Le carceri non tornino ad essere quei luoghi opachi e nascosti che sono state di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2015 Ancora a proposito dei giornali dalle carceri, e di Sosta Forzata. "Il redattore porta in sé la voglia, l'ansia di mostrare la propria coscienza, provata senz'altro dalla condizione di restrizione vissuta, ma libera interiormente, (…) perché di uomini si tratta, all'interno di un carcere ma uomini, che pensano e raccontano agli altri di sé e della loro visione delle cose, rivendicando pari dignità rispetto ai cosiddetti uomini "liberi", imbrigliati da una serie infinita di condizionamenti di ogni tipo propri del nostro viver sociale". Sono parole della direttrice del carcere di Piacenza, scritte sul primo numero di Sosta Forzata. E noi allora ci appelliamo a lei, chiedendole di garantire a quegli uomini la loro "pari dignità", garantendo prima di tutto che continuino a fare il giornale che stanno facendo, nel modo in cui lo stanno facendo e con le persone che da sempre ne sono responsabili. Di recente però, in una lettera inviata all'associazione "Oltre il muro" - a settembre ancora editore del giornale - la stessa direttrice a proposito di Sosta Forzata fa riferimento a "Un'esperienza che va, dopo oltre 10 anni, comunque ricalibrata, alla luce degli incidenti di percorso che purtroppo, lungo il cammino, non sono mancati". "Ricalibrare" esperienze difficili come i nostri giornali è un lavoro che dobbiamo fare sempre, essendo le nostre redazioni composte non da professionisti, ma da persone detenute con poca esperienza e tanta voglia però di mettersi in discussione, ma è la redazione stessa di Sosta Forzata che deve farlo, è la redazione che deve avere la responsabilità di gestire quei piccoli tempi e spazi di autonomia, che anche in un carcere dovrebbero essere garantiti. "Incidenti di percorso" nella vita difficile dei nostri giornali ci sono e ci saranno sempre, perché i nostri giornali vivono dentro carceri che, non dimentichiamolo, sono state (e sono in larga parte ancora) fuori legge, e c'è voluta l'Europa per richiamarci alla legalità (ci verrebbe comunque da dire che l'Amministrazione penitenziaria di "incidenti di percorso" ne ha disseminati tanti sulla sua strada). E non dimentichiamoci neppure che il provveditore dell'Emilia Romagna, Pietro Buffa, ha dovuto emanare una circolare sulla "umanizzazione delle pene", il che significa riconoscere che le pene in questi anni tanto umane non sono state. Sottolineo questa complessità della situazione nella quale operiamo perché ritengo che, in questo quadro, vadano finalmente ridefiniti nelle carceri il ruolo del volontariato e della comunità esterna, e in particolare il ruolo delle realtà che si occupano di informazione dal carcere e sul carcere. Vanno ridefinite perché il nostro è uno strano Paese: quando qualcosa dà fastidio, subentrano subito i "motivi di sicurezza". Con tutto il rispetto per la sicurezza, noi pensiamo che giornali, associazioni, volontariato, società esterna in questi anni abbiano solo contribuito a rendere le carceri più sicure, stemperando le tensioni e creando attività e iniziative, là dove altrimenti ci sarebbe il deserto. Mi preme anche sottolineare che non mi risulta che l'Amministrazione penitenziaria eserciti qualche forma di controllo per esempio sull'organizzazione interna delle cooperative che operano in carcere, sui loro presidenti, sui loro soci, ma sembra invece "normale" che lo faccia nei confronti dei giornali, come a voler sottolineare una particolare "pericolosità" dell'informazione. Ricordo intanto a qualche distratto che noi che firmiamo i giornali dalle carceri ne siamo responsabili anche penalmente, e credo di poter dire abbastanza serenamente che questa responsabilità la esercitiamo forse in modo più attento di tanti nostri colleghi dei giornali "liberi", se non altro perché la galera la vediamo ogni giorno, e anche lo stato della nostra Giustizia, e dunque preferiamo non correre il rischio di doverci avere a che fare direttamente. Se ci saranno davvero gli Stati Generali delle pene e del carcere, chiediamo allora che si cominci a discutere anche di questo: degli spazi di autonomia e indipendenza che devono avere i giornali e chi si occupa di informazione dalle carceri. Non è una questione secondaria, al contrario è una garanzia che le carceri non tornino ad essere quei luoghi opachi e nascosti che sono state soprattutto in questi ultimi anni. Nella Carta dei doveri del giornalista c'è scritto "Il giornalista ricerca e diffonde le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro e compie ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici": all'Ordine dei Giornalisti chiediamo allora se questo vale anche per chi fa informazione dalle carceri, e se non è venuto il momento di tutelare delle realtà come le nostre, che lavorano in luoghi poco abituati alla trasparenza e proprio per questo dovrebbero essere doppiamente sostenute e difese. Perché non basta che il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria permetta l'accesso in carcere a qualche giornalista per garantire democrazia e apertura. No, la sfida dell'apertura e della democrazia sono proprio i nostri giornali, che in carcere hanno le loro redazioni, fatte di persone detenute e di operatori esterni, e quindi scrivono a partire da una conoscenza profonda di una realtà, che altrimenti resterebbe estranea e lontana. Giustizia: e se il carcere non avesse più senso? di Mirco Paganelli www.ilponte.com, 4 marzo 2015 Il sistema penale italiano è inefficiente. Eusebi: prevenzione, recupero e sistema più capace. L'Italia è stata sanzionata dall'Unione europea per la condizione disumana delle sue carceri, sovraffollate e malridotte, dove i criminali vengono rinchiusi e dimenticati dato che solo una piccola parte di essi partecipa ad attività riabilitative. I numeri parlano da sé. L'80% dei detenuti che studiano e lavorano in carcere non torna a commettere lo stesso reato una volta uscito, mentre chi è lasciato a se stesso torna a delinquere - secondo i dati ministeriali - nel 75% dei casi. "Il nostro modello di giustizia è lo stesso di quello dell'antica Mesopotamia, la legge del taglione, con la sola differenza che a un furto non corrisponde più un altro furto, ma una pena detentiva - questa la tesi del professor Luciano Eusebi, ordinario di Diritto Penale presso l'Università Cattolica di Milano e membro di diverse commissioni ministeriali per la revisione del regime sanzionatorio. Però rimane il principio della reciprocità dei comportamenti, secondo il quale a un'azione negativa deve seguirne un'altra di pari entità". In questo modo la pena detentiva "è tutt'altro che una buona soluzione. È solo sofferenza commisurata alla gravità del reato. Il ruolo del giudice è ridotto a quello di matematico che compie un calcolo aritmetico senza definire un percorso riabilitativo. A posteriori si vuole che a questo trattamento segua il recupero, ma è difficile che qualcosa concepito secondo il modello del negativo (dell'azione intimidatoria sulla psicologia del detenuto che ha come effetto la sola neutralizzazione della sua persona) possa dare frutti nel campo del "positivo"". E così ci ritroviamo un sistema penale inefficiente. Un concetto di giustizia che il professore considera pericoloso e "moltiplicatore di male": "Nei secoli, molti popoli si sono sentiti giustificati a intervenire militarmente attraverso guerre considerate "giuste". Hitler stesso ha agito secondo questo schema, giudicando negativamente prima i portatori di handicap, poi gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali…". Parole dure quelle usate dal prof. Eusebi durante l'incontro organizzato dalla Libera Università Popolare "Igino Righetti" a Rimini: l'esperto con passione si batte da tempo per una revisione del concetto di Giustizia nella sua interezza. La proposta? "Dinanzi al negativo, non ripetere il negativo, ma fare un progetto positivo. Non auspico un sistema penale più debole, ma più capace e più umano. È certamente una strada più impegnativa, ma è la nostra stessa Costituzione ad essere orientata verso di essa. L'articolo 2 ha compiuto una rivoluzione quando afferma che lo Stato riconosce i diritti inviolabili, invece di usare termini come "concede" o "istituisce". Esso si mette quindi al servizio delle persone, si inverte il rapporto". E ancora, "con l'articolo 3 la Costituzione sostiene che la dignità sociale non dipende dal sesso né dalla razza, quindi prospetta un modello di vita che non si fonda sul giudizio delle condizioni personali o sociali dell'altro, ma sull'uguaglianza. Anche l'altro è portatore di dignità, quindi non si può agire col do ut des. La Giustizia non deve essere una bilancia, ma un'azione nel rispetto della dignità altrui". E poi bisogna investire sulla prevenzione, "che è l'unico modo per lo Stato, in alternativa al regime totalitario, di avere controllo e garantire l'ordine". Afferma Eusebi: "Una persona recuperata chiude posti di lavoro alla criminalità e rafforza l'autorevolezza della legge in quanto svolge un'azione preventiva per la società. Infatti, ciò che teme di più la mafia è la persona recuperata". Perché nulla cambia? "Manca il coraggio nei politici. La verità? Con queste misure non si vincono le elezioni". Giustizia: amnistia e indulto, anche per aiutare i magistrati di Rita Bernardini (Segretario di Radicali Italiani) Il Garantista, 4 marzo 2015 Oggi c'è una ragione di più per rendere obbligato un provvedimento completo, articolato e ragionato di clemenza sotto la forma del provvedimento di amnistia e indulto. La ragione sta tutta nel tempo che passa in attesa che il legislatore si decida a mettere mano, con riforme adeguate e non più rinviabili, al disastrato settore della "giustizia" nostrana. Nel suo Messaggio al Parlamento dell'8 ottobre 2013, Napolitano avvertiva che le necessarie riforme da lui stesso indicate apparivano parziali e di lunga applicazione. Le sezioni unite della Corte di Cassazione tornano a pronunciarsi sulla legge Fini-Giovanardi dopo la dichiarazione di incostituzionalità decisa dalla Consulta il 25 febbraio dello scorso anno. Con la sentenza n. 22621 dello scorso 26 febbraio, la suprema Corte ribadisce che le pene riguardanti le cosiddette "droghe leggere" devono essere rideterminate al ribasso essendo il nostro ordinamento tornato al regime sanzionatorio pre-Fini/Giovanardi, cioè alla legge Iervolino/Vassalli così come modificata dal referendum radicale del 1993 che sancì la non punibilità dei consumatori di sostanze stupefacenti. Con questa seconda pronuncia (lo aveva già fatto il 29 maggio 2014), la Cassazione sembra ammonire il legislatore - il quale finora, nonostante sia passato oltre un anno, si è ben guardato dall'intervenire - del rischio più che probabile che in carcere continuino a starci o a finirci persone sottoposte ad una pena "illegale"; con il regime sanzionatorio previsto negli 8 anni di vigenza della malfamata legge Fini-Giovanardi, infatti, gli spacciatori di cannabis o altre sostanze stupefacenti leggere (equiparate allora a quelle pesanti) venivano sottoposti a limiti edittali che andavano da un minimo di 6 anni ad un massimo di 20, mentre oggi, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, la "forbice" va da 2 a 6 anni: una bella differenza, non c'è che dire! L'ingorgo di una giustizia, quella italiana, fra le più lente al mondo, diverrà ancor di più insostenibile se continueranno ad aumentare a dismisura i carichi dei giudici ordinari che dovranno affrontare i procedimenti camerali attraverso i quali si dovrà "ricalcolare" al ribasso la pena di migliaia e migliaia di detenuti. Nel maggio dello scorso anno, la dott.ssa Nunzia Gatto (Procuratore generale aggiunto che coordina i magistrati dell'esecuzione penale) aveva già spiegato con esemplare chiarezza come occorresse "seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. n quel modo - precisava - per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto. Così invece il giudice dovrà rideterminare ogni singola sanzione attraverso un incidente di esecuzione alla presenza delle parti. Sarà tutto più lento e complicato". Lentezze e complicazioni che -aggiungiamo noi - mettono il nostro Paese nella condizione non proprio invidiabile (umiliante, direbbe Giorgio Napolitano) di reiterare comportamenti sistematicamente condannati dalla Corte Edu sia sotto il profilo dell'irragionevole durata dei processi, sia sotto quello di una pena costituzionalmente illegittima essendo i principi scritti nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo direttamente vincolanti per l'Italia. Oltre a tutte quelle magistralmente enunciate nel messaggio presidenziale di Giorgio Napolitano alle Camere, che noi radicali abbiamo fatto nostro nella sua interezza, oggi "c'è una ragione di più" per rendere obbligato un provvedimento completo, articolato e ragionato di clemenza sotto la forma del provvedimento di amnistia e indulto previsto dall'art. 79 della nostra Costituzione. La ragione sta tutta nel tempo che passa in attesa che il legislatore si decida a mettere mano, con riforme adeguate e non più rinviabili, al disastrato settore della "giustizia" nostrana. Nel suo messaggio al Parlamento dell'8 ottobre 2013, il presidente Emerito avvertiva il Parlamento che le necessarie riforme da lui stesso indicate - e riguardanti soprattutto leggi di decarcerizzazione e di depenalizzazione - apparivano parziali, "in quanto avrebbero inciso verosimilmente pro futuro" e non avrebbero consentito "di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea". Possibile che ce lo debba ricordare ancora una volta il corpo di Pannella, prosciugato dall'ennesimo sciopero della fame e della sete? Istituzioni serie - che abbiano a cuore lo Stato di diritto e quindi la legalità della giustizia e della pena - dovrebbero immediatamente attivarsi per dare alla luce quanto previsto dall'art. 79 della Costituzione e cioè un'amnistia che, liberando le scrivanie dei magistrati consentirebbe di indirizzare maggiori forze a perseguire i reati gravi, e un indulto che farebbe uscire dal carcere coloro che devono scontare gli ultimi due o tre anni di detenzione fra i quali - certamente - le migliaia di reclusi vittime dell'ex legge Fini-Giovanardi. Giustizia: ancora in carcere per la legge Fini-Giovanardi? bisogna legalizzare le droghe di Selene Cilluffo www.today.it, 4 marzo 2015 La Cassazione ha ribadito la necessità di intervenire sulle pene illegittime dopo aver confermato che vanno rideterminate. Se così fosse il carcere potrebbe "respirare" dal sovraffollamento. Quando la corte di Cassazione ha emesso la sentenza che rendeva incostituzionale la Fini-Giovanardi tanti erano i detenuti che speravano di poter scontare la propria custodia cautelare o pena al di fuori delle carceri. Un terzo della popolazione carceraria è tossicodipendente e 25mila sono i detenuti che scontano pene legate agli stupefacenti. Nonostante la sentenza, il percorso per una rideterminazione della pena sembrava lungo: "Ogni detenuto dovrà chiedere al suo giudice che la custodia cautelare o la pena sia ricalcolata alla luce del ritorno in vigore della Iervolino-Vasalli - ci dice Patrizio Gonnella di Antigone, associazione che da anni si occupa delle persone detenute e che insieme ad altre realtà ha dato vita alla campagna Tre Leggi, in cui una riguardava proprio l'abolizione della Fini-Giovanardi. È stato un inganno costituzionale sin dal primo momento: Giovanardi dovrebbe andare dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi e scusarsi per avergli fatto firmare un decreto del genere". A più di un anno da quella sentenza e dallo "svuota carceri", il provvedimento approvato per evitare le sanzioni della Corte europea dei diritti umani, la stessa Cassazione ha ribadito la necessità di intervenire sulle cosiddette pene illegittime a seguito dell'incostituzionalità della legge. Tanti sono i casi di istanze di rideterminazione della pena rigettati perché la pena rientrava comunque nei parametri sanzionatori ripristinati dalla Corte Costituzionale anche se il minimo della pena (da 6 a 20 anni con la Fini Giovanardi) è divenuto nel frattempo il massimo applicabile (da 3 a 6 anni per la legge ora in vigore). Il coordinatore dei garanti dei detenuti, Franco Corleone, a pochi mesi dalla decisione della Corte aveva azzardato un calcolo: "Sono circa 10mila, in base a una prima stima, i detenuti che, potenzialmente, potrebbero beneficiare della decisione delle Sezioni Unite della Cassazione. I detenuti per la violazione dell'art. 73 del Testo unico sulla droga sono circa 23 mila. Da questi bisogna discernere quali sono condannati per spaccio di cannabinoidi, che sono circa il 40%". Ma a un anno di distanza ancora le carceri non si sono "svuotate". "È passato un anno e molti detenuti potrebbero essere ancora in carcere in esecuzione di pene illegittime. Rinnoviamo il nostro appello al Ministro Orlando e al Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria affinché tutti i detenuti interessati siano al più presto informati della possibilità di vedersi rideterminate le pene e rinnoviamo l'invito agli uffici esecuzione delle procure di procedere d'ufficio, anche in assenza di istanza da parte dei potenziali beneficiari" spiega Stefano Anastasia, presidente di Società della Ragione Onlus. Come fa notare l'associazione nell'appello lanciato prima del giudizio della Cassazione, la Fini-Giovanardi ha sia vizi "formali" e che "sostanziali". La legge è stata bocciata dalla Consulta per ragioni tecnico-formali: il testo dell'emendamento è stato inserito in una legge sulle Olimpiadi invernali di Torino e quindi l'oggetto e le finalità del decreto erano estranei al documento. Ci sono poi delle ragioni "sostanziali" e non tecniche: introducendo la tabella unica delle sostanze stupefacenti e parificando le pene per i reati legati alle droghe "leggere" e "pesanti" il testo "contraddice il principio di proporzionalità delle pene prescritto dalla Carta di Nizza (art. 49, 3° comma, della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue) e positivizzato in ambito europeo da una decisione quadro del Consiglio dell'Ue (n. 2004/757/Gai)". Ma nonostante tutto c'è chi rimane in carcere ingiustamente: "Oggi ancora migliaia di persone stanno scontando una pena illegittima in quanto ancora non è stata rideterminata la sanzione. Ci vuole una nuova legge che punti sulla depenalizzazione e decarcerizzazione. Ci vuole coraggio e puntare sulla legalizzazione come stanno iniziando a fare gli Usa. La War on drugs ha fallito" conclude Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Giustizia: il jihad si impara dietro le sbarre, così il terrorismo fa proseliti in carcere di Francesca Sironi e Giovanni Tizian L'Espresso, 4 marzo 2015 Ci sono 10 mila reclusi musulmani in Italia e non esiste alcun controllo su chi va a predicare nei penitenziari. E già cinque ex detenuti sono passati dalle celle alle legioni dell'Is. Ore 12:29, carcere della Dozza, Bologna. Una voce passa fra le sbarre: è l'invito alla preghiera di un detenuto-muezzin. Stessa ora a Milano, quinto raggio di San Vittore. Un rapinatore italiano cucina il pranzo in cella ma senza maiale, né alcool, perché il compagno marocchino crede in Allah. In un altro penitenziario, il tunisino Faouzi discute del Ramadan: "Sì, costringo i miei connazionali a digiunare. Se serve uso la forza. È un dovere verso Dio". Tanti frammenti di una realtà sempre più comune negli istituti di reclusione italiani. Secondo le ultime stime in prigione si trovano circa 10mila musulmani praticanti, mentre 30mila si dichiarano cattolici: un carcerato su cinque prega rivolto alla Mecca. E fra gli stranieri, che oggi sono un terzo dei detenuti, l'Islam è la religione dominante. La mezzaluna sventola. Il fantasma d'Europa Questi numeri sono un segnale d'allarme che non riguarda solo l'integrazione - già difficile "fuori" ma che "dentro" resta un miraggio - e si sta trasformando in un nuovo fronte per le forze di sicurezza. Come è avvenuto nel resto d'Europa, infatti, l'Italia si scopre vulnerabile al rischio "radicalizzazione", ovvero l'adesione in cella a idee estremiste. Secondo fonti investigative sarebbero almeno cinque i musulmani che durante la detenzione hanno abbracciato la causa islamista e una volta usciti sono partiti per campi d'addestramento in Siria o in Iraq. I dettagli delle loro storie sono top secret. Ma l'ambiente lo racconta bene un'intercettazione che "l'Espresso" può pubblicare in esclusiva: "Io qui sono rispettato, tutti tremano... le guardie sono a un passo dal convertirsi". A vantarsi è Said Cherif, detto Youcef, in una conversazione registrata a San Vittore. Si trova fra gli atti di un' inchiesta dei Ros dei carabinieri su una cellula salafita presente in Lombardia. Il processo, avviato nel 2008, si è chiuso con la condanna di sette fondamentalisti. Che si erano impegnati a fare proseliti anche dietro le sbarre. In carcere, notano i detective, Youcef svolgeva la funzione di imam, "a dimostrazione di un ruolo di preminenza che non aveva perso con la reclusione, sia sui "fratelli" detenuti che sulla popolazione carceraria comune". Il 27 novembre del 2013 Said è stato espulso verso la Tunisia. Ed è attualmente indicato nelle black-list di Washington (aggiornate a gennaio 2015) come soggetto pericoloso. La matrice da "scuola criminale" d'altronde non è nuova alle prigioni: è stata sfruttata da mafie, gang, movimenti eversivi rossi e neri. E oggi lo è anche dalle crociate anti-infedeli: proprio in carcere due dei terroristi autori delle stragi di Parigi avevano trasformato il loro disagio in odio nel nome di Allah, indottrinati da un recluso, come è successo anche per Omar Abdel Hamid El-Hussein, l'attentatore che ha colpito a Copenaghen due settimane fa. Dietro le sbarre, Dio Oggi su 53.623 detenuti, 17.642 sono stranieri. In tremila arrivano dal Marocco, poi da Albania, Romania, e da altri paesi del Nord Africa. Sono loro quella "popolazione comune" su cui possono attecchire secondo gli esperti i semi dell'integralismo, alimentati dalla disperazione. "La maggior parte è stata condannata per reati di droga e ha problemi di dipendenza", racconta Marco Ruggeri, operatore Caritas che da dieci anni entra ogni giorno nel carcere di Cremona, dove i detenuti sono al 70 per cento immigrati: "Hanno bisogno di tutto: arrivano all'inverno con bermuda e infradito, non hanno soldi per comprare vestiti, farmaci, neppure gli occhiali da vista. Sono soli". Come ha denunciato l' associazione Antigone , gli extracomunitari sono gli ultimi degli ultimi, dietro le sbarre: se già poche strutture hanno i mezzi per rieducare gli italiani (attraverso cure, formazione e lavoro), ancora inferiore è la volontà di impegnarsi nei confronti di persone che hanno magari già il futuro ipotecato da un permesso di soggiorno scaduto. Nel baratro, la religione può presentarsi come l'unico conforto. "È una tendenza generale presso i musulmani, siano essi marocchini o egiziani: quando uno viene portato qui dentro, per evitare i pensieri, si mette a pregare. La stragrande maggioranza fa così. Potrebbero essere persone che si ubriacavano, che non rispettavano il digiuno rituale, ma dentro cominciano a pregare". Così il recluso Jamal riassumeva in parole semplici un fenomeno comune fra i suoi connazionali a Mohammed Khalid Rhazzali, autore della più completa ricerca pubblicata in Italia sul tema, "L'Islam in carcere". Gli unici dieci reclusi per terrorismo internazionale di matrice religiosa in Italia sono nella struttura calabrese. "Vivono in buone condizioni, meglio del resto del carcere" spiega un deputato Tanti confermano questo racconto e sottolineano l'importanza che può avere la fede per superare la frustrazione di chi si trova in cella. Anche se più che una risposta spirituale, spesso gli stranieri cercano piuttosto la conferma di un'identità, l'appartenenza a un gruppo: "Durante la detenzione aumenta il bisogno di ritrovarsi in una comunità religiosa", conferma Abdel, volontario di Torino. Schegge senza guida Il cambiamento in atto è ormai una realtà affermata: in settanta dei duecento penitenziari italiani esistono moschee vere e proprie. Nei restanti 130 i musulmani pregano in spazi messi a disposizione dell'amministrazione. In tutti, insomma, c'è almeno una preghiera collettiva il venerdì. Il problema è chi guida l'orazione comune: gli imam autorizzati dal Viminale ad entrare nei luoghi di pena sono meno di dieci. Così i 300 predicatori presenti dietro le sbarre vengono scelti in modo autonomo dai detenuti, fra i compagni di cella. Senza controllo da parte delle autorità. "È un'assurdità", sostiene frate Ignazio de Francesco, volontario di Bologna che per anni ha vissuto nei Paesi arabi e oggi aiuta come mediatore: "L'imam ha una grandissima influenza sui fedeli. E fra i reclusi raramente c'è una vera conoscenza della religione". Così passa una cultura fai-da-te, dove gli elementi forti o radicali possono essere isolati e resi ossessivi, come l'idea che tutto l'Islam sia jihad o che la conversione degli infedeli sia una missione. "La guida dell'imam è fondamentale soprattutto nei primi momenti", continua frate Ignazio: "Ho conosciuto molti ragazzi che si sono infiammati, riscoprendo la fede. Un giovane aveva subito un arresto traumatico. Mi disse: "Ho rischiato di morire, presentandomi ad Allah da peccatore". E ha sviluppato, non avendo una guida, un approccio ultra-integralista al Corano". Per questo, insiste, bisogna scegliere fra i migliori ministri delle moschee. E lasciarli aiutare. Una posizione che ha fatto breccia. "Impedire la pratica legittima del culto religioso significa innescare una bomba", ha detto recentemente il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Ma allo stesso tempo dobbiamo evitare che diventi un mezzo di proselitismo, che alimenti il pericolo". Non solo i predicatori auto-eletti infatti hanno un'influenza decisiva sui compagni. Anche chi semplicemente chiama alla preghiera riesce ad esercitare carisma sugli altri. Un potere potenzialmente rischioso, se i messaggi veicolati sbandano a favore dei mullah guerreschi piuttosto che alle radici della spiritualità. Nonostante questo, per la quiete interna, gli agenti preferiscono a volte accettare l'ascendente dei neo-imam piuttosto che avere interi raggi nel caos. "I leader carismatici godono di un'autorità tale presso i detenuti musulmani da venire interpellati in veste di mediatori in caso di conflitto", scrive in una relazione Melania Quattromanni, vicecommissario di polizia penitenziaria: "Questo è uno dei motivi per cui, apparentemente, tali individui non creano problemi di gestione interna, fungendo anzi da risolutori delle ostilità ed essendo molto rispettosi delle regole". Fuori controllo Tutto questo passa senza che si abbia conoscenza però di quali precetti, consigli, insegnamenti scivolano fra i sermoni: le guardie carcerarie infatti non conoscono l'arabo e i mediatori culturali capaci di tradurre e spiegarne i contenuti sono solo una decina per duecento istituti. Eventuali incitazioni all'odio non verrebbero insomma percepite in tempo, nei nostri istituti penitenziari, passando immuni nel luogo più monitorato del Paese, il carcere, a differenza di quanto non avvenga nelle controllatissime moschee "di fuori". Un paradosso. Oltre che nelle orazioni o nelle chiacchiere, i bigini dell'odio possono passare anche dai libri. Roberto Gennaro, docente all'Università di Catania, ha condotto una ricerca sulle "Religioni in carcere" incontrando decine di guardie, detenuti, dirigenti: "Negli istituti di Lecce, Bologna e Rebibbia, a Roma, ho annotato casi di testi in lingua araba dal contenuto rivelatosi diverso rispetto alle "dichiarazioni" di copertina", racconta. "Si trattava, secondo i direttori, di testi riconducibili ad autori legati all'estremismo islamico". Bisogna saper intercettare i segnali, distinguendo sempre la fede dall'odio: "I sintomi più vistosi di una riconversione "rigida", come la scelta di indossare vestiti tradizionali, far crescere barba, l'assiduità di preghiera, di per sé non significano nulla", avverte Gennaro: "Anzi, spesso chi ha propositi aggressivi tende al contrario a dissimulare, a non esporsi". Al Due Palazzi di Padova la direzione si è accorta della conversione radicale di uno spacciatore tunisino, Kais Bibari, durante una perquisizione della cella: nell'armadietto era appesa la foto di un ostaggio in mano all'Is. Decapitato. Kais è in Italia dal 2011 e non avrebbe avuto contatti con ambienti fondamentalisti prima della detenzione. L'unico indizio trovato dai pm di Padova che indagano sulla vicenda è la corrispondenza epistolare indirizzata dal carcere a un negozio etnico della città, gestito dal presidente marocchino di un'associazione culturale islamica. L'islam degli oppressi Cos'ha portato Bibari a conservare quel frammento di giornale? Com'è germogliata in lui la fascinazione per i tagliagole del Califfo? "L'attrazione esercitata dalla deriva fondamentalista circola ovunque come una presenza fluida, lambendo in varia misura tutti", scrive Mohammed Rhazzali. "Se è improbabile che nelle nostre carceri vi siano militanti di organizzazioni islamiste, è indubbio che in alcuni momenti molti finiscano per guardare a essi con un misto di perplessità e approvazione, come esitando di fronte a una via terribile, ma anche avvertendo il fascino della sua capacità di dare un'alternativa al senso di impotenza e alla frustrazione". Nei manuali inglesi, terra di confine del jihadismo made-in-jail dove da anni l'amministrazione cerca di contrastare la propaganda radicale, si indicano due strade per il proselitismo: l'influenza dei terroristi detenuti o l'attecchimento dell'odio su una popolazione vulnerabile. "In Italia non esistono filiere di Islam politico così radicale e organizzato come in Francia o in Inghilterra", spiega Paolo di Motoli, autore di "I musulmani in carcere". Certo, noi abbiamo avuto personaggi come Youcef, il tunisino di 45 anni intercettato a San Vittore. Ma attualmente i dieci condannati per terrorismo internazionale sono tutti in isolamento a Rossano, in Calabria: in Francia invece ne sono segnalati ben 167. La risposta? La Costituzione L'obiettivo delle istituzioni dovrebbe essere allora quello di lenire quei sentimenti che spingono all'adesione al terrore. Come? Frate Ignazio, a Bologna, ha elaborato la sua idea, diventata un corso, sostenuto dal garante dei detenuti dell'Emilia-Romagna. Al suo fianco Wajih Saad Abu Abd Al-Rahman, imam di Reggio Emilia e Yassine Lafram, coordinatore delle comunità islamiche di Bologna. L'obiettivo? Raccontare la Costituzione. E confrontarla con quelle arabe. "Il carcere è un'occasione", sostiene il frate: "Qui i musulmani non hanno nulla da fare tutto il giorno. Fuori non sapremmo nemmeno dove incontrarli. Allora dobbiamo approfittarne, per passare loro i valori fondamentali della nostra collettività. Che sono scritti, in modo perenne, negli articoli della Costituzione: un ombrello più grande di ogni Vangelo, di ogni religione, per noi cittadini italiani". A Rossano la "Guantanamo" italiana, qui sono reclusi i condannati per terrorismo Gli unici dieci reclusi per terrorismo internazionale di matrice religiosa in Italia sono nella struttura calabrese. "Vivono in buone condizioni, meglio del resto del carcere" spiega un deputato. Super sorvegliati, ma tutto sommato trattati meglio degli altri reclusi. Oggi i dieci condannati per terrorismo internazionale presenti in Italia si trovano tutti nel carcere di Rossano, in provincia di Cosenza: una struttura moderna, formata da tanti edifici cubici di cemento. I reclusi legati al jihad sono rinchiusi in una sezione speciale chiamata "Alta sicurezza 2". Fino al 2012 i detenuti condannati per rapporti con le cellule di al Qaeda erano 80 divisi fra Benevento, Asti, Macomer e l'istituto calabrese, dove poi sono stati concentrati quelli rimasti. Lì nel luglio del 2010 alcuni di loro avevano denunciato di essere stati privati "del cibo, dell'ora d'aria, della doccia e della preghiera", come "ritorsione per una pacifica protesta mirata ad ottenere gli stessi benefici degli altri detenuti", scrissero gli avvocati in una lettera. "Io ho trovato la sezione degli islamisti in buone condizioni", rassicura però oggi Vincenza Bruno Bossio, deputata del Pd: "Anzi, migliori delle altre. I reclusi mi hanno riferito solo gli ostacoli ricorrenti in isolamento: soprattutto ritardi nella posta e nei colloqui. Ma hanno detto di non avere problemi col cibo e di avere diritto alla preghiera, adesso". Ha parlato con tutti? "Quasi. Uno di loro, il "capo", l'uomo più carismatico, ha rifiutato di incontrarmi", racconta la deputata calabrese. Ben diversa la situazione che l'onorevole Bossio ha scoperto la scorsa estate nel resto della prigione: trattamenti inumani e degradanti, "celle vuote, senza letti, né sgabelli, né tv", i pavimenti "ricoperti di vomito ed escrementi", i detenuti che "riferivano di essere stati picchiati", e giacevano per terra "con addosso soltanto gli slip". "Non mi sarei mai aspettata quello che mi sono trovata davanti", racconta. "Gli agenti hanno cercato di ostacolarmi. Ma alla fine sono riuscita ad entrare almeno in uno dei reparti di isolamento". Dopo il suo blitz, a Rossano è arrivata un'ispezione dell'amministrazione penitenziaria e sono stati introdotti miglioramenti nella gestione delle celle. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari… la follia sta (finalmente) per chiudere? di Claudio Sarzotti www.osservatorioantigone.it, 4 marzo 2015 È pronto il nuovo numero della Rivista di Antigone dedicata interamente agli Opg che, dopo una serie di rinvii, dovranno chiudere - secondo l'attuale normativa - il 31 marzo prossimo. Di seguito riportiamo l'editoriale di Claudio Sarzotti. Abbiamo già affrontato in un recente passato sulla nostra rivista la questione dei folli-rei, ma abbiamo deciso di dedicargli un numero monografico in un momento che appare decisivo per il definitivo superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Come si potrà notare leggendo alcuni dei saggi presenti nel numero della rivista, questo settore del sistema penale e penitenziario è stato uno di quelli su cui ha maggiormente e positivamente operato il Governo Renzi, in particolare emanando una normativa (la legge n. 81 del 30 maggio 2014) che ha posto un termine ultimativo alla chiusura degli Opg (31 marzo 2015) e ha stabilito alcuni principi di civiltà giuridica da tempo invocati da gran parte degli addetti ai lavori (in primis la limitazione della misura di sicurezza detentiva alla durata della pena massima edittale prevista per il reato commesso dal folle reo, rendendo in tal modo anche formalmente illegittimi i cd. ergastoli bianchi). Occorre, tuttavia, non abbassare la guardia perché il clima politico-culturale complessivo pare volgere nuovamente al cupo tintinnar di manette, triste ricordo della stagione di "Mani pulite". Passata la breve infatuazione mediatica per la questione del sovraffollamento carcerario, incassata un'assoluzione per insufficienza di prove da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo subito spacciata come punto di svolta della politica penitenziaria italiana, il dibattito pubblico sembra nuovamente segnato da emergenze criminali che vengono affrontate con la grammatica del diritto penale. Dalle inchieste su "Mafia capitale" al nuovo successo delle campagne leghiste contro rom, rifugiati politici e stranieri tout court, possiamo trovare numerosi esempi di un populismo penale che potrebbe essere indotto a sfruttare la crisi economica da cui il Paese sembra incapace di uscire per trovare facili capri espiatori su cui focalizzare la rabbia dell'emozione pubblica. Quale miglior bersaglio mediatico, ad esempio, di un folle reo che, magari dopo essere stato appena dimesso da un Opg, commetta un grave reato di sangue? Del resto, le questioni aperte e le insidie nel processo riformatore sono ancora numerose. Innanzitutto, come sottolinea Stefano Cecconi nel suo articolo, se i dati ci dicono che gli internati non dimettibili sono attualmente circa 370, perché si stanno preparando oltre 900 posti nelle nuove piccole residenze su scala regionale (le cd. Rems) che dovrebbero sostituire gli Opg? Se tali residenze, come quasi certamente avverrà, non saranno pronte per il 31 marzo 2015, verrà nuovamente prorogata la chiusura degli Opg? Del resto, esistono già ora gli strumenti giuridico-formali e operativi (in particolare la misura di sicurezza della libertà vigilata) per garantire il non abbandono di quelle persone che necessitano di cure e di strutture contenitive, come afferma nel suo articolo Francesco Maisto ricostruendo le buone pratiche sviluppate nella regione Emilia Romagna. Ma, come ricorda nel suo saggio ricostruttivo Dario Stefano Dell'Aquila, la figura del folle reo è da sempre stata oggetto di potere ai confini tra il paradigma medico e quello giuridico attraverso l'ambiguo e fantasmatico dispositivo di sorveglianza della sua presunta pericolosità sociale. Tale dispositivo, per un verso, non è stato ancora abbandonato dal nostro legislatore (non abbastanza coraggioso come afferma Adelmo Manna, ricordando, tra l'altro, alcuni casi di cronaca in cui tale istituto venne utilizzato da Benito Mussolini per neutralizzare personaggi scomodi del proprio entourage familiare). Per altro verso, esso rispunta in quella che Michele Miravalle nel suo saggio definisce "sbornia neuro-scientifica", sindrome di cui pare affetta certa parte della giurisprudenza italiana che si avventura in complesse argomentazioni scientifiche per trovare deterministici nessi tra struttura del cervello umano e comportamenti devianti. In realtà la scienza psichiatrica più avveduta ha posto da tempo in forte dubbio le proprie capacità predittive, così come ha sostanzialmente negato l'esistenza di situazioni in cui il soggetto agente sia totalmente privo della capacità di intendere e volere. Questi assunti scientifici non fanno che rendere quanto mai attuale una revisione della stessa impostazione penalistica del doppio binario e, di conseguenza, la necessità di porre finalmente mano alla riforma del nostro codice penale. Profonda revisione codicistica che viene richiamata anche nell'importante lavoro di Luciano Eusebi di ricostruzione del pensiero della Chiesa sulla sanzione penale che viene qui recensito. Proprio in tale lavoro vengono avanzate proposte di riforma del codice che da anni sono discusse dagli operatori del diritto e verso le quali la doppia radice culturale, cattolica e della Sinistra storica, dell'attuale Governo potrebbero agevolmente convergere. Quanto altro tempo dovremo ancora aspettare per veder "cambiare verso" alle politiche penali e penitenziarie di questo Paese? Giustizia: Opg; da cinque anni combatto per chiuderli, nessuno chieda ancora tempo di Ignazio Marino (Sindaco di Roma) Il Manifesto, 4 marzo 2015 Sono passati quasi cinque anni dalla prima volta in cui, insieme ai senatori della Commissione d'inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, sono entrato in un ospedale psichiatrico giudiziario (Opg). Era l'11 giugno 2010 a Barcellona Pozzo di Gotto. Lì abbiamo trovato un uomo della mia età, nudo, madido di sudore e legato con delle garze a un letto di contenzione di ferro, con al centro un buco per la caduta degli escrementi. Lo ripeto: quel letto non era vuoto, c'era una persona in carne ed ossa dentro. Dopo due anni di sopralluoghi a sorpresa, audizioni e verifiche, la Commissione d'inchiesta ha ottenuto, il 15 febbraio 2012, l'approvazione di una legge che fissava la chiusura dei manicomi criminali al 31 marzo 2013 e l'assegnazione da parte dello Stato di risorse certe per l'assistenza ai pazienti, con infermieri, medici, psichiatri ed esperti di riabilitazione che potessero finalmente fare il loro mestiere: curare la mente e il corpo. Tuttavia, come spesso accade nel nostro paese, siamo in enorme e colpevole ritardo. Per questo mi auguro davvero che il termine del 1° aprile 2015 sia rispettato. Dei manicomi criminali si parla dal 1978 e le Regioni, specialmente negli ultimi cinque anni, hanno avuto tutto il tempo per esaminare il problema e trovare delle soluzioni. Per gli internati deve valere un principio essenziale, affermato dalla Corte Costituzionale: le esigenze di tutela della collettività non possono mai giustificare misure tali da recare danno alla salute del malato, quindi la permanenza negli attuali ospedali psichiatrici giudiziari che aggrava la salute psichica dell'infermo non può proseguire. Ecco cosa vuol dire chiudere gli OPG: una sanità degna di questo nome, nel pieno rispetto della comunità e delle vittime dei folli autori di reato. Questa non è una legge "per i criminali". Questa è una legge per tutti noi, per riconoscerci in uno Stato che offre il rispetto che chiede. Perché la malattia mentale non resti uno stigma del quale avere paura. Giustizia: il Ministro Alfano vuole norme più severe sul racket dell'accattonaggio di Sara Menafra Il Messaggero, 4 marzo 2015 Una norma che punisca lo sfruttamento dell'accattonaggio con pene più pesanti delle attuali. Nessun intervento sul comportamento "semplice", depenalizzato negli anni 90 da una sentenza della Corte costituzionale, come invece ha chiesto più volte la Lega Nord. E ampliamento dei poteri dei sindaci in materia di "degrado" e "decoro" urbano, anche se pure su questo punto bisognerà stare attenti a non cozzare con quanto deciso dalla Consulta. Oltre a cinquecento militari inviati a presidiare obiettivi sensibili della capitale, forze dell'ordine nelle periferie, un sistema di videosorveglianza diffuso e l'impegno ad un vertice mensile al Viminale dedicato specificamente alla città di Roma. Alla chiusura del comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza ospitato ieri dalla prefettura di Roma dopo i fatti di piazza di Spagna, il ministro Angelino Alfano ha annunciato di voler presentare presto un nuovo pacchetto di interventi: "Dopodomani (giovedi ndr) incontrerò il presidente dell'Anci, Piero Fassino, per fare insieme una legge contro il degrado urbano e sulla sicurezza delle città" ha detto il ministro: "Vogliamo dare più poteri ai sindaci di difendere i centri storici ed i monumenti delle nostre città". Al tavolo con l'associazione dei sindaci sarà presente anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, delegato dell'Anci in tema di legalità e decoro urbano appunto, che si incaricherà di riassumere le proposte dell'organizzazione anche sulla legalità e a sostegno degli amministratori locali minacciati. Attualmente, lo sfruttamento dell'accattonaggio diventa reato solo quando prevede l'impiego di minorenni. Dunque, previo l'accordo con il ministero della giustizia, il Viminale sta valutando di proporre l'aumento di pene per chi sfrutta i minori, ampliando l'intervento anche ad altre forme di racket. Più difficile l'ipotesi che aumentino le pene per il reato di "mendicità molesta", tanto più che il tema è una delle bandiere della Lega Nord. Non sarà facile, poi, intervenire sui poteri dei sindaci. Nel 2011, una sentenza della Corte costituzionale ha bocciato quello che allora si chiamava il decreto sui sindaci sceriffi e che aveva dato ai primi cittadini il potere di vietare alcune zone all'accattonaggio o ad altri comportamenti non previsti come reato anche in vaste zone del territorio comunale. Quella norma, disse la consulta, era in contrasto con il principio di eguaglianza dei cittadini, la riserva di legge e il principio di legalità sostanziale. Più immediato l'intervento sulla sicurezza. Nonostante nel 2014 rispetto al 2013 nella capitale si siano registrati cinquemila reati in meno, più arresti, più denunce e beni sequestrati per 1,4 miliardi di euro, rendendo la città "meno delittuosa di Bruxelles, Berlino, Vienna, Madrid, Parigi e Londra", la sicurezza di Roma resta "una priorità" ha detto Alfano. Il questore Nicolò D'Angelo ha annunciato che presto la questura potrebbe intervenire sui protocolli dei cortei: "Si può lavorare sui percorsi e lo faremo perché il centro storico di Roma e un patrimonio del mondo intero e va tutelato", ha detto. Per quel che riguarda i rapporti con le tifoserie straniere, Alfano ha annunciato che alla prossima riunione a Bruxelles proporrà l'istituzione di un "Daspo europeo". Giustizia: caro Ministro Alfano… lascia in pace i mendicanti di Piero Sansonetti Il Garantista, 4 marzo 2015 Caro ministro Alfano, lei ieri, parlando di ordine pubblico e di sicurezza, ha annunciato una stretta contro i mendicanti. Specialmente i mendicanti che chiedono le elemosina nei centri delle città. Naturalmente io capisco quali considerazioni la spingano in questa direzione. Lei si sente oppresso da un'opinione pubblica compatta e agguerrita, che chiede sicurezza, leggi e repressione. Contro tutti, senza tante discussioni. Contro i criminali, gli zingari, i mendicanti, chiunque dia fastidio alla gente per bene. E questa opinione pubblica, come sempre accade, non è "autonoma" ma in parte è condizionata da stampa e Tv e in parte è lei tessa che condiziona stampa e Tv. Ormai quasi tutte le mattine e quasi tutte le sere e su quasi tutti i programmi, c'è una trasmissione Tv che parla di sicurezza. E tutti i giorni di sicurezza si parla sui giornali. E si dice che i delitti sono in continuo aumento, che le città sono in mano agli irregolari, che i i rom e i poveracci invadono le strade e insidiano la sicurezza della classe media. Non so perché giornali e Tv abbiano compiuto questa scelta, rincorrendo le campagne dei partiti dell'estrema destra (Lega, Fdi, Grillo e altri) ma mi pare irreversibile. Però, caro ministro Alfano, lei sa benissimo che questa campagna "securitaria" (come si dice in gergo) è infondata, cioè non si basa sulla realtà. La realtà l'ha spiegata molto bene proprio lei, nella conferenza di fine anno: numero di omicidi in crollo, furti in diminuzione di oltre il 10 per cento e altrettanto in diminuzione le rapine. Persino i furti negli appartamenti, che restano moltissimi, sono in lieve diminuzione (-1,7%). E allora? In genere quelli a cui sciorino queste cifre mi rispondono che però sono in aumento le richieste di porto d'armi, e dunque vuol dire che la gente si sente insicura, e dunque che il pericolo è aumentato. E invece, come a lei è chiarissimo, è aumentato non l'indice di delinquenza ma l'indice della campagna di stampa che spinge i cittadini ad armarsi. Mi dicono che la Regione Lombardia abbia offerto di pagare l'avvocato a chi sparerà ai ladri. Lo so, è difficilissimo per un leader politico andare controcorrente. Si perdono voti. Però alle volte - credo - è giusto mettere le idee al di sopra della necessità del consenso. Se non si fa mai questo, la politica soccombe, diventa cameriera di altri interessi. Lei dirige un partito liberale, laico, garantista. Non può permettersi di cedere al populismo. È insensato, mi creda, pensare a norme severe contro l'accattonaggio. L'accattonaggio non è un reato, è una tremenda disgrazia e un'atroce necessità vitale. C'è una sola norma contro l'accattonaggio: una politica di giustizia sociale che riduca la povertà, possibilmente la cancelli, e renda inutile l'attività penosissima, triste e umiliante di chiedere l'elemosina. Non crede anche lei che le cose stiano così? Non crede che - non mi stancherà mai di ripeterlo, anche se sono non credente e ateo - il passo più bello del Vangelo si a quello nel quale Gesù Cristo (il vero Nazareno...) dice a tutti: avevo fame e non mi avete dato da mangiare, avevo sete, ero ignudo..."? Giustizia: ddl sul Falso in bilancio, via le soglie. Si apre il "caso" intercettazioni di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 marzo 2015 Niente più soglie, al di sotto delle quali si è automaticamente impuniti. Ma per i reati di falso in bilancio, procedibili d'ufficio, si faranno distinzioni. Verranno puniti più duramente i responsabili e dirigenti di società quotate in borsa (solo in Italia e in Europa): da 3 a 8 anni. Ma per casi di tenue gravità, e se l'azienda non è tra quelle troppo grandi o troppo ricche per fallire, si lascerà al giudice facoltà di valutare se il falso in bilancio o le false comunicazioni possano essere punite con la reclusione da 1 a 5 anni. In questo caso, l'entità della pena massima non consentirà al magistrato, durante le indagini, di poter intercettare i sospetti. È l'ultimo testo scritto dal governo sul reato di falso in bilancio. Almeno fino a ieri, quando l'articolato, atteso in commissione giustizia, si è fermato a Palazzo Chigi, all'attenzione del ministro ai Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Facendo nascere il giallo sui tempi in cui sarebbe approdato al Senato. Tra rumors di una levata di scudi del ministero dello Sviluppo, che dava voce ai dubbi di Confindustria su un testo con un margine di discrezionalità del giudice ritenuto troppo ampio. Speculare all'altolà registrato al Senato, dove il pd Giuseppe Lumia metteva in guardia il governo dall'allargare troppo le maglie: "C'è stato un accordo di maggioranza ci aspettiamo che venga rispettato. E che il testo arrivi qui in commissione". Il Guardasigilli Orlando, a Ballarò, ha confermato che il testo non arriverà direttamente in aula. Punto non da poco perché la composizione della commissione Giustizia, ad alta incidenza cinquestelle e democrat agguerriti, non lascerebbe passare un testo annacquato. I tempi dell'arrivo in Aula del provvedimento anticorruzione si allungano: l'Aula era convocata per domani. Ma Orlando ha promesso per "la prossima settimana sicuramente l'Aula avrà votato il ddl anticorruzione e risolto i dubbi". In una riunione di maggioranza, con Orlando, ieri, si è parlato anche di prescrizione. E si è prefigurato un allungamento dei termini per i reati della pubblica amministrazione. Ma Ncd protesta perché ciò ne renderebbe alcuni "imprescrittibili" con "l'unico grave effetto di allungare i processi". Il Pd replica che per reati di "grave allarme sociale" è previsto addirittura il raddoppio. E la corruzione lo è, a giudicare anche dai fatti di ieri. La tensione è alta. E si capirà oggi se almeno sul falso in bilancio si metterà un punto fermo. Ma cosa prevede il testo? L'articolo 7 si occupa delle società non quotate in borsa. Ed esclude, come dicevamo, la possibilità di intercettazioni perché punisce con la reclusione da 1 a 5 anni "gli amministratori i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori", che per proprio o altrui ingiusto profitto, "nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, consapevolmente espongono informazioni non rispondenti al vero o omettono informazioni imposte dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore". L'articolo 7 bis prevede inoltre la pena da 6 mesi a 3 anni se i fatti contestati "sono di lieve entità, tenuto conto di natura e dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta". E il 7 ter aggiunge che "ai fini della non punibilità per particolare tenuità il giudice valuta anche se i fatti riguardano società" soggette al fallimento. Pene più dure, invece, da 3 a 8 anni, per "amministratori, direttori generali, dirigenti che redigono documenti contabili societari, sindaci e liquidatori" di società quotate, che diventano intercettabili. Ma solo se le società "sono ammesse a negoziazioni del mercato regolamentato in Italia o in Europa". Giustizia: processi-lumaca del Fisco, niente equo indennizzo previsto dalla legge Pinto Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2015 Le regole sull'equo indennizzo previste dalla legge Pinto nel caso di processi troppo lunghi non si applicano ai procedimenti in materia tributaria che coinvolgono la potestà impositiva dello Stato. Anche perché l'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu), che assicura la durata ragionevole dei processi, riguarda unicamente la materia civile e penale. Di conseguenza, va respinto il ricorso per ottenere un equo indennizzo in base alla legge Pinto nel caso di un procedimento su un contenzioso tributario. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, Sesta sezione civile, con la sentenza n. 4282/15, depositata ieri. A rivolgersi alla Corte è stato un contribuente che aveva chiesto il rimborso di ritenute fiscali sull'indennità di buonuscita. A suo dire, i procedimenti dinanzi alle Commissioni tributarie erano durati troppo a lungo. Di qui la richiesta di un equo indennizzo sulla base della legge 89/2001. Un'istanza respinta dalla Cassazione, che ha condiviso la posizione della Corte di appello di Perugia e le obiezioni del ministero dell'Economia e delle finanze. Nodo della questione per chiarire l'applicazione dell'articolo 6 della Convenzione europea che garantisce la durata ragionevole del processo è la qualificazione del giudizio al centro della vicenda. La Cedu non è applicabile alle controversie riguardanti "l'esistenza e l'esercizio della potestà impositiva dello Stato". Nel caso all'attenzione della Cassazione, il giudizio verteva proprio su una questione tributaria connessa alla potestà impositiva dello Stato. È irrilevante - osserva la Cassazione - la natura pecuniaria delle obbligazioni, perché ciò che consentirebbe di applicare l'articolo 6 è il carattere civile delle obbligazioni. Cosa che non è nel caso trattato dai giudici, visto che sono in discussione obbligazioni di natura pubblicistica che derivano dall'applicazione di tributi o traggono "in ogni caso origine da doveri pubblici". A supporto di questa conclusione, la Suprema corte ha richiamato Strasburgo che, nella sentenza Ferrazzini contro Italia del 12 luglio 2001, ha chiarito che il contenzioso tributario non rientra nel campo civile, "malgrado gli effetti patrimoniali che esso necessariamente produce nei confronti dei contribuenti". È vero - riconosce la Cassazione - che ci sono alcune eccezioni, ma queste riguardano unicamente le sanzioni tributarie assimilabili, per il grado di afflittività in esse previsto, a quelle penali. Sul piano concreto, quindi, malgrado la diversa qualificazione interna, l'articolo 6 può essere applicato solo se la sanzione tributaria è assimilabile a quella penale. Così la controversia può rientrare tra quelle civili se al centro del procedimento ci sono le "pretese del contribuente che non investono la determinazione del tributo ma solo aspetti consequenziali" o le richieste di rimborso di somme. Escluse, invece, le controversie sul rimborso delle imposte che un contribuente ritenga siano state indebitamente trattenute: queste, infatti, sono in ogni caso legate al potere impositivo statale. L'azione del ricorrente - continua la Cassazione - è incentrata sulla fondatezza dell'imposizione con la conseguenza che rientra in un settore regolato dal diritto pubblico. Di qui l'inapplicabilità dell'articolo 6 della Convenzione, come interpretato dalla Corte europea e, quindi, il no all'equo indennizzo secondo la legge 89/2001, anche in ragione della simmetria tra il piano interno e quello internazionale. Giustizia: Marcello morì nel carcere di Livorno nel 2003, un incredibile iter giudiziario di Christian Montagna www.osservatoreitalia.it, 4 marzo 2015 Il 13 marzo prossimosi terrà l'udienza conclusiva. Mamma Maria continua a ripetere che "non si può morire quando si è in custodia dello Stato". Nemmeno dopo la morte trova pace il giovane Marcello Lonzi vittima della mala giustizia italiana, e con lui la giovane madre Maria Ciuffi che da anni lotta per la verità. Come abbiamo già detto e come testimonia il caso di Stefano Cucchi, siamo di fronte ad un assurdo caso dove le prove restano occultate ed i colpevoli se la spassano beatamente. Nell'articolo pubblicato in precedenza introduttivo al caso ricco di colpi di scena e assurdità, Maria ci ha raccontato del suo arrivo al cimitero e della tremenda scoperta. Marcello ha del sangue sulla camicia, il volto gonfio con la bocca socchiusa e alcuni denti rotti, tre tagli sul lato sinistro del viso, sul labbro, sul sopracciglio e sulla fronte fino all'attaccatura dei capelli. Come potete immaginare, trovare un corpo in queste condizioni non è possibile in caso di morte naturale. Eppure, per ben due volte il caso è stato archiviato come tale. L'iter giudiziario di questa vicenda ha dell'incredibile: testimoni non presi in considerazione, guardie penitenziarie non interrogate, insomma, sembra proprio che quando si parli di Stato resti impossibile arrivare ad una soddisfacente verità processuale. Nel settembre 2003, il pubblico ministero di Livorno Roberto Pennisi apre un fascicolo contro ignoti per l'omicidio di Marcello Lonzi. Sembra dunque che il caso stia prendendo la piega giusta e qualche mese dopo vengono richieste le foto del corpo del giovane e consegnate al Pm. Ci sono tre persone testimoni, due detenuti e una guardia penitenziaria che hanno visto per l'ultima volta in vita Marcello. Uno dei due detenuti dichiara di dormire e di non essersi accorto dell'accaduto ma di aver soltanto trovato Lonzi disteso a terra in una pozza di sangue con la testa vicino all'inferriata; il poliziotto invece dichiara di averlo lasciato in buone condizioni di salute. Dopo aver sentito Maria che è riuscita a contattare il detenuto in cella con Marcello, pare che le versioni fornite dallo stesso al telefono e in Procura siano totalmente diverse. Il poliziotto, dopo aver visto Lonzi per terra, dice di aver lanciato l'allarme e cercato invano di rianimarlo. Le indiscrezioni che però trapelano nel penitenziario e giungono all'orecchio di Maria sembrano essere discordi con questa versione dei fatti: si diffonde la voce che Marcello sia stato picchiato dalle guardie nelle celle di isolamento. Nonostante questo non fosse il primo caso di violenza nelle carceri italiane, il Pm pare non credere a questa versione e affida la consulenza medico legale al dott. Alessandro Bassi Luciani. La perizia fornita dallo stesso però si scoprirà essere scarna e carente, troppi elementi visibili ad occhio nudo vengono sottaciuti e non riportati. Secondo Luciani dunque la morte di questo ragazzo potrebbe essere stata causata da un arresto cardiaco. Nel 2004 il Pm Pennisi chiede la chiusura delle indagini con una richiesta di archiviazione poiché nulla di rilevante era apparso per poter iscrivere qualche elemento nel registro degli indagati. Il giudice Rinaldo Merani accoglie la richiesta e chiude il caso. Maria non ci sta e intraprende una serie di battaglie che la portano a vedersi archiviato il caso più e più volte. Diffonde le foto di suo figlio al momento della morte; protesta contro le Procure che a tutti i costi vogliono coprire gli autori di questo efferato omicidio e il 12 gennaio 2005 presenta una denuncia contro il Pm Pennisi, il medico legale Bassi Luciani e un'agente di polizia penitenziaria. Viene dunque riaperto il caso affidato stavolta al Pm Antonio Giaconi di Livorno che autorizza finalmente la riesumazione del cadavere indicando un nuovo medico legale, Francesco De Ferrari, che evidenzia le carenze della relazione precedente. Le costole rotte sono 8 e non una e lo sterno è fratturato. Pare essere dunque vicini ad una svolta ma in seguito agli esami tossicologici eseguiti sul sangue di Lonzi, anche De Ferrari scrive che i passati problemi di tossicodipendenza di Lonzi non possono non aver influito sulla morte ma, anzi, hanno accelerato l'insorgere del problema cardiaco; che il decesso è avvenuto per un forte stress emozionale e che l'aggressione da parte di terzi è poco probabile per mancanza di segni esterni visibili. Anche per questo medico dunque le cause della morte sono da attribuirsi ad una acuta insufficienza cardio-circolatoria. La consulenza chiamata dalla signora Ciuffi invece continua ad evidenziare delle anomalie. Nel 2008 Giaconi chiede la terza ed ultima consulenza medico legale a L. Vannuccini e F. Monciotti dalla quale fuoriesce un nuovo particolare: la denuncia di Marcello di aver subito un pestaggio al momento dell'arresto. Ma nemmeno questo dettaglio servirà a granché. Secondo la terza perizia medico legale, le lesioni sul suo corpo sarebbero state la conseguenza dell'urto contro un oggetto tagliente. Ma anche in questa perizia, il medico legale chiamato da Maria Ciuffi sottolinea le lacune e fa notare come in una fotografia scattata durante la riesumazione del cadavere, si veda un frammento di colore blu nella ferita sul sopracciglio di Lonzi. La perizia però giunge troppo tardi e nel 2010 il pm Giaconi deposita la richiesta di archiviazione accettata poi dal capo della Procura di Livorno, Francesco De Leo che respinge anche il ricorso in Cassazione nel 2011. Maria non molla e si appella alla Corte Europea dei diritti dell'uomo che però nel 2012 dichiara non valido il suo ricorso. Nel 2013 allora presenta una nuova denuncia contro i due medici del carcere che hanno effettuato i primi soccorsi e contro il medico legale Bassi Luciani, per gli errori commessi durante l'esame autoptico. Si decide nel 2014 di poter svolgere ulteriori indagini e a breve, il 13 Marzo 2015 si terrà l'udienza conclusiva ma Maria continua a ripetere che " non si può morire quando si è in custodia dello Stato". Il calvario della mamma per scoprire la verità Intervistata telefonicamente dal nostro quotidiano, Maria ha voluto raccontare per filo e per segno gli attimi concitati di quei maledetti giorni. Non si da pace Maria Ciuffi che lotta da oltre undici anni per sapere la verità su quanto accadde al figlio Marcello Lonzi all'interno del penitenziario delle Sughere a Livorno l'11 luglio 2003. Una morte dichiarata naturale ma che di naturale ha ben poco ha rischiato di essere archiviata come tale nonostante le numerose prove e testimonianze che attestino il contrario. Intervistata telefonicamente dal nostro quotidiano, Maria ha voluto raccontare per filo e per segno gli attimi concitati di quei maledetti giorni che le videro portar via ingiustamente il figlio. Siamo di fronte indubbiamente ad un caso Cucchi-bis del quale non si vuole giungere alla verità. Dopo archiviazioni inaspettate e tentativi di depistaggi, il prossimo 13 Marzo si terrà a Livorno l'udienza al termine della quale si procederà o all'archiviazione per la terza volta del caso o al rinvio a giudizio dei due medici del carcere Enrico Martellini e Orlando Gaspare e del primo medico legale che eseguì l'autopsia sul corpo di Marcello, Alessandro Bassi Luciani. Maria Ciuffi che lotta pubblicamente con forza da undici anni ha raccontato la verità sui meccanismi e gli indizi che portano a dubitare sull'operato delle guardie anche nei giorni precedenti la morte di Lonzi. Era l'11 Luglio 2003 quando l'allora ventottenne Marcello Lonzi fu trovato senza vita nel carcere delle Sughere di Livorno. Entratovi il 3 Marzo dello stesso anno, stava scontando una pena di nove mesi per tentato furto. Proprio la sera in cui fu arrestato, Maria che dell'accaduto non ne sapeva ancora nulla, tramite le testimonianze dell'ex compagna di Marcello accorsa sul luogo dopo aver udito le urla del compagno, è riuscita a ricostruire la dinamica degli eventi. Lonzi la sera del 3 Marzo dunque viene arrestato perché colto su un'impalcatura con una birra tra le mani a ridere e intento a compiere un furto in compagnia di un complice del quale però non si sa più nulla. Il processo per direttissima a Livorno condanna soltanto Lonzi a nove mesi di reclusione. Per essere il più attinente possibile alla verità dei fatti, Maria, che da sempre ha ritenuto giusto che il figlio pagasse per quanto accaduto in merito al reato commesso, ci racconta un altro precedente con la giustizia risalente al 2000 quando, Marcello trascorse un mese di arresti domiciliari a casa della stessa mamma per furto di auto condannato insieme a Gabriele Ghelardini ed una ragazza. Portato al carcere don Bosco, dopo due giorni di reclusione viene affidato alla mamma grazie alla concessione degli arresti domiciliari del pm Antonio di Bugno, lo stesso che ha condotto poi le altre indagini e chiesto l'archiviazione del caso. Tornando al 2003, in merito all'arresto che lo ha portato in carcere alle Sughere dal quale non è mai più uscito, sin dall'inizio appaiono dubbiosi alcuni elementi: i due fogli d'arresto compilati dai poliziotti che ammanettano Marcello, risultano essere contrastanti e la compagna agli atti deposita la sua testimonianza: dice di aver visto picchiare Lonzi e di essere riuscita a strappare di mano il manganello alle guardie. Portata anche la compagna di Marcello in questura, sarà in seguito arrestata, ma per altri motivi. Nei mesi di reclusione che vanno dal 3 Marzo all'11 Luglio, Maria non va a trovare Marcello in carcere per volontà di quest'ultimo che non vuole vederla piangere ma intrattiene uno scambio epistolare al termine del quale Marcello si convince ad incontrare la mamma. Caso vuole che Maria si rechi in carcere cinque giorni prima della morte di Marcello ma non le viene concesso di incontrare il figlio poiché, a detta delle guardie, impegnato in un colloquio interno con la sua compagna. Rivelazione che però non convince la signora Ciuffi che insospettita ipotizza un isolamento o una punizione. Dopo cinque giorni, arriva la triste notizia: Marcello viene trovato morto all'interno del carcere e il suo compagno di cella dichiara agli atti di non aver visto ne sentito nulla. Primo elemento anomalo in questa storia è la comunicazione alla stessa Maria del decesso avvenuta il giorno seguente ma non per mano delle guardie carcerarie. "Ero appena tornata da lavoro quando alle 13.20, la zia di Marcello, sorella del papà, arriva a casa mia per dirmi della morte di Marcello" dice Maria al telefono e ancora "In tempi rapidissimi mi sono recata al carcere per vederlo ma nessuno mi ha fatta entrare. Dopo un'ora di attesa sotto il sole, un ispettore mi fa entrare chiedendomi il motivo di quella visita. Poi mi dice che mio figlio si trovava già al cimitero e stavano eseguendo su di lui l'autopsia". È proprio su quelle ore che ora si sta cercando di indagare per scoprire la verità ma atroci dubbi sorgono spontanei: Come mai hanno svolto l'autopsia senza avvertire la mamma? Perché medico legale e scientifica sono stati chiamati di notte? Anche sull'ora esatta del decesso e sulla posizione della salma vi sono numerose incongruenze: secondo il referto del 118, i medici del carcere e il medico legale Alessandro Bassi Luciani che eseguì l'autopsia, la chiamata di soccorso sarebbe giunta alle 20,14 dell'11 Luglio ma secondo Bellocco, medico legale chiamato dalla signora Ciuffi, e un medico del 118 il decesso sarebbe avvenuto prima delle 17 quando ancora splendeva il sole. Inoltre, per errore, un'ex detenuta dello stesso carcere, viene avvisata della morte del suo compagno nelle prime ore del pomeriggio. Si scoprirà soltanto in seguito che quella detenuta non era la compagna di Lonzi. L'ipotesi accreditata per questa morte è quella di infarto o di morte naturale. Maria il 12 Luglio 2003 si reca al Cimitero dei Lupi ma non riesce a vedere il figlio che vedrà soltanto il giorno dopo nella bara. Da subito, Maria dice di aver notato sul volto di Marcello degli evidenti segni che tutto lasciano pensare fuorché ad una morte naturale. Il polso sinistro dello stesso appare chiuso e dalla camicia bianca si intravedono macchie di sangue. Ed è proprio da lì che ha inizio il calvario di Maria, con quei dubbi che con il tempo si sono trasformati in certezze atroci che non la lasciano più serena. Giustizia: Veronica Panarello dal carcere "portatemi mio figlio… o mi lascio morire" Il Garantista, 4 marzo 2015 Veronica Panarello, la giovane mamma di Santa Croce di Camerina accusata dell'uccisione del figlioletto di 8 anni, Andrea Lorys Stival, è ricoverata in ospedale a causa di un malore che l'avrebbe colta mentre usciva dal bagno della sua cella, nel carcere Petrusa di Agrigento. La donna avrebbe perso i sensi, cadendo per terra e sbattendo violentemente la testa; e per questo nei giorni scorsi è stata portata in via precauzionale nel nosocomio di Agrigento, il San Giovanni di Dio, per accertamenti. È successo nella notte tra sabato 28 febbraio e domenica primo marzo. Come è noto, nelle scorse settimane, il suo legale aveva raccontato, durante una delle sue ultime visite in cella, di averla trovata parecchio prostrata, dopo un periodo di cinque giorni nel quale non si idratava e alimentava adeguatamente, quasi a volersi lasciare andare. Poi la crisi sembrava essere rientrata e l'avvocato Francesco Villardita aveva parlato di una donna fortemente provata ma determinata a combattere per dimostrare la propria innocenza: continua a dire di non essere stata lei a strangolare il figlio con delle fascette da elettricista e tantomeno ad averne poi gettato il corpicino seminudo e senza vita in quel canalone di contrada Mulino Vecchio, in mezzo alla campagna, come un rifiuto qualunque. Il suo arresto, avvenuto il 29 novembre (un mese dopo la morte del piccolo), nel frattempo è stato convalidato sia dal gip di Ragusa che dal Tribunale del Riesame di Catania. Le indagini, coordinate dal procuratore Petralia, sono ancora in corso e sono condotte dalla polizia e dai carabinieri di Ragusa. Ora, questo nuovo episodio, in mancanza di significativi aggiornamenti sull'inchiesta, nella quale Veronica Panarello rimane l'unica accusata del terribile e inspiegabile omicidio, porta nuovamente ad accendere i riflettori sulla controversa protagonista di questa brutta vicenda. Non è la prima volta che Veronica, legittimamente peraltro, "urla" al mondo tutto il suo dolore, invocando disperatamente la fiducia della sua famiglia e soprattutto del marito, pur non riuscendo ancora a spiegare tutte le contraddizioni della sua versione su quell'ultimo giorno di vita del figlio. Contraddizioni che, incrociate con i video registrati dalla telecamere di sorveglianza del paese, sono nel frattempo divenute per gli investigatori e gran parte dell'opinione pubblica "le bugie di una mamma assassina", che però continua a non ammettere il delitto dopo un lasso di tempo significativo. Come se lo avesse rimosso? È un'altra delle suggestioni comparative con il caso di Cogne venute fuori nelle varie interpretazioni psichiatrico-giornalistiche sul caso. Intanto chi l'ha vista nelle ultime ore trascorse in ospedale, ora racconta di una Veronica quasi catatonica, che continua a ripetere di voler vedere il figlioletto più piccolo, il fratellino di appena 2 anni di Loris, che non vede dal giorno del suo arresto, due mesi fa. "Fatemi vedere mio figlio, altrimenti morirò", è la frase che dicono abbia continuato a ripetere come in un drammatico mantra per tutto il tempo che è stata trattenuta in ospedale. Veronica è stata sottoposta - ha confermato l'avvocato - anche a due tac, che hanno comunque avuto esito negativo. Alla fine della giornata di ieri, e dopo gli ultimi esami, i medici dell'ospedale di Agrigento hanno così preso la decisione di disporne le dimissioni e il suo ritorno in carcere. L'avvocato Villardita ha rincuorato la propria cliente e, prima di salutarla, rivolgendosi ai giornalisti, ha puntualizzato che chiederà l'acquisizione dell'intera cartella clinica della sua assistita per farla valutare da un collegio medico appositamente nominato dalla difesa. Poi, il battagliero legale ha concluso: "Dopo i problemi delle scorse settimane, Veronica ha ripreso a mangiare. Ora le stanno anche facendo delle flebo, poiché è comunque arrivata a pesare 40 chili. Ma nonostante questo cattivo stato di salute generale continua a ripetere, senza fermarsi mai, che vuole vedere il figlio piccolo, altrimenti morirà, ha detto di esserne certa, ma nello stesso tempo dice anche di voler lottare fino all'ultimo per dimostrare la sua innocenza e soprattutto per scoprire il vero colpevole dell'omicidio di Loris". Giustizia: il Governo su Mambro e Fioravanti "la libertà condizionale è un loro diritto" La Repubblica, 4 marzo 2015 Il Sottosegretario alla Giustizia Ferri: "Sicuro ravvedimento e angoscioso senso di colpa per le vittime". Ma il deputato Bolognesi, che aveva sollevato obiezioni, ricorda: "Loro si ritengono innocenti per la strage del due agosto 1980". Anche per Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, come per gli altri detenuti, "la libertà condizionale è un vero e proprio diritto e non una graziosa concessione né una non giustificabile rinuncia dello Stato all'ulteriore esecuzione della pena detentiva inflitta con la sentenza di condanna". Sono le parole con cui alla Camera il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri risponde ai dubbi e le obiezioni di legittimità sollevate da Paolo Bolognesi, deputato del Pd e presidente dell'associazione vittime del Due Agosto, la strage che nel 1980 fece 85 morti e 200 feriti. "C'erano i requisiti". La libertà condizionale, ovvero la sospensione della pena detentiva, concessa a Mambro e Fioravanti è regolare, spiega Ferri per conto del governo. Il fatto che Mambro e Fioravanti avessero contatti con altri ex Nar come loro come Gennaro Mokbel (o altri) coinvolti nell'inchiesta di "Mafia capitale", non porta automaticamente lo stop al beneficio. La libertà condizionale si concede con determinati requisiti, e nel caso di Mambro e Fioravanti si è accertato che c'erano. Ad ogni modo, ha aggiunto Ferri come riporta l'agenzia Dire, nella sua autonomia il Tribunale di sorveglianza potrà valutare gli esiti di ‘Mafia capitalè e assumere decisioni. "Nessun collegamento con criminalità organizzata". Per ottenere la libertà condizionale dopo la condanna all'ergastolo, bisogna aver scontato almeno 26 anni della pena inflitta e avere avuto un comportamento che faccia "ritenere sicuro" il ravvedimento, la "vera condicio sine qua non per la concessione del beneficio". Tocca all'autorità penitenziaria certificare "una condotta assolutamente incensurabile" e a un giudice valutare "l'evoluzione psicologica e culturale del condannato rispetto al crimine commesso" soprattutto se ha maturato "una consapevolezza della gravità del danno procurato alle vittime". Va anche escluso il rischio di nuove condotte criminali. Peraltro, il ravvedimento, "pur certo" non per forza dev'essere "anche perenne e assoluto, tanto da costituire una vera e propria garanzia del reinserimento sociale". Infatti il beneficio può essere revocato. Ebbene, rispetto a tutto questo, la Digos di Roma ha escluso che Fioravanti e Mambro abbiano "collegamenti attuali con la criminalità organizzata od eversiva". "Angoscioso senso di colpa". Per il Tribunale di sorveglianza di Roma, per entrambi "l'esistenza di un sicuro ravvedimento" rispetto ai crimini commessi "venne dedotta ‘sulla base degli esiti della lunga osservazione della rispettiva personalità, attestati nelle relazioni degli operatori, in cui si evidenziavano l'avvenuta maturazione di un genuino processo di rielaborazione critica delle scelte criminali del passato e il definitivo ripudio dei disvalori ad esse sottese, accompagnato da angoscioso senso di colpa per le vittime". Bolognesi: "Ma loro si dicono innocenti". Per nulla soddisfatto il deputato Bolognesi: la libertà condizionale a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non andava proprio concessa. "Non capisco come ancora oggi non si intervenga per approfondire la concessione della liberazione condizionale, che non doveva essere assolutamente compresa. Quando si parla della completa comprensione dei danni compiuti dai criminali, credo che sia importante tenere conto che queste persone si ritengono innocenti per la strage di Bologna, dopo tutte le sentenze che ci sono state, e anche questo doveva essere uno dei punti che dovevano impedire di arrivare a questa concessione". Peraltro, la prova del ravvedimento, ricorda, si basò "solo su un appello di varie personalità in relazione alla attività prestata dai due a favore della associazione Nessuno tocchi Caino, che era tra i promotori di una campagna mediatica di disinformazione, abilmente orchestrata, con l'appello "E se fossero innocenti" a favore di Mambro e Fioravanti". Giustizia: ma non bastano i 26 anni scontati da Francesca Mambro e Giusva Fioravanti? di Tiziana Maiolo Il Garantista, 4 marzo 2015 Sacrosanta e legittima, a norma di legge, la libertà condizionale concessa a Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, condannati per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Lo ribadisce, a chi non vuol sentire, Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, in risposta a un'interrogazione parlamentare. Chi non vuol sentire è Paolo Bolognesi il quale, succeduto a Torquato Secci alla presidenza dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage, è diventato deputato proprio per questo suo incarico. E non vuol sentirsi dire che Mambro e Fioravanti, come ogni ergastolano, hanno diritto alla liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere. Ventisei anni sono un periodo lungo della vita. È una storia infinita, quella della strage di Bologna. 85 morti e 200 feriti non sono facili da dimenticare, e la stazione del capoluogo emiliano ne conserva e ne mostra, a pieno titolo, la ferita fisica. Così come hanno tutto il diritto, i parenti delle vittime, di non perdonare coloro che ritengono gli assassini dei loro cari, anche se si sono sempre dichiarati estranei alla strage, pur ammettendo altri gravi delitti. Ma c'è una rabbia vendicativa e rancorosa, che non è solo emozione e sentimento, negli uomini e le donne dell'Associazione bolognese, che non ha il pari in nessuna delle persone che, in altre città o altre situazioni, hanno subito, come loro, un lutto per mano terroristica. Tanto che gli stessi Mambro e Fioravanti intrattengono, come ricorda in Parlamento il sottosegretario Ferri, rapporti epistolari con parenti di altre vittime, mentre hanno invano teso più volte la mano a quelli di Bologna, ricevendo solo risposte negative. La verità è che siamo di fronte a un vero organismo politico, non solo perché l'associazione ha la sua sede in piazza Maggiore presso il gabinetto del sindaco, ma perché, indipendentemente dalle posizioni politiche che potevano avere le vittime quando erano in vita, i loro parenti hanno voluto collocarsi a sinistra. Una sinistra radicale e molto particolare. E in questa veste sono diventati una sorta di tutori di quell'antifascismo militante che aveva poca ragion d'essere ieri, figuriamoci oggi. Nel corso dei decenni, ogni anno il 2 agosto c'è stata una piazza che si è impegnata in modo militante a fischiare qualunque rappresentante di governo che non fosse rigorosamente comunista. Ma comunista a modo loro, naturalmente. Anche il Manifesto, "quotidiano comunista", era visto male, per il suo garantismo. Pur se in quel 1980 il giornale (in cui lavoravano molti bolognesi, che si sono precipitati per settimane a dare una mano alla loro città ferita a morte) aveva seguito in modo appassionato e doloroso tutti gli sviluppi della tragedia. Ma poi, nel corso degli anni, era bastato avanzare qualche dubbio sulle responsabilità di Mambro e Fioravanti per essere insultati e trattati come complici degli assassini. Si era mossa la segreteria del Pci bolognese, che aveva chiesto e ottenuto la pubblicazione di un intervento (contro di me, che scrivevo di giustizia) il cui succo era che eravamo una sorta di mandanti di stragi. E l'Unità era uscita con la prima pagina bianca in segno di protesta quando una delle tante Corti d'assise che giudicarono quel delitto, e che si era permessa di mandare assolti i due giovani dei Nar. "Naturalmente" quella sentenza fu presto corretta. Francesca Mambro e Giusva Fioravanti hanno trascorso la loro giovinezza in carcere. Lo meritavano e sono stati puniti con la pena massima. Noi, che l'ergastolo vorremmo abolirlo dal nostro ordinamento, non pretendiamo che tutti siano d'accordo. Ma non bastano ventisei anni di carcere per due giovani, che pur hanno commesso reati gravissimi, ma che da tempo hanno dimostrato in ogni modo non solo ravvedimento, ma un vero reinserimento sociale, che consiste anche nell'aiuto che danno a tante persone in difficoltà? Il fatto che meritino la libertà condizionale è attestato da direttori di carcere e magistrati e tribunali vari. Anche la Digos di Roma ritiene irrilevanti penalmente alcune telefonate da loro fatte a un altro vecchio esponente dei Nar, come Mokbel, indagato nell'inchiesta "Mafia capitale". Ma non le basta ancora, onorevole Bolognesi? Lei è diventato deputato un anno fa, avendo come unico merito quello di essere presidente di un'associazione. Ma non ci faccia pensare che la sua prossima attività parlamentare consisterà soprattutto nel feroce accanimento nei confronti di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti a causa di un fatto tragico che l'ha colpita 35 anni fa. Nessuno è più la stessa persona, oggi, neanche lei. La smetta, per favore. Si accontenti della risposta che le ha dato il sottosegretario Ferri. Lettere: responsabilità civile dei magistrati, la posizione dell'Anm di Rodolfo Sabelli (Presidente Anm) La Repubblica, 4 marzo 2015 Con riferimento a quanto scritto ieri da Eugenio Scalfari, pensare che la "maggioranza" dell'Anm abbia fatto "pressione" per l'approvazione della legge di riforma della responsabilità civile è sorprendente. Valgono tutte le nostre prese di posizione in sede pubblica e istituzionale, sempre ferme e inequivocabili nell'avversare il disegno di legge, nel merito e come priorità in tema di riforme. È vero invece che noi abbiamo rappresentato al ministro della Giustizia quanto fosse inconcepibile e incostituzionale la responsabilità civile diretta del magistrato, alla quale con forza ci siamo opposti. Ci siamo opposti anche alle altre previsioni incostituzionali del disegno di legge Buemi e dei vari emendamenti: fra le altre, vincoli all'interpretazione, sindacato sul merito dei provvedimenti, eliminazione del tetto massimo alla rivalsa, limiti al diritto di difesa del magistrato nel giudizio contro di lui. Con la presentazione dell'emendamento del Governo, le nostre critiche sono state solo in parte ascoltate. Con altrettanta forza abbiamo rappresentato fino all'ultimo al ministro che l'abolizione del filtro di ammissibilità avrebbe aggravato i carichi, intralciato la giustizia e provocato grave turbamento all'esercizio della giurisdizione. E quanto fosse contraddittorio eliminare il filtro, quando invece andavano proliferando proprio i filtri nel processo civile, con l'introduzione della mediazione obbligatoria e della negoziazione assistita. Il ministro, purtroppo, sul punto non ha ritenuto di ascoltarci. Sabelli ha risposto illustrando il punto di vista dei magistrati. Spetta ora al ministro dire la sua. (Eugenio Scalfari) Lettere: non dite che noi avvocati piangiamo come i giudici per la responsabilità civile di Michele Passione (Avvocato) Il Garantista Sul Garantista del primo marzo è stato pubblicato un articolo del collega Cataldo Intrieri, che ha definito "un fallo di frustrazione" la reazione che la recente legge sulla responsabilità civile dei magistrati ha comportato, con toni più o meno accesi, da parte dell'Anm. A tal proposito, molto si è scritto e detto in questi giorni, ed alti lai sono stati elevati anche da parte di chi, senza sapere realmente come vanno le cose, si è precipitato in soccorso di uno dei Poteri dello Stato. Non stupisce che quando un Potere viene limitato nel suo esercizio (ma meglio sarebbe dire nelle sue storture) se ne lamenti, ma duole constatare che ci si spinga ad obiezioni sul merito della legge senza approfondirne gli aspetti tecnici, e soprattutto senza preoccuparsi di comprenderne le ragioni. Mi asterrò dall'aggiungere il mio commento al tema in questione, dal quale è partito l'articolista, e vorrei invece soffermarmi sul parallelo che traccia tra la reazione dei magistrati e quella degli avvocati, a proposito del disegno di legge che, tra le altre cose, introduce la previsione dell'ingresso di soci di capitale negli studi legali. E del tutto evidente che l'assimilazione tra le due vicende ha il merito di indurre una riflessione sulle reazioni che una Politica di cambiamento può indurre in chi risulta destinatario, in primis, di una novella legislativa. Ma è anche vero che la comparazione proposta sconta il difetto del carattere spurio della materia in raffronto. Ed infatti, i magistrati italiani si contano in numeri equiparabili più o meno a quelli dei soli avvocati penalisti iscritti all'Ucpi. Ma (purtroppo) gli avvocati sono molti di più, circa 250.000 (solo a Roma sono pari a quelli presenti in tutta la Francia). Di più: appare francamente improponibile il raffronto tra chi esercita un potere, il più invasivo e incontrollato tra quelli dello Stato, e chi si muove nel solco di previsioni costituzionali che ne disciplinano l'incedere, ma pur sempre in un rapporto tra privati. Resta sullo sfondo il tema dei diritti delle persone (non solo cittadini, soprattutto per quanto riguarda il diritto penale) che con magistrati ed avvocati incrociano il loro cammino nel momento giurisdizionale: a loro, più che agli altri, dovrebbe pensare il legislatore al momento delle riforme, al bene comune. Ed allora: è ovvio che nessuno può seriamente sostenere che l'avvocatura sia mossa da "uno spirito francescano": non è così, non sarebbe né giusto né possibile. La professione forense o è liberale o non è; dentro questo spazio di azione, ovviamente c'è di tutto, ma "l'uomo nero", il socio di capitale, lungi dall'essere pericoloso perché ignoto nelle sembianze, sottrae libertà (appunto) a chi non vende merce, ma tutela diritti. Legittimamente, in questo caso si guarda al profitto, che poco o nulla ha a che fare con questi ultimi. Così, a onore del vero, se occorre riconoscere che già oggi esistono accordi che vincolano i professionisti a rapporti con lo studio di appartenenza, per consolidare nel tempo competenze particolarmente qualificate, essi sono pur sempre stretti tra pari, anche quando la forza economica dei contraenti è ben diversa da quella ordinariamente presente tra gli studi legali. Il fatto che a chi scrive questo non piaccia risulta irrilevante per il lettore, ma per coerenza se ne fa annotazione pubblica. Qualche giorno fa ho ascoltato un intervento radiofonico del ministro Orlando, a proposito del tema da cui ha preso le mosse questa breve riflessione. Con espressione icastica il ministro (che pure non appartiene alla corrente bersaniana, anche se è ormai impossibile tener conto del numero e delle ricomposizioni degli assetti all'interno del Pd) ha affermato che "nessuno vuol fare i baffi alla Gioconda". Ecco, io credo che noi possiamo accettare e pensare agli acconci più strani, e del resto non esiste una avvocatura monolitica; molto è cambiato, sta cambiando, e ancora cambierà. Ma viene in mente il verso: "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Lettere: caso Stacchio, nota della Giunta dell'Unione delle Camere Penali Italiane www.camerepenali.it, 4 marzo 2015 Dopo l'improvvido intervento dell'onorevole Salvini sul caso dell'Avvocato Canestrini e le numerose adesioni, da parte di numerose Camere Penali, al nostro comunicato di solidarietà, non possiamo non rilevare come la confusione fra l'esercizio dell'inviolabile diritto di difesa e l'avversione abbia toccato limiti davvero non sopportabili. Dopo l'improvvido intervento dell'onorevole Salvini sul caso dell'Avvocato Canestrini e le numerose adesioni, da parte di numerose Camere Penali, al nostro comunicato di solidarietà, non possiamo non rilevare come la confusione fra l'esercizio dell'inviolabile diritto di difesa e l'avversione nei confronti degli autori di crimini odiosi abbia toccato limiti davvero non sopportabili. Anche il difensore della famiglia del rapinatore ucciso, nell'ambito del procedimento a carico del benzinaio Stacchio, è stato fatto oggetto del medesimo linciaggio morale e professionale, dimenticando anche in questo caso, come un avvocato sia sempre il tutore e il difensore dei diritti del proprio assistito, imputato o persona offesa che sia, e legittimo portatore di una aspettativa di giustizia e di legalità e dimenticando che nell'esercizio di questi fondamentali diritti, e nel rispetto di tali legittime aspettative, si fonda ogni stato democratico ed ogni convivenza civile. L'ovvio principio che anche gli ultimi accusati dell'ultimo più spregevole delitto debbano godere, in un paese civile e democratico, del medesimo diritto di difesa, viene sempre più spesso offuscato da un sentimento che irragionevolmente confonde l'avvocato con il suo assistito, la funzione difensiva con la difesa del delitto, sovrapponendo in maniera strumentale due concetti che devono essere tenuti sempre distinti. Occorre sottrarsi con ogni forza a questo dilagante clima di demagogia e di populismo che ormai invade la comunicazione e la cultura in ogni suo approccio ai fatti della giustizia, trasformando ogni sentimento popolare di pur legittima preoccupazione per il ripetersi di determinati fenomeni criminali, in un cieco, indistinto e diffuso desiderio di vendetta. L'avvocatura penale, da sempre sensibile a questi temi, deve impegnarsi ad affrontare questa battaglia, coinvolgendo i media, le scuole, ogni spazio di comunicazione culturale, per ricondurre il paese ad un nuovo più equilibrato e più maturo approccio ai problemi inerenti l'esercizio del diritto di difesa nel processo penale. Lazio: il Garante dei detenuti Marroni "120 i condannati che affrontano l'università" di Massimiliano Gobbi www.ilcorrieredellacitta.com, 4 marzo 2015 I detenuti del Lazio sono molto colti. Tante le lauree prese direttamente dalla cella. Tra tutti spicca un detenuto di 43 anni con ben 25 anni di carcere alle spalle che, in poco tempo, è riuscito a conseguire la terza laurea in Scienze della Comunicazione dopo quelle ottenute in precedenza nelle facoltà di Economia e Commercio e Scienze Politiche. L'uomo, da 25 anni in carcere, si è laureato con il massimo dei voti: 110 e lode presso il penitenziario di Paliano, in provincia di Frosinone. La discussione è avvenuta in videoconferenza con l'Università di Tuscia di Viterbo, mentre il detenuto si trovava nella casa circondariale di Paliano. A dare la notizia è il garante dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni che ha sottolineato l'unicità della storia di questo ergastolano che di fronte alla prospettiva di una "vita in cella" ha compiuto una scelta costruttiva, ha deciso di non abbandonarsi alla disperazione della cella ma ha visto nello studio l'occasione di riscatto sociale. L'ennesima conferma, ove ce ne fosse bisogno, che la criminalità si combatte anche con la cultura e l'istruzione. Marroni spiega che, specialmente negli ultimi anni, molto è stato fatto per favorire i percorsi universitari dei detenuti: se dieci anni fa, nel 2005, i detenuti universitari laziali erano appena 17, ora sono 120. L'ergastolano è il primo laureato della casa circondariale di Paliano. Il numero dei carcerati che decidono di intraprendere un percorso di studi universitario è in aumento nel nostro Paese, anche grazie all'avvio da parte di molte carceri che decidono di avviare progetti di istruzione che vadano oltre la tradizionale formazione della scuola dell'obbligo o della scuola lavoro. I progetti di tele università - come quello ideato dal Garante del Lazio che vede impegnati via skype quattro detenuti - potrebbero dare nuove possibilità a coloro che vogliano intraprendere un percorso di studio negli anni della detenzione. Como: "Il mio Maurizio non si è tolto la vita". Morto in cella, il giudice riapre il caso La Provincia di Como, 4 marzo 2015 Respinta la richiesta di archiviazione della Procura: "Probabile istigazione al suicidio". La compagna: "Voleva cambiare vita". "Maurizio non si sarebbe mai ucciso. Il nostro futuro era fatto di progetti e di una vita assieme", dice la fidanzata, Marta. Ma il 31 ottobre scorso il futuro di Maurizio Riunno, 28 anni di Lomazzo, si è improvvisamente coniugato in un presente di lacrime e dolore per amici e parenti. Suicidio, caso chiuso. Aveva sentenziano la Procura, al termine di una veloce inchiesta sulla morte del giovane, trovato senza vita nella sua cella del carcere del Bassone, ucciso da un lenzuolo stretto attorno al collo. Una conclusione che il giudice delle indagini preliminari non ha condiviso, accogliendo il ricorso presentato dall'avvocato Massimo Guarisco, legale prima di Riunno e ora dei suoi familiari. "Istigazione al suicidio" è l'ipotesi di reato sulla quale il magistrato ha ordinato di investigare. E dopotutto la stessa Procura aveva ipotizzato che il suicidio di Riunno potesse essere stato provocato, salvo poi chiedere l'archiviazione del caso per mancanza di elementi a carico di papabili sospettati. Maurizio Riunno era entrato in carcere il 21 ottobre, arrestato con l'accusa di aver partecipato al pestaggio punitivo di Carlo Longo, 35 anni, in un bosco di Limido Comasco. Un raid al quale avrebbe partecipato anche il cugino di Riunno, ovvero Filippo Internicola, in cella perché accusato - tra l'altro - di aver partecipato all'omicidio di Ernesto Albanese a Guanzate. Insomma, il contesto di conoscenze e relazioni è tale da far suonare più di un campanello d'allarme per quello che, a prima vista, sembrava il suicidio di un detenuto sconvolto per il suo arresto. "Ho conosciuto Maurizio 3 anni fa - ricorda ora Marta Berardinello, la fidanzata. L'ho visto in un bar ed è stato subito amore a prima vista. Volevamo sposarci Io avevo anche già comprato il vestito del matrimonio. Mancavano solo alcune formalità. Lui mi diceva che avrebbe cambiato vita". Tempio Pausania: "Chiedo solo di poter lavorare", grido di aiuto dopo 24 anni di carcere La Nuova Sardegna, 4 marzo 2015 Il disperato appello di un ex detenuto rimasto senza famiglia e risorse economiche: "Chiedo soltanto di poter lavorare". Si chiama "inserimento lavorativo", ed è uno dei primi passi nel progetto, molto più ampio e articolato, per il recupero e reinserimento degli ex detenuti nella vita sociale. Una possibilità che viene concessa, con procedure particolari applicabili a chi ha sbagliato, ed è quanto sta chiedendo, da oltre due mesi, un giovane ex detenuto rientrato in città dopo 24 anni di carcere. Per ritrovarsi da solo, senza l'aiuto di familiari, parenti, amici, con insormontabili problemi di natura economica da affrontare giornalmente, tanto da fargli sembrare la vita da carcerato migliore che quella che affronta da libero. Ha chiesto, senza sinora ottenerlo, l'interessamento degli assistenti sociali del Comune (a Tempio non esiste un centro di accoglienza o una associazione che segua gli ex detenuti), ma il linguaggio burocratico degli addetti al servizio hanno gettato ulteriore sconforto nell'uomo, finito per la prima volta in carcere appena diciottenne e rimesso in libertà dopo i quarantacinque. "La sua esasperazione è pari alla disperazione che mi trasmette ogni qualvolta lo incontro", afferma il suo difensore, l'avvocato Domenico Putzolu, l'unico che riesce ancora a dargli consigli e indicargli la strada da percorrere per l'inserimento sociale. In città l'intervento pubblico è demandato ai servizi sociali del Comune, che da tempo ha avviato una serie di iniziative in sintonia con l'assessorato all'ambiente e l'ufficio tecnico comunale che finanzia percorsi lavorativi destinati alle categorie "protette", tra le quali rientrano quelle previste da una serie di leggi e decreti che comprendono anche gli ex internati. Uno dei progetti di lavoro che impiega persone disagiate e ex detenuti riguarda la sistemazione e abbellimento con fioriere e rotonde degli ingressi cittadini sulle arterie principali (sulla statale Olbia -Tempio - Sassari, nelle due direzioni), un lavoro manuale al quale aspira l'ex carcerato. Il quale riesce a tirare avanti grazie alla Caritas, che gli passa i viveri quotidiani. Stando alle sue dichiarazioni l'ex detenuto non avrebbe ottenuto molte speranze per poter essere inserito nelle liste dei lavoratori socialmente utili al pari di tantissimi altri che, come lui, hanno sbagliato e stanno faticosamente recuperando uno spazio vitale in seno alla società. "Per tutelare il diritto al lavoro dei detenuti è necessario il concorso di tante figure professionali, che devono agire insieme, per non lasciare il percorso a metà. Infatti, il detenuto da solo, se non dotato di grandi risorse (sociali, familiari, economiche) è molto difficile che riesca a concludere il tragitto di reinserimento. Quindi vanno date in primo luogo risposte integrate e coordinate tra tutti gli operatori del privato e del pubblico, sia del Ministero della Giustizia sia degli Enti Locali, e questa è una delle sfide che, quando riesce, è dovuta spesso alla volontà e ai buoni rapporti tra operatori". Lo sostengono i responsabili di "Ristretti" e "AgeSol", due delle associazioni di ex detenuti. Volterra (Pi): ex padiglione Morel dell'Ospedale accoglierà detenuti con disturbi psichici www.pisatoday.it, 4 marzo 2015 La struttura, una volta sistemata con le opportune manutenzioni, ospiterà 12 pazienti provenienti dall'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Il sindaco Buselli: "Progetto finalmente realtà, significative ricadute sull'occupazione". La Regione Toscana, insieme all'Asl 5 di Pisa, ha accettato la proposta di Volterra di stabilire presso l'ex padiglione Morel dell'ospedale il primo modulo residenziale sperimentale ad alta intensità assistenziale per pazienti con disturbi psichici autori di reato. Per le istituzioni tale sede è la più idonea ad ospitare i 12 pazienti che proverranno dall'Opg di Montelupo Fiorentino. L'annuncio lo ha dato il sindaco di Volterra Marco Buselli: "È una notizia che ci riempie di soddisfazione, nei mesi scorsi ci eravamo proposti alla Regione e ora questo progetto può finalmente diventare realtà con significative ricadute occupazionali sul territorio". La residenza sorgerà al piano terra dell'edificio Morel, di proprietà dell'Asl 5, destinato fino a maggio 2014 ad area di degenza riabilitativa. La struttura, di 450 mq, sarà sottoposta a lavori di manutenzione ordinaria per l'adeguamento e la rifunzionalizzazione dei locali. Ospiterà pazienti autori di reati dimissibili dall'Opg di Montelupo Fiorentino per cui è venuta meno la necessità della misura detentiva, pur permanendo in relazione alla loro condizione clinica la necessità di misure giudiziarie di tutela. Stesso discorso per i pazienti dimissibili dalla Rems (Residenza per Esecuzione di misure di sicurezza), per cui è venuta meno la necessità della misura detentiva pur permanendo l'applicazione di misure di sicurezza. Oltre ad essi il modulo residenziale riceverà i pazienti autori di reato provenienti dal territorio per i quali l'Autorità Giudiziaria dispone l'invio in struttura per trattamenti riabilitativi con misure di libertà vigilata attenuata, di tipo non detentivo, in alternativa al carcere o alla misura detentiva nella Rems. Per stabilire l'inserimento dei pazienti nella struttura sarà vincolante il parere del Dirigente psichiatra responsabile della struttura in accordo con l'amministrazione giudiziaria. Il cronoprogramma per l'attivazione della struttura prevede l'adeguamento dei locali entro il 20 marzo, con l'assunzione e la formazione del personale entro il 31 marzo. La succesiva parte di pianificazione e predisposizione delle procedure e dei protocolli dovrà chiudersi entro il 31 marzo, per fare in modo che l'avvio del progetto residenziale parta il primo di aprile. Quando la struttura sarà a pieno regime saranno impiegati 6 operatori socio sanitari, 6 infermieri, 6 educatori, uno psichiatra fisso e uno part time ed uno psicologo. Cisl: l'Opg chiuderà il 31 marzo… e gli internati? "Il 31 marzo scade l'ultima proroga alla legge che prevede il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma dove dovrebbero essere trasferiti gli attuali internati dell'Opg?". Lo chiede il segretario della Federazione sicurezza Cisl toscana, Fabrizio Ciuffini, in una lettera aperta inviata al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi e a tutte le istituzioni, citando il caso toscano di Montelupo, ma ricordando che il problema è generale. Ciuffini spiega che "la legge ha previsto che lo Stato dichiarasse superata la funzione penitenziaria degli Opg" e che secondo la stessa legge "le regioni dovevano realizzare le nuove strutture previste, le Rems", ma che "ad oggi nonostante gli anni trascorsi e le decine di milioni di euro stanziati- le Rems non ci sono". Così, nota Ciuffini, "emerge la solita politica all'italiana: le regioni potranno utilizzare parte degli stanziamenti previsti per realizzare le Rems, per pagare rette a strutture private". Intanto per domani il coordinamento regionale della Uil ha indetto una assemblea con tutti i lavoratori, della Polizia Penitenziaria e del Comparto Ministeri, con all'ordine del giorno l'annunciata chiusura dell'Opg di Montelupo Fiorentino "Prendiamo atto che a seguito della nostra richiesta del 20 febbraio l'amministrazione penitenziaria regionale ha aperto un tavolo permanente sulla questione con le organizzazioni sindacali del comparto. Ciò per noi è sinonimo di garanzia e di attenzione", afferma Eleuterio Grieco. Firenze: internato scappa dell'Opg di Montelupo, scatta la caccia all'uomo di Francesco Turchi Il Tirreno, 4 marzo 2015 Ha eluso la sorveglianza mentre si trovava all'esterno della struttura ed è fuggito a piedi. Nel 1999 fa aveva ammazzato la madre a Prato. Un internato dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, Alessandro Manca, è scappato nella mattinata di martedì 3. Secondo quanto si è appreso l'uomo, un matricida 45enne, si trovava all'esterno della struttura insieme ad alcuni operatori sociali, ha eluso la sorveglianza ed è fuggito a piedi, senza usare violenza. Le forze dell'ordine hanno immediatamente fatto scattare i controlli nella zona. Manca, il 18 maggio del 1999, uccise la propria madre, Franca Fenu, nella loro abitazione a Galciana, una frazione di Prato. All'internato era stata concessa la fine della detenzione in comunità di recupero su ordinanza del magistrato di sorveglianza di Firenze. L'uomo sarebbe stato accompagnato da tre operatori sanitari in auto in municipio per attivare alla polizia municipale i moduli necessari per la libertà vigilata. A quel punto sarebbe stato lasciato solo in auto e sarebbe fuggito. L'uomo è alto circa 1,70, ha i capelli neri corti, indossa un giubbotto, maglia chiara a maniche lunghe, jeans e scarpe da tennis. Le ricerche sono dirette dalla polizia penitenziaria assieme alle altre forze dell'ordine e si sono concentrate nella zona di Malmantile dove sarebbe stato visto da alcune persone. Nell'aprile dello scorso anno si era già allontanato dalla comunità terapeutica "Tiziano" di Aulla (Massa). I carabinieri lo ritrovarono poi a Montecatini dopo alcuni accertamenti e in seguito a una segnalazione dell'Ufficio di sorveglianza di Firenze, che aveva ripristinato la misura detentiva dopo l'arbitrario allontanamento dalla struttura. Già nel 2004 era fuggito da una casa famiglia a Donoratico e fu ritrovato pochi giorni dopo in un fosso a San Vincenzo. Il direttore dell'Opg, Antonella Tuoni, puntualizza: "Non si tratta di un'evasione, ma di un allontanamento. Perché la persona in questione era in "licenza finale esperimento": doveva raggiungere una comunità di recupero ed era stato assegnato agli operatori dell'Asl di Prato. Per disbrigare le pratiche burocratiche legate alla concessione della libertà vigilata, è stato accompagnato alla polizia municipale". E mentre i suoi accompagnatori si trovavano all'interno dell'ufficio, lui è scappato: "Non è la prima volta, era già successo in passato , così come è accaduto altre volte con soggetti che hanno problemi di salute mentale. Questa persona aveva scontato la misura di sicurezza e il tribunale gli aveva concesso un periodo di prova in comunità, che può essere revocata. Ma non si tratta di una misura detentiva: semplicemente vengono fatti dei controlli saltuari dalle forze dell'ordine all'interno della comunità dove il soggetto è collocato". Il direttore dell'ospedale psichiatrico giudiziario cerca di tranquillizzare la comunità: "Si tratta di un uomo che ha commesso un reato gravissimo all'interno delle mura domestiche e in occasione dei precedenti allontanamenti non ha mai commesso reati. Credo che non andrà molto lontano, è senza soldi e senza un posto dove andare". Infine puntualizza: "L'accompagnamento in comunità viene sempre effettuato da operatori sociali, non lo facciamo noi perché trattandosi di una "licenza finale esperimento" non è più sotto il nostro controllo, almeno fino alla revoca del provvedimento". Intanto l'avvocato Francesca Meucci di Prato, legale del matricida, spiega che "Alessandro non è pericoloso, è debole e inerme. Lo ritroveranno sicuramente a breve e non farà del male a nessuno. Come del resto è accaduto nelle altre occasioni in cui è fuggito. Aveva da poco riallacciato i rapporti con i suoi familiari e voleva restare all'Opg invece di essere trasferito in una struttura, quella di Monte Grimano, che non riteneva idonea. Abbiamo impugnato l'ordinanza che lo riconosce socialmente pericoloso e di conseguenza proroga la misura di sicurezza, perché la perizia è stata sbrigativa e non esaustiva". Secondo Meucci "Alessandro è uno schizofrenico paranoide e in questi anni è stato trattato in maniera non idonea, così come non è adatta la struttura che è stata individuata per ospitarlo. Siamo di fronte - conclude l'avvocato pratese - a una situazione molto complicata, ma non va fatta una "caccia al mostro". Firenze: XV Congresso Radicali "impegno su Opg, carceri e diritto alla conoscenza" www.gonews.it, 4 marzo 2015 Si sono conclusi sabato scorso a Montelupo F.no i lavori del XV Congresso dell'Associazione per l'iniziativa radicale "Andrea Tamburi". Il Congresso ha approvato all'unanimità (con un astenuto) una mozione generale con la quale si delinea l'impegno dei radicali fiorentini per i prossimi 12 mesi: verifica sulla reale chiusura dell'Opg di Montelupo F.no come previsto dalla Legge 81/2014; controllo delle attività della Città Metropolitana di Firenze in relazione ai diritti dei cittadini e ai servizi da essa erogati; sostegno all'impegno di Marco Pannella per la realizzazione in chiave internazionale del diritto umano alla conoscenza; incremento delle attività di lotta nonviolenta sulla giustizia giusta per lo stato di diritto contro la ragion di stato, a partire dalla situazione di illegalità delle carceri della Provincia. Il Congresso, tenutosi presso il circolo "Il Progresso" di Montelupo, ha registrato una buona partecipazione, oltre che da parte di iscritti e simpatizzanti radicali toscani, anche della cittadinanza montelupina. Ai lavori hanno partecipato il leader dei radicali Marco Pannella, la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, il tesoriere del Partito Radicale, Maurizio Turco, l'ex deputata radicale Maria Antonietta Farina Coscioni. Sono intervenuti il sindaco di Montelupo, Paolo Masetti, la direttrice dell'istituto penitenziario di Firenze "Mario Gozzini", Margherita Michelini, la responsabile Politiche Sociali dell'Arci - Toscana, Chiara Salvadori, il cappellano del carcere di Sollicciano, Don Vincenzo Russo. Alla conclusione dei lavori, per le cariche statutarie, sono stati riconfermati Maurizio Buzzegoli ed Emanuele Baciocchi, rispettivamente come Segretario e Tesoriere, mentre è stato eletto come nuovo Presidente dell'Associazione, Massimo Lensi. Milano: servono più celle, addio al campo di calcio nel carcere di Opera di Luca Fazzo Il Giornale, 4 marzo 2015 Il penitenziario deve realizzare una nuova ala da 400 posti. E l'unico spazio disponibile è quello dove giocavano i detenuti. Pallone addio, servono celle. D'altronde cos'era Free Opera, la squadra di calcio dei detenuti di Opera, se non - a partire dal nome - il paradosso di un impossibile progetto di evasione, per via sportiva, dalla routine carceraria? Così si prende atto dell'ineluttabile. La squadra è sparita da un pezzo, adesso sparisce anche il suo campo. D'altronde il carcere in fondo a via Ripamonti scoppia, ancor più di San Vittore. Bisogna allargarlo, e stavolta ci sono i soldi per farlo. Oltre i soldi però serve lo spazio. E l'unico spazio disponibile è quello del campo da pallone. Per cui ecco la decisione; dove finora i detenuti si sfogavano inseguendo un pallone, stanno arrivando ruspe, impalcature, calcestruzzo. Dove si incrociavano dribbling e cross, sorgerà una nuova ala del grande penitenziario, destinata a ospitare 400 detenuti in più. Per giocare a pallone, si ritaglierà forse da qualche parte uno spazio per un campo da calcetto. Roba da poco. Nelle ultime statistiche sull'affollamento carcerario, diffuse dalla presidenza della Corte d'appello il mese scorso, la situazione di Opera è fotografata con nettezza: 911 posti disponibili, ma 1.285 detenuti effettivi, pari al 41,1 per cento in più della capienza. Una situazione ancora peggiore di quella di San Vittore, che si ferma a un 29 per cento di sovraffollamento. Certo, Opera è un carcere più moderno, e alla ressa non si aggiunge il peso delle strutture fatiscenti. Ma intervenire era inevitabile, anche perché l'Italia si trova a fronteggiare il rischio di sanzioni da parte dell'Unione Europea se continuerà a non garantire lo spazio minimo vitale a ogni detenuto. Così sta prendendo il via il progetto di ampliamento già contenuto nel "piano carceri" all'epoca del commissario straordinario Angelo Sinesio. Del piano fa parte anche la ristrutturazione dei due bracci di San Vittore chiusi ormai da quasi dieci anni, il secondo e il quarto, a lungo dati per irrecuperabili e invece destinati a tornare a nuova vita: il cantiere è destinato ad aprire tra non molto, aumentando il numero dei posti letto, e - effetto collaterale - chiudendo forse definitivamente l'interminabile dibattito sulla chiusura di San Vittore. La casa circondariale di piazza Filangieri resterà al suo posto per sempre, fino a quando la giustizia non inventerà un rimedio più umano della galera per mantenere l'ordine pubblico. I 400 posti che sorgeranno a Opera sull'area del campo da calcio non saranno destinati a detenuti di massima sicurezza. Del resto nel piano carceri i detenuti ad alto rischio verranno destinati soprattutto nelle strutture apposite in corso di realizzazione in Sardegna, a Sassari e Cagliari. A Opera il reparto del cosiddetto 41bis resterà aperto, anche per appoggiarsi al centro clinico, ma con i numeri attuali. Addio, invece, agli ultimi emuli del Free Opera, utopia di libertà scontratasi con la dura realtà: anche perché in alcune inchieste è emerso che qualcuno dei reclusi approfittava di quei minuti in braghette corte per scambiarsi messaggi e accordi con i vecchi compari. Lamezia Terme: l'unica città in Italia con il tribunale ma senza un carcere di Maria Scaramuzzino Gazzetta del Sud, 4 marzo 2015 Il 27 marzo scorso alla presenza di numerose autorità venne inaugurato in pompa magna lo sportello per l'impiego creato appositamente per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Il giorno dopo, con un'operazione simile a un blitz, la struttura venne chiusa: gli agenti di polizia penitenziaria e i carcerati vennero trasferiti nel carcere di Siano a Catanzaro. Dopo quasi un anno la casa circondariale rimane chiusa, nonostante al ministero della Giustizia non sia mai stato firmato un documento che ne decreti ufficialmente la chiusura. È l'ennesima anomalia di Lamezia, città sede di tribunale ma privata del carcere, dopo oltre un secolo di presenza sul territorio di quello che da tutti viene considerato un presidio di legalità e giustizia. Per chiedere lumi sul silenzio tombale che da un anno è calato sulla vicenda, il comitato "Riapriamo il carcere di Lamezia" ha organizzato un sit-in per lanciare un appello a politici e istituzioni. All'invito degli addetti ai lavori hanno aderito in tanti tra politici, sindacalisti, avvocati del foro lametino. Il consigliere regionale di maggioranza Arturo Bova ha sentenziato: "La chiusura del carcere significa dare un segnale di cedimento nei confronti della criminalità organizzata. In questo anno di assoluto silenzio sulla vicenda, è stato fatto anche un grave danno all'erario. Questa struttura può accogliere detenuti speciali come i collaboratori di giustizia; la sua riapertura può rappresentare una risposta forte e decisa da parte dello Stato alla criminalità che opprime il territorio". Damiano Bellucci, responsabile calabrese del Sappe ha rimarcato il fatto che "Lamezia è l'unica città in Calabria ad avere il tribunale e a non avere più il carcere. Si tratta di un problema politico". L'esponente del Sappe ha dichiarato che la priorità per il sindacato è quella di far funzionare il vecchio carcere, puntando a far costruire un nuovo istituto penitenziario, moderno e funzionale, adeguato alle esigenze di un territorio come quello lametino: non solo molto vasto ma a forte rischio criminalità. Il sindaco Speranza ha ribadito: "Lasciare questa struttura inutilizzata vuol dire fare un torto alla città, oltre che contribuire a sprecare denaro pubblico. Quest'ultimo anno di silenzio sulle sorti del carcere è diventata una situazione kafkiana. È un silenzio inaccettabile". Al sit-in hanno partecipato anche Francesco Grandinetti, Paolo Mascara, Nicolino Panedigrano e Pasqualino Ruberto che sono alcuni dei candidati a sindaco per le prossime elezioni amministrative. Presenti anche il vicepresidente della Provincia di Catanzaro Vittorio Paola e il sindaco di San Pietro a Maida Pietro Putame. A guidare la delegazione degli avvocati, il presidente dell'ordine forense lametino Antonello Bevilacqua. Il vecchio carcere di San Francesco è stato realizzato più di un secolo fa all'interno del convento dei Francescani Riformati. Lecce: colpito alla testa da un detenuto, agente di Polizia penitenziaria in ospedale www.leccesette.it, 4 marzo 2015 Il sindacato Osapp torna ad alzare la voce e chiede più interventi per salvaguardare l'incolumità degli agenti che prestano servizio nei carceri pugliesi. Gravi episodi di violenza nel carcere di Lecce: la denuncia arriva dal segretario del sindacato Osapp Pantaleo Candido che annuncia lo stato di agitazione e non esclude ulteriori iniziative di protesta da parte degli agenti di polizia penitenziaria pugliesi. Il giorno dopo la sventata evasione di un detenuto, due agenti in servizio a Borgo San Nicola sono stati aggrediti, senza per fortuna conseguenze gravi. Il primo episodio nella prima mattinata di oggi quando un detenuto ha tentato di aggredire un agente impugnando una forchetta, l'altro, più serio, è avvenuto intorno alle 9: un detenuto, riferisce Candido, ha rotto il piede del tavolo in legno presente in cella e lo ha scagliato senza motivo contro un ispettore colpendolo alla fronte: l'agente è stato trasportato in ospedale con una ambulanza del 118 con una ferita lacerocontusa molto profonda a pochi centimetri dall'occhio. "L'assenza di un'amministrazione sta portando al collasso l'intero sistema" afferma il segretario Osapp "oggi il personale di polizia ha paura di tutto, tanto da non riuscire a capire cosa rappresenta, eppure l'85% del personale degli istituti è formato da uomini e donne che rappresentano l'istituzione e sacrificano la propria incolumità e le loro famiglie". Vicenza: carcere San Pio X, detenuto aggredisce un poliziotto poi allaga la sua cella Giornale di Vicenza, 4 marzo 2015 Non era la prima volta che dava in escandescenze. Due settimane fa aveva dato fuoco ai materassi, la settimana scorsa si era barricato nella sua cella e poi aveva distrutto tutti i mobili. Qualche giorno fa è andata ancora peggio: ha aggredito un poliziotto (procurandogli per fortuna solo lievi lesioni) e poi è riuscito a staccare il termosifone dal muro. Risultato: ha allagato la cella e in pochi istanti anche i corridoi e tutto il piano del San Pio X sono stati invasi dall'acqua. Troppo. Per lui, già in carcere, è scattato un altro arresto e ieri mattina si è presentato davanti al giudice per il processo per direttissima per rispondere delle accuse di lesioni, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Nei guai Mohamed Rayh, 20 anni, di origini marocchine ma nato in Italia e residente a Padova. In cella a Vicenza da qualche mese, dopo il trasferimento da un altro carcere, il giovane anche in passato era stato accusato di resistenza e lesioni aggravate. Di certo quello accaduto in questi giorni è soltanto l'ultimo, ennesimo episodio di tensione dietro le sbarre. Solo qualche settimana fa due detenuti avevano prima sfasciato tavoli e sedie, poi avevano divelto i termosifoni dal muro. Alla fine avevano dato fuoco ai materassi ed era scoppiato il caos. Perché i nove metri quadrati di cella, in un istante, si erano saturati di fumo nero e tossico e solo grazie al tempestivo intervento degli agenti si era evitato il peggio: c'era infatti il rischio che le fiamme si propagassero e che il fumo invadesse anche le altre celle. I due detenuti non avevano avuto ripercussioni, erano invece finite al pronto soccorso per accertamenti le due guardie penitenziarie. E in ospedale, per delle lesioni al collo, è dovuto andare anche l'agente aggredito qualche giorno fa da Rayh. "Gli operatori di polizia penitenziaria - ha considerato Luigi Bono, segretario provinciale del Sappe - lavorano in costante stato di emergenza dibattendosi tra tagli sia al personale che ai mezzi di servizio". "C'è poi la tanto decantata sorveglianza dinamica - ha aggiunto. Ci sono tensioni continue, ma si è preferito lasciare aperte le porte delle celle e far girare nei corridoi, a non far nulla, i detenuti. Si è creato così un regime aperto che ha acuito l'ozio e favorito le tensioni". "In quest'ultimo caso è scattato l'arresto - ha concluso Bono. Spesso tuttavia, capita che chi danneggia beni della pubblica amministrazione non ne risponda. Neppure economicamente e questo significa che poi sono i cittadini a dover pagare". Pavia: nel carcere di Vigevano detenuto tenta il suicidio, salvato dagli agenti Ansa, 4 marzo 2015 A Vigevano gli agenti di polizia penitenziaria hanno salvato la vita a un detenuto che ha tentato il suicidio. Lo rende noto il segretario del sindacato Osapp, Leo Beneduci, in una nota. Il fatto è accaduto ieri attorno alle 19.30, quando un detenuto di nazionalità italiana di 40 anni, all'apparenza tranquillo - riferisce la nota - ha tentato il suicidio per impiccagione, salendo su uno sgabello e lasciandosi cadere. Due agenti sono intervenuti, sono scattati i soccorsi e il detenuto è ora fuori pericolo. "I due agenti di Vigevano non si sentono eroi - afferma Beneduci - perché questa è la prassi quotidiana e nessuno li ringrazierà. potrebbero dirsi fortunati perché se il ristretto fosse morto la colpa poteva essere anche data a loro. Se avessimo un Ministro oltre che della Giustizia, anche della Polizia Penitenziaria e se avessimo al nostro vertice un Capo del Corpo che apprezza e incentiva il proprio personale, di fatti quali quello di Vigevano, come delle altre centinaia e centinaia di consimili su tutto il territorio, lo verrebbero a sapere tutti, opinione pubblica e mass media, ma purtroppo non è cosi. L'unica speranza è - conclude Beneduci - che la Polizia Penitenziaria abbia presto un nuovo assetto una nuova e migliore organizzazione lontano dai personaggi che oltre a non considerarne il quotidiano sacrificio ne disprezzano le qualità e il ruolo insostituibile al servizio della Collettività nazionale". Padova: "A tempo debito", detenuti-attori raccontano il loro "limbo" in attesa di giudizio di Alessandra Russo www.padovaoggi.it, 4 marzo 2015 La casa di produzione padovana Jenga Film ha frequentato per 5 mesi la Casa circondariale, offrendo la possibilità a 15 carcerati di frequentare un corso di cortometraggio. Ne è nato il documentario "A tempo debito". Non è un altro documentario sul mondo carcerario. "A tempo debito", girato all'interno della casa circondariale di Padova, è qualcosa di nuovo, che mette in luce gli aspetti più autentici della vita dei detenuti "in attesa di giudizio", quelli che non sanno cosa ne sarà di loro, che se ne stanno rinchiusi nell'incertezza, ignari di quanto tempo ancora dovranno trascorrere lì dentro, o altrove. Un documento "senza preconcetti e pregiudizi" che ha richiesto due anni di lavoro, tra difficoltà, incomprensioni, scoperte e integrazione. Si tratta di un filmato di 81 minuti. Poco più di un'ora per raccontare la vita all'interno del carcere preventivo di Padova. La mini troupe della casa di produzione padovana Jenga Film ha frequentato per 5 mesi la casa circondariale, offrendo la possibilità a 15 detenuti di prendere parte ad un corso di cortometraggio conclusosi con la produzione del corto "Cofee, sugar and cigarettes". Da questa esperienza, umana prima che artistica, nasce il documentario "A tempo debito", per la regia di Christian Cinetto (la prima visione nazionale sarà proiettata venerdì 6 marzo al cinema Multiastra di Padova). Tutto è iniziato nel marzo 2013, esattamente due anni fa. Non c'erano soldi, ma l'idea sì. Non è stato semplice farsi aprire le porte del carcere, ma, una volta partito il progetto, i detenuti hanno fatto a gara per accaparrarsi uno dei 15 posti disponibili. Le locandine che annunciavano il casting "sparivano", all'interno della casa circondariale, per eliminare la concorrenza. Circa 60 gli interessati, 40 gli esaminati, 15, infine, le persone che hanno preso parte all'iniziativa, che, con il tempo, ha ottenuto anche un finanziamento regionale con cui è stato possibile pagare la troupe che ha girato il corto. Per il resto, il progetto è stato interamente auto-sostenuto. "Quando siamo partiti, mi hanno chiesto perché partire con un'idea tanto simile a quella di "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani. Non è affatto simile - spiega il regista Cinetto - la nostra storia è un'altra. Noi non abbiamo a che fare con persone la cui pena è già stata decretata, il mondo che vogliamo mostrare è quello del carcere preventivo, quello dove le indagini sono ancora aperte, e i detenuti non conoscono né dove né per quanto saranno ancora rinchiusi. Abbiamo voluto raccontare il loro "limbo", e abbiamo deciso di farlo senza conoscere i reati che questi uomini avrebbero commesso, per dare una visione autentica dell'essere umano oltre il suo crimine". Due volte a settimana per cinque mesi. Questo è stato l'impegno dei responsabili del progetto. 15 detenuti tra i 19 e i 51 anni. 7 tunisini, 2 nigeriani, un albanese, un moldavo, un algerino e solo 3 italiani. Sono gli attori e scrittori di questo documentario. "Non è stato semplice, sin da subito abbiamo dovuto scontrarci con la difficoltà della lingua e della cultura dei detenuti. All'interno della casa di reclusione, oltre l'80% dei rinchiusi sono stranieri, di circa 10 diverse etnie, e il confronto culturale è estremamente problematico". Non solo. Il problema linguistico era inizialmente anche un ostacolo all'espressione autentica del mondo interiore di queste persone. "Ci siamo accorti che spesso loro credevano di avere detto qualcosa, invece in italiano non veniva fuori quello che davvero avrebbero voluto intendere". Difficile anche far comunicare gli stessi detenuti tra di loro: "Le loro vite sono diverse, impossibile metterle insieme - spiega il regista - abbiamo capito che se davvero volevamo trovare un punto d'incontro, quello non poteva essere che il loro stesso stato di detenuti in attesa di giudizio". Tutti ad esempio possono contattare l'esterno solo tramite lettere cartacee, che non si sa se arriveranno, e se troveranno risposta. Tutti soffrono la mancanza dai propri cari, dalla mamma: "Alcuni sono ancora dei ragazzi - racconta il regista - hanno bisogno dei genitori". Un'impresa non semplice. Sin da subito gli ideatori del progetto avevano spiegato ai carcerati, come alla casa circondariale, alla direzione e alla psicologa del carcere, che non era scontato che l'iniziativa venisse portata a compimento. Due persone hanno deciso di abbandonare in corso d'opera. Alla fine però il corso e il documentario sono andati a buon fine. "Speriamo che il mondo che gli spettatori conosceranno serva a vedere l'uomo oltre il suo reato - spiega il regista - oltre i "ma". Noi siamo entrati in quel modo di vivere, lo abbiamo assimilato. Ed è una realtà che non puoi conoscere se non ci entri dentro". "A tempo debito" è un titolo che parla. "Il tempo - spiega Cinetto - è l'elemento essenziale. Lo è per i detenuti, che vivono in un'attesa che non dipende dal loro arbitrio, ma da chi deciderà per loro. Lo è per noi che abbiamo lavorato nel tempo per mettere insieme queste persone e portare avanti un progetto nonostante gli attriti e le chiusure. Per un carcerato, ad esempio - racconta - non è facile mettersi in gioco, anche magari con ironia - nella casa di reclusione ha un ruolo, e deve mantenerlo per farsi rispettare. Inoltre tutti loro hanno un debito da pagare". "Dalle lettere scritte dai carcerati, inviate e non, destinate a persone reali o immaginarie, abbiamo scavato per trovare quel qualcosa in comune da cui partire per creare, tutti e 15 insieme, nonostante le difficoltà culturali, una storia da condividere, nella quale ciascuno di loro fosse protagonista. Mentre lavoravamo con loro cercavamo in ogni modo di condurli fuori di lì, di farli evadere con la testa". Un progetto fatto di così tanta passione da avere incuriosito anche alcuni agenti del carcere, 5 di loro compaiono anche nel documentario. L'attesa, la diversità, la detenzione, vissuta come punizione e come "mancanza", la nostalgia di casa, la violenza fisica quando le parole non bastano più, la paura del fuori, di cosa la gente vedrà in loro quando usciranno di galera. La "realtà" dentro le mura della casa di reclusione di Padova, raccontata in 81 minuti. Due di loro sono stati scarcerati subito dopo le riprese. Tre sono ancora in attesa di giudizio. "La privazione che loro scontano dell'essenziale è già di per sé una punizione estrema - sottolinea il regista - quello che dovremmo chiederci è che persona vogliamo che esca da lì". Civitavecchia (Rm): la Compagnia "Sangue Giusto" debutta a Cittadella della Musica www.trcgiornale.it, 4 marzo 2015 Un debutto importante per la compagnia Sangue Giusto, costituita da un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di Civitavecchia, che si è cimentata per la prima volta venerdì pomeriggio alla Cittadella della Musica con lo spettacolo "L'orda oliva". Il titolo si ispira al saggio di Gian Antonio Stella, "L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi", ma è soprattutto un libero adattamento dal racconto "Il lungo viaggio" di Leonardo Sciascia. Seppure realizzato con scarsissimi mezzi, la scenografia di Francesco Giannini ridotta all'essenziale, con molto spazio all'immaginazione, il lavoro è perfettamente riuscito e merita di essere rappresentato anche su altri palcoscenici, magari anche di fronte a studenti. L'iniziativa, pregevole sotto il profilo socio-culturale, rientra nell'ambito del progetto "Con Amleto dentro - Officine del teatro sociale, sostenuto dalla Regione Lazio con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio, il patrocinio del Comune di Civitavecchia ed il sostegno del Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio. Si tratta di una riscrittura collettiva dei partecipanti al Laboratorio Teatrale: Massimo Lanzi, Massimiliano Mazza, Francesco Montella e Marco Pirisino per la regia di Ludovica Andò che ha anche presentato lo spettacolo. Le musiche di Andrea Pandolfo e il disegno luci di Michelangelo Vitullo. Trattato con molta sensibilità, il tema è molto attuale per il parallelo con il dramma che molti vivono in questi anni: un gruppo di clandestini, di emigranti italiani, truffati da un malavitoso, tentano di raggiungere l'America dove i nuovi arrivi sono visti con disprezzo ed intolleranza. Così come oggi accade ad altri emigranti, ancor più disperati. Il pubblico presente ha molto apprezzato il lavoro sottolineato da moltissimi applausi. Salerno: la Casa di reclusione di Eboli si aggiudica il Premio "Persona e Comunità" Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2015 Per il secondo anno consecutivo la Casa di reclusione di Eboli si aggiudica il premio "Persona e Comunità - i Migliori progetti nell'ambito della Pubblica Amministrazione e del Volontariato" per la sezione "apprendimento e formazione" con la seguente motivazione: "Progetto di formazione ad impronta artistico-culturale di inclusione sociale, orientato al recupero e reinserimento nella società di detenuti tossicodipendenti. Attraverso i processi di rappresentazione teatrale mette in atto un buon procedimento educativo di recupero centrato sulle problematiche soggettive". "L'Attribuzione del premio alla Casa di Reclusione di Eboli" - è stato sostenuto dal Presidente dell' Associazione Italiana Formatori nel corso della premiazione avvenuta a Torino - da parte del il comitato scientifico che ha curato la selezione delle numerosissime candidature "è il riconoscimento del lavoro fatto dalle molteplici api operose di baconiana memoria che fortunatamente ancora sono presenti presso la nostra Pubblica Amministrazione". In sintesi il progetto premiato ha ad oggetto una complessa e completa attività teatrale che prevede il coinvolgimento a 360 gradi dei detenuti con la costituzione della compagnia teatrale "Le canne pensanti", il suo impegno nell'annesso laboratorio di scrittura creativa, l'allestimento e la messa in scena delle relative pieces con la creazione di costumi e scenografie. Alla già intensa produzione che ha realizzato la scrittura e la messa in scena delle seguenti opere: "Un sogno di libertà. Da Garibaldi al Brigantaggio: la questione Meridionale vista dalla parte dei vinti"; "un Angelo venuto dal mare" vita e morte di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica assassinato per il suo impegno; "La Divina Galera: viaggio dagli inferi alle stelle, nel mezzo del cammin di Malavita"; "Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori" (omaggio a Fabrizio De Andrè"); la rievocazione storica di "Ana de Mendoza de la Cerda", principessa di Eboli, che ha abitato il Castello Colonna sede dell' Istituto Penitenziario fatta rivivere in un'atmosfera cinquecentesca attraverso una precisa ricostruzione storica, si sono aggiunti gli spettacoli tratti dalla tradizione come "La Cantata dei Pastori", "La gatta Cenerentola" e "Omaggio a Troisi" oggetto di una complessa e completa rassegna teatrale che ha visto un numerosissimo pubblico. L'ultimo lavoro può definirsi un vero e proprio "colossal" per il coinvolgimento di ben 20 detenuti che porteranno in scena l'opera da loro scritta "Diversamente Italiani: Briganti, Emigranti Terroni". L'importanza dell' attività è da ricercare nel fortissimo coinvolgimento dei detenuti non solo mediante l'indiscussa valenza terapeutica del teatro, ma soprattutto mediante le ricadute pratiche che l'attività si è imposta e che ha realizzato: dalla scrittura alla messa in scena si è passati alla produzione ed alla pubblicizzazione degli spettacoli che, numerosi, sono stati dati, come già detto, anche all'esterno facendo conoscere una realtà che realizza concretamente la promozione umana e culturale delle persone che le vengono affidate. Indiscusso punto di forza di tutta l'attività è la totale assenza di costi a carico dell'amministrazione: il laboratorio sostanzialmente autogestito si avvale, infatti unicamente del supporto, oltre che degli operatori interni fra cui lo stesso Direttore, di una nutrita schiera volontari. Droghe: se l'educazione nelle scuole è affidata ai cani antidroga di Patrizia Meringolo Il Manifesto, 4 marzo 2015 Si è parlato molto nelle ultime settimane a Firenze di droga a scuola. Casus belli è stato l'intervento "olfattivo" dei cani negli istituti superiori, visto come argine per dissuadere i ragazzi dai cattivi comportamenti, identificati dai cani senza alcun ragionevole dubbio. Alcuni dirigenti scolastici però hanno rifiutato una prassi di questo genere, con stupore di chi considerava la prevenzione dissuasiva l'unica arma di difesa possibile. Si è originato un dibattito che - al di là dei cani sì/cani no - ha riguardato il consumo giovanile di sostanze illegali e, anche per l'impegno della Flc-Cgil, la scuola come luogo formativo e non come istituzione totale. In primo luogo occorre definire il problema: parliamo di dipendenze in generale o solo di sostanze illegali? e in quest'ultimo caso, solo di cannabis? Perché è questa, e solo in minima quantità, che i cani talvolta trovano nelle scuole. E in definitiva, cosa preoccupa? La salute degli studenti, gli aspetti penali, la prossimità al mercato deviante, oppure il fatto che tutto ciò avvenga a scuola? Altra questione basilare è la centratura sul prevenire o sul sanzionare. I dati presentati dal criminologo britannico Alex Stevens in un recente seminario promosso da Forum Droghe evidenziano che - a fronte di una stabilizzazione dei consumi nei paesi europei - le politiche penali sono molto diverse, quindi la legge viene usata come deterrente (peraltro di scarsa utilità) e non come strumento di controllo del fenomeno. Per conoscere, in ogni caso, il trend dei consumi sono disponibili i dati "ufficiali" del Dipartimento delle Politiche Antidroga, secondo i quali il consumo di cannabis, almeno una volta nella vita, riguarderebbe meno del 25% dei ragazzi. Dato preoccupante per chi lo voglia leggere come uno su quattro, ma sicuramente inferiore alla realtà. A fronte di tutto ciò, le evidenze scientifiche dimostrano che per gli interventi preventivi è basilare analizzare indicatori di setting in grado di dare il "senso" e la "ritualità" dei consumi, la percezione del rischio e soprattutto le esperienze di esplorazione di questo tipo di comportamenti. Si studia la resilienza, nel senso di acquisire le capacità di coping nel confrontarsi con il rischio, proprio o dei pari, e con le sue possibili conseguenze, come la guida dopo il consumo. Quanto agli interventi, si è rivelata fallimentare una modalità del tipo causa-effetto (intervento repressivo o sanzionatorio, quindi cessazione del comportamento indesiderato) a favore di modalità sistemiche, in cui una politica preventiva nasce da un insieme di attori sociali, utilizzando pienamente le risorse territoriali. Lavorare con una logica "resource oriented" permette di vedere i giovani non come consumatori (e non solo di sostanze) ma come partecipanti attivi nella costruzione del benessere. Un'ultima considerazione riguarda la "fragilità" del contesto scolastico. La progressiva svalorizzazione della scuola, in particolare pubblica, porta a percepirla come un ambiente di scarso valore formativo e di scarsa credibilità sociale, per cui tende ad assumere le caratteristiche di contesto ricreazionale, con i comportamenti tipici dei luoghi di divertimento. Se vogliamo davvero parlare di prevenzione a scuola, è necessario ridare valore educativo e formativo sia alle professionalità al suo interno sia a quelle presenti nella comunità locale (Asl, SerT, forze dell'ordine, governo locale), progettando un sistema in cui la scuola è un nodo significativo della rete, non con finalità di ispezione (i cani, o anche l'esame generalizzato del capello), ma per la costruzione del benessere e della convivenza civile. Brasile: giudice federale decide l'espulsione dal Paese di Cesare Battisti di Francesca Morese Il Manifesto, 4 marzo 2015 Dietro le quinte, si profila la possibilità di uno "scambio" tra l'ex militante dei Pac e il sindacalista Pizzolato. Uno schiaffo al garantismo e un colpo basso all'ex presidente brasiliano Lula Da Silva. Sono in molti a leggere in questo modo il procedimento di espulsione deciso da un giudice federale brasiliano nei confronti di Cesare Battisti, ex militante dei Proletari armati per il comunismo, un gruppo attivo in Italia nella temperie degli anni 70. Nel 2010, l'allora presidente Lula gli aveva riconosciuto l'asilo politico, rifiutando l'estradizione chiesta dall'Italia nell'ultimo giorno del mandato. Uno smacco per il governo italiano di allora, una questione sempre sul piatto per quelli che sono venuti dopo, il "rompicapo" degli anni 70 essendo ancora un passato indigeribile. Ora, però, secondo quanto ha suggerito la stampa brasiliana e hanno confermato in anonimato fonti ben informate, la questione potrebbe essere tornata in campo a seguito di una vicenda italo-brasiliana: quella del sindacalista Henrique Pizzolato, militante del Partito dei lavoratori (Pt), il partito di Lula e dell'attuale presidente Dilma Rousseff. Pizzolato, alto dirigente del Banco do Brasil si è trovato al centro di una complicata vicenda giudiziaria. Un processo politico e mediatico che gli è costato una condanna a oltre 12 anni di carcere per corruzione e riciclaggio. Un processo-farsa, secondo i suoi legali e il campo che lo difende (movimenti sociali e cristiani, sindacati, associazioni democratiche), pronti a considerarlo "un nuovo caso Tortora". Un capro espiatorio - ha detto alla stampa Pizzolato - punito da una condanna ingiusta per la sua "storia nel movimento sindacale legata strettamente a quella dell'ex presidente Lula, vero bersaglio di tutta la trama politica del mensalão". Lo scandalo del mensalão (mensile) è scoppiato a giugno del 2005 e ha provocato una crisi politica nel Brasile allora guidato da Lula. Il nome fa riferimento a una tangente corrisposta ai parlamentari in cambio di voti compiacenti nel varo delle leggi. Allora si è parlato di impeachment al presidente. Una minaccia utilizzata anche nei confronti dell'attuale presidente Rousseff a proposito dello scandalo Petrobras, il processo per tangenti che interessa l'impresa petrolifera di stato. Pizzolato è di origini italiane e, dopo la condanna, è tornato in Italia con documenti falsi, si è costituito e ha chiesto di restare. In Brasile - sostiene la difesa - dato l'alto livello di insicurezza esistente nelle carceri, rischierebbe la vita. A ottobre, la Corte d'Appello di Bologna ha negato l'estradizione, ma la Cassazione ha annullato la sentenza. E tutto è ora nelle mani del ministro della Giustizia Andrea Orlando. A lui si sono rivolti 21 senatori - primi firmatari Lo Giudice e Manconi (Pd) - che hanno presentato un'interrogazione in favore di Pizzolato. Un altro gruppo si sta muovendo all'europarlamento. Spiega al manifesto Fausto Gianelli, legale di Pizzolato: "In attesa delle motivazioni della sentenza, abbiamo preparato un ricorso alla Corte europea dei diritti umani, che in casi eccezionali ha la possibilità di sospendere la pena e decidere misure intermittenti". Lo scambio con Battisti? "Non si fa mercato sulle persone", risponde l'avvocato. E mentre Pizzolato attende in carcere, Battisti aspetta di essere espulso. In base alla legge, non può più essere estradato. Però, poiché non possiede documenti ed è entrato in Brasile con quelli falsi, un giudice federale ne ha disposto l'espulsione: molto probabilmente verso i paesi da cui è arrivato, Francia e Messico. Ma gli si potrebbe anche consentire di scegliere la destinazione. L'ossessione italiana per l'uomo che era negli anni 70, di Andrea Colombo Dopo quattro anni si riapre, come in un gioco dell'oca in cui si torna sempre al punto di partenza, il caso Cesare Battisti. Era l'8 giugno 2011 quando la Corte costituzionale brasiliana negò l'estradizione nei confronti dell'ex militante dei Proletari armati per il comunismo, detenuto in Brasile dal 2007, dopo aver dovuto abbandonare la Francia dove viveva dal 1981. Quando la Corte emise il suo verdetto, Battisti aveva già ottenuto da oltre due anni lo status di rifugiato politico concessogli dall'allora ministro della Giustizia Tarso Genro. Le pressioni italiane, dopo quella decisione, erano state senza precedenti, tali da richiamare addirittura l'ambasciatore italiano in segno di protesta. L'obiettivo era stato centrato. In novembre il Tribunale supremo federale si era espresso contro la concessione dello status di rifugiato, rimettendo però la decisione finale nelle mani del presidente. Nell'ultimo giorno del suo mandato, il 31 dicembre 2010, Lula si era espresso contro l'estradizione, anche sulla base delle regole brasiliane che la vietano in paesi nei quali vige l'ergastolo, che in Brasile non esiste. Sembrava finita. Non lo era. Per il governo Berlusconi ottenere lo scalpo di Battisti era diventata una questione d'onore, un risultato politico senza alcuna misura con la portata reale della vicenda. Il governo di Roma aveva dunque insistito, esercitato pressioni di ogni sorta, martellato il Brasile, presentato due ricorsi presso l'Alta corte brasiliana contro la negazione dell'estradizione. Entrambi respinti. Una storia che aveva coinvolto le relazioni diplomatiche prima con la Francia, che aveva concesso l'estradizione nel 2004, dopo anni di insistenze italiane, poi con il Brasile, sembrava dunque essersi chiusa il 22 giugno 2011, quando la Corte aveva concesso a Battisti il permesso di soggiorno in Brasile. Ieri la giostra ha ripreso a girare. Gli esponenti della destra hanno mitragliato di dichiarazioni feroci le agenzie. Il centrosinistra, con qualche eccezione, è stato più cauto. Ancora non è chiaro se Battisti potrà scegliere in quale Paese essere spedito o se dovrà andare in Messico o in Francia, le nazioni da cui aveva raggiunto il Brasile. Facile prevedere che Roma farà di tutto perché lo scrittore venga inviato in uno dei Paesi che si affretterebbero a rimandarlo in Italia, dove lo attende la condanna all'ergastolo. Quattro omicidi. Due compiuti direttamente, uno progettato, in un altro presente nel commando ma in funzioni di supporto. Queste le motivazioni della condanna, esito di uno di quei processi sommari che erano allora la norma. Un teste d'accusa principale, su cui si basa l'intera architettura della sentenza: il pentito Pietro Mutti, fondatore dei Pac dei quali Battisti è da sempre indicato, a torto, come uno dei capi, mentre era un semplice militante. Testimonianza discutibile, quella di Mutti: accusò Battisti di aver ucciso un agente di custodia, Antonio Santoro, poi fu costretto ad ammettere di aver sparato lui. Lo indicò come esecutore di un altro omicidio, che Mutti conosceva solo de relato, quello dell'agente della Digos Andrea Campagna, ucciso quando i Pac si erano già sciolti. In realtà a sparare era stato un altro militante, Giuseppe Memeo, reo confesso, e l'identikit dell'uomo che era con lui è opposto a quello di Battisti. Ma in fondo non è questo ciò che importa. Quel che rende assurda l'ossessione italiana per l'ex detenuto comune politicizzatosi in carcere e poi diventato, dopo l'arresto nel ‘79 e la fuga dal carcere nell'81, scrittore di successo è l'assenza di qualsiasi pericolosità sociale. Battisti ha cambiato vita da ormai 35 anni, con il militante armato degli anni 70 non ha più nulla a che spartire, ha pagato i suoi crimini con anni di galera e con una vita spesa a fuggire da un paese all'altro. Potrebbe bastare. Dovrebbe bastare. Stati Uniti: ex deputato Massimo Romagnoli detenuto a Manhattan in sezione speciale www.italiachiamaitalia.it, 4 marzo 2015 Massimo Romagnoli, l'ex deputato di Forza Italia originario di Capo d'Orlando, arrestato in Montenegro lo scorso dicembre con l'accusa di traffico d'armi, estradato la scorsa settimana negli Usa su richiesta degli Stati Uniti, dopo due mesi trascorsi nel carcere di Podgorica. Romagnoli, è ora detenuto nel Metropolitan Correction Center di Manhattan e il Console Generale a New York ha prontamente preso contatto con l'Avv. Bruce J. Maffeo, incaricato dalla famiglia di seguire il caso. Aldo Di Biagio, senatore di Area Popolare, che fin da subito di è dato molto da fare per essere vicino a Romagnoli e per fare in modo che a lui venisse garantita la massima assistenza da parte della nostra rete diplomatica (Di Biagio è anche andato a trovarlo personalmente in carcere a Podgorica, il 2 gennaio scorso), ha contattato l'ambasciatore d'Italia negli Usa, Claudio Bisogniero, per chiedere notizie e assistenza per Massimo Romagnoli. "L'ambasciatore mi ha assicurato che il caso viene seguito con grande attenzione e il Consolato Generale a New York - nella cui circoscrizione consolare ricade il caso - funge da capofila". I funzionari del Consolato Generale non hanno ancora potuto incontrare Romagnoli in quanto questi si troverebbe in una speciale sezione da cui non è possibile avere contatti con l'esterno. Secondo l'Avv. Maffeo tale situazione dovrebbe essere dovuta ad esigenze di spazio e, pertanto, temporanea. Di Biagio, eletto nella ripartizione estera Europa, fa sapere al nostro quotidiano online che "appena sarà possibile" ha in programma una visita a Romagnoli negli States. Romagnoli è stato estradato negli Stati Uniti Massimo Romagnoli, l'ex deputato di Forza Italia arrestato lo scorso 16 dicembre, a Podgorica in Montenegro. Secondo l'accusa avrebbe tentato di vendere armi alle Farc colombiane. Romagnoli per gli Stati Uniti sarebbe "un trafficante d'armi residente in Grecia, capace di procurarsi dei certificati di uso finale fraudolenti per armi militari". Assieme al "trafficante d'armi" Cristian Vintila e al broker Virgil Georgescu, entrambi rumeni: mandato di cattura spiccato dalle autorità americane. Massimo Romagnoli ha quindi lasciato il carcere di Podgorica per salire su un aereo diretto a New York. Secondo l'avvocato che in Italia si occupa del caso, il professor Nicola Pisani, "probabilmente proprio in questo momento è in volo" verso il Nord America. Ne ha dato notizia pure il portale di notizie Analitika a Podgorica. Una estradizione avvenuta quasi di sorpresa, "senza nemmeno avvisare gli avvocati", spiega il prof. Pisani. "Adesso - aggiunge il legale di Romagnoli - tutto passa alla giurisdizione americana". Di questa situazione l'avvocato pensa "tutto il male possibile", perché di fatto è stata una mossa inaspettata, almeno nei tempi, ma anche nei modi con cui è stata messa in atto. La situazione che riguarda Massimo Romagnoli, siciliano doc, originario di Capo d'Orlando, a questo punto "è più complicata, si sposta su un piano diverso". Comunque, ricorda Pisani durante il colloquio con Italiachiamaitalia.it, "è stato fatto un ricorso a Strasburgo", dunque staremo a vedere. Certo è che il caso Romagnoli ora prende davvero una brutta piega. Per reati come quello di cui è accusato, negli Usa si rischia il carcere a vita. La scorsa settimana, in una lunga lettera indirizzata da Romagnoli al direttore del quotidiano online Italia Chiama Italia, Ricky Filosa, spiegava che i propri legali stavano lavorando per evitare che si arrivasse all'estradizione negli Usa. Nel suo messaggio a Filosa, Romagnoli chiedeva di contattare il ministero dell'Interno italiano e la Farnesina, affinché le istituzioni italiane si potessero attivare per farlo rientrare in Italia: "Starò pur sempre in galera, ma in un carcere italiano e avrò la certezza di essere giudicato nel mio Paese", sottolineava Romagnoli. Non è andata così: gli americani si sono mossi in fretta e hanno ancora una volta spiazzato tutti. Cina: morto in carcere Vescovo di 94 anni, situazione dei diritti umani resta drammatica www.acatitalia.it, 4 marzo 2015 La situazione dei diritti umani in Cina resta drammatica. A denunciarlo Acat France, che partendo dai dati forniti da World Coalition, evidenzia come anche nel 2014, il paese asiatico confermi il proprio primato nell'infliggere la pena di morte con 3.000 esecuzioni effettuate, pari al 2013. Anche la tortura e i trattamenti disumani si confermano come fenomeni endemici all'interno dei luoghi di detenzione senza che il Governo abbia cercato di fare nulla per arrestare il fenomeno. Inoltre, dall'inizio del 2013 fino alla fine del 2014 ben 250 difensori dei diritti umani sono stati imprigionati. Secondo alcune fonti ( ma ancora si attende conferma ufficiale) sarebbe morto mentre era detenuto, anche il vescovo novantaquattrenne Shi Enxiang, arrestato nel 2001 e incarcerato in un luogo segreto della Cina. I famigliari attendono ancora che venga loro restituito il cadaver Tunisia: blogger Yassine Ayari condannato al carcere per "diffamazione dell'esercito" Aki, 4 marzo 2015 Un tribunale militare tunisino ha condannato in appello a sei mesi di carcere il blogger Yassine Ayari, 33 anni, accusato di aver diffamato l'esercito. Ayari fu arrestato il 25 dicembre di ritorno da Parigi. Nel suo blog aveva accusato funzionari del ministero della Difesa e ufficiali di appropriazione indebita. "La libertà di espressione è l'unico beneficio della rivoluzione e noi oggi vediamo un blogger punito duramente da un tribunale militare per aver criticato l'esercito", ha detto l'avvocato Malek Ben Amor. Il blogger, figlio di un colonnello dell'esercito ucciso nel maggio del 2011 in scontri con jihadisti, era attivo anche durante il regime del deposto presidente Zine El Abidine Ben Ali. Negli ultimi mesi ha criticato il partito laico di Nidaa Tounes che il 26 ottobre ha vinto le elezioni presidenziali e il cui leader Beji Caid Essebsi è diventato presidente il 21 dicembre. Human Rights Watch aveva descritto la condanna nei confronti di Ayari come "non degna della nuova Tunisia" e ha esortato il parlamento a riformare le leggi che portano alla reclusione per aver diffamato o insultato le istituzioni statali, oltre che di togliere la giurisdizione dei tribunali militari sui civili. Stati Uniti: il tennis dà speranza ai carcerati di San Quintino di Danilo Princiotto www.ubitennis.com, 4 marzo 2015 I valori dello sport in un posto cupo e tristemente noto come il carcere di San Quintino. Ecco come i detenuti dimenticano, per qualche ora, la propria condizione, grazie al tennis: "Quando siamo su quel campo, noi non siamo in prigione". San Quintino, nato nel 1852, è il carcere più antico della California e sorge a Nord della città di San Francisco, su un area di 1,7 km quadrati. Rappresenta da decenni una delle prigioni più note e discusse del globo, quasi un luogo cult per gli Stati Uniti e per la California, tanto da diventare oggetto di racconti e rappresentazioni cinematografiche. Il penitenziario californiano ospita il temutissimo braccio della morte, area destinata ai condannati a morte o ai detenuti, in attesa di sentenza, ritenuti particolarmente pericolosi. Le fredde mura di quella zona del carcere hanno visto detenuti uccisi in camere a gas, con iniezioni letali o semplicemente impiccati. Uno dei luoghi più oscuri e temuti d'America, che ospita più di 5.200 detenuti, già condannati o in attesa di giudizio. Le giornate trascorrono lente e inesorabili, se non fosse che l'amministrazione carceraria ha previsto e messo a disposizione dei luoghi ricreativi, dove è possibile praticare sport e respirare la brezza dell'Oceano Pacifico: oltre ai campi di basket e baseball c'è un solo campo da tennis che, ristrutturato nel 2004, rappresenta uno dei luoghi di ritrovo degli appartenenti ad ogni ala del penitenziario, senza distinzioni di razza o colore. Già, perché l'esasperata multietnicità presente in America, si riflette, inevitabilmente, anche a San Quintino, con rischi di contrasti tra etnie e gang, all'ordine del giorno; una sorta di segregazione politica che vede i bianchi da una parte, i neri dall'altra, gli ispanici da un'altra ancora. L'unica eccezione è rappresentata proprio dal campo da tennis, come dimostra un interessante video-documentario girato da Vice Sport: "Quando entriamo in campo, noi ci abbracciamo perché amiamo questo sport, al di là di razza, età o altro, e il rispetto continua anche fuori perché è questo che il tennis ci insegna" ha saggiamente dichiarato uno dei detenuti intervistati. L'artefice di quest'oasi di pace all'interno di un vero e proprio inferno, è Don Denevi, pensionato ora settantasettenne e direttore dell'area ricreativa, da cui è partita l'idea di restaurare un campo, precedentemente senza reti di protezione e pieno di buche, con le palline che prendendo una di queste schizzavano addosso ad altri detenuti (cosa non propriamente facile da gestire se sei a San Quintino). L'idea di Denevi è stata quella di creare un team di detenuti che coltivasse la passione per il tennis. L'inizio non è stato facile , essendo i più legati al basket e al baseball, sport che dominano la scena in America: "Andai da loro e li insultati, gli dissi "ehi femminucce, questi sono sport da donne, il tennis è uno sport per uomini veri" e loro accolsero la sfida, pur essendo io, all'inizio, l'uomo più odiato del penitenziario". Inizialmente le sfide dell'Inside Tennis Team (così si fa chiamare il team di Denevi) erano lanciate a gente esterna disposta a passare del tempo con i detenuti, andando così a formare, anche se inconsapevolmente, una sorta di spaccatura ulteriore tra il mondo dei "normali" e quello dei carcerati, non potendoci essere contatti tra le due fazioni. Oggi la situazione è diversa, c'è integrazione tra i team e i match si svolgono mischiando i componenti; ciononostante non è sempre facile trattare con i detenuti di San Quintino, tanto da dover imporre delle regole anche agli esterni: non familiarizzare troppo con i carcerati, parlare quasi solo di tennis e obbligo di pantalone di tuta o leggins per le donne. "La cosa importante da capire è che nel tennis ci sono delle regole e i giocatori devono rispettarle, del resto è per questo se siamo qui, perché non abbiamo rispettato le regole" ha dichiarato un altro dei detenuti "il tennis è il nostro psicologo". "So che alcuni hanno fatto delle cose terribili, e se potessi li ucciderei con le mie stesse mani" ha ammesso Denevi "ma ai miei ragazzi cerco di chiedere il meno possibile, non voglio sapere, voglio che loro vivano per quello che sono adesso e per dove sono. Pensare al passato ora non ha senso. Credo che morirò di vecchiaia, qui a San Quintino, sul campo da tennis, dopo aver servito contro un detenuto". L'esperienza dell'Inside Tennis Team,, procede a gonfie vele a San Quintino; dopo una prima fase di scetticismo generale, gli appassionati adesso non ne hanno mai abbastanza: giocano anche con palline consumate, raccolte da vecchi circoli e per loro, oramai, il tennis è diventato una valvola di sfogo indispensabile . Nessuna gerarchia tra di loro, nessuno scontro civile ma una sola regola: "I problemi derivanti dal tennis, si risolvono sul campo da tennis" Una visione serena e rientrante nell'ottica di rieducazione del condannato, concessa dallo sport in generale, in un ambiente che, in teoria e in pratica, si basa su altro. Basti pensare ai racconti evocati da carcerati e giornalisti inviati a San Quintino: detenuti, scortati dalle guardie nel braccio della morte, coperti da un cappuccio in testa, per evitare di essere sputati, che compiono gli ultimi passi della loro vita, transitando proprio davanti alla zona ricreativa che ospita il campo da tennis: non esattamente una prospettiva incoraggiante per gli altri. Uno sport di tradizioni nobili, il tennis, che in questo caso, ha anche l'arduo compito di nobilitare gli uomini che fanno parte del carcere di San Quintino. Uomini che hanno ucciso altra gente, violentato donne, commesso ogni tipo di reato; uomini colpevoli o innocenti, pur sempre uomini: "Essere in prigione non è divertente, c'è molta gente triste, siamo molto limitati nelle cose da poter fare e questo campo qui è un grande privilegio: in realtà si trova in una prigione, ma quando giochi a tennis non sei in prigione: sei libero".