formazione. Ma ad oggi, a parte le promesse, non abbiamo visto ancora nulla e la medicina penitenziaria è una prerogativa delle Regioni - continua Lorenzo - casi come quello di Savona devono essere lo spunto per una buona prevenzione a favore del poliziotto che è a diretto contatto con i detenuti anche a tutela della salute degli stessi detenuti. L'istituto di Savona non è dotato di un settore dove poter isolare casi sospetti inoltre non vi è la presenza costante del medico e, benché previsto, non vi sono le dotazioni protettive per trattare patologie infettive e questo non è più tollerabile mentre la Direzione non sembra ponga la giusta considerazione alla tutela della saluta in carcere e che il personale possa essere fornito di idonei strumenti e che i detenuti sospetti da patologie infettive possono essere trattati in sicurezza. Comunque una maggiore attenzione sul caso forse avrebbe impedito il ricovero e, di conseguenza, l'evasione. Ora sono in atto le ricerche anche da parte della Polizia Penitenziaria di Savona. Teramo: Sappe; carcere isolato dopo nevicata, si provveda alla pulizia della strada www.certastampa.it, 6 marzo 2015 La Segreteria Provinciale del Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di categoria, riguardo alla mancata pulizia della neve e del ghiaccio di quest'oggi, del tratto stradale che da Villa Mosca porta all'istituto che ha comportato l'isolamento del carcere da tutto e per tutto con gravissimi disagi al servizio di traduzione dei detenuti e disfunzioni ai servizi d'istituto ponendo a grave rischio d'incolumità il personale di polizia e operatori amministrativi che si sono recati nonostante ciò in servizio per assolvere il proprio dovere e bloccando le visite dei familiari dei detenuti per colloquio, non può non esprime il proprio sdegno. Non si comprende il perché ogni qualvolta nevica, l'unica strada che porta al carcere è sempre l'ultima ad essere pulita eppure, nonostante che, al pari di altre strutture pubbliche, dovrebbe essere tra le prime ad essere presa in considerazione. Come sempre, si spendono sempre belle parole per il pianeta carcere, nei fatti però, rimane sempre nel dimenticatoio di tutte le istituzioni cittadine. Auspichiamo che le autorità competenti, Sindaco Brucchi in primis, Prefetto e Presidente della Provincia si attivino con urgenza in considerazione che l'evento atmosferico continuerà anche per i prossimi giorni. Napoli: coop "Lazzarelle", il Caffè delle detenute di Pozzuoli per gli ospiti dei B&B www.campanianotizie.com, 6 marzo 2015 Che c'è meglio di un buon caffè, se ti risvegli in una casa ospitale della città dai "mille colori", e sorbito come vuole la tradizione napoletana ma anche con un pizzico di solidarietà? L'Abbac, l'associazione dei B&B ed affittacamere della Campania sottoscrive una convenzione con la coop "Lazzarelle" che rende protagoniste con la produzione di caffè, detenute ed ex detenute della casa circondariale femminile di Pozzuoli. "Si tratta di una convenzione a cui teniamo molto, nei nostri bed and breakfast sarà possibile degustare il caffè torrefatto da operatrici che con impegno tentano di garantirsi una nuova opportunità dopo l'esperienza carceraria". L'accordo è in linea con le tematiche di sostenibilità e identità che l'Abbac persegue fin dalla sua costituzione. "Accogliamo ospiti provenienti da ogni parte del mondo e che scoprono la nostra città e lo facciamo con la consapevolezza di garantire un'ospitalità non standardizzata - dichiara Agostino Ingenito. Offrire il caffè prodotto dalle ex detenute è l'occasione per dimostrare che turismo e solidarietà possono e devono trovare maggiore interazione". Hanno preso parte alla conferenza stampa anche alcune operatrici della coop Lazarelle accompagnate dalle referenti, Paola Maisto e Imma Carpiniello. "Siamo felici di questo accordo che premia il progetto di inclusione sociale che abbiamo avviato già dal 2010 nella convinzione che le prigioni non dovrebbero essere un luogo buio e dimenticato ma che è possibile garantire un riscatto sociale". All'incontro hanno preso parte anche il Presidente Federconsumatori Campania, Rosario Stornaiuolo che ha inteso condividere la proposta dell'Abbac di aprire verso una più ampia rete di commercio equo e solidale. Anche per Legambiente Campania, presente con il consigliere Nabil Pulita, è opportuno condividere tali buone prassi in linea con il turismo responsabile ed eco sostenibile. Vasto (Ch): le Pigotte fatte dai detenuti esposte e vendute in piazza Il Centro, 6 marzo 2015 Verranno esposte e vendute domenica prossima, in piazza Rossetti, le Pigotte, le bambole di pezza dell'Unicef, realizzate da alcuni internati della Casa lavoro. Un'iniziativa di alto valore sociale che va di pari passo con il trattamento rieducativo. "L'esperienza, coordinata dal capo area educativa Lucio Di Blasio, rappresenta un altro dei piani strategici degli interventi rieducativi che consentono ai reclusi di avere un ruolo ed una partecipazione attiva, di rimettersi in discussione e soprattutto confrontarsi", si legge in una nota della Casa Lavoro diretta da Massimo Di Rienzo, "impegnarsi per una iniziativa tanto nobile partecipando, quindi, agli obiettivi che il progetto, sin da subito, si era prefissato, è da considerarsi un altro percorso virtuoso e che risponde in pieno alle indicazioni dell' articolo 27 della Carta costituzionale". Le bambole fatte dagli internati verranno esposte in uno stand allestito per l'occasione in piazza Rossetti, domenica dalle 9 alle 18,30. Avellino: anche il carcere di Sant'Angelo dei Lombardi sarà a Milano per l'Expo 2015 www.irpinianews.it, 6 marzo 2015 "Tutti devono entrare all'Expo, ma anche l'Expo deve andare da tutti": è questa la filosofia che ha ispirato il Progetto "Liberi dentro" ideato da Rai Expo, la struttura della Rai creata per raccontare all'Italia e al mondo tutto ciò che gira attorno a "Expo Milano 2015". L'iniziativa intende promuovere alcune esperienze attivate all'interno delle carceri italiane e incentrate sulla produzione di eccellenze agroalimentari e sull'educazione alimentare. In queste realtà, il progetto servirà a testimoniare anche come l'amore e la passione per il cibo possono agevolare il reinserimento nella società di chi nella vita precedente ha sbagliato, meritando la giusta punizione. Tra gli istituti carcerari selezionati per l'occasione c'è anche la Casa di Reclusione di Sant'Angelo dei Lombardi dove si producono prodotti di autentica eccellenza, tra i quali un ottimo miele biologico e pregevoli bottiglie di vino tratto da antichi vitigni del territorio; prodotti che hanno già meritato successi e consensi alle diverse rassegne a cui sono stati presentati. Ai giornalisti e ai tecnici di Rai Expo, il direttore del carcere altirpino, Massimiliano Forgione, ha mostrato sia il tenimento agricolo sia il lavoro che compiono i reclusi per produrre quelle eccellenze agroalimentari: un lavoro supportato dall'aiuto ed il concorso della Cooperativa Sociale "Il Germoglio" che ha assunto tutti i detenuti che lavorano nel tenimento agricolo. Una bottiglia del vino prodotto nel carcere santangiolese è stata consegnata di recente anche a Papa Francesco, che ha mostrato molta attenzione al percorso lavorativo che sta dietro l'etichetta emblematica "Frescodigalera", con cui viene commercializzato il prodotto. Di particolare interesse, durante la visita, l'intervento di alcuni ristretti che al microfono della troupe Rai hanno raccontato le loro storie di vita, senza enfatizzare la propria vicenda umana ma ponendo l'accento sull'esperienza che stanno maturando all'interno delle mura del carcere santangiolese. "A questi uomini, che hanno una gran voglia di riscatto, il lavoro è servito e serve sia per prendere coscienza degli errori commessi sia per creare i presupposti per il loro successivo reinserimento nella società", ci tiene a ribadire il direttore del carcere. Un obiettivo assolutamente condiviso dalla struttura di Rai Expo che, con "Liberi dentro", miniserie di sei documentari patrocinata dal Ministero della Giustizia, intende accendere i riflettori sul mondo del lavoro agricolo e delle eccellenze enogastronomiche presenti nelle carceri italiane perché, per assecondare il tema portante dell'Esposizione Universale di Milano 2015. I mini-documentari, prossimamente inseriti e visibili sul portale web di Rai Expo, saranno presentati in una serata dedicata al tema durante Expo 2015 e quindi trasmessi nel palinsesto della Rai, in armonia con la mission di servizio pubblico. Bologna: convegno "La psicologia penitenziaria tra interventi attuali e prospettive future" Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2015 "La psicologia penitenziaria tra interventi attuali e prospettive future" è il titolo del convegno organizzato dagli Ordini degli psicologi dell'Emilia Romagna e del Veneto per sabato 7 marzo a Bologna, in piazza San Domenico 13 (dalle 9 alle 18 al convento di San Domenico). L'incontro intende approfondire il ruolo dello psicologo nel restituire dignità ai detenuti e nel favorirne il reinserimento sociale. Nell'occasione verranno presentate le esperienze condotte in Emilia-Romagna e in Veneto. Interverranno al convegno esperti nazionali del tema, psicologi professionisti, giuristi, docenti e responsabili di strutture sanitarie. Tra i temi trattati: la genitorialità in carcere (ore 10,15), il trattamento dei sex-offenders (ore 15,45), il reinserimento sociale degli ex-detenuti (ore 16,15). Siena: "Ti regalerò un sorriso", Cristicchi canta nel carcere di Santo Spirito Corriere di Siena, 6 marzo 2015 Immaginatevi un mercoledì come tanti, in un piccolo carcere nel cuore di Siena, a due passi dal monumentale ex-manicomio, immaginatevi un cantante famoso che ha vinto Sanremo, un attore che da anni porta in giro spettacoli di teatro-canzone sulla malattia mentale, sulla memoria della seconda guerra mondiale, sull'esodo giuliano, istriano e dalmata del dopoguerra. Ora pensate a un piccolo teatro, ma piccolo davvero, con 50 detenuti, 4 insegnanti, una preside e un direttore; l'artista su un palco quasi improvvisato, senza copione, senza scaletta, con vicino soltanto la sua chitarra. Se vogliamo dirla tutta, questo artista non è nemmeno in vacanza: la sera prima si è esibito a Rapolano Terme con uno spettacolo, questa sera si esibirà (si sta esibendo vista l'ora) a Santa Croce sull'Arno con un altro spettacolo. Per questo evento non ci sono i riflettori dei grandi media né i compensi delle grandi performance. "Chi glielo fa fare?" verrebbe quasi da dire. Allora potreste pensare che in questo piccolo carcere il grande artista passi solo per fare una comparsata veloce, per firmare un po' di autografi e rispondere a qualche domanda dei detenuti... L'artista sul palco invece, dopo una rapida occhiata al pubblico atipico del momento, comincia a raccontare e a raccontarsi. Canta le canzoni che lo hanno reso celebre, alterna racconti sulla prima guerra mondiale a barzellette. Il pubblico (multi-etnico) lo segue, si commuove ai suoi racconti, sorride alle sue battute. L'artista non si risparmia e stabilisce un contatto particolare con gli spettatori. Difficile dire quanto tempo sia durata la "performance", viene da dire "troppo poco", il tempo è volato via veloce. Di certo questa mattinata se la ricorderanno in tanti. Immaginatevi un artista come Cristicchi intonare, accompagnato dalla sola chitarra, "Ti regalerò una rosa" o "I matti de Roma", riportare i momenti più toccanti di "Mio nonno è morto in guerra" o leggere la Relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912, parlare e interloquire con un pubblico di 50 detenuti (poco più o poco meno) visibilmente emozionati... Immaginatevelo soltanto, perché non vedrete mai quanto è accaduto oggi, perché non c'erano né televisioni né giornalisti, non c'erano le grandi autorità della città, del comune o della provincia. È venuto per i detenuti, per parlare e comunicare con loro, per la sua attenzione alla gente che sta dall'altra parte del cancello, per regalare un sorriso, un'emozione, a queste persone che- come i pochi presenti- vi assicuro, non dimenticheranno mai. E se poi verso la fine, la metà dei detenuti ha cantato insieme a Cristicchi un brano di Gigi d'Alessio beh... allora, noi educatori, dobbiamo farci la domanda sul dove abbiamo sbagliato. Ma questa è un'altra storia. Claudio (Insegnante nel carcere) Brasile: si prepara lo scambio di Battisti con Pizzolato, ma "ci vorranno anni" di Giuseppe Bizzarri Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2015 Se il Brasile vuole oggi Henrique Pizzolato, ex direttore marketing del Banco do Brasil, l'Italia desidera l'estradizione di Cesare Battisti, che vive libero a São Paulo. Martedì il giudice federale Adverci Rates Mendes de Abreu ha annullato l'atto di concessione del permesso di soggiorno dato a Battisti e ha ordinato la sua espulsione. Pizzolato deve scontare 12 anni e 7 mesi di prigione per esser stato giudicato dal Supremo tribunale federale come il tesoriere nello schema di corruzione dello scandalo del Mensalão, la tangentopoli brasiliana. Pizzolato è stato condannato nel 2012 assieme ad altri 25 nomi di spicco del Partido dos Trabalhadores, il Pt, il partito di Lula, ma anche della presidente Dilma Rousseff, nell'ambito del processo sullo scandalo di corruzione avvenuto nel primo mandato dell'ex presidente Lula. "Credo vi sia una mera coincidenza con il caso Pizzolato. Non penso che il giudice abbia agito per aprire spazio a uno scambio politico tra lui e Battisti. Ricorreremo e, fino a quando ci sarà un ricorso pendente, non avverrà nessuna notifica giuridica", dichiara al fatto Igor Sant'Anna Tamasauskas, nuovo legale di Battisti, aggiungendo che l'azione giuridica è iniziata nel 2011. Ciò avvalorerebbe la tesi della casualità sostenuta dall'avvocato, il quale aggiunge che il tribunale regionale federale di Brasilia è uno dei più congestionati del Brasile. "Certamente il processo sarà lunghissimo". La sentenza della Cassazione contraddice il patto bilaterale firmato tra Italia e Brasile, i quali hanno il diritto di non estradare propri concittadini. Ormai sono in molti a chiedersi se l'intricata vicenda si risolverà a livello politico. Molti hanno visto nell'arresto di Pizzolato un'opportunità dell'Italia per far pressione su Brasilia nel rivedere la decisione politica presa da Lula. Italia e Brasile pare dunque stiano trattando da mesi una possibile soluzione che, come sostenuto recentemente anche dalla procura della Repubblica a Brasilia, sarà "politica". Il fatto che il giudice federale non faccia riferimento a un'estradizione, bensì a un'espulsione di Battisti, libererebbe la Rousseff da una difficile decisione politica che, seppur remota, potrebbe esser chiamata a prendere sul caso Battisti. Anche nel caso di Pizzolato, dopo l'ok della Cassazione all'estradizione, l'ultima parola spetterà alla politica, precisamente al ministro della Giustizia che per i primi di aprile farà sapere se ordinerà l'estradizione dell'italo-brasiliano. Brasile: non era lì, non sparò… ma di cosa è accusato Cesare Battisti? di Fausto Cerulli Il Garantista, 6 marzo 2015 Battisti fu arrestato la prima volta nel 1979, e condannato a 13 anni di reclusione per l'omicidio del gioielliere Pier Luigi Torreggiani. La sentenza lo ritenne colpevole di aver fatto parte del gruppo che aveva pianificato l'omicidio, anche se l'omicidio fu rivendicato da un altro segmento della "lotta armata" e cioè dai "Nuclei Comunisti per la guerriglia proletaria". Eppure, quando avvenne l'omicidio, Battisti non era presente sul posto. Dopo l'arresto del 1978, furono eseguite perizie sulle sue armi: risultò che non avevano sparato. Si torna a parlare di Cesare Battisti, l'esponente del Pac, Proletari Armati per il Comunismo, condannato a quattro diconsi quattro ergastoli, essendo stato ritenuto autore di diversi omicidi per fini terroristici. E, poiché se ne parla spesso a vanvera, sarà forse non del tutto inutile ripercorrere le sue vicende giudiziarie ed umane con la maggiore oggettività possibile. Battisti fu arrestato la prima volta come terrorista nel 1979, e condannato a 13 anni di reclusione per l'omicidio del gioielliere Pier Luigi Torreggiani. Da notare che risulta appurato come, quando avvenne l'omicidio, Battisti non era presente sul posto. La sentenza lo ritenne colpevole di aver fatto parte del gruppo che aveva pianificato l'omicidio, anche se l'omicidio stesso fu rivendicato pubblicamente da un altro segmento della "lotta armata" e cioè dai "Nuclei Comunisti per la guerriglia proletaria". In ogni caso, dopo l'arresto del 1978, furono eseguite perizie sulle armi detenute da Battisti, e da esse risultò che quelle armi non erano state usate per sparare nel periodo precedente l'arresto. Anche per questo Battisti fu condannato soltanto per il reato di insurrezione e per quello di detenzione illegale di armi. Nel 1981 Battisti riuscì ad evadere dal carcere e si rifugiò a Parigi, per poi trasferirsi in Messico con la compagna e una figlia. In Messico svolse attività del tutto estranee alla mentalità di un omicida, sfornando tra l'altro una rivista pacifista dal titolo "Via libre". Le condanne all'ergastolo gli furono tutte comminate in contumacia, con una prassi estranea ai Paesi comunque fedeli al principio garantista del contraddittorio, e nei quali non è prevista la condanna di un imputato contumace, proprio per l'assenza di contraddittorio. E su questo aspetto, Battisti incontrò l'appoggio di Amnesty International, oltre a quello dei radicali italiani, primi tra tutti Pannella e Sergio D'Elia, fondatore dell'associazione garantista denominata "Nessuno tocchi Caino". Successivamente Battisti tornò a Parigi, forte anche della "dottrina Mitterand" che prevedeva una ampia concezione del diritto di asilo per chi era stato condannato per reati a carattere comunque politico. A Parigi frequentò gli ambienti intellettuali, e pubblicò alcuni libri con l'editore Gallimard. Da uno dei suoi romanzi fu tratto uno spettacolo teatrale interpretato da Pier Giorgio Bellocchio. Passata l'era Mitterand, Battisti fu di nuovo arrestato a Parigi, in forza di un patto intervenuto tra il nostro ministro leghista Castelli e il suo omologo francese Perben che prevedeva l'estradizione per reati gravissimi. Di fronte a questa nuova situazione, Battisti fu costretto a far perdere le proprie tracce, finché non fu di nuovo arrestato in Brasile, nel marzo 2007. Due anni dopo il ministro della Giustizia brasiliano concesse lo status di rifugiato politico a Battisti, motivando il provvedimento con "il fondato timore di persecuzione del Battisti per le sue idee politiche" e per dubbi sulla regolarità dei processi di condanna. Sulla decisione influì anche il fatto che l'ergastolo, cui era stato condannato Battisti, era stato abolito in Brasile, in quanto considerato "trattamento inumano e degradante". Tesi da sempre sostenuta in Italia dai radicali, particolarmente dalla associazione "Nessuno tocchi Caino". La decisione del ministro brasiliano, inizialmente bloccata dal tribunale Suppremo Federale, fu successivamente ratificata dalla Procura Generale della Repubblica, che chiese ed ottenne l'archiviazione de procedimento di estradizione. Una decisione che provocò indignazione nel centrosinistra italiano ed indusse addirittura Napolitano, presidente della Repubblica, a scrivere a Lu-la, presidente del Brasile, una lettera in cui, con poco elegante intromissione nelle decisioni di un altro paese, esprimeva stupore e rammarico. Battisti visse dunque un profondo travaglio psicologico e fisico, a seguito dell'alternarsi di decisioni di diversa natura. Si pensi che nel 2009 il Tribunale Supremo Federale espresse di nuovo parere favorevole all'estradizione. Nel dicembre dell'anno successivo Lula ribadì la propria contrarietà all'estradizione, e questa volta il Tribunale Supremo ratificò la decisione del Presidente. Una girandola di decisioni che avrebbe mandato fuori di senno chiunque; fortunatamente Battisti fu confortato dalla solidarietà di scrittori come Marquez, e di autorevoli intellettuali come Bernard-Henry Levi e Daniel Pennac. Più tiepida la solidarietà da parte italiana, con notevoli eccezioni quali quelle di Erri De Luca, e di 1.500 firme pro Battisti raccolte da un sito Internet. L'ambiguo Roberto Saviano, dopo aver firmato l'appello, ritirò la propria adesione, illuminato sulla via di Damasco dal rispetto per le vittime. Non sarà inutile ricordare che tutte le condanne di Battisti si fondavano sulla testimonianza di un pentito pluriomicida confesso, tale Pietro Mutti. Fu tanto attendibile che quando gli fu chiesto di descrivere il fisico di Battisti, parlò di un uomo alto circa un metro e novanta, mentre Battisti ha una statura che si aggira sul metro e sessanta. Ma Mutti ottenne lo stesso i suoi bravi sconti di pena, mentre Battisti, in base a prove fantasiose di questo tipo, collezionava quattro ergastoli. Proprio come succedeva a Renaro Curcio, che pur essendo detenuto prima che il terrorismo dilagasse, veniva condannato puntualmente all'ergastolo, ogni volta che accadeva un omicidio politico. In base al famigerato e indegno principio della nostra poco degna giustizia che ebbe a coniare il concetto di concorso morale; concetto che avrebbe fatto rivoltare nella tomba Cesare Beccaria. Brasile: intervista a Battisti "se l'Italia non avesse detto tante balle, ora sarei in cella" di Angela Nocioni Il Garantista, 6 marzo 2015 Sul caso di Cesare Battisti, assicura il ministro Orlando, "il ministero ha attivato tutti i canali diplomatici. Aspettiamo di capire le conseguenze di una sentenza che non è definitiva" e di sapere in che Paese sarà espulso ma, promette, "se il provvedimento sarà confermato, auspichiamo che consenta di dar luogo a una richiesta di estradizione, già fatta da tempo". Ma venire a capo della vicenda non sarà facile, e non richiederà tempi brevi: lo status dell'ex Pac è regolato da norme tali, che portano a confliggere potere esecutivo e giudiziario brasiliani. Ripubblichiamo qui di seguito l'intervista che Angela Nocioni ha realizzato in Brasile a casa di Cesare Battisti nell'aprile scorso, che è stata pubblicata dal Garantista il 20 giugno del 2014. Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara. Magro, pallido, all'apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l'ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) - condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente - sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell'estradizione chiesta dall'Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell'allora presidente Lula da Silva. "Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione ", dice Battisti. "Lula non l' ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall'Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall'Italia, mica sono scemi i brasiliani". Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare. Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile? "Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L'Italia da almeno quarant'anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un'idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo". Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero? "Non era un'invenzione. È che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po', volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato". Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. È stata una tua scelta. "Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no". Ti consideri un perseguitato dalla giustizia? "No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l'attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta". Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac? "La considero un'esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo-leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto". È vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l'arresto per rapina? "È un'altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac". Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato? "Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono state condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l'operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all'ergastolo senza prove. Non c'è una prova tecnica contro di me, non c'è un testimone, non c'è niente". E le prove documentali? "Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l'agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno". E perché ti avrebbero coinvolto? "Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della Repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c'è bisogno di fare nomi già noti". Hai mai sparato? "Contro persone no". E a chi sparavi? Agli uccelletti? "Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai". In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente? "Non facevo più parte dell'organizzazione". Ma c'eri o no? "No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo a esserci?". Se ti si garantissero delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia? "Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell'Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l'hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai". Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato. "Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?". Cosa è successo con Alberto Torreggiani? "Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l'ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c'entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato". Da chi? "L'hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all'improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c'entro io con la morte di suo padre". Non c'è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti? "Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente". Francesi o italiane? "Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto". È vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi? "No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente". E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti? "Perché era arrivato il momento, conveniva a qualcuno". Ti eri accorto di essere seguito? "Era evidente, non si sono mai nascosti". Allora perché ti nascondevi tu? "Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti". In carcere in Brasile come sei stato trattato? "Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c'era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito". Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L'allora ministro della giustizia Tarso Genro? "A me una mano non l'ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare". Parli di Lula? "Sì, di Lula e di Genro. L'intenzione di Lula e di Genro all'inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall'Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l'estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Ahó, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l'hanno fatto". Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no? "Genro all'inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l'hanno avuta vinta perché hanno esagerato". Secondo te il governo brasiliano si è indispettito? "Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall'Italia che negli anni Settanta da noi non c'è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, a gente, tra l'altro, che la lotta armata l'ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?". Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile? "Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi. Compresi gli amici tuoi francesi. Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all'inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d'accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato". Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all'ala sinistra del suo partito? "Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c'entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l'hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay". A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi? "Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l'ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?". Tunisia: ministro Giustizia preoccupato per lo stato delle carceri Nova, 6 marzo 2015 Il ministro della Giustizia tunisino, Mohammed Saleh Bin Isa, si dice preoccupato per lo stato delle carceri nel suo paese. Intervistato dalla radio locale "Mosaique Fm", il ministro ha spiegato che "dopo aver fatto visita a diversi centri di detenzione sono preoccupato per lo stato di salute dei detenuti e per le strutture carcerarie". Per questo ritiene che il suo governo "debba spendere di più con interventi materiali precisi per dare maggiore dignità alla vita dei carcerati". India: linciato stupratore detenuto; la folla assalta il carcere, lo cattura e lo pesta a morte Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2015 Una folla inferocita di 4.000 persone è entrata in una prigione dello Stato nord-orientale di Nagaland, ha strappato dalla sua cella un detenuto e lo portato in strada. L'uomo era stato arrestato la settimana scorsa per stupro: lo hanno spogliato e poi ammazzato di botte. Questo episodio è l'ennesima conferma che il fenomeno della violenza sessuale in India è una grave emergenza. La sicurezza della prigione è stata sopraffatta dai manifestanti che hanno divelto due cancelli prima di riversarsi all'interno dell'edificio per impadronirsi di Syed Farid Khan, reo confesso dello stupro il 23 febbraio scorso di una ragazza di 20 anni della etnia Suni Naga. Tutto è avvenuto nel giorno in cui a New Delhi si sono infiammate le polemiche sul documentario realizzato dalla regista britannica Leslee Udwin sulla vicenda della studentessa uccisa da un branco di stupratori nel 2012 a New Delhi. Il documentario intitolato Indiàs Daughter contiene un'intervista-shock all'autista del bus, Mukesh Singh, uno dei responsabili della morte della studentessa. Il governo indiano ne ha proibito la visione ma migliaia di persone lo hanno potuto vedere per varie ore in una versione offerta da You Tube. Il caso sconvolse l'India e obbligò il governo a varare leggi più severe per punire le violenze sessuali. L'uomo, condannato a morte per l'aggressione, afferma che le ferite furono colpa della giovane perché "oppose resistenza" mentre avrebbe dovuto solo "stare zitta e lasciarsi stuprare". Le parole di Singh hanno provocato la reazione della madre della vittima che ha chiesto "l'impiccagione dell'uomo" e giustizia per sua figlia. Intanto una giovane indiana minorenne, violentata da quattro persone all'inizio di febbraio nello Stato di Haryana, si è suicidata ieri. Si è impiccata ad un ventilatore da tetto, lo zio ha rivelato che "qualche giorno dopo l'incidente, aveva detto che stava subendo pressioni da parte degli agenti perché firmasse una denuncia contro un solo individuo e non contro i quattro che l'avevano violentata". Mauritania: tre detenuti salafiti iniziano uno sciopero della fame in carcere Nova, 6 marzo 2015 Un gruppo di tre detenuti salafiti di Nouakchott ha iniziato uno sciopero della fame in carcere per protestare contro la loro detenzione decisa dalle autorità mauritane senza alcun processo. Secondo quanto riferiscono fonti del carcere locale all'agenzia di stampa mauritana "Ani", lo sciopero della fame è iniziato dopo che la polizia del paese africano ha arrestato di nuovo i tre detenuti che erano stati di recente scarcerati. Sono infatti in regime di custodia cautelare nel carcere centrale della capitale mauritana da circa un mese anche se i loro avvocati sostengono che i 3 salafiti non abbiamo mai partecipato ad azioni sovversive nel paese. Hanno già trascorso 2 anni in carcere con l'accusa di essersi uniti ai gruppi islamici in Mali. Algeria: approvata prima legge contro le violenze domestiche, gli islamici protestano Aki, 6 marzo 2015 È una legge storica, seppur con alcuni limiti, quella approvata dal parlamento algerino, che per la prima volta punisce chi commette violenze domestiche contro una donna. La nuova norma, fortemente contestata dai partiti islamici, prevede fino a 20 anni di carcere per chi commette atti di violenza contro la propria moglie e la pena può arrivare fino all'ergastolo nel caso in cui la vittima perda la vita. Se il partito al governo (Fronte di liberazione nazionale) esulta per la nuova legge, Abdelallah Djaballah, del partito islamico el-Adala, ha affermato ai media locali che il provvedimento "ha il sapore della vendetta contro il marito e contro l'uomo in generale" e "distrugge la famiglia". Insoddisfatta, ma per il motivo opposto, anche Amnesty International, secondo la quale la legge non è sufficiente a far fronte all'emergenza delle violenze domestiche, che in Algeria uccidono tra le 100 e le 200 donne ogni anno. In particolare, l'ong punta l'indice contro la norma che annulla il reato in caso di perdono della vittima, definita un "precedente pericoloso". "La norma - dice Amnesty - non tiene conto della realtà dei rapporti di forza e dell'ineguaglianza tra uomini e donne" in Algeria ed espone chi subisce violenze domestiche a un nuovo "rischio di violenza e coercizione, per costringerle a ritirare la denuncia". Singapore: disegnano con spray carrozza ferroviaria, carcere e frustate a due tedeschi Ansa, 6 marzo 2015 Nove mesi di prigione e tre fustigate per due vandali. È la condanna che le autorità di Singapore hanno inflitto oggi a due giovani tedeschi, accusati di aver scritto dei graffiti con spray colorato su una carrozza ferroviaria. Secondo quanto riferiscono i media della città-stato, i due giovani, Andreas Von Knorre di 22 anni e Elton Hinz di 21, sono stati arrestati l'anno scorso in Malaysia, e poi estradati a Singapore a novembre, dopo che erano usciti dal Paese in seguito alla loro bravata. I due si erano intrufolati in un deposito ferroviario, dipingendo la carrozza di uno dei treni. Secondo le autorità il danno è quantificabile in circa 9 mila euro. Non è la prima volta che un occidentale viene condannato ad una pena simile. Nel giugno del 2010 un writer svizzero di 32 anni, Oliver Fricker, colpevole di aver imbrattato con dei graffiti un vagone della metropolitana di Singapore, venne condannato a tre frustate e a cinque mesi di galera. Due mesi dopo un tribunale della città-stato aumentò la condanna a sette mesi di carcere. L'inasprimento della pena - accompagnata dalla prescrizione di tre frustate - avrebbe per obiettivo, secondo quando dichiarato dall'allora giudice della Corte d'appello V.K.Rajah, di servire da deterrente. La severa legge contro gli atti vandalici applicata a Singapore è diventata famosa in tutto il mondo nel 1994 quando un ragazzino americano, Michael Fay, fu preso a frustate per aver danneggiato alcune macchine, nonostante i numerosi appelli alla clemenza tra cui quello dell'allora presidente Usa Bill Clinton. Singapore mantiene la punizione corporale della fustigazione (con un giunco di rattan, simile ai vimini) per una serie di reati che vanno dalla rapina al rapimento, dal consumo di droghe agli abusi sessuali, ma anche a violazioni delle norme sull'immigrazione. Secondo statistiche del dipartimento di Stato degli Usa, nel 2012 sono state eseguite 2.200 fustigazioni, di cui quasi la metà contro stranieri per infrazioni alle leggi sull'immigrazione. La fustigazione viene eseguita sulla pelle nuda, con il prigioniero legato a un cavalletto. Chi l'ha provata ha descritto l'esperienza come un dolore lancinante.