La libertà odora d'amore. L'ergastolano e il primo permesso dopo 24 anni in cella di Carmelo Musumeci Il Mattino di Padova, 30 marzo 2015 Quando Carmelo Musumeci è arrivato nella Casa di reclusione di Padova, e poi è entrato a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti, aveva una condanna all'ergastolo ostativo, quell'ergastolo che ti toglie ogni speranza di uscire un giorno dal carcere, a meno che tu non decida di "collaborare con la Giustizia". E lui però aveva scelto di farsi la galera, piuttosto che costringere i suoi figli a diventare "figli di un pentito" e quindi persone a rischio, costrette a nascondersi e a cambiare identità. Per 24 anni ha lottato contro l'ergastolo ostativo, trovando pochi alleati, ma uno di assolutamente straordinario, Papa Francesco: "La pena dell'ergastolo, come pure quelle che per la loro durata comportano l'impossibilità per il condannato di progettare un futuro in libertà, possono essere considerate pene di morte occulte, poiché con esse non si priva il colpevole della sua libertà, ma si cerca di privarlo della speranza. Ma, sebbene il sistema penale possa prendersi il tempo dei colpevoli, non potrà mai prendersi la loro speranza". E di recente a Carmelo è stata riconosciuta la collaborazione impossibile o inesigibile, e questo ha riportato nella sua vita la speranza. E anche un primo permesso, in cui ha potuto ritrovare il sapore di quella, per dirla con le sue parole, "libertà che odora d'amore". Il primo permesso premio di un ergastolano Concede a Musumeci Carmelo, sopra generalizzato, il permesso a recarsi a Padova presso la Casa di Accoglienza "Piccoli Passi" sita in via Po n. 261, accompagnato da un operatore volontario della struttura. Il detenuto uscirà dalla Casa di Reclusione di Padova alle ore 9.00 del 14 marzo 2015 e vi farà rientro alle ore 18.00 dello stesso giorno. (Ufficio di Sorveglianza di Padova). Ho una compagna che mi aspetta da ventiquattro anni. Mi hanno arrestato nel 1991. Mia figlia aveva nove anni, mio figlio sette. Nel frattempo mio figlio mi ha dato due nipotini, Lorenzo di nove anni e Michael di sette. Per ventiquattro anni ho vissuto con la condanna all'ergastolo ostativo o se preferite alla "Pena di Morte Viva" o "Nascosta" come la chiama papa Francesco. Non ho mai creduto ai miracoli, anche se ci ho sempre sperato, fin quando nel mese di dicembre del 2014 il Tribunale di Sorveglianza di Venezia mi concede la collaborazione impossibile, perché anche se facessi i nomi dei miei complici i loro reati sarebbero prescritti. Questo significa che mentre prima non avevo diritto a nessun beneficio penitenziario adesso, dopo ventiquattro anni, potrei usufruire di qualche permesso premio. E sabato quattordici marzo 2015 mi concedono il primo permesso premio di nove ore da uomo libero. La guardia mi chiama. Esco dalla cella. Arrivo al primo cancello. Esco dalla sezione. Scendo le scale. Secondo cancello. Entro nel corridoio centrale. Terzo cancello. Imbocco il corridoio secondario. Quarto cancello. Entro nel cortile. Quinto cancello. I cancelli sembrano non finire mai. Sesto cancello. E per un attimo mi viene paura che si può bloccare la chiave nella serratura di uno di loro. Settimo cancello. Finalmente arrivo all'ultimo. E vengo sbattuto fuori come uno straccio. Vedo la libertà. Mi manca l'aria. E mi gira la testa. Per un attimo mi dimentico di respirare. E per non cadere in terra mi ricordo di respirare di nuovo. Poi mi guardo intorno smarrito. Mi assale la paura. E mi viene voglia di rientrare dentro. Mi volto, ma il cancello è già chiuso. E la guardia è già andata via. Quando servono le guardie non ci sono mai. Faccio un lungo respiro. Fuori c'è un tiepido sole. Rimango abbagliato dalla sua luce. Non c'è vento. E anche se ci fosse, non lo sentirei. Finalmente una volontaria si avvicina. Mi prende in consegna. E mi fa salire nella sua macchina. Parte. E dopo pochi chilometri arriviamo in un edificio recintato. Scendo dalla macchina. E il mio cuore inizia a bruciare di felicità. La libertà incomincia ad odorare d'amore. Vedo i miei figli venirmi incontro. Il mio cuore barcolla. Si appoggia su di me per non cadere. Anch'io mi appoggio su di lui. La luce dei sorrisi dei miei figli illumina la mia anima. Li abbraccio e li stringo forte. Bacio ripetutamente sulle labbra mia figlia. Rimaniamo in silenzio. Parlano solo i nostri cuori. Lei non piange. Le ho insegnato a non piangere, ma so che lo fa di nascosto. L'ultima volta che l'ho vista piangere è stato quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Quando lei era ancora una bambina. Lei non mi poteva toccare. Io non la potevo accarezzare. Lei non mi poteva baciare. Io non la potevo stringere fra le mie braccia perché al colloquio eravamo separati da un vetro divisorio. Nel frattempo il mio cuore mi ricorda che c'è anche la mia compagna. Sento che accelera i suoi battiti. I miei occhi la cercano. La trovano. È la compagna del mio cuore. Sorrido. È ancora bellissima. E penso che forse in libertà si invecchia più lentamente che dentro. L'abbraccio. La bacio. E le sussurro: Grazie amore per tutti i giorni e gli anni che mi hai aspettato. Lei mi risponde: Non c'è stato bisogno di aspettarti perché tu non sei mai andato via… hai sempre abitato nel mio cuore. È stato facile amarti… impossibile è stato smettere di amarti. Poi abbraccio Alberto, il fidanzato di mia figlia, il mio angelo Nadia, Mita, Francio e tutti gli altri. Tutti mi circondano. E mi stanno vicini. Poi rimango un po' solo con la mia compagna. Le mie mani non la toccano e non la accarezzano da anni. I suoi baci sono buonissimi, non me li ricordavo più così buoni. Ne faccio una scorpacciata. E ne nascondo qualcuno dentro il cuore. Per i momenti difficili, perché non si sa mai che non mi faranno più uscire. Rimango un po' da solo, uno alla volta, anche con i miei figli. Poi qualcuno grida "a tavola". E mi sembra di essere a casa. Mi siedo a tavola con tutta la mia famiglia. Dopo tanti anni finalmente ho davanti a me posate, bicchieri e piatti veri. Poi iniziamo a mangiare. E penso che sono venti anni che non mangio più con la mia famiglia. A un certo punto la mia compagna, vedendo che guardo continuamente l'orologio, per farmi coraggio mi sorride. E mi sussurra: Non ci pensare. Ad un tratto è l'ora di andare via. Faccio tutto in fretta per cercare di non pensare. Abbraccio e saluto tutti. Non li guardo, perché il dolore si capisce osservando gli occhi. Io non voglio vedere la loro sofferenza. E non voglio neppure che loro guardino la mia. Alla fine mi volto. E vado via. La volontaria mi riaccompagna in carcere. Da fuori il carcere fa ancora più paura. Sembra ancora più brutto di quello che è. Ad un tratto il suo cancello enorme di ferro si apre. Sembra la bocca di un mostro. Il suo rumore metallico rimbomba nelle mie orecchie. Quella è la sua voce. Faccio un passo e sono di nuovo dentro. Mi sento malinconico e triste. Cammino lentamente. I miei passi per terra battono con lo stesso ritmo del mio cuore nel petto. Entro nella mia cella. Mi butto sulla branda. Penso di essere stato lo spettatore di un bel sogno talmente intenso ed emozionante, che non ho avuto tempo di viverlo. Ed incomincio a viverlo di nuovo. Lettera sul volontariato in carcere e il senso della dignità di Carla Chiappini (Direttore di "Sosta Forzata") Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2015 Dopo la chiusura della redazione di "Sosta Forzata", dopo la mia chiusura fuori dal carcere, è stato importante incontrare il volontariato che, silente, aveva accettato senza discutere la decisione del Direttore della Casa Circondariale di Piacenza. È stato importante incontrare i dubbi, le reticenze, le paure e le connivenze del volontariato. Per capire meglio e per coltivare ulteriori dubbi utili, forse, a capire ancora meglio! E davvero non sto giocando con le parole ma sto piuttosto cercando di tracciare un percorso della coscienza, attraverso punti di vista differenti dai miei ma, non per questo, sbagliati a priori. La grande questione che si è posta è la seguente: la chiusura del giornale, l'allontanamento della mia persona in quanto sgradita alla Direzione erano la conditio sine qua non per poter continuare a entrare in carcere a operare per il bene dei detenuti. Naturalmente, così stando le cose, anche per me è difficile sostenere di essere il giornale o io stessa più importanti del bene dei detenuti. I deliri di onnipotenza, lo so, sono patetici, pericolosi per se e per gli altri per cui cerco di starne lontana. Ma, a mio avviso, la questione è più sottile e complessa. Qual è il senso della presenza della città libera all'interno del carcere, posto e acclarato che il fine ultimo e intangibile è il bene delle persone detenute? Non è forse quello di rendere meno opache le mura delle prigioni, di dare testimonianza di responsabilità e consapevolezza, di difendere e tutelare la dignità dei ristretti già fortemente compromessa dalla reclusione e dalle sue regole non sempre chiare e ragionevoli? Se è così, mi chiedo come sia possibile tutelare la dignità altrui rinunciando senza batter ciglio alla propria. E se la dignità è un valore irrinunciabile, dovrebbe essere garantita a tutti e ovunque, in particolar modo in un ambiente così complesso e innaturale come il carcere. Dove convivono esseri umani con funzioni e ruoli così drammaticamente contrastanti: quelli che hanno le chiavi per chiudere e quelli che devono essere chiusi nelle gabbie. Quelli che devono osservare e valutare e quelli che sono sempre sotto esame. Quelli che hanno la responsabilità della struttura e quelli - come i Magistrati di Sorveglianza e i Garanti - che hanno il compito di tutelare i diritti. E infine i liberi cittadini che, a vario titolo, entrano e sono funzionali a tante attività previste dall'Ordinamento Penitenziario: studio, lavoro - pochissimo purtroppo, cultura, sport e intrattenimento ma anche ascolto delle persone ristrette e accoglienza dei loro parenti. Questa umanità così varia e complessa ha ruoli molto diversi, differenti responsabilità e un differente grado di fruizione dei diritti ma certamente pari dignità. Senza se e senza ma. Ed è lì che mi sembra sia molto, troppo debole il pensiero un po' pietistico e un po' modesto per cui tutto o quasi deve essere accettato e digerito per poter entrare nelle carceri a fare il bene delle persone detenute. Naturalmente - spero sia molto chiaro - non si mette qui minimamente in discussione il rispetto delle regole, degli orari, dei tempi e del luogo! Ho provato, comunque, a dialogare con me stessa e a mettermi in difficoltà, ma non riesco a cambiare idea. La dignità è il primo di tutti i beni. Occorre difenderla sempre e in ogni circostanza. Dopo, tutto il resto arriva in cascata. A questa certezza associo l'immagine di Leda Colombini che ho conosciuto poco o forse molto; il tempo di una serata, di un racconto per le vie di Roma. Una lunga passeggiata e una lunga narrazione: dall'Emilia alla Capitale. L'impegno politico e il volontariato nelle carceri. La stessa fierezza, la stessa dignità. La camminata lenta, le gambe un po' gonfie, negli occhi una luce da ragazza. È riuscita ad aprire le porte della città ai bimbi reclusi con le mamme nelle carceri di Roma. Non credo si sia mai piegata. Non ho cambiato idea, dunque. Ma chissà, magari ci sarà qualcuno che riuscirà a rimettere tutto in gioco, a farmi ripartire per un nuovo viaggio all'interno della mia coscienza. Perché no? I cento anni di Pietro Ingrao: gli auguri di un ergastolano di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2015 "La rosa s'apre/la rosa appassisce senza sapere quello che fa./ Basta un profumo di rosa/smarrito in un carcere/perché nel cuore del carcerato/urlino tutte le ingiustizie/del mondo". (Ho Chi Min) Forse i più giovani non sanno che Pietro Ingrao è stato un importante e famoso partigiano della Resistenza italiana e uomo politico nel dopoguerra. Ha militato nel Partito comunista fin dal 1942 ed è diventato uno dei massimi dirigenti del Pci. È stato pure direttore del quotidiano del Pci "L'Unità" dal 1946 al 1956 ed ha ricoperto la carica di presidente della Camera dei deputati. Fra gli uomini ombra (come si chiamano gli ergastolani fra loro) Pietro è molto famoso per avere dichiarato in una intervista: Io sono contro all'ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo. Ed ha ragione perché per una persona normale è difficile immaginare che un uomo deve stare chiuso in una gabbia per tutta la vita. Solo per vedere tutti i giorni il sole tramontare senza speranza in attesa di un'alba che arriverà troppo presto per dimostrarti che oggi sarà uguale a ieri e per giorni inesistenti e per notti inutili per sempre fino all'ultimo dei suoi giorni. Per i cento anni di Pietro Ingrao ho pensato di rendere pubblico quello che ha dichiarato l'ex senatrice Maria Luisa Boccia in un incontro/dibattito a Cosenza su "Ergastolo: la speranza abolita?" di anni fa. Carmelo Musumeci mi scrisse chiedendomi il libro delle memorie di Pietro, "Volevo la luna", ed io siccome lo conosco molto bene perché è mio zio, ho chiesto di fargli una dedica e Pietro nella dedica ha scritto, come si scrive spesso a persone che vivono in condizioni di costrizione: auguri per il suo futuro. Carmelo mi ha scritto una lettera per ringraziarmi del libro e per la dedica dicendomi che quando ha letto questa dedica è rimasto smarrito: ma io non ho futuro, come possono farmi gli auguri per il mio futuro? Credo che questa sia, appunto, la condizione quotidiana con cui una persona che ha scritto fine pena mai costruisce, detta il ritmo quotidiano della sua esistenza, ogni giorno, all'infinito. Il tempo è la morte, quando avverrà. In qualche modo cerca di conviverci, Carmelo cerca di costruire e di riempire la sua vita come può, si è messo a studiare, a scrivere, per dare un senso a quella condizione che è data dalla sua pena anzi da quell'infinito che è la costruzione del carcere a vita. Eppure davanti a quell'"auguri per il futuro" si è sentito smarrito. Pietro, incredibilmente i tuoi auguri mi hanno portato fortuna e all'inizio del mese, dopo ventiquattro anni di carcere, mi hanno concesso il primo permesso premio di nove ore da trascorrere con la famiglia in una struttura esterna. E le buone notizie non finiscono qui perché adesso nei nuovi certificati di detenzione degli ergastolani i "buoni" non ci scrivono più (forse perché non riescono a immaginare neppure loro l'ergastolo) "fine pena mai" scritto in rosso, ma ci mettono fine pena anno 9.999 così riusciamo meglio ad immaginarlo. Pietro ti faccio tanti auguri di compleanno. Ti voglio bene. E ti mando un sorriso fra le sbarre. Giustizia: Magistratura Democratica "non cedere a idea impiegatizia della magistratura" Ansa, 30 marzo 2015 "Occorre continuare ad operare perché il processo penale sia luogo di garanzie eguali per tutti e di affermazione della legalità senza aree di esenzione legate alla collocazione sociale". È quanto scritto nella mozione approvata dal Congresso di Magistratura Democratica svoltosi a Reggio Calabria. "C'è quindi necessità di un gruppo - prosegue la mozione - che continui a fare critica della giurisprudenza, che sappia essere attento alle trasformazioni sociali e della giurisdizione. Ma questa sfida impone che non si facciano passi indietro. Non si può cedere ad una idea impiegatizia della magistratura. Va smascherato l'inganno: se il cambiamento è realizzato indebolendo la giurisdizione e delegittimando la magistratura, esso determinerà un'evidente retrocessione non solo nella tutela dei diritti ma nella stessa qualità del tessuto civile". "Magistratura Democratica - prosegue la mozione - dovrà attraverso i suoi organi: seguire con attenzione il percorso di riforma costituzionale in corso di elaborazione; per impedire che l'equilibrio tra i poteri sia compromesso e assicurare la piena autonomia della giurisdizione; sostenere ogni iniziativa volta alla promozione della giurisdizione come strumento di tutela dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà sociale". Vigileremo contro tagli indiscriminati risorse "La qualità della giurisdizione dipende anche dalla disponibilità di mezzi adeguati per esercitarla, per cui vigileremo per contrastare il taglio indiscriminato delle risorse". È quanto scritto nella mozione approvata dal Congresso di Magistratura Democratica svoltosi a Reggio Calabria. "Ma qualità della giurisdizione - prosegue - significa anche capacità di organizzarla in modo efficiente avendo come obiettivo non le esigenze dei magistrati ma quelle di tutti coloro a cui è destinato il servizio giustizia. Per questo Magistratura Democratica ritiene fondamentale contrastare con fermezza ogni forma di "carrierismo" in magistratura e riaffermare il principio costituzionale della pari dignità delle funzioni opponendosi ad ogni forma - anche surrettizia e strisciante - di reintroduzione della carriera. Questa sarà anche una sfida per Area". "Le decisioni assunte nei due precedenti congressi - conclude - sono state attuate con lealtà e con notevole impegno di risorse personali ed economiche: anche grazie a ciò Area è diventata una realtà dell'associazionismo giudiziario e dell'autogoverno. Ma ora occorre un cambio di passo". Giustizia: Raffale Cantone; la legge sulla responsabilità civile dei magistrati non è punitiva Adnkronos, 30 marzo 2015 "Non è corretto definire punitiva la legge sulla responsabilità civile dei magistrati". È quanto afferma Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione - intervistato da Lucia Annunziata nel corso del programma "In mezz'ora" su Rai3. Per Cantone "non è neanche vero che il governo e il Parlamento, in tema di giustizia, abbiano fatto solo la riforma della responsabilità civile: è stato modificato il reato di voto di scambio, è stato introdotto il reato di autoriciclaggio, sono stati modificati i poteri dell'Autorità nazionale anticorruzione che aveva 24 persone nessuna delle quali a tempo pieno e ora conta su 350 persone". Da parte dei giudici, esorta Cantone, "bisogna essere onesti e non corporativi" riconoscendo che "la legge del 1988 ha dimostrato di non essere assolutamente utile e non è quasi mai stata utilizzata. Io credo che i magistrati sbaglino pochissimo, ma certi numeri non sono certo compatibili con una responsabilità civile così come opera per altre categorie". Cantone non esclude invece che "la legge possa essere pericolosa, ma prima di fasciarci la testa è giusto verificarla. E poi, attenzione: la legge non attribuisce la valutazione della responsabilità civile agli avvocati o a un'altra categoria professionale ma saranno sempre i giudici a stabilire se i loro colleghi hanno sbagliato e lo faranno in base a tre gradi di giurisdizione e ricorrendo alla Cassazione. È sbagliato dire prima che la legge è pericolosa o punitiva". Giustizia: Opg e Case di Lavoro. perché va abolito l'ergastolo bianco di Antonio Mattone Il Mattino, 30 marzo 2015 Domani dovrebbe essere messa la parola fine sull'esistenza degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia. Nonostante permangano dubbi e incertezze sulla effettiva possibilità di dimettere gli oltre 700 internati presenti nei sei istituti dislocati nella penisola e sulle modalità con le quali verranno affidati ai dipartimenti di salute mentale, questa volta sembra che non ci saranno ulteriori rinvii sulla data di chiusura stabilita, come invece era avvenuto in passato. Tuttavia, esistono nel nostro Paese altri detenuti per cui non è prevista alcuna prospettiva di uscita dal loro status di internato, né effettiva, né presunta. Sono ex-carcerati rinchiusi nelle Case di lavoro e nelle Colonie agricole che, nonostante abbiano pagato il debito con la giustizia, restano in prigione perché ritenuti pericolosi socialmente e sottoposti a misura di sicurezza. Una condizione del tutto simile a quella degli internati psichiatrici che può essere protratta nel tempo senza date finali certe, finché il giudice di sorveglianza non ritiene cessata la pericolosità sociale. Si tratta per lo più di tossicodipendenti storici, di persone con problemi di salute mentale e persino di malati di Aids. Esistenze logorate dalla droga, da malattie e dalla durezza della vita in carcere, che hanno commesso ripetutamente reati, non necessariamente gravi e che per questo sono entrati e usciti più volte dalle galere. Umanità derelitte e problematiche che sono considerate "scarto" anche dal sistema carcerario e che possono arrivare al reinserimento sociale solo attraverso il lavoro. Ma nella realtà lavoro non ce n'è. Così i periodi di internamento successivi al carcere diventano per lo più mesi e anni di parcheggio e di ozio, senza occupazione lavorativa e attività tratta mentali, con una grande incertezza sul futuro. Eppure in tutta Italia gli internati presenti in queste strutture sono un numero abbastanza esiguo, circa 300 che, con interventi di lieve entità potrebbero essere avviati a percorsi di reinserimento facendo così cessare questa sorta di segregazione. Il fatto sorprendente è che di questi quasi cento provengono dalla Campania, lo stesso numero degli internati di questa regione che sono attualmente ricoverati in Opg. Da cosa dipende questo stato di fatto? Una magistratura di sorveglianza troppo sbrigativa, una diffusa disgregazione sociale con la mancanza di reti socio assistenziali, una piccola delinquenza irrecuperabile che caratterizza il nostro territorio? È difficile dirlo. Quello che è certo è l'assenza dì proposte per abolire questo regime di semi-reclusione per sostituirlo con altre forme di reinserimento, come comunità di accoglienza dedicate, misure di sicurezza applicate nella libertà vigilata eseguite nei territori di residenza e non in Istituti tanto spesso lontani dal luogo dove queste persone vivono. Nella Casa lavoro di Vasto sono recluse 160 persone. Di queste solo una ventina sono impegnate in attività lavorative al di fuori del carcere, mentre altre trenta fanno piccoli lavoretti all'interno, alternandosi per brevi periodi in modo da poter impiegare a turno tutti. Il progetto di creazione di una sartoria che farebbe lavorare un numero significativo di internati stenta a decollare, lasciando tanti senza lavoro e senza pena. Nicola è uscito da qualche mese dal carcere di Vasto, abita da solo al centro storico di Napoli nella vecchia casa della mamma che nel frattempo si è trasferita dalla sorella in un comune dell'hinterland napoletano, ma lui non può andare a trovarla perché ha l'obbligo di dimora in città. Era tra i pochi fortunati che aveva una occupazione all'esterno del carcere ed ora saltuariamente lavora in una fabbrica che produce suole per scarpe, "Speriamo che duri - mi dice - sai, c'è la crisi". È quasi senza denti ed ha il cruccio della figlia che deve fare la prima comunione e lui non ha la possibilità di regalarle una festa. Ci sono voluti anni di dibattiti e di appelli di Forum e Comitati e non da ultimo il lavoro della Commissione parlamentare per arrivare alla chiusura degli Opg. Ci auguriamo di non dover attendere una eternità per mettere fine anche a quello che è considerato l'ultimo retaggio dell'"ergastolo bianco" del nostro sistema giudiziario. Anche perché il giudizio dell'Europa sulla condizione di disumanità delle nostre carceri è solo sospeso. E la situazione degli internati nelle Ca- se di lavoro non aiuta a chiudere le procedure di infrazione dì Strasburgo, né ci fa onore. Giustizia: manicomi criminali, la chiusura fa paura di Valeria Arnaldi Il Messaggero, 30 marzo 2015 Domani scatta lo stop alle vecchie strutture, ma molte Regioni non sono ancora pronte ad accogliere i pazienti. L'Osservatorio Antigone: "Il rischio è che i nuovi centri siano solo più piccoli ma restino esattamente uguali ai precedenti". Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere: sei strutture per un totale di 741 internati. L'Italia chiude i suoi ospedali psichiatrici giudiziari: secondo quanto stabilito dalla legge 81 del 2014, e dopo alcune proroghe, domani gli Opg dovranno essere chiusi per sempre e le persone da mercoledì dovranno essere spostate in nuovi istituti, le Rems, residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria. Obiettivo è cancellare lo spettro - e soprattutto le ombre - dei manicomi criminali, spostando gli internati in realtà terapeutiche più piccole - massimo 20 posti letto - per rieducazione e riabilitazione. In ogni regione. O quasi. Gravata dalle precedenti proroghe, la chiusura sembra difficile anche per la nuova e ultima data. Questione di polemiche. Enumeri. Nonostante il termine fissato, gli ingressi negli Opg non sono cessati. Nel trimestre giugno-settembre 2014 sono state effettuate 67 dimissioni a fronte di 84 ingressi. Le regioni, nel frattempo, grazie a un finanziamento di 172 milioni, avrebbero dovuto provvedere a realizzare le strutture alternative. Eppure, ad oggi, solo dieci regioni risulterebbe pronte. E laddove i tempi saranno rispettati, i problemi non mancano. Molte residenze sarebbero solo temporanee e non mancherebbero perfino quelle "in prestito". "I pazienti liguri in Opg - a lanciare l'allarme è stato Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici - con la chiusura andranno nelle Rems in un ex-Opg lombardo". Gli internati liguri saranno ospitati, nelle residenze realizzate all'interno dell'Opg di Castiglione delle Stiviere. Non solo. "Dei circa 750 pazienti in Opg - spiega Michele Miravalle, coordinatore Osservatori Antigone sulle condizioni di detenzione - almeno la metà è dimissibile perché ha scontato la pena detentiva o per le condizioni sanitarie. Il paradosso di chi sta dove non dovrebbe stare sarà riproposto nelle Rems. Alcune realtà non sono pronte e gli internati saranno trasferiti in strutture temporanee, in altre la sorveglianza è stata affidata a istituti di vigilanza privata. Malgrado i passi avanti, si rischia di creare mini-manicomi". Intanto, l'approssimarsi della chiusura si accompagna a polemiche e proteste di chi abita nelle città che ospiteranno le nuove realtà. Perfino alcuni sindaci e addetti ai lavori avanzano timori sulla sicurezza sociale. La chiusura dei manicomi criminali fa paura e così sono nati vari Comitati cittadini del No, per protestare contro le Rems vicino ai centri abitati. Secondo gli Osservatori, all'interno degli Opg, oggi, ci sarebbero pure persone internate perché prive di contatti sociali che possano garantire per loro. "Il caso paradigmatico - prosegue Miravalle - è di un giovane tunisino di 28 anni, condannato dieci anni fa per tentato omicidio in una rissa con connazionali. Malgrado sia ritenuto non più socialmente pericoloso, non gli è consentito uscire perché qui non ha legami territoriali o di famiglia". Il problema, secondo le associazioni che da anni si battono per la chiusura degli Opg, sarebbe nelle norme. "Siamo di fronte a una data storica - dichiara Stefano Cecconi, coordinatore del comitato nazionale Stop Opg. Occorre però una riforma del codice penale. Si cambi la norma per cui un malato non può essere giudicato. Lo si giudichi e lo si mandi in carcere, ma gli si garantisca poi il diritto alla salute". "Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono contrari alla costituzione - commenta don Pippo Insana, che gestisce la Casa di Solidarietà e Accoglienza di Barcellona Pozzo di Gotto ed è cappellano dell'Opg locale. Non assicurano cure e non rispettano la dignità delle persone. Tra gli internati, ci sono anche persone condannate a venti anni per aver rubato quattromila euro". Giustizia: Santi Consolo (Dap) "noi siamo pronti, ma le Regioni no. O, almeno, non tutte" di Silvia Barocci Il Messaggero, 30 marzo 2015 Santi Consolo è il nuovo Capo dell'Amministrazione penitenziaria e, dal giorno in cui ha lasciato la procura generale di Caltanissetta per insediarsi al Dap, è alle prese con il piano di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Che, per forza di cose, non potrà avvenire il 31 marzo prossimo. Perché presidente? Si andrà a una proroga? "No, la scadenza resta quella. Il ministero della Giustizia e il Dap sono già pronti a trasferire i circa 700 internati. Abbiamo inviato da tempo una lettera a tutti i presidenti di tribunale di sorveglianza per un nuovo esame sui dimissibili. Gli altri, invece, dovranno essere trasferiti dai sei Opg alle nuove strutture residenziali, le Rems". Ma le Regioni sono pronte? Cosa vi hanno comunicato? "A metà marzo ciascuna Regione, ad eccezione del Veneto, ci ha fornito un elenco ma non è completo ed è stato in parte già rivisto, perché in alcuni casi si stanno ipotizzando convenzioni con strutture private. Sempre che siano in grado di soddisfare i requisiti sanitari e di sicurezza richiesti". Sembra che alla fatidica data di martedì 31 marzo cambierà poco o nulla. "Lo ripeto: dovendo dare esecuzione a una norma, noi siamo pronti al trasferimento degli internati e a dare il supporto necessario alle Rems perché il loro sistema informatico di immatricolazione sia compatibile col nostro. Ma c'è da dire che la situazione nelle Regioni non è delle migliori, anche se in caso di inadempienze o ritardi rischiano di essere commissariate". Da più parti, anche tra i magistrati, c'è chi si mostra scettico sui livelli di sicurezza delle nuove Rems. In fin dei conti si tratta sempre di malati psichiatrici che hanno commesso crimini efferati. Condivide il timore? "Bisogna chiederlo a Ignazio Marino e ai padri di questa legge". Par di capire che anche lei non sia convinto. "In questi anni i nostri agenti di Polizia penitenziaria si sono adeguati con sacrificio a situazioni certamente difficili negli Opg e hanno maturato una professionalità non di poco conto al fianco del personale medico. Nelle Rems la sicurezza esterna sarà affidata alle prefetture che individueranno altre forze di polizia. All'interno, invece, ci saranno solo medici e infermieri. Mi chiedo se, di fronte all'aggressività di taluni internati, le Rems siano adeguatamente attrezzate". Paura che qualcuno scappi? "No, guardi, in genere i malati di mente non evadono. E se si allontanano il più delle volte tornano. Piuttosto mi pongo un altro problema". Quale? "Le nuove strutture, a differenza degli Opg, non avranno le sbarre. Ci si è chiesti cosa accadrebbe se, in un momento di crisi, uno degli internati nelle Rems decidesse di rompere il vetro di una finestra al quarto piano? I criteri di adeguatezza e di idoneità dovrebbero tener conto anche di questo". Cosa ne farete dei vecchi Opg man mano che si svuotano? "L'obiettivo è di trasferirvi col tempo detenuti in custodia attenuata da altre carceri. Sarà un processo graduale. Per questo li abbiamo ribattezzati Opg "a fisarmonica". Barcellona Pozzo di Gotto potrebbe ospitare circa 250 detenuti, Aversa e Napoli-Secondigliano altri 200, Reggio Emilia oltre un centinaio". Giustizia: chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, lo stato dell'arte nelle Regioni di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 marzo 2015 Stop ai rinvii, il 31 marzo chiudono gli Opg-Ospedali psichiatrici giudiziari: sei in tutta Italia ma l'alternativa, le Rems - Residenza di esecuzione delle misure di sicurezza di nuova costruzione, dal 1° aprile non ci sarà. Al loro posto le regioni presentano, con le previsioni di spesa per le residenze che verranno, strutture adattate a Rems tra soluzioni tampone e definitive in un lungo elenco di territori dove il transitorio, prevale nettamente sul definitivo. Ma c'è di più, secondo l'Osservatorio Antigone che visita annualmente le strutture penitenziarie, queste residenze rischiano di essere un unico grande flop: "Nelle previsioni di programma delle regioni ci sono strutture per mille posti, se consideriamo la media di due a regione con 20 posti ciascuno, per poco più di trecento persone, gli internati "non dimissibili" destinatari di queste residenze", cita Michele Miravalle, avvocato e coordinatore di Antigone sulle condizioni detentive. Una sproporzione enorme tra persone e strutture: secondo gli ultimi dati della relazione trimestrale congiunta presentata dal ministro della Salute Lorenzin e dal ministro della Giustizia Orlando, al 30 novembre 2014, gli internati in Opg erano 761 di cui 678 uomini e 83 donne, tutte a Castiglione dello Stiviere. Di questi, 476 sono risultati dimissibili in base ai piani terapeutici individuali consegnati dalle Asl al ministero della Salute. Restano invece non dimissibili solo 314 persone internate, quelle da trasferire dagli Opg alle cosiddette Rems con motivazioni cliniche per il 40% e di pericolosità sociale per un ridotto 17%. "Ciò vuol dire che più della metà dei rinchiusi, il 56%, non doveva starci in quanto non più pericoloso socialmente e seppure non arrivasse la terza proroga a cui siamo fermamente contrari", considera Miravalle, "il sistema Opg non sarebbe sostanzialmente modificato perché la maggior parte delle regioni ha adottato soluzioni provvisorie, non conformi alla legge e con tempi di soluzione lunghissimi". Le regioni e i finanziamenti. Più piccole le Rems, con una media di 20 posti e un direttore sanitario ma senza alcun presidio di polizia penitenziaria al loro interno: più simili a un ospedale che a un carcere, quindi. Sarebbe questa la fotografi a delle Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza. Critica la posizione di Antigone: "Usiamo le strutture già esistenti anziché trasformare gli Opg in Rems o costruirne di nuove". Sull'onda del provvisorio, infatti, le regioni stanno optando per le soluzioni più disparate: dalla Calabria che ne realizzerà una a Girifalco, dove prima c'era proprio un manicomio, alla Sicilia, l'unica regione italiana che, contravvenendo a una normativa del 2008, continuava ancora a mantenere le funzioni di sanità penitenziaria con il suo Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in mano allo Stato. C'è poi il caso di turismo penitenziario con al centro l'Opg modello di Castiglione dello Stiviere dove, nelle more dei piani di previsione di spesa per le fantomatiche strutture, confluiranno intanto internati da almeno altre tre regioni: Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria. Promossa il Friuli che sta usando i finanziamenti statali per strutture già presenti sul territorio con una gestione mista tra pubblico e privato sociale. Altrettanto varia la tempistica di utilizzo dei finanziamenti da regione a regione: le sole regioni che hanno trasmesso un programma di utilizzo dei finanziamenti conforme alle indicazioni ministeriali sono Liguria, Toscana, Abruzzo, Lazio, Piemonte, Trento e Bolzano mentre Calabria, Sardegna, Puglia, Calabria e Basilicata non hanno ancora trasmesso al ministero della Salute un programma di utilizzo dei finanziamenti per spese Rems e servizi psichici territoriali. Ci sono poi quelle regioni che l'hanno trasmesso ed è all'esame del ministero: Friuli, Lombardia, Veneto, Marche, Emilia Romagna, Umbria e Molise. La legge fa passi avanti. L'ultima legge n. 81/2014 introduce tre importanti novità rispetto alla prima normativa del 2012: i fondi statali non sono più vincolati alla realizzazione di nuove strutture lasciando discrezionalità alle regioni, è modificato il concetto di pericolosità sociale per cui i magistrati di sorveglianza non devono tenere conto delle condizioni familiari e sociali del detenuto e delle inadempienze dei servizi sanitari territoriali e in ultima analisi si mette fi ne ai c.d. "ergastoli bianchi" per cui nessuno può restare rinchiuso per un tempo superiore al limite massimo della pena commessa. Opg. Antigone li visiterà nei giorni della chiusura Il 31 marzo, così come previsto dalla Legge 81/2014, chiuderanno definitivamente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Si tratta di una decisione importante frutto del lavoro di molti, di indagini e denunce partite da lontano. Non vanno creati allarmismi come fanno alcuni. Non c'è rischio sicurezza. Finalmente può ridiventare centrale la salute. Attualmente gli Opg sono sei. Gli internati sono circa 700. Molto è stato fatto. Molto c'è da fare. Noi monitoreremo questo processo. Già domani e martedì gli osservatori dell'Associazione Antigone si recheranno in questi luoghi per verificare lo stato delle cose, come procede il trasferimento degli internati e se, per il 1 aprile, gli Opg saranno effettivamente vuoti. Chiederemo inoltre ai direttori se il ministero e i provveditorati competenti stanno facendo valutazioni in merito all'utilizzo futuro di queste strutture. Il calendario delle visite è il seguente: Lunedì 30 marzo 2015: Castiglione Delle Stiviere, Aversa. Martedì 31 marzo 2015: Napoli. Siamo in attesa delle conferme per quanto riguarda gli altri Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Comunicheremo tempestivamente ogni nuova visita. Alle ore 13.30, al termine delle visite, gli osservatori di Antigone saranno fuori dagli Opg a disposizione dei giornalisti che vorranno porre loro delle domande. Giustizia: chiusura degli Opg; curare la mente in modo umano, la sfida ospedaliera di Bruna Bianchi Il Giorno, 30 marzo 2015 "I disturbi affettivi e di personalità stanno sempre più emergendo. Il 60-70 per cento degli ospiti Opg ci finiscono senza prima essere stati seguiti dai servizi territoriali, così l'Opg non crea legami col territorio". Patrizia conta il tempo trascorso: "Già cinque mesi che sono qui". Tranquilla e sorridente, apre la porta della sua camera a due letti allungando lo sguardo fiero sui suoi pupazzi. Affetto che manca. Parola che risuona anche all'entrata del Centro Sant'Ambrogio, una volta ospedale geriatrico e adesso una serie di palazzine circondate dal giardino dove Antonia prende un po' di sole. Si sta mettendo un rossetto rosa fucsia: "Aspetto il fidanzato". L'età è avanzata e il fidanzato nei sogni. Così come nella fantasia di Giuliana c'è quella di essere stata una suora laica. Sono i "matti" che nessuno voleva e che qui si sentono bene: "Sono bravissimi i frati!". Il priore, frate Pierangelo Panzerini, passa nei corridoi lucidi e puliti dalle porte blu cobalto. Lo salutano con rispetto, quello che si deve a un rappresentante dell'Ordine dei mendicanti che dal 500 si occupa di quelli che nessuno vuole tra i piedi. Li curano nella testa i medici, li riabilitano gli educatori e al loro animo pieno di solitudine confusa ci pensa la carità cristiana. A Cernusco sul Naviglio sono 400, altri 300 a San Colombano al Lambro, 300 a Brescia. Un terzo dei malati psichiatrici di Lombardia viene affidato ai Fatebenefratelli. Li mandano le strutture territoriali o i Tribunali, a volte hanno compiuto un reato, più spesso no. "Il Fatebenefratelli si occupa storicamente della psichiatria - racconta il direttore sanitario Gianmarco Giobbio - Oggi i manicomi non esistono più e la psichiatria è diventata specialistica, le patologie hanno un nome particolare e non più generale. Abbiamo pazienti geriatrici che vivono qui da decenni e solo ai Fatenefratelli viene riconosciuta la cura di questi pazienti grazie alla sua storicità". I moderni "manicomi" sono nei fatti l'alternativa degli Ospedali psichiatrici sul territorio. Il 31 marzo chiuderanno per legge i sei Opg italiani (uno in Lombardia, Castiglione delle Stiviere, resterà funzionante con otto mini-opg) ma nessuno sa dire che cosa succederà: "Alcuni pazienti vengono mandati da noi, ma non c'è alcuna chiarezza sul futuro delle Rems". Il centro di Cernusco ha fiori all'occhiello come la Cra, struttura ad alta riabilitazione, ha personale preparato ed è ospitato in un piccolo centro tranquillo che si affaccia sul Lambro, ma i pazienti sono liberi: "Aderiscono al progetto di recupero. La vigilanza è ridotta". La riabilitazione al centro Sant'Ambrogio non è una parola vuota: si impara a diventare autonomi sistemando la proprio camera, lavandosi da soli, seguendo le attività e rispettando le regole della convivenza. Nessuno litiga nemmeno per la tivù e l'uso dei telefonini è consentito secondo orari stabiliti. Si studia, si fa un giornalino, si cucina e si impara a stare insieme anche se è difficile quando si soffre di disturbi mentali. La malattia mentale c'è da sempre, ma cambia pelle. Ne sa molto Paolo Cozzaglio, primario di Psichiatria: "I disturbi affettivi e di personalità stanno sempre più emergendo". "Il 60-70 per cento degli ospiti Opg - afferma Giobbio - ci finiscono senza prima essere stati seguiti dai servizi territoriali, così l'Opg non crea legami col territorio". Cosa succederà dopo il 31 marzo? "Nessuno lo sa". Nessuno può aspettarsi che venga gestito senza problemi un killer seriale psicopatico. Giustizia: l'allarme jihad nelle carceri, in Italia 53 detenuti nel mirino di Silvia Barocci Il Messaggero, 30 marzo 2015 L'Amministrazione penitenziaria ha alzato il livello di controllo dei sospetti. I dubbi degli investigatori su un tunisino che a febbraio ha chiesto di essere espulso. Delle decine di espulsioni di sospetti jihadisti dall'Italia - 26 dalla fine di dicembre - quella di Khalil Jarraya è a dir poco la più "curiosa", sulla quale l'intelligence ha continuato le sue verifiche, soprattutto dopo la strage al museo Bardo di Tunisi. Perché questo 46enne tunisino, detto il "colonnello" per i trascorsi di combattente nelle milizie bosniache dei "mujaheddin" durante la guerra nella ex Jugoslavia, ha chiesto lui stesso di essere espulso. E lo ha fatto come misura alternativa al residuo di pena che stava scontando nel carcere di Rossano per terrorismo internazionale. E così, a metà febbraio, il capo della cellula jihadista scoperta nel 2007 dalla Digos di Bologna, ha fatto i bagagli e, dal carcere di Rossano, è stato accompagnato alla frontiera per essere dato in consegna alle autorità tunisine. Esiste un qualche collegamento tra il "colonnello" e la strage di 22 persone del 18 marzo scorso? Gli accertamenti sono in corso. A quanto pare, la procura di Catanzaro avrebbe autorizzato l'ascolto delle telefonate che, legittimamente, dal carcere, il colonnello poteva effettuare ma che, trattandosi di un detenuto in alta sicurezza, per prassi erano state registrate e conservate. Nel suoi colloqui Jarraya ha forse lanciato qualche messaggio in codice? Quel che è certo è che dal 7 gennaio scorso il Nucleo investigativo centrale (Nic) dell'Amministrazione penitenziaria ha innalzato, e di molto, il livello di monitoraggio nelle carceri italiane. Perché il giorno stesso della strage nella redazione del settimanale Charlie Hebdo diversi detenuti di fede islamica avrebbero inneggiato. Non il duro Jarraya, bensì detenuti per reati comuni che però - come è stato anche per l'attentatore di Parigi Amedy Coulibaly - in carcere possono essere venuti a contatto con fomentatori d'odio inneggianti alla jihad. Da allora il Nic ha iniziato un attento monitoraggio su 53 detenuti, provenienti dal Medio Oriente o dall'area magrebina, di cui 12 stanno scontando pene per reati di terrorismo internazionale. Tra questi, fino alla sua recente espulsione, anche Jarraya, trasferito nel 2012 dal carcere sardo di Macomer (poi chiuso) in quello calabrese di Rossano. Il "colonnello" era in regime di alta sicurezza, vale a dire in cella singola con la possibilità di passeggiare per l'ora d'aria solo con un ristretto gruppo di detenuti, sempre gli stessi, scelti preventivamente. A Rossano si trova anche la maggior parte dei dodici condannati per terrorismo internazionale. Per loro e per gli altri "comuni" monitorati dal Nic è scattato il controllo stringente delle comunicazioni e della corrispondenza. Per quindici soltanto "attenzionati", invece, il Nic segnala al Comitato di analisi strategica antiterrorismo ciò che può apparire sospetto, come ad esempio articoli di giornali o scritte inneggianti l'Isis. Lo sforzo è enorme. Su 53mila detenuti nelle carceri italiane si calcola che circa 10mila siano di fede islamica, di cui ottomila praticanti. Anche per questo, negli ultimi anni, il ministero della Giustizia ha mostrato maggiore attenzione alle loro esigenze. Perché - per dirla col Guardasigilli Orlando - "bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l'effetto boomerang come Guantánamo". Firenze: detenuto di 45 anni si impicca nell'infermeria del carcere di Michele Bocci La Repubblica, 30 marzo 2015 Si è impiccato con un laccio da scarpe alle inferriate di una finestra. È morto così, nella notte tra sabato e ieri, un detenuto di Sollicciano. L'uomo, 45 anni, sarebbe dovuto uscire nel novembre del 2018 e avrebbe sofferto di problemi psichiatrici, tanto che si era valutato se trasferirlo, a quanto dice l'Osapp, uno dei sindacati degli agenti penitenziari. Il suicidio è avvenuto all'interno del centro clinico del carcere, l'uomo è stato dichiarato morto alle 0.52 di domenica. Si trattava di un ex collaboratore di giustizia ed era recluso nella cosiddetta sezione protetta, riservata ai carcerati che possono avere problemi di incolumità personale. Negli ultimi giorni era stato ricoverato nel centro clinico, che si trova al piano superiore rispetto alla sezione protetta. Era da solo in una cella e si è ucciso quando c'è stato il cambio di turno. Dopo che è scattato l'allarme, il personale di guardia e quello sanitario hanno tentato di rianimarlo, anche usando il defibrillatore, ma non è stato possibile salvarlo. "È l'ennesimo grave episodio che avviene nel centro clinico di Sollicciano - attacca Leo Beneduci, segretario Osapp. Il detenuto suicidatosi questa notte sembrerebbe avesse manifestato più volte il proprio disagio e preoccupazioni per la propria incolumità fisica una volta uscito dal carcere, tant'è che ne sarebbe stato chiesto più volte il trasferimento ad altra struttura della regione senza concreti riscontri da parte del competente provveditore regionale". L'uomo era in carcere per più reati e sarebbe dovuto uscire nel 2019. Con lo sconto di pena la data della liberazione era stata portata al novembre del 2018. Avrebbe detto varie volte di temere per il suo futuro fuori dal carcere. Non si sa se erano paure giustificate o se fossero solo la spia di un problema psichiatrico, la cui drammaticità si è manifestata l'altra notte. Secondo Beneduci: "Abbiano dei dati che dimostrano come la Toscana sia la regione con il più alto numero assoluto di morti in carcere, anche se il numero di detenuti non sia tra quelli maggiori in Italia. Nessuno ha mai ritenuto di approfondire e accertare le responsabilità, anche rispetto alle modalità di gestione e organizzazione degli istituti di pena". Il garante dei detenuti di Firenze è Eros Cruccolini spiega che il servizio psichiatrico di Sollicciano è molto buono. "Io però quando succedono queste cose continuo a ribadire che, al di là del fatto psichiatrico, siamo di fronte a una sconfitta per tutti. Bisogna fare dei progetti personalizzati, ci vogliono più psicologi, più educatori e assistenti sociali. E poi gli enti locali devono svegliarsi e fare le gare per le cooperative di tipo B in cui impiegare i detenuti, come prevede la legge. Ho parlato con tutti i sindaci dell'area fiorentina e mi hanno dato la loro disponibilità. Adesso bisogna assolutamente partire". Sempre il garante dei detenuti Cruccolini spiega che nel penitenziario fiorentino oggi non c'è il grave problema di sovraffollamento di qualche tempo fa. "Siamo passati da mille detenuti a circa 700 - dice - e anche per questo motivo forse all'interno del carcere si può lavorare meglio di prima. E magari salvare qualche vita, ben sapendo che già oggi il servizio psichiatrico di Sollicciano è molto buono e che in queste cose c'è una sfera di imponderabile e inarrestabile. Nel senso che se qualcuno vuole uccidersi il modo di farlo lo trova, come lo dimostra la drammatica storia dell'aereo della Germanwings". Quello dell'altra notte è il primo suicidio avvenuto all'interno di Sollicciano in questo 2015. Nel corso dell'anno passato c'erano stati altri tre episodi dello stesso tipo. Messina: Barcellona Pozzo di Gotto, gli ultimi giorni del manicomio criminale di Manuela Modica La Repubblica, 30 marzo 2015 "Dove andremo?". La domanda è ripetuta. Man mano che il direttore del carcere psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, Nunziante Rosania mostra i reparti, i pazienti lo fermano per chiedere. Gli ospedali psichiatrici giudiziari da martedì saranno chiusi. Così anche quello siciliano. E la chiusura di quello che è un vero e proprio manicomio crea molta incertezza. C'è chi spera di tornare a casa. E c'è chi si dispera nella prospettiva di un futuro troppo incerto. Ci spera Md Saiful Islam: "Potrò andare da mio zio che si trova a Roma? Sono stato assolto, posso andare, lui è disposto ad accogliermi?". Md è impaziente, seduto nella cappella dell'ospedale dove assiste al momento di preghiera dell'arcivescovo Calogero La Piana, muove le gambe incessantemente. Resta seduto, non fa il segno della croce, è musulmano ma non è rimasto in cella: ci teneva a fare questa domanda. Lui ha ucciso l'ex senatore Ludovico Corrao, gli è stata riconosciuta l'infermità mentale ed è a Barcellona. "Per colpa della nostra malattia non adeguatamente curata, siamo diversi, siamo di disturbo, mettiamo paura…". La lettera di Luca Livieri viene letta prima della benedizione di Monsignor la Piana, insieme alla lettera di Maria a lui rivolta. Livieri l'ha scritta quando l'ospedale era spesso la dimora degli ergastoli bianchi: misure di sorveglianza prorogate ancora e ancora. Emanuele Reitano viveva all'ospedale da 15 anni, lo avrebbe lasciato per andare a vivere in un Rems, una struttura sanitaria residenziale a Caltagirone o a Naso. Ma non succederà. Il 10 febbraio scorso ha tolto dagli slip l'elastico che cinge la vita e con quello si è cinto il collo, impiccandosi. "Difficile se non impossibile dire se sia stato questo il motivo, sicuramente dopo 10 anni questa era la sua casa e l'idea di andarsene non lo lasciava tranquillo, la reclusione, specie dopo tanto tempo può rendere impossibile al malato il reinserimento, questo episodio certifica il fallimento di queste strutture", spiega Rosania, l'unico neuropsichiatra in Italia ad essere rimasto alle dipendenze del ministero di Grazia e Giustizia. L'ospedale di Barcellona infatti è stato l'unico a non recepire la legge nazionale che vo- leva il passaggio al ministero della Salute ma come gli altri 5 sul territorio nazionale chiuderà a fine mese. O meglio si trasformerà. Era stato costruito nel lontano 1925 e per molto tempo fu considerato "bivacco" carcerario per i mafiosi più che vero e proprio carcere psichiatrico. Di sicuro non era un salotto nel 2010, quando una delegazione della commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Ignazio Marino entrò senza preavviso nel carcere. I letti di contenzione: un uomo legato e nudo in uno dei letti col buco al centro per le feci. Ma poi anche i reparti con dodici pazienti per cella. Pazienti con scabbia, altri con malattie veneree, o con semplici raffreddori vivevano come in trance a pochi centimetri gli uni dagli altri. Adesso, molti reparti sono chiusi: ne rimangono aperti soltanto quattro, e uno ora ospita 12 donne. "Una latrina sociale", così l'ha sempre definito Rosania: "Quando Marino entrò eravamo in una situazione di grave sovraffollamento e di scarsissime risorse finanziarie, da tempo lo denunciavo in perfetta solitudine". L'ospedale fu messo sotto sequestro a dicembre 2012: una capienza di 200 persone, nell'agosto del 2010 a Barcellona vivevano oltre 340 pazienti (non detenuti). Adesso sono 130 e i casi più gravi andranno nelle due residenze, 40 posti in tutto. Gli altri seguiranno un percorso di comunità ma avverrà tutto molto gradualmente: "Dovevano essere 4 le residenze in Sicilia, e attualmente sono due, per esempio", spiega Rosania. "Abbiamo chiesto che fosse attivata la residenza in una struttura per anziani ormai abbandonata, in cui 15 persone sono in attese di ricollocazione. Per di più vicino al centro cittadino, per cui vicino a tutti i corpi di polizia, la residenza è stata invece individuata in una struttura nel Borgo di San Pietro a venti minuti dalla prima caserma di carabinieri e in un luogo dove c'erano progetti per ricettività turistica, ma non siamo preoccupati per gli internati, si tratta soltanto di una più efficace soluzione per tutti", spiega Nicola Bonanno sindaco di Caltagirone. "Non stiamo facendo i salti di gioia ma siamo contenti di poter partecipare a una soluzione più dignitosa per il reinserimento dei pazienti", commenta invece Daniele Letizia, sindaco di Naso. Dal 31 marzo i casi più gravi andranno nelle residenze di queste due città. Quaranta internati in tutto. Per gli altri c'è molta incertezza. "Non scoraggiatevi e abbiate fiducia che questo piccolo esodo sarà seguito da gente che vi vuole bene", così si rivolge agli internati Nicola Mazzamuto, presidente del tribunale di sorveglianza. La messa è finita, l'ultimo avvertimento è per spiegare che al II reparto è allestito il pranzo. "E le sigarette?", chiede qualcuno. Messina: Mazzola (Cisl-Fp); dove andranno internati dell'Opg di Barcellona? Adnkronos, 30 marzo 2015 Domani chiuderà i battenti, per legge, l'ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Barcellona Pozzo di Gotto e non si sa ancora dove andranno i circa 30 internati , che hanno commesso, nella maggior parte dei casi, reati contro la persona, sono affetti da gravi disturbi psichici e che, per motivi di residenza, fanno riferimento all'Asp di Palermo. "Come misura alternativa all'Opg era prevista la costruzione di una Rems (residenza per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) nella provincia di Trapani - dichiara Gaetano Mazzola, segretario aziendale della Cisl Fp Palermo Trapani all'Asp di Palermo - ma i lavori non sono mai partiti. Il risultato è che da domani nessuno sa dove andranno queste persone, che hanno commesso reati gravi e che, per il 50%, sono giudicate tecnicamente "non dimissibili" a causa delle patologie psichiatriche che presentano. Fra gli internati all'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, c'è ad esempio, Fabio Conti Tozzo che nel 2009, davanti alla stazione centrale di Palermo, aggredì a martellate due anziani, riducendoli in fin di vita. Lui ed altri in condizioni simili, internati fino ad oggi all'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto - aggiunge Mazzola - da domani saranno liberi di girare per le nostre città con i rischi che ne conseguiranno per la popolazione o saranno destinati alle Comunità terapeutiche assistite (Cta), con altri rischi per il personale medico e sanitario e per gli altri utenti". A novembre del 2014 la Cisl Fp Palermo Trapani ha organizzato all'Asp di Palermo, un seminario sulla salute mentale per sensibilizzare la direzione generale dell'azienda su un tema che potrebbe trasformarsi in una bomba sociale. "I vertici aziendali - continua Mazzola - hanno ignorato il problema e oggi che l'emergenza è alle porte, nessuno dice cosa fare per arginarla. Si pensa di scaricare tutto il problema sulle spalle dei medici e del personale sanitario, che dovrebbero occuparsi anche di garantire le misure di sicurezza, trattandosi di soggetti oggetto di misure cautelari?". "Chiediamo al direttore generale, Antonino Candela - conclude Mazzola - di convocare con urgenza i sindacati per pianificare interventi immediati e adottare provvedimenti a tutela del personale sanitario e medico, che dovrà farsi carico dell'assistenza di questi soggetti. Lo sollecitiamo a farsi portavoce all'assessorato regionale alla Salute dell'esigenza di realizzare in tempi brevissimi la Rems di Trapani, perché occorrono azioni durature e non misure tampone". Biella: M5S; no all'utilizzo del vecchio ospedale per alloggio detenuti psichiatrici www.ilperiodicodibiella.com, 30 marzo 2015 Dopo Fratelli d'Italia ora anche il Movimento 5 Stelle dice no all'utilizzo del vecchio ospedale di Biella come centro per il recupero di detenuti psichiatrici. "Abbiamo appreso che si vocifera di un possibile utilizzo di parte della struttura del vecchio ospedale come "carcere psichiatrico". Al Sindaco diciamo che è quanto meno strano considerare un carcere psichiatrico quale mezzo per "rianimare" la città; caro Sindaco Cavicchioli le ricordiamo che si sono utilizzati un bel po' di soldi per un concorso di idee(80.000 euro), per trovare un'idea per riutilizzare la struttura, già dimenticato? Tutto gettato alle ortiche? Sappia che poco importa che sia un concorso di idee della vecchia giunta, i soldi erano veri e li abbiamo pagati noi cittadini. Non pensa Sindaco che, più probabilmente, un polo culturale gioverebbe maggiormente alla mente, allo spirito e alle tasche dei biellesi? Lo ricorda lei a Saitta che qui non siamo aperti ad accettare qualunque cosa ed a perdere quel poco che abbiamo, ma vogliamo che Biella non diventi il ghetto della regione? La "rianimazione" che ha più volte sostenuto di voler attuare durante la sua campagna elettorale passa solo attraverso pirogassificatori dighe e carceri? Niente scuola, niente polo culturale, bel modo per veder splendere la ridente cittadina ai piedi del Mucrone." concludono i consiglieri pentastellati. Brescia: "Palazzolo accogliente", polemica sui fondi stanziati per lavori sociali ai detenuti Brescia Oggi, 30 marzo 2015 Non bastassero le divergenze sul tema dell'immigrazione, anche le politiche di assistenza ai carcerati diventano motivo di scontro politico. Succede a Palazzolo sull'Oglio (Bs), con la polemica accesa tra Stefano Raccagni, consigliere comunale e segretario della Lega nord, e il sindaco Gabriele Zanni sui 2.000 euro stanziati per l'operazione "Palazzolo accogliente", il progetto di giustizia riparativa avviato col carcere di Verziano e l'associazione "Carcere e territorio". Raccagni afferma che la somma che il comune investirà per impegnare in un'attività di cura del territorio i detenuti ammessi agli interventi di giustizia riparativa "si potevano impiegare meglio, garantendo la priorità ai palazzolesi senza lavoro e non nella manutenzione del verde e nella pulizia del territorio per la quale paghiamo cooperative e aziende. Ancora una volta - conclude - pare che le iniziative di questa amministrazione siano una cortina fumogena dietro cui nascondere le magagne, ennesima dimostrazione del fatto che i palazzolesi devono sempre pagare e mettersi in coda". la replica del sindaco? "I duemila euro servono per i costi stimati del progetto, ma si auspica che a fine giugno si possa contare su fondi ministeriali non spesi da riassegnare ai comuni attivi su questo fronte. Tra il 2012 e il 2014 Palazzolo ha impegnato risorse proprie e non per circa 140 mila euro nei voucher per cassintegrati, persone in mobilità o disoccupate. Una simile operazione non era sostenibile: per le stesse ore di lavoro del progetto servivano circa 1.230 euro mensili". Zanni si rivolge poi indirettamente a Raccagni spiegandogli che non è informato: "Le due persone assegnate lavoreranno gratuitamente, fornendo un servizio prezioso per la città che diversamente non si potrebbe offrire. Mi stupisce che la Lega, sempre particolarmente sensibile al tema sicurezza- conclude il primo cittadino palazzolese - non veda nel progetto lo strumento per evitare che dopo al termine della pena detentiva queste persone possano tornare a delinquere. Siamo di fronte a iniziative che hanno dato buoni risultati, ponendo le basi per una migliore integrazione degli ex carcerati nelle comunità d'origine e non solo". Benevento: Sappe; allarme per episodi di autolesionismo nel carcere di Capodimonte Il Mattino, 30 marzo 2015 "A Benevento, nei dodici mesi del 2014, abbiamo contato cinque tentati suicidi, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 16 episodi di autolesionismo e sette colluttazioni". Lo riferisce Donato Capece, leader nazionale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. "Hanno aggredito di recente anche due poliziotti penitenziari nel carcere di Torino, nella Sezione Alta Sicurezza. Protagonisti, ieri, due detenuti italiani: dieci i giorni di prognosi per gli agenti, colpiti con calci e pugni". La notizia è riferita sempre dal Sappe che molte, nell'esprimere agli agenti "solidarietà e vicinanza", evidenzia come sia "sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non sì promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale". Lo stesso Capece sottolinea come "in un anno la popolazione detenuta in Italia sia calata soltanto di poche migliaia di unità: il 28 febbraio scorso erano presenti nelle celle 53.982 detenuti, che erano l'anno prima 60.828. La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione - aggiunge il segretario generale del Sappe - ogni giorno, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti". Asti: Sappe; evaso detenuto genovese, non è rientrato da permesso di 5 giorni Ansa, 30 marzo 2015 "Un detenuto italiano di 45 anni, originario di Genova, in permesso per 5 giorni non ha fatto rientro ieri nel carcere di Asti, dov'era ristretto per reati di droga, ed è quindi da considerarsi evaso". Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Questo è un evento che purtroppo si può verificare, anche se la percentuale dei detenuti ammessi a fruire di permessi all'esterno che non fa poi rientro è minima", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. Capece evidenzia infine che anche il grave episodio del mancato rientro del detenuto in carcere ad Asti è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell'esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all'altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell'esecuzione della pena nazionale". Potenza: droga in un pacco per un detenuto, nascosta all'interno di un lettore cd Quotidiano della Basilicata, 30 marzo 2015 Ventidue grammi di stupefacente occultati in un lettore cd scoperti dalla penitenziaria. Denunciato un pugliese che si era fatto spedire il plico tramite raccomandata. Pensava di poterla fare franca. Un pugliese, detenuto nella casa circondariale del capoluogo, aveva pensato bene di farsi spedire un pacco con dentro un lettore Cd nella speranza che nessuno vi trovasse qualche cosa di strano. E, invece, non è andata così. Nascosta nel lettore Cd, infatti, c'era della droga che il detenuto probabilmente avrebbe poi spacciato agli altri detenuti. Ma l'affare è sfumato e il pugliese è stato anche denunciato. E questo grazie all'intuito degli agenti della Polizia penitenziaria. Il lettore Cd nuovo, ben confezionato e funzionante, era stato spedito, in un pacco, tramite raccomandata. Il pacco, recapitato in carcere, è finito, come da procedura, nella meni di un agente scelto - V.S. - che ha aperto il pacco e ha preso in mano il lettore che emanava uno strano odore. Insieme a lui un ispettore - D.S. - che si è accorto che in alcuni punti il lettore era stato manomesso. E così grazia all'intuito dei due poliziotti sono stati trovati 22 grammi di droga ben occultata all'interno del lettore Cd. Si tratta del terzo episodio, in sette mesi, nel carcere potentino: i primi due scoperti con l'ausilio delle unità cinofile del Corpo, ieri invece, solo grazie all'intuito e alla professionalità degli agenti della Polizia penitenziaria. Per quanto accaduto la Uil esprime "soddisfazione" e si è congratulata con il Comandante del reparto e con tutto il personale, che "nonostante i numerosi carichi di lavoro dettati dalla carenza di personale e dalle mille difficoltà operative che aggravano i vari turni di servizio in un mondo particolare, com'è oggi il carcere, riescono a mantenere ancora alta la guardia, esprimendo sempre piena professionalità e spirito di corpo". I tentativi di introdurre sostanze stupefacenti all'interno delle strutture carcerarie è un fenomeno sempre più in crescita negli ultimi anni. pertanto "sarebbe opportuno - si legge in una nota della Uil - che l'Amministrazione penitenziaria fornisca al personale strumenti tecnologici e corsi professionali mirati, in modo che i baschi azzurri della Penitenziaria possano contrastare questi eventi". Oltre alla Uil riconoscimento all'operato degli agenti anche da parte di Saverio Brienza, segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo Polizia penitenziaria) della Basilicata. Anche Brienza ha tenuto a rimarcare quanto fanno tutti i giorni gli agenti della Penitenziaria che "pur operando nella sofferenza di una carenza di organico di circa 30 unità e con limitatissimi strumenti tecnologici" continuano a svolgere "i propri compiti con grande senso di professionalità per garantire sempre più sicurezza alla collettività". Nell'ultimo anno in Basilicata sono stati affrontati e superati 415 eventi critici tra aggressioni al personale, tentativi di suicidio, risse e autolesionismo. Con l'operazione antidroga "i baschi azzurri di Potenza - ha concluso Brienza - hanno nuovamente dimostrato di essere un Corpo di Polizia preparato che non si limita solo ed esclusivamente a svolgere compiti di trattamento e osservazione nei confronti dei detenuta, ma esercita pienamente le proprie funzioni di polizia e di sicurezza per affermare principi di legalità in un contesto potenzialmente a rischio come può essere un carcere". Frosinone: Sappe; trovato telefonino ad un detenuto, è il quarto in pochi mesi www.linchiestaquotidiano.it, 30 marzo 2015 Un telefono cellulare è stato trovato nel carcere di Frosinone, da tempo al centro delle critiche sindacali per il costante verificarsi di eventi critici tra le sbarre. A darne notizia è Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Il telefono cellulare era nella disponibilità di un detenuto, perfettamente funzionale. E il ritrovamento è inquietante, visto che è il quarto caso in pochi mesi. Al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria chiediamo interventi concreti come, ad esempio, la dotazione ai Reparti di Polizia Penitenziaria di adeguata strumentazione tecnologica per contrastare l'indebito uso di telefoni cellulari o altra strumentazione elettronica da parte dei detenuti nei penitenziari italiani", aggiunge. "Il rinvenimento è avvenuto - spiega Capece - grazie all'attenzione, allo scrupolo ed alla professionalità di Personale di Polizia Penitenziaria in servizio a Frosinone". Il Sappe ricorda che "sulla questione relativa all'utilizzo abusivo di telefoni cellulari e di altra strumentazione tecnologica che può permettere comunicazioni non consentite è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi, che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo". "A nostro avviso - aggiunge il Segretario Locale del Sappe di Frosinone Franco D'Ascenzi - appaiono indispensabili interventi immediati, quali la possibilità di "schermare" gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari". Milano: il carcere si expone, sei mesi di iniziative a porte aperte in occasione di Expo di Susanna Ripamonti (Direttrice di "Carte Bollate", giornale della Casa di Reclusione di Milano Bollate) Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2015 In occasione di Expo, Carte Bollate perde la "c" e diventa "(c)artebollate" catalogo delle mostre e delle iniziative che si terranno nella seconda casa di reclusione milanese durante i sei mesi dell'esposizione universale. In quest'ultimo anno gli ospiti del carcere hanno visto crescere (con preoccupante lentezza) il cantiere di Expo, che sorge proprio di fronte all'istituto, dall'altra parte della strada. Da questa vicinanza è nata l'idea di "jail Expo". Questo catalogo vi racconta le mostre, organizzate con l'Accademia di Brera e con Fabbrica Borroni e che hanno coinvolto i detenuti per realizzare pannelli che avvolgeranno letteralmente il carcere. Altre mostre saranno all'interno, compresa la magica installazione realizzata da Studio Azzurro tra i detenuti di Bollate, per la Biennale di Venezia, e che ora torna a casa: figure interattive, che dialogano con il pubblico, animandosi al contatto. La parte centrale del catalogo racconta ai visitatori, che in questi sei mesi potranno entrare in carcere tutti i venerdì, che cos'è questo penitenziario e in cosa si differenzia dalle altre caceri. Infine una terza sezione, è dedicata a quelli che a Bollate fanno la differenza: cooperative e associazioni di volontariato che i visitatori potranno conoscere in occasione delle visite. In tutti i primi venerdì del mese si terranno dei mercatini nelle aree adibite ai "passeggi" per vedere e comprare ciò che in carcere si produce. Jail Expo inizia venerdì 8 maggio con le prime visite guidate, mercatini e aperitivi. Droghe: la marijuana è made in Italy di Alessio Schiesari Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015 Rovigo. Viaggio nel centro del ministero dell'agricoltura, uno dei più avanzati del mondo. Qui si selezionano le migliori specie di cannabinoidi che saranno utilizzate per scopi terapeutici. Visto da fuori sembra un istituto tecnico per l'agricoltura: quattro file di persiane rosse, due piccole serre e le papere che attraversano il vialetto pedonale. L'unico indizio per capire che in questo edificio c'è la più avanzata piantagione di cannabis d'Europa è il grande cartello bianco che campeggia sul portone di ingresso: "Area videosorvegliata". Siamo al Cra-Cin di Rovigo, Centro di ricerca per le colture industriali. Un chilometro più a sud c'è la stazione dei treni del capoluogo, poco più a ovest l'autostrada. All'interno, oltre cinquecento piante di cannabis di un centinaio di varietà differenti. Qui, lo scorso 20 marzo, un furgoncino dell'Esercito ha prelevato le prime 80 piante destinate allo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze dove sta partendo la prima produzione italiana di cannabis a scopo terapeutico. Ma quello che si produce in Toscana è stato studiato, selezionato e coltivato a Rovigo. "Qui abbiamo gli ingegneri che da anni progettano un'automobile, a Firenze è sorta la prima fabbrica", spiega un funzionario del ministero dell'Agricoltura. Quelle piante clonate Nelle quattro stanze adibite alla coltivazione le finestre sono sbarrate, ma la luce è intensa e l'odore inconfondibile. La filiera comincia con un cubetto di lana di roccia poco più grande di un dado: qui vengono impiantate le talee, piccoli rami di cannabis che metteranno radici fino a diventare autosufficienti. Per assicurare la stabilità genetica necessaria alla produzione farmaceutica, le piante non seguono il ciclo di riproduzione naturale, ma vengono clonate. I "segreti" per una produzione perfettamente standardizzata, requisito fondamentale per un prodotto farmaceutico, sono un ambiente sterile, 18 ore di luce al giorno, temperatura e umidità costanti. Solo così si riescono ad assicurare fino a quattro cicli di produzione all'anno, equivalenti a un raccolto di 150 grammi per pianta. L'obiettivo è massimizzare la resa con il minimo sforzo, benché quasi tutti gli strumenti utilizzati si possano reperire in un negozio Leroy Merlin e altri siano addirittura artigianali, come le mezze bottiglie di plastica che coprono le piante per mantenere alta l'umidità. La sensazione di essere in un laboratorio professionale sorge solo guardando i dodici armadi in plastica riflettente: servono a capire quale sia la luce migliore per la crescita. Ognuno contiene una pianta e una lampada diversa: blu, rossa, al neon e una al led capace di produrre tanta luce quanto il sole, ma senza calore. Un campione di ogni produzione viene portato al piano inferiore, dove viene testato il contenuto di cannabinoidi. Il risultato è una linea ondulata simile a un encefalogramma: l'ampiezza di picchi e curve decreterà qual è la cannabis "giusta" per alleviare il dolore, quale quella per ridurre gli spasmi muscolari. Dimenticatevi i nomi pittoreschi e un po' hippie sui menu dei coffee shop di Amseterdam: qui non si produce nessuna vedova bianca, bubblegum o grandine viola. La varietà destinata a Firenze, quella che combina nel giusto gradiente i due principi attivi curativi (il Thc responsabile dello sballo e il Cbd), si chiamerà CinRo: Colture industriali di Rovigo. Seguiranno per altre patologie il CinBo e il CinFe, in omaggio a Bologna e Ferrara. A selezionare ogni varietà, dopo una sperimentazione che dura più anni, è il primo ricercatore Giampaolo Grassi. Anche lui, come i nomi della "sua" cannabis, non tradisce alcuna fascinazione fricchettona: giacca blu, camicia e un marcato accento ferrarese. Eppure è stato lui, da quando nel 2002 ha cominciato a condurre la sede di Rovigo, a introdurre la prima coltivazione per fini di ricerca della cannabis in Italia. In realtà si tratta di una coltura di ritorno: "Da piccolo passavo le giornate a giocare tra le piante di canapa da fibra". Canapa, eravamo secondi al mondo Prima di Grassi a Rovigo si studiava solo la barbabietola da zucchero, la pianta che nell'Ottocento aveva portato le prime industrie in Romagna e nel basso Veneto, ma oramai in declino. Proprio la barbabietola aveva soppiantato la secolare produzione di canapa da fibra (della stessa famiglia dell'indica, quella psicotropa, ma senza Thc) di cui l'Italia era la seconda produttrice al mondo e che veniva impiegata per costruire le vele delle navi. Tra le peculiarità del centro c'è una banca del seme con oltre 300 varietà e 2 mila incroci. "Ogni volta che un amico va a fare un viaggio all'estero me ne porta uno. È legale perché non contengono Thc". I centri come questo nel mondo si possono contare sulle dita di una mano. Per questo, quando l'industria farmaceutica inglese GW inizia a sperimentare i primi farmaci a base di cannabis, il suo ricercatore va a confrontarsi con Grassi. E lo stesso hanno provato a fare il governo uruguagio e i produttori del Colorado dopo le legalizzazioni. Eppure, nessuna delle varietà isolate a Rovigo è stata "brevettata". La ragione? Burocratica: "Per legge non possiamo trasportare il materiale fino alla sede olandese", dove ne verrebbe riconosciuta l'unicità. Si è deciso di produrre cannabis a Firenze perché l'Olanda, unico paese autorizzato a esportare, è rimasta a corto della principale varietà usata per scopi medici, il Bedrocan. I fondatori dell'azienda omonima hanno iniziato rifornendo i coffee shop. Oltre a sopperire in modo costante alla domanda, quando entro fine anno la produzione a Firenze sarà a regime si potranno produrre un quintale di inflorescenze l'anno. Nel 2014 sono stati importati in Italia "solamente" 25 chili, ma la lista dei pazienti in attesa è lunga e la domanda crescita. Anche sul fronte economico si prospettano risparmi che giustificheranno il milione di euro investito nello stabilimento fiorentino. Oggi un paziente curato con il Sativex - l'unico farmaco a base di cannabinoidi in commercio - spende 726 euro al mese rimborsati dal servizio sanitario nazionale. I residenti nelle undici regioni italiane che hanno recepito il decreto Balduzzi del 2013, dove è quindi possibile curarsi con i fiori di cannabis, spendono 15 euro al grammo nelle farmacie ospedaliere. Se, come spesso accade, il prodotto non è disponibile, possono rivolgersi alle farmacie private, dove però il prezzo sale, per un'imposizione di legge, fino a 35-40 euro al grammo. "Con la produzione in Italia abbiamo previsto significativi risparmi", fa sapere l'Agenzia industrie difesa che gestisce l'impianto fiorentino. "Contiamo di dimezzare i costi al grammo", gli fa eco l'Ufficio centrale stupefacenti. Per risparmiare però basterebbe migliorare la somministrazione. "Conosco malati pugliesi che assumono 4 grammi al giorno perché nessuno ha loro spiegato come preparare il decotto necessario ad assimilarla. Ai miei pazienti bastano 30 milligrammi, meno dell'1%", spiega Paolo Poli, primario dell'Unità di terapia del dolore dell'ospedale di Pisa. Nonostante inizialmente fosse "molto scettico", oggi tratta con cannabis oltre 500 pazienti affetti da varie patologie: cefalee, fibromialgia, sla, malattie reumatiche. La lista di problemi è però lunga: farmacie ospedaliere che non pre-dosano il prodotto costringendo i pazienti a prenderlo a cucchiaini, medici di base che non sanno di poterla somministrare e tempi di attesa medi di sei mesi. Per risolvere queste difficoltà il governo ha scelto Firenze. Ma dove finisce la cannabis di Rovigo? Gli 80 chili prodotti negli ultimi mesi sono stivati dietro una porta blindata dentro a dei sacchi neri. La legge sugli stupefacenti 309/90 darebbe la possibilità al ministero della Salute di cedere le giacenze a farmacie e centri di ricerca, ma non è mai stato fatto. Negli ultimi due anni si è preferito spendere 600 mila euro per importare 43 chili di cannabis dall'Olanda. Tra un paio di settimane un camion per trasporti speciali, di quelli usati per esplosivi e materiale radioattivo, andrà a ritirare i sacchi e li porterà all'inceneritore. Ad accompagnarlo, oltre a Grassi, ci saranno due finanzieri: la legge impone che assistano personalmente alla distruzione. E mentre il raccolto di Rovigo andrà in fumo, migliaia di pazienti continueranno ad aspettare che lo stabilimento di Firenze entri a regime. Droghe: quel fumo che sballa ma aiuta contro Sla, Alzheimer e glaucoma di Lorenzo Tosa Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015 C'è chi la fuma alla sera per rilassarsi e chi per alleviare il dolore. Chi la equipara alle droghe pesanti e chi, invece, vorrebbe legalizzarla. Quando si parla di cannabis, la verità oggettiva tende a sciogliersi come "fumo" scaldato, per lasciare spazio a partiti, ideologie, schiere di tifosi. Eppure esiste un'ampia letteratura scientifica su una sostanza antichissima, le cui prime tracce risalgono addirittura al Neolitico. A cominciare da un dato. In Italia il 32,1% delle persone tra i 15 e i 64 anni ha fatto uso di cannabis almeno una volta nella vita (dati Emcdda), mentre cresce il consumo tra i giovanissimi: 1 su 4 sotto i 19 anni fuma regolarmente spinelli, secondo l'ultima relazione parlamentare sulle tossicodipendenze. Chissà, forse anche perché - secondo gli esperti - i produttori avrebbero cominciato a tagliarla con sostanze che favoriscono la dipendenza. Molti la fumano, ma in pochi conoscono fino in fondo i suoi effetti tossicologici e comportamentali. "Le prime sensazioni che si manifestano sono di euforia, divertimento, senso di rilassatezza - anche se a volte possono essere accompagnate da senso di nausea e vomito, tachicardia, aumento di fame e sete. E, in casi estremi, attacchi di panico, specie con i cannabinoidi sintetici". Edoardo Polidori, direttore del Servizio tossicodipendenze dell'Usl di Forlì, descrive così il primo approccio con la sostanza, che deve la propria fama al suo maggiore principio attivo: il delta- 9-tetraidrocannabi - nolo, meglio conosciuto come Thc. "Si ritrova per il 5-6% nelle foglie di marijuana e, in dosi decisamente più concentrate, nella resina o hashish, dove sfiora il 20%, aumentando il rischio di reazioni psichiche negative" precisa Rinaldo Canepa, medico del Sert di Genova, specialista in tossicologia. Tra queste, le più diffuse sono una minore capacità di concentrazione e una riduzione della memoria a breve termine. Gli effetti psicoattivi della canapa scompaiono nel giro di qualche ora, ma le tracce nell'organismo possono rimanere anche per due-tre settimane. Ma quali sono i rischi per chi fa uso di questa sostanza? I fattori in gioco sono tanti, dalla frequenza degli spinelli all'età e allo stato di salute del consumatore. "Dal punto di vista medico, fumare una canna al mese a 40 o 50 anni non comporta alcun rischio particolare - assicura Polidori - Le cose si complicano se a farlo è un ragazzino di 13 o 14 anni, il cui equilibrio psichico è fragile e in costruzione e può andare incontro anche a episodi di psicosi". Ma - come sottolinea Canepa - "Ad oggi non sono stati riscontrati rapporti diretti tra l'uso di cannabinoidi e l'insorgere di malattie particolari". Di più, gli fa eco Polidori. "Non esiste alcun caso di morte accertata per uso di cannabis, a differenza di quanto avviene per sostanze legali come alcool e nicotina". Anche in virtù di questi dati, negli ultimi anni il confine tra droga e farmaco è diventato sempre più sottile. Se in Italia l'uso terapeutico della cannabis è legale dal 1997, dall'anno scorso l'accesso ai farmaci è diventato più semplice grazie a un decreto legge applicato in numerose regioni italiane. Ma la comunità scientifica resta divisa. Per Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, "ben venga, se serve per alleviare i sintomi dei pazienti, anche se oggi non ci sono abbastanza prove per attestare che i benefici siano superiori agli effetti tossici". Studi definitivi ancora non ce ne sono, in un Paese che paga dazio a un ritardo culturale sull'argomento. "La battaglia più difficile - spiega Polidori - è sradicare il pregiudizio nella testa delle persone, di fronte a una sostanza che ha dimostrato di essere efficace contro il glaucoma, oltre a un potente stimolatore dell'appetito per malati in stato terminale". E ricerche più recenti si sono concentrate sui suoi possibili benefici nella cura dell'Alzheimer e come anti-spastico per i casi di Sla. Mentre molte regioni stanno aprendo all'uso medico della canapa e in Parlamento è pronta una proposta di legge per la sua legalizzazione, un compromesso, secondo Canepa, è possibile solo sgombrando il campo da ogni tipo di questione ideologica o commerciale. "L'atteggiamento di certi sostenitori fanatici rischia di far perdere di vista le vere proprietà del farmaco, che richiedono un approccio scientifico". L'ultima parola spetta ai medici, perché anche il dibattito sulla cannabis non si riduca all'ennesima battaglia ideologica tra opposte fazioni. Droghe: canne alla svizzera, apriamo i social club di Lorenzo Galeazzi e Alessandro Madron Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015 "Basta sprecare soldi nella lotta alla droga". L'appello arriva da Olivier Gueniat, tutt'altro che un bizzarro antiproibizionista, uno sbirro. È il capo della polizia di Neuchatel, capitale dell'omonimo cantone della Svizzera francese, "cittadina da 35mila anime dove si fumano 3.000 canne al giorno". Sarà anche per questo che il governo federale ha deciso di inviarlo in Uruguay a studiare la marijuana di stato dell'ex presidente Pepe Mujica e in Sudamerica ha trovato le conferme che cercava: si può fare anche a nord delle Alpi, a patto però di un ferreo controllo statale dalla produzione al consumo, "un modello lontano anni luce da quello del Colorado che ha trasformato il mercato nero in grigio". Così sarà Montevideo e non Denver a ispirare Ginevra e il suo progetto di apertura sperimentale dei cannabis social club atteso entro il 2015. Gueniat insegna criminologia all'Università di Losanna, sulla sponda opposta del lago Leman, e dati alla mano snocciola le cifre di un fallimento: "Ogni anno 17mila poliziotti denunciano 98mila consumatori e presunti spacciatori. Spendiamo mezzo miliardo di franchi, sfiliamo a ogni cittadino 70 euro che potrebbero essere investiti altrove, come nella prevenzione". Ma problema sono i risultati: "L'offerta di stupefacente è così estesa da non essere intaccata dalla nostra attività di polizia e la domanda di droga non accenna a diminuire". Tanto basta per provare a invertire la rotta, ma in sordina perché, anche se sono passati dieci anni, il ricordo della disastrosa esperienza del Ticino e dei suoi deodoranti speciali per cassetti è ancora vivo nella mente di poliziotti e investigatori. "Grazie a un trucco, per circa sei anni, il cantone italiano si è trasformato in una piccola Giamaica a 50 chilometri da Milano a disposizione di narcotrafficanti e ragazzini sballati", ricorda Gueniat. Al netto di qualche scivolone va precisato che la Svizzera, al contrario dell'Italia, ha sempre svolto un ruolo da pioniere in materia di politiche sulla droga. Nel 1986, è stato il primo paese a inaugurare spazi speciali per i tossicodipendenti, le cosiddette "stanze del buco", e nel 1994 ha introdotto la prescrizione medica di eroina. Anche le pene per i consumatori di cannabis sono lievi: 100 franchi, la stessa ammenda di chi viene sorpreso viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto. Oltre a essere dirigente di polizia e docente, Gueniat siede nella Commissione globale per le politiche sulle droghe, quella che, se andrà a buon fine l'esperimento di Ginevra, proverà a formulare una legge federale che riunirà i 26 cantoni. Insieme a lui c'è Ruth Dreifuss, anziana leader socialista più volte ministro ed ex presidente della Repubblica. In passato è stata una delle principali ispiratrici delle rivoluzionarie politiche sulle droghe al punto di guadagnarsi il nomignolo di "spacciatrice della nazione". Ma lei tira dritto e lascia che siano i fatti a parlare: "Grazie alla riduzione del danno abbiamo debellato le piaghe di eroina e Aids fin dagli anni 90. Ora è tempo di aggredire il commercio illegale e di far sì che chi decide di fumare erba possa farlo in sicurezza". Come? "Con la coerenza. Regolamentando la sostanza come è stato fatto per alcool e tabacco. È molto più efficace incoraggiare la gente a osservare delle regole piuttosto che imporre un divieto al quale di certo si trasgredirà". Dopo che nel 2004 il sostituto procuratore di Bellinzona Antonio Perugini bruciò l'ultima piantagione di marijuana sulle Alpi, agli svizzeri non rimase altro che dedicarsi alla coltura indoor. Ma a differenza delle piccole grow room olandesi, la coltivazione assunse subito dimensioni industriali con enormi piantagioni nascoste in hangar e capannoni. "Io una volta ne ho scoperta una da 30mila piante", ricorda il comandante Gueniat che spiega: "Ogni anno vengono prodotte 130 tonnellate di cannabis per un mercato che vale quasi un miliardo di euro gestito da clan criminali italiani, spagnoli ed est europei". Così, se l'offerta è incontrollabile, tanto vale provare a lavorare sulla domanda rendendo la marijuana cantonale più conveniente e sicura di quella del mercato nero. Con molte regole: vendita solo ai residenti maggiorenni dopo essersi iscritti a un apposito registro "per disincentivare il turismo dello sballo come in Olanda". Ma soprattutto ferrei controlli sulla qualità: dal seme allo spinello, perché, secondo uno studio dell'Università di Berna, la canapa indoor svizzera è piena di sostanze pericolose come pesticidi ed erbicidi. "Come possiamo permettere che più di 500mila consumatori si intossichino quotidianamente con prodotti vietati nel riso o nel mais?". Gli fa eco Madame Dreifuss: "Vogliamo provare a portare avanti un metodo equidistante sia dal proibizionismo che da un sistema completamente liberalizzato, dove le risorse che prima si spendevano in repressione vengano destinate a campagne di sensibilizzazione, prevenzione e recupero". Come in Uruguay, appunto, paese in cui in poco più di un anno "le tossicodipendenze sono diminuite, il business delle narcomafie è stato intaccato la protezione sanitaria per i consumatori è superiore agli standard previsti dalla convenzione Onu sulle droghe". Una bella sfida che forse solo la piccola, laica e pragmatica Svizzera può permettersi di affrontare. Nel frattempo però, a migliaia di chilometri di distanza, il nuovo presidente uruguagio Tabaré Vázquez ha già iniziato a prendere le distanze dalla politica sulle droghe del suo predecessore.