In Commissione Giustizia a parlare degli affetti dei detenuti mandiamoci i loro figli Il Mattino di Padova, 2 marzo 2015 La Commissione Giustizia della Camera ha avviato in questi giorni l'esame di due proposte di legge in materia di relazioni famigliari e affettive delle persone detenute. È un piccolo passo importante, avvenuto grazie soprattutto alla campagna di informazione partita dalla Casa di reclusione di Padova, dalla redazione di Ristretti Orizzonti, in collaborazione con la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ma sono state anche le migliaia di firme di persone detenute, di loro famigliari e di cittadini attenti e sensibili a sollecitare la politica a occuparsi degli affetti delle persone detenute, delle loro famiglie, delle sofferenze a cui sono condannate se non vogliono abbandonare i loro cari. Ora inizieranno alla Commissione Giustizia le audizioni degli "esperti", degli addetti ai lavori, ma noi proponiamo che siano sentiti anche i nostri esperti, perché riteniamo che non ci siano persone con una conoscenza più profonda di quella che hanno quei figli e quelle figlie, la cui vita è diventata un percorso a ostacoli. Nel racconto che riportiamo, una giovane donna con il padre in carcere aggiunge ancora dettagli nuovi al dolore della condizione di figli di detenuti, spiegando che quella "macchia" ti condiziona ogni momento della vita: ti fa sentire inadeguata quando a scuola non hai un padre da "esibire", ti fa pensare che tu non puoi neppure fare gli studi che vorresti scegliere, perché come si fa a "osare sognare" di diventare avvocato o magistrato, con un padre in galera? Questa figlia noi vorremmo che fosse chiamata a una audizione in Commissione Giustizia della Camera, perché nessuno meglio di lei può spiegare ai parlamentari che la legge come è adesso è davvero poco umana. Quando un genitore è in carcere, lo è anche la sua famiglia Sono contenta di aver tratto tante cose belle e positive da una brutta esperienza. Essere figlia di un carcerato non è facile, come non è facile vivere senza la presenza di un padre. Io entro nelle carceri da quando avevo sei anni e ne ho girate tante per andare ai colloqui. Partivamo la sera tardi, io e mia mamma, per essere al mattino da mio papà. Dovevamo fare tante ore di viaggio. Se prima andavo a Cuneo dopo succedeva spesso che lo trasferivano e noi dovevamo andare a Napoli, a Larino, a Sulmona. Io sono consapevole del cattivo comportamento di mio padre, ma nessuno era a conoscenza di una bambina che sarebbe dovuta andare ai colloqui? Che avrebbe dovuto affrontare tante ore di viaggio? È proprio per questo che affermo che quando un genitore è in carcere lo è anche la famiglia, perché come non era un problema per l'amministrazione penitenziaria buttare mio padre a Napoli (io vivo ad Alessandria), non era nemmeno un problema far andare me così lontano, far sì che una bambina piccola anche in inverno, al freddo, dovesse passare le notti in treno per vedere suo padre. Quando partivo per i miei "viaggi" non dicevo niente a nessuno, perché mi vergognavo molto. Sarebbe stato umiliante per me doverlo dire ai miei compagni delle elementari o alle mie maestre, e la stessa vergogna la provavo anche alle medie e alle superiori così come nei primi mesi di università, fino a quando ho incontrato delle persone sensibili e attente e abbiamo parlato tante volte e ho capito che non era colpa mia, che non mi sarei dovuta vergognare per un atto che non ho commesso io, perché io sono una vittima in tutto ciò. All'inizio di mio padre non sapeva niente nessuno, neppure il mio ragazzo, la mia migliore amica. Io avevo una vita "parallela" sotto un certo aspetto, perché mentivo, rimanevo sul vago, cercavo di parlare di mio padre il meno possibile, perché la mia paura era di essere considerata anch'io come un frutto marcio destinato a fare una fine brutta. Il carcere è una realtà molto lontana secondo la gente, anche se ogni nostro comportamento illecito può portarci a farne parte, ma questa possibilità non viene mai considerata e quindi chi ne fa parte è come se avesse la peste e deve essere tenuto lontano dalla società. Durante la mia adolescenza riflettevo molto su queste cose e tra me e me dicevo che non sarei mai potuta diventare qualcuno perché la figlia di un carcerato non può pretendere niente, allora molte volte ho anche pensato di smettere di studiare, tanto sarebbe stato tutto inutile. Mia mamma però ha sempre insistito perché secondo lei non dovevo farmi questi problemi, allora io continuavo a studiare per rendere orgogliosa la mia famiglia. Dopo le superiori ho pensato di iscrivermi ad Economia e Commercio, perché finita l'università speravo che sarei forse riuscita a trovare qualche lavoretto, anche se il mio sogno era Giurisprudenza, ma la figlia di un detenuto non può entrare in quell'ambito. Tutte le mie paranoie, per fortuna, le ho però confessate ad altre persone che mi hanno fatta riflettere, perché io mi ponevo da sola molti limiti, secondo me i figli di persone libere potevano aspirare a molto di più di quello a cui potevo aspirare io, non consideravo però il fatto che magari tanti miei coetanei, nonostante siano figli di persone senza precedenti penali, non hanno come aspirazione o ambizione quello che piace a me, e magari le mie motivazioni e la mia passione per gli studi sono molto più forti delle loro. Fortunatamente poche settimane prima di iscrivermi ho parlato con una persona a cui voglio un gran bene, confessando che non mi sarei iscritta a Giurisprudenza perché sarei stata oggetto di pregiudizi, ma lei è riuscita a farmi cambiare idea, ed ora sono al secondo anno di Giurisprudenza, senza tutte le paure di prima. Il mio coraggio è aumentato perché ora parlo molto tranquillamente della mia vita, anche con alcuni professori, quasi per vantarmi, come per dire che non occorre essere figli di persone "importanti" per potersi permettere di studiare e avere tante ambizioni, questo anche perché ho avuto modo, negli ultimi giorni, di conoscere persone che sono intellettuali, figli "di", ma nonostante i loro genitori importanti peccano di intelligenza, umiltà, sensibilità, e capacità di vivere in mezzo ad altre persone, e questo ha aumentato la mia autostima. Ho detto che ho parlato con alcuni professori della mia situazione familiare, ed è cosi, uno di loro si è stupito ed ha iniziato a farmi domande sul carcere e in quel momento i ruoli si sono invertiti, ed ero io a dover spiegare quella realtà al professore. Questa è una ragione per cui mi sento meglio e ne parlo molto più tranquillamente, ed è stato questo episodio a farmi capire che anche dalle storie brutte, con tanto coraggio e tanta forza si possono trarre cose positive. Nonostante tutto non posso affermare di essere orgogliosa di mio padre, perché lancerei un messaggio sbagliato e direi ciò che non penso. Non sono orgogliosa di lui per tutto ciò che ha causato a se stesso, agli altri, a me, alla nostra famiglia. Non posso dire che sono orgogliosa perché si è fatto tanto male anche da solo, perdendosi la mia crescita, la sua famiglia. Ha addirittura dovuto scoprire della morte di sua mamma attraverso quell'unica telefonata settimanale di dieci minuti che è consentita a chi è dentro al carcere, quando magari si interrompe la chiamata proprio nel momento in cui ti danno una notizia così tragica, perciò non posso dire che sono stata orgogliosa di lui perché affermerei che è stato bravo, ma non lo è stato. E io non posso non dire che ho sofferto, che mi sono dovuta sacrificare e girare le carceri di tutta Italia, ma posso dire però di essere orgogliosa di lui adesso, perché si sta comportando bene, ora che gli è stata data la possibilità di lavorare all'esterno del carcere e lo sta facendo con umiltà e dignità, e questo mi rende orgogliosa di lui. Suela M. Giustizia: i magistrati, nostri alleati o nemici? di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015 Il punto è uno: noi italiani vediamo nei giudici chi ci punisce e non chi difende i nostri diritti. Il punto è che ci identifichiamo nell'imputato e non nella vittima. È un sentire profondo. Vi hanno contribuito i socialisti anni ‘90 - tra i primi a puntare su separazione delle carriere e responsabilità dei giudici - che dovevano difendersi da Mani Pulite. Allora i colpevoli erano i pm e non i corrotti che avevano rubato miliardi allo Stato e a noi. Poi è arrivato Berlusconi che ha incarnato il paradosso di un potere dello Stato - l'Esecutivo - in lotta con un altro - il giudiziario. Tutti contro la magistratura, mentre i collaboratori di B. coltivavano legami con la mafia e corrompevano i giudici. Per non dire dello stesso Cavaliere che senza quei rompiballe con la toga avrebbe frodato impunemente al fisco oltre 300 milioni. Ed ecco arrivare Matteo Renzi. Prima, tra migliaia di giudici capaci, ha arruolato nel suo Governo quel Cosimo Ferri con tanti legami nel mondo del potere romano, lo stesso Ferri citato (mai indagato) in intercettazioni piuttosto imbarazzanti. Poi, invece di manifestare ogni giorno solidarietà a pm come Nino Di Matteo che a Palermo vive blindato peggio di un carcerato, si scaglia contro le ferie dei magistrati. Non per affrontare seriamente una questione pur legittima, ma per denigrare l'operato dei giudici. Fannulloni, questo il messaggio: affermazione singolare se proviene da un Governo dove quasi nessun ministro ha mai lavorato. Infine il paradosso: tra tante riforme urgenti (corruzione, falso in bilancio, prescrizione) si decide di affrontare subito la responsabilità civile dei magistrati. Un segnale: pensiamo prima a chi difende la legalità e poi ai delinquenti. Chissà quanti processi, soprattutto a carico di potenti, mafiosi, grandi inquinatori, non vedranno mai la luce perché i magistrati ora saranno intimiditi. Infine ecco il primo messaggio sulla giustizia di Sergio Mattarella: un accenno un po' evasivo al protagonismo dei magistrati ma anche al rischio di burocratizzazione. Che differenza rispetto alle parole di Obama che, nei giorni scorsi, ha detto: per costruire una democrazia serve un parlamento, ma anche una giustizia indipendente. Ecco, c'è una questione di fondo che va affrontata prima dei dettagli sulle singole riforme (spesso abborracciate o solo annunciate): in Italia vediamo i giudici come nemici, non alleati. Nessuno dice che i magistrati siano perfetti, sono uomini come noi: alcuni eroici fino a farsi uccidere, altri pavidi, affascinati dal potere. Svolgono un compito che fa tremare i polsi: hanno in mano la vita di uomini e donne. "La legge è uguale per tutti", è scritto alle loro spalle nelle aule. Non sarà mai davvero così, purtroppo. Ma noi italiani lo desideriamo davvero? Giustizia: lo Stato dovrà pagare per l'errore giudiziario dell'ex pm de Magistris di Silvia Barocci Il Messaggero, 2 marzo 2015 L'ultimo errore giudiziario "inescusabile" che lo Stato dovrà risarcire chiama in causa il sindaco di Napoli ed ex "toga" Luigi De Magistris. La legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, da pochi giorni soppiantata dalle nuove norme del governo Renzi, ha concluso i suoi 27 anni di applicazione con un caso clamoroso: Palazzo Chigi dovrà risarcire 22.400 euro (circa 26mila con le rivalutazioni Istat), tra danni e spese legali, in favore di Paolo Antonio Bruno, magistrato di Cassazione che la procura di Catanzaro, nel 2004, aveva perquisito e indagato per concorso in associazione mafiosa. A firmare quel provvedimento, poi rivelatosi abnorme, erano stati l'allora procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi (deceduto nel 2011), il pm De Magistris (dimessosi dalla magistratura a fine 2009 per entrare in europarlamento con l'Idv di Di Pietro) e l'aggiunto Mario Spagnuolo (ora procuratore capo a Vibo Valentia). A condannare lo Stato per almeno due "errori inescusabili", commessi dalla procura di Catanzaro ben 11 anni fa, è stato il mese scorso il Tribunale civile di Salerno con motivazioni che pesano come macigni e ora aprono una serie di interrogativi: il governo avrà o no l'obbligo di rivalsa entro due anni su De Magistris, ora che non è più in magistratura? Varranno le vecchie norme della Vassalli o quelle più salate della nuova legge Orlando (fino alla metà dell'annualità dello stipendio)? In assenza di una norma transitoria, vige l'incertezza sui procedimenti pendenti. Agli atti resta però un fatto: in dieci anni, il nono e ultimo caso di condanna dello Stato per un errore giudiziario, valutato sulla base della Vassalli, tocca la procura di Catanzaro, finita tra il 2006 e il 2008 nell'occhio del ciclone. Le inchieste "Toghe lucane", "Why Not" e "Poseidone" aprirono una stagione di guerre intestine alla magistratura (De Magistris intercettò alcuni colleghi e avviò un conflitto col suo capo Lombardi) e di scontro frontale con la politica (nel registro degli indagati, poi archiviati, finirono anche l'allora premier Prodi e l'ex Guardasigilli Mastella). Il giudice Paolo Antonio Bruno si era trovato coinvolto in una precedente inchiesta di Catanzaro che, il 9 novembre del 2004, aveva portato all'arresto di sei persone, tra cui l'ex parlamentare forzista Matacena, accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso e minaccia a un corpo giudiziario. L'ipotesi di De Magistris era la seguente: a Reggio Calabria ci sarebbe stato un comitato di affari che avrebbe cercato di condizionare i magistrati della Dda per bloccare le inchieste. Tra i 34 indagati anche il consigliere di Cassazione Bruno. Il quale aveva solo una "colpa": essere nato a Reggio. Il filone principale fu chiuso con l'assoluzione in primo grado di tutti gli imputati. E anche il giudice Bruno ha avuto ragione in toto. Il gup di Roma, competente per territorio e al quale Catanzaro ha inviato gli atti in ritardo, dopo averli girati per errore a Perugia, ha archiviato tutte le accuse. E lo ha fatto, scrive il Tribunale di Salerno che ha condannato lo Stato, "non già in forza di sopravvenienze investigative, ma sulla base della mera presa d'atto che fin dall'inizio mancava qualsiasi elemento, sia pure di mero sospetto, idonea a sorreggere l'accusa come prospettata". Le indagini, poi, hanno avuto una "durata assolutamente irragionevole", senza contare che il magistrato perquisito non è mai stato interrogato, nonostante lo avesse chiesto per oltre un anno. Giustizia: dalla legge Vassalli sono passati 10 anni... mai nessuna rivalsa sui magistrati di Antonio Manzo Il Mattino, 2 marzo 2015 Lo Stato solo nel 2014 ha risarcito 1,6 milioni di euro per gli errori dei giudici. Nove errori giudiziari riconosciuti ne gli ultimi dieci anni. Neanche uno all'anno. Ora il decimo è quello dall'ex pm De Magistris che, in pratica, è anche l'ultimo del vecchio "regime" della legge Vassalli. Troppo pochi dieci errori in dieci anni. Ora la battaglia per una nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati c'è. Tutto cambia: lo Stato ha sborsato negli ultimi 10 anni circa 54mila euro, l'eliminazione del filtro ai ricorsi presentati dai cittadini contro lo Stato, così come prescrive la nuova legge, potrebbe comportare una spesa dieci volte maggiore: 540mila euro l'anno, perché "in via approssimativa" si mettono in conto circa dieci condanne l'anno. Poi sarà lo Stato a procedere nei confronti del magistrato. Non più facoltativamente ma per obbligo di legge per una somma non superiore alla metà dell'annualità di stipendio della toga, contro il terzo previsto dalla Vassalli. Dagli anni della legge Vassalli nessuna azione di rivalsa dello Stato sul magistrato è stata definitiva. Perché anche i procedimenti di responsabilità in sede civile hanno tre gradi di giudizio e una condanna può essere ribaltata. È il caso di una società Srl alla quale un Pm e un magistrato di Grosseto avevano sequestrato nel lontano 1998 un'intera tenuta agricola nel parco dell'Uccellina per reati ambientali. Un sequestro "non pertinente" al reato, aveva deciso il Tribunale civile di Genova condannando lo Stato, nel 2005, a risarcire a favore della società circa 500mila euro. Ma la Corte di Appello prima e la Cassazione poi hanno annullato la decisione di primo grado, col risultato che la Presidenza del Consiglio ha intimato agli ex soci della società (che nel frattempo aveva cessato l'attività) di restituire le somme versate. Negli ultimi due anni la relazione annuale presentata dalla direzione generale del ministero della Giustizia per il contenzioso e per i diritti umani ha certificato che il numero e l'entità delle condanne allo Stato di risarcimento dei cittadini costituiscono una voce importante del passivo del bilancio della Giustizia Di anno in anno sale la somma per i risarcimenti. Solo peri risarcimenti legati alla ragionevole durata dei processi (la cosiddetta Legge Pinto), lo Stato ha "un debito che a metà del 2014 ammontava ad oltre 400 milioni dì euro". A questi vanno aggiunti i danni della magistratura per ingiusta detenzione o errore giudiziario. Solo nel 2014 ci sono stati mille ricorsi presentati alla Corte europea dei diritti dell'uomo per lamentare il pagamento ritardato degli indennizzi già fissati per ì cittadini che hanno subito un danno per l'eccessivo ritardo dei processi. Sempre nel2014sono stati presentati 37 nuovi ricorsi per la responsabilità civile dei magistrati (ancora regolamentati dalla vecchia legge). Si sommano agli oltre tremila ricorsi presentati tra il 1989 e il 2012. Ma è tra le carte della direzione generale del ministero die Tesoro che si occupa materialmente dì liquidare i risarcimenti che si ha il quadro devastante degli errori giudiziari: casi di persone condannate con una sentenza divenuta definitiva e che poi stati assolti da un processo di revisione. Nel 2014 record degli indennizzi: dai 4mila euro dovuti nel 2013 per 4 casi di errore si è passati agli 1,6 milioni di euro dovuti per i 17 nuovi errori giudiziari. Di questi indennizzi, in particolare, 1 milione è stato disposto come risarcimento perla vittima di un errore a Catania, mentre gli altri 600 mila euro sono andati a 12 persone di Brescia, due di Perugia, una di Milano, una di Catanzaro. Dal 1991, quando con la legge Vassalli sono stati erogati i primi risarcimenti, fino al 2012 lo Stato ha pagato solo 575 milioni 698 mila euro per i casi di malagiustizia. Tra i casi più eclatanti c'è quello di Giuseppe Gulotta, 22 anni in carcere e poi assolto perché il fatto non sussiste. Ha chiesto 69 milioni di euro di risarcimento. Nel solo 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3 percento dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012 lo Stato per questo motivo ha dovuto spendere 580milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente sbattuti dietro le sbarre negli ultimi 15 anni. Tra le città con un maggior numero di risarcimenti nel 2014, in pole position c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Giustizia: danni allo Stato; condanne per 5 miliardi, ma in sei anni recuperati solo 68 milioni di Sergio Izzo Il Corriere della Sera, 2 marzo 2015 È una presa in giro. Questo ti viene da pensare dopo aver scoperto che negli ultimi sei anni lo Stato, le amministrazioni locali e le società pubbliche hanno recuperato appena l'1,4 per cento della somma derivante dalle condanne della Corte dei conti per danno erariale. E fa ancora più rabbia se si pensa alle dimensioni di quella cifra, non lontane da quelle di una manovra economica. Fra il 2009 e il 2014 la magistratura ora presieduta da Raffaele Squitieri ha appioppato condanne per 4 miliardi 898 milioni 4.014 euro e 59 centesimi: ma del frutto dei procedimenti conclusi in quei sei anni, nelle casse pubbliche non sono entrati che 68 milioni 726.010 euro e 44. Questo significa che per ogni 100 euro di risarcimenti ben 98,60 non sono stati fisicamente pagati. Non hanno pagato i ladruncoli della cosa pubblica. Non hanno pagato gli amministratori incapaci, o peggio infedeli. Ma nemmeno gli evasori pizzicati a frodare il Fisco. Né i corrotti. Né i politici abituati a trattare il denaro di tutti come il denaro di nessuno. E se è inaccettabile che in un Paese con il record europeo dell'inefficienza amministrativa e della corruzione i disonesti la facciano franca perfino quando devono restituire ai contribuenti il maltolto, è inevitabile chiedersi di chi sia la colpa. Da anni la Corte dei conti lancia l'allarme su una situazione che non soltanto priva l'Erario di incassi giganteschi, ma fatto ancor più grava alimenta il senso di impunità e dunque il diffondersi di comportamenti illegali nella pubblica amministrazione. Allarme, va detto con estrema chiarezza, rimasto sempre inascoltato. Il fatto è che dopo aver emesso la sentenza di condanna la magistratura contabile non ha più alcun potere sulla sua esecuzione materiale. Quella tocca al soggetto pubblico danneggiato, che però non è sempre così solerte nell'aggredire il condannato. Per giunta anche la competenza a valle sull'esito materiale delle sentenze non è del giudice contabile, ma di quello ordinario. Capita spesso, e non per semplice sciatteria, che la pratica vada in prescrizione dopo che sono trascorsi i previsti dieci anni di tempo senza che sia stata messa in atto alcuna azione di recupero. Ci si mette poi la farraginosità delle procedure esecutive sulle proprietà immobiliari. Per non parlare dei furbi che quando arriva l'ufficiale giudiziario risultano nullatenenti perché hanno ceduto tutto al consorte o a un prestanome. Che ci voglia del tempo per prendere i soldi è comprensibile. Lo dimostrano gli stessi dati elaborati dalla Corte dei conti, secondo cui negli ultimi sei anni sono stati recuperati in tutto 148,8 milioni, di cui 68,7 relativi alle condanne emanate nel periodo e ben 80,1 per le cause precedenti al 2009. Il problema è se esista sempre la determinazione necessaria, anche da parte di chi deve scrivere le regole. E qui qualche dubbio non può che venire. Per esempio, poteva nell'Italia dei condoni non esserne previsto uno per il danno erariale? L'hanno fatto nel 2005, e se quel condono ha consentito di recuperare forse somme maggiori rispetto a quelle soggette con le procedure ordinarie, non c'è dubbio che per chi ha rubato 300 mila euro cavarsela pagandone sull'unghia 60 mila è stato un bel vantaggio. Ancora. Per quanto sia difficile da credere, i crediti che le amministrazioni e le società pubbliche vantano nei confronti di un soggetto privato condannato per danno erariale non sono privilegiati: vengono pagati alla fine, anche dopo i debiti con le banche. Il risultato è che quando il privato in questione fallisce è matematico che lo Stato non vedrà mai i soldi. Da anni, dicevamo, la Corte dei conti si lamenta inascoltata di questa situazione. Eppure metterci rimedio non sarebbe così complicato. Basterebbe prendere seriamente in esame alcune proposte che vengono dalla medesima magistratura. Per prima cosa affermare il principio che il credito dello Stato per danno erariale è assolutamente privilegiato: chi mai potrebbe contestare una cosa del genere? Quindi abolire il termine di prescrizione decennale per le esecuzioni a carico dei condannati a risarcire i contribuenti. Ma anche affermare la competenza ad agire per il recupero al pubblico ministero contabile, il quale dovrebbe girare le somme incassate coattivamente al ministero dell'Economia, che a sua volta le riverserebbe alle amministrazioni. Inoltre, alla Corte dei conti si giudica opportuno introdurre alcuni accorgimenti per facilitare la riscossione delle somme. Si pensa a una procedura simile al patteggiamento nel giudizio penale, da cui sarebbero esclusi comunque i processi per appropriazione di denaro pubblico. Una ipotesi che secondo i magistrati contabili potrebbe anche contribuire a ridurre il numero dei procedimenti. Gli daranno mai retta a Squitieri e ai suoi? Giustizia: Ferri; alleanza Twitter-Facebook-Google per oscurare i messaggi dei terroristi Adnkronos, 2 marzo 2015 Il sottosegretario alla Giustizia, rimuovere subito qualsiasi minaccia o proselitismo in Rete Roma, 1 mar.) - "Internet non può essere trasformato da straordinaria opportunità per stabilire contatti, acquisire informazioni, diffondere cultura a strumento ideale per le organizzazioni terroristiche e criminali, che se ne servono per fare reclutamento e propaganda". È quanto osserva il sottosegretario al ministero della Giustizia, Cosimo Ferri per il quale "è necessario che si instauri un clima di collaborazione con i big del web come Twitter, Facebook e Google, in modo da rimuovere e oscurare subito qualsiasi possibile minaccia o proselitismo che le organizzazioni terroristiche facciano sulla rete". Ferri sottolinea che "l'Italia si è già impegnata per la definizione di un quadro normativo comune e verso un sempre maggiore scambio di informazioni, a livello di organi giudiziari e forze di polizia. I vili attentati di Parigi ci hanno insegnato quanto sia vitale riuscire a trasformare la Rete in uno strumento di protezione, nel rispetto delle libertà individuali, per sventare azioni che hanno come protagonisti soggetti sempre più inseriti nel nostro tessuto sociale e perciò più difficili da individuare". Giustizia: il terrorismo e il "fattore della paura" che occorre ribaltare di Rosario Sorrentino (Neurologo) Corriere della Sera, 2 marzo 2015 Le recenti, agghiaccianti azioni degli estremisti dell'Isis sembrerebbero porci di fronte alla contrapposizione tra questa o quella religione, questo o quel monoteismo. Ma così non è. C'è, purtroppo, qualcosa di più inquietante: lo sgretolamento della faticosa e travagliata conquista, a lungo sorvegliata speciale, che chiamiamo civiltà. Quello a cui stiamo assistendo, con tutto il suo macabro repertorio di crudeltà è l'azione, il prodotto di un cervello, un "genio del male", un intellettuale del crimine, ormai in totale abbandono, come il peggiore dei predatori, del suo istinto di uccidere. Perché, quando lo fa, prova un piacere irresistibile, soprattutto quando poi esibisce le sue vittime, come trofei, dilaniate dalla sua furia omicida. Il suo è un cervello senza empatia, senza pietà, che tratta gli esseri umani come oggetti, come povere cose, su cui avventarsi guidato da un atavico impulso. Ma c'è dell'altro, ed è il diverso modo di interpretare e intendere l'esistenza stessa; da una parte, c'è la cultura della vita, dall'altra quella della morte e al centro (e questo costituisce il grande vantaggio degli estremisti), l'aver sublimato la madre di tutte le paure, quella di morire. Non amo le censure, né mi considero proibizionista: ma ritengo che sia necessaria e urgente una sorta di no fly zone della comunicazione. Un consapevole e responsabile autocontrollo, da parte nostra, nel diffondere a ripetizione, certe immagini raccapriccianti. Perché quelle immagini certificano ed esaltano la loro forza e purtroppo confermano la nostra debolezza. Prendiamone atto: il nostro mondo sta velocemente cambiando e la globalizzazione dell'informazione ci conferisce una percezione a volte un po' deformata della realtà. Rischiamo di prestarci al gioco dei terroristi anche perché non siamo certo preparati a vivere a pochi chilometri da un pericolo incombente, che ogni giorno ci viene documentato e descritto come reale. È forse giunto il momento di rilanciare e di ribaltare il nostro rapporto con la paura, quel "fattore P", sempre più presente nella vita di ognuno di noi. Questo ci aiuterebbe ad utilizzare consapevolmente la paura evitando così di negarla. Questa emozione rappresenta infatti una straordinaria risorsa, grazie alla quale abbiamo vinto le nostre più importanti battaglie evolutive. Solo così possiamo avere libero accesso a quel repertorio naturale di risorse genetiche, neurobiologiche e comportamentali che vanno sotto il nome di resilienza, la cui finalità è quella di aiutarci a ripartire dopo aver subìto eventi sconvolgenti trasformando uno svantaggio in un vantaggio per noi. Giustizia: il ddl sui reati ambientali "licenziato" dopo un anno dalla Camera di Carlo Bertini La Stampa, 2 marzo 2015 Miracoli del bicameralismo perfetto: un anno dopo che la Camera ha varato in prima lettura un testo di legge contro i reati ambientali, era il febbraio 2014, solo ora - forse - la norma riceverà il timbro finale. Dodici mesi per superare la via crucis dell'iter parlamentare, scavalcare gli ostacoli del calendario, sempre tiranno, dove i decreti e le emergenze la fanno da padroni; e arrivare finalmente in aula al Senato. "Questa settimana dovrebbe essere la volta buona", sospira Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, che spera di veder approvata senza nessun pasticcio (viceversa ripartirebbe la "navetta" tra le due Camere) la legge contro le "eco-mafie" di cui è stato promotore. Ma per capire quanto sarebbe stato meglio veder pubblicato prima in Gazzetta Ufficiale questo nuovo giro di vite basta sentire cosa contiene "una normativa che avrebbe impedito la sentenza della Cassazione sul caso Eternit e reso più efficaci gli interventi sulla Terra dei Fuochi in Campania". Prevede, tra l'altro, un innalzamento delle pene, il raddoppio dei tempi di prescrizione e l'introduzione nel nostro codice penale dei reati di inquinamento ambientale, disastro ambientale e traffico di materiale radioattivo. Un tema quello dei reati ambientali, che riguarda da vicino anche la Capitale dopo la scoperta di una "terra dei fuochi" romana a ridosso del raccordo anulare. Giustizia: diritto e religione a confronto in tribunale… è per finta, ma sembra vero di Marco Ventura Corriere della Sera, 2 marzo 2015 La scorsa settimana la Corte suprema degli Stati Uniti ha sentito le parti di una causa che dura da sette anni. Era diciassettenne, Samantha Elauf, quando la famosa casa di abbigliamento sportivo Abercrombie & Fitch si rifiutò di assumerla. La giovane avrebbe voluto indossare il velo islamico nelle ore lavorative. L'azienda impose il proprio codice di condotta. Oggi Samantha chiede una condanna esemplare di Abercrombie & Fitch in nome della libertà religiosa. La religione finisce spesso in tribunale anche da questa parte dell'Atlantico. Si attende nei prossimi mesi il verdetto della Corte d'appello di Bruxelles sulla Chiesa di Scientology: si tratta di un'organizzazione criminale che spreme persone vulnerabili, o di una Chiesa come le altre cui i fedeli affidano anima e sostanze? In ogni tempo la giustizia s'è misurata con la religione, ma sembra oggi in crescita il numero di chi ricorre ai giudici per difendere e testimoniare la propria fede. Si combattono in tribunale maggioranze e minoranze, atei e religiosi, cristiani e musulmani, fedi vere e fedi false. Il tema è al centro di un'iniziativa della Fondazione Studium generale Marcianum di Venezia. Proprio nella città lagunare, dal 9 all'11 marzo prossimi, si svolgerà la Moot Court Competition in Law & Religion, una simulazione processuale durante la quale si sfideranno squadre di studenti provenienti da atenei americani, europei e italiani. Gli studenti si daranno battaglia su una controversia riguardante la libertà religiosa, come se si trovassero davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo o alla Corte suprema degli Stati Uniti. Gli studi di diritto canonico al Marcianum, negli ultimi anni, hanno preparato il terreno per lo sviluppo a Venezia, come altrove in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, di attività volte a una migliore comprensione dei diritti dei credenti. Sotto l'egida del Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, la Fondazione del presidente Gabriele Galateri di Genola considera proprio i rapporti tra diritto e religione una delle aree d'interesse su cui investire. Il caso assegnato agli studenti, il licenziamento di un'impiegata le cui opinioni contrastano con la fede religiosa del datore di lavoro, è inventato, ma riflette un tipo di conflitto molto attuale di qua e di là dell'Atlantico. In società secolarizzate, in cui la legge protegge gli individui dalla discriminazione sulla base di opinioni, sesso, religione e orientamento sessuale, è sempre più frequente lo scontro tra lavoratori e aziende i cui titolari sono cristiani conservatori. Sarà molto vero il processo simulato di Venezia. Giustizia: Raffaele Cutolo "Io, sepolto vivo in una cella, se esco e parlo crolla il Parlamento" di Paolo Berizzi La Repubblica, 2 marzo 2015 Da Parma, dove è detenuto al 41 bis, l'ex boss della Camorra accusa: "I miei segreti fanno tremare tutti. Chi è al comando oggi è stato messo lì da chi veniva a pregarmi". "Se parlo ballano le scrivanie di mezzo Parlamento". Dopo trent'anni? "Molti di quelli che stanno adesso ce li hanno messi quelli di allora venivano a pregarmi". Non indossa più pantofole con le iniziali ricamate. "Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati. Se la sono legata al dito e hanno buttato la chiave". Essendo sepolto vivo, Cutolo non ha un volto né un corpo. Puoi solo immaginarlo per come lo descrivono. La moglie, Immacolata Iacone, tecnicamente "vedova", e l'avvocato avellinese Gaetano Aufiero. Sono gli unici, oltre alla figlia Denise, che vedono "don Raffaè". Gli unici autorizzati, degli altri parenti non si vede più nessuno. "Al mio difensore ho chiesto di non venire più. Non ho più carichi pendenti, il mio saldo con la giustizia è in pari. E il 41 bis ho smesso di impugnarlo, tanto è inutile" dice rinserrato nella sua dimensione post-crepuscolare Raffaele Cutolo detto ‘o professore. Parla con Repubblica attraverso la moglie e il legale. Adesso è a Parma. Tredicesimo carcere della sua vita. Tredici come gli ergastoli. Record italiano di lungodegenza carceraria. Il "Professore di Ottaviano" che comandava e distribuiva croci e terrore, e lo Stato lo combatteva e intanto lo accreditava. "Mi hanno usato e gonfiato il petto, da Cirillo a Moro che, a differenza del primo, hanno voluto morto e infatti mi ordinano di non intervenire. Poi mi hanno tumulato vivo. Sanno che se parlo cade lo Stato". Misteri italiani. Segreti italiani. A Parma ci sono anche Riina, Bagarella, il "Nero" Massimo Carminati. E Dell'Utri. Cutolo è invisibile. Da primo rigo sull'indice della letteratura camorristica a caso da antropologia di laboratorio. "Anche un albero che non dà più frutti serve sempre - lascia galleggiare le parole Cutolo, figlio di contadini e poi Criminale d'Italia a cui Fabrizio De André dedicò versi da epica brigantesca in Don Raffaè - Lo lasci lì l'albero secco, può fare legna". Più della botanica la condizione unica di Cutolo - 51 anni in cella a parte un anno di latitanza tra il 1977 e il 1978 dopo la fuga dal manicomio giudiziario di Sant'Eframo, 36 anni in isolamento totale (dall'82 e quindi dieci anni prima del 41 bis), un numero imprecisato di omicidi commissionati e nove assoluzioni negli ultimi nove anni, fa venire in mente la gabbia di Ivan Pavlov. Il Nobel russo per la medicina, quello degli esperimenti sul cane: stimolo neurologico, riflesso condizionato. "Mi è talmente entrata sotto pelle questa condizione di defunto in vita che ormai non mi va nemmeno più che la gente mi veda. Ai processi rinuncio alla videoconferenza". Autoisolamento indotto. "Salto anche l'ora d'aria. Se per respirare un'ora devo farmi perquisire e sottopormi a controlli umilianti, preferisco stare in cella. Allo Stato servo così. Pensano sia ancora legato alla camorra. Ma quale camorra?". La Nco di Cutolo era diventata pre-Sistema, anti Stato. "Pagina chiusa dal 1983, quando ho sposato Tina nel carcere dell'Asinara (presente un giovane Luigi Pagano, oggi vice capo del Dap). Pago e pagherò fino alla fine. Ma non sono un pericolo. Sarei pericoloso se parlassi, ma non ce l'hanno fatta a farmi diventare un jukebox a gettone: il pentito va a gettone. Parla e guadagna. Un ulteriore oltraggio alla memoria delle vittime". Se lo contendevano negli anni d'oro Cutolo, quando sempre dal carcere, a cavallo tra 70 e 80 guidava il suo esercito di 7 mila affiliati nella guerra sanguinaria (persa) contro la Nuova Famiglia. E anche dopo, nell'81. Mezza Dc gli chiede di far liberare l'assessore regionale napoletano all'edilizia Ciro Cirillo, uomo di Antonio Gava sequestrato dalle Br. Sulla trattativa tra servizi segreti, Cutolo e brigatisti - accertata nel 1993 da un'ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi - l'ex boss ha detto e non detto. "È stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna". In cella ha quattro fotografie: due papi - Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - quella della madre, e una della moglie Immacolata con la figlia. "Ho una telecamera puntata sul gabinetto. Non posso avere in cella più di tre paia di calzini e mutande. Vorrei mi spiegassero il senso. Ho sempre tenuto a essere in ordine. Sono figlio di contadini ma la cura di sé è importante. La insegnavo ai miei uomini". Casillo, Alfonso Rosanova il "santista", Pasquale Barra ‘o animale, il boia delle celle morto due giorni fa. "È una forma di rispetto essere sempre impeccabili: ho ammirato Andreotti. Testimoniai per lui al processo Pecorelli. Nemmeno un grazie, ci sono rimasto male. Alcuni suoi colleghi mi mandavano gli auguri a Natale. Tutti parolai i politici. L'ultimo che ho stimato è stato Berlusconi". Più magro, capelli bianchi, stessi occhiali, un disturbo alle mani che ha fiaccato l'indole grafomane: basta poesie. La retorica del boss istruito e ispirato. "Pazzo intelligente", si descrisse con ghigno sardonico al microfono di Enzo Biagi. Il primo raptus criminale: "24 settembre 1963, otto colpi di revolver contro Mario Viscito, giovane ottavianese come me. Una rissa, mi parte la testa. Ventiquattro anni. Ne avevo 22". Autonoleggiatore abusivo, soprannome Rafaele ‘e Monaco in quanto figlio di Giuseppe Cutolo, detto ‘o Monaco per la sua religiosità. "Volevo rifondare il Regno di Napoli. Uno Stato sociale indipendente dove chiunque potesse avere da mangiare". In una lettera recente l'ha chiamata in un modo ancora più paradossale: "La mia rivoluzione". "Ho smesso di essere personaggio. L'idea della dimenticanza non mi dispiace, vorrei solo che questo avvenisse nel rispetto della dignità di un uomo". Ragiona l'avvocato Aufiero: "Il 41 bis è una misura che si applica a chi è pericoloso e ancora collegato alla criminalità organizzata. Come si può ritenere ancora pericoloso un uomo che è dentro da mezzo secolo, in isolamento da 36 e che ha commesso l'ultimo reato 34 anni fa?". Curiosità nella monotonia sepolcrale della vita ergastolana: la staffetta con Bernardo Provenzano. "Ci scambiano le celle. Va via lui arrivo io. Vado via io arriva lui". Ha una frase mantra, Cutolo. "Mi sono pentito davanti a Dio ma non davanti agli uomini". Aggiunge. "Non ho imperi, non esistono più i cutoliani. Cutolo è morto. Resuscita per un'ora solo quando viene sua figlia e gli da una carezza". Se n'è appena andato Pasquale Barra, il suo boia di fiducia. Anche il primo a tradirlo: "Ognuno fa le sue scelte. Barra ha avuto un'infanzia difficile. Ma ha rovinato il povero Tortora. Che Enzo Tortora era innocente lo dissi da subito. Chiesi ai magistrati di essere interrogato. Non mi vollero nemmeno sentire". Giustizia: malore in cella per Veronica Panarello, è ricoverata all'ospedale di Agrigento La Stampa, 2 marzo 2015 È stata colta da malore e ricoverata nell'ospedale di Agrigento la mamma di Loris Stival. Veronica Panarello, detenuta in carcere con l'accusa di avere ucciso il figlio a Santa Croce Camerina (provincia di Ragusa) il 29 novembre 2014, la notte scorsa è svenuta nella sua cella dell'istituto penitenziario. Soccorsa dagli agenti di custodia è stata immediatamente condotta in infermeria: il medico ha disposto, dopo un primo esame, un ricovero precauzionale. Secondo quanto si è appreso la donna è stata sottoposta a Tac e altri analisi ed esami che non hanno evidenziato patologie di rilievo. Resta da capire di che natura sia il malore che l'ha colta. La notizia ha trovato conferma da più fonti. Il legale di Veronica Panarello, l'avvocato Francesco Villardita, si è recato nel pomeriggio di ieri in ospedale ad Agrigento per incontrare la sua assistita, dopo che la direzione del carcere ha autorizzato un colloquio straordinario con la mamma di Loris. Del ricovero della donna è stata informata, naturalmente, anche la Procura di Ragusa. Veronica Panarello è accusata di avere ucciso il figlio Loris, di 8 anni, strangolandolo con alcune fascette di plastica e di avere poi gettato in un canalone di contrada Mulino Vecchio il corpo: è stata lei stessa a consegnare le fascette alle maestre della scuola che frequentava il figlio, producendo una prova che pesa sulla sua posizione. Sia il Gip di Ragusa che il Tribunale del riesame di Catania hanno convalidato il suo arresto. Le indagini, che sono ancora in corso, sono delegate a polizia di Stato, squadra mobile e carabinieri di Ragusa. Lettere: "cosa muore nel tradimento", gruppo di analisi con condannati per reati sessuali di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015 Mia moglie ha chiesto la separazione; dice di non potersi più fidare di me, perché ho tradito la sua fiducia. Non era l'altra il problema, era il senso di solitudine che aveva provato". Così ci disse un paziente nel gruppo di analisi che tengo in carcere con uomini condannati per reati sessuali. Nonostante gli approcci con una minore consenziente, che gli sta costando un po' di anni di carcere, quel mio paziente è ancora innamorato di sua moglie, ma è convinto di non avere più chances con lei. In seguito a questa comunicazione, abbiamo cominciato a discutere nel gruppo di che cosa davvero alla fine risulta così insopportabile nel tradimento sessuale. Che cosa fa più male? "Che possa desiderare un altro", "che io non abbia saputo niente, che mi abbia mentito", "il dubbio che si sia innamorata", "l'odio per l'altro", "il sentirmi escluso dalla sua vita affettiva", "Io e mia moglie abbiamo deciso di dirci sempre tutto e di accettare che ognuno dei due possa avere rapporti occasionali con altre persone, ma questo non vuol dire che non faccia soffrire; ogni volta ho paura di perderla e so che per lei è la stessa cosa. Solo che diamo più importanza alla libertà individuale e poi…" "e poi?". "E poi alla fine se lei desidera un altro è come se lo avesse fatto, io sono già fuori gioco, e allora tanto vale che succeda e che poi scelga di tornare da me". Giacomo era rimasto a lungo silenzioso poi dichiarò: "In fondo so che non va bene, ma se la mia donna offre anche solo affetto, interesse e attenzione a qualunque altro che non sia io, è come se mi togliesse qualcosa, come se ci fosse un serbatoio con dentro l'amore che può dare: se ne dà a qualcun altro, lo toglie a me". "In fondo - osservò Pierluigi - ognuno soffre nel tradimento per la sua paura più grande: la competizione, la gelosia, la solitudine, il sentirsi escluso, il rischio dell'abbandono, un desiderio infantile di totalità". Toscana: carceri… a volte funzionano, il report delle visite effettuate dal Garante dei detenuti www.nove.firenze.it, 2 marzo 2015 Il Garante regionale dei diritti in visita al penitenziario di Massa. Corleone: "192 detenuti dei quali 110 impegnati in attività lavorative". Frescobaldi impianta a Gorgona il secondo ettaro di vigne. Empoli, Gazzarri (Il popolo toscano): "Una piccola struttura di eccellenza nella nostra regione, che deve essere ulteriormente valorizzata. Importante ripensare ad un polo carcerario unico per le detenute" "Punti di forza di questo istituto - ha detto il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, al termine del sopralluogo nei giorni scorsi al carcere di Massa - sono il percorso trattamentale, il regime penitenziario interno ‘apertò e la presenza di lavorazioni penitenziarie di tessitoria, di sartoria e di falegnameria". Il percorso trattamentale avviene anche attraverso lo strumento risocializzante del lavoro, il regime aperto dell'istituto "rispetta - ha detto il garante regionale - tutte le condizioni normative e le migliora con celle aperte oltre le 8 ore e l'attività lavorativa fa sì che vengano prodotti lenzuola, asciugamani e coperte a tutti gli altri istituti penitenziari" La Casa di reclusione di Massa, risale al 1930 e ospita 192 detenuti definitivi condannati a pene medio lunghe dei quali 66 in cella per reati di detenzione di droga ai fini di spaccio. Si tratta di un corpo unico, suddiviso in padiglioni, in spazi comuni e aperti e con la presenza di impianti sportivi. "Tra i detenuti - ha precisato Corleone, ribadendo la positività di questo dato - 110 lavorano e di questi 15 svolgono attività di pubblica utilità in città". Corleone ha parlato, inoltre, con soddisfazione di un esperimento innovativo portato avanti dalla Asl di Massa Carrara: "I detenuti di questo carcere - ha detto - possono essere seguiti dal loro medico di base. Un modello che dovrebbe essere introdotto anche negli altri istituti penitenziari perché garantisce continuità terapeutica e assicura un rapporto di fiducia tra il medico e il paziente". "La direttrice del carcere Maria Martone - ha affermato Corleone - è molto attenta all'innovazione e dà impulso alle attività. Nei mesi scorsi c'è stata una programmazione di cineforum. Inoltre, la biblioteca interna è collegata a a quella comunale e i detenuti scrivono un giornalino". "Peccato - ha aggiunto il garante regionale - che queste positività siano turbate dalla mancata apertura di un padiglione nuovo che dovrebbe ospitare 80 detenuti. La struttura è quasi pronta ma necessita del completamento degli ultimi lavori di ristrutturazione, al momento ancora bloccati". Tra le lacune del carcere Corleone ha parlato del "mancato finanziamento di due sezioni del refettorio necessarie per permettere ai detenuti di mangiare insieme e di una serra per consentire attività esterne. Credo - ha concluso Corleone - che ci siano tutte le condizioni per far sì che questa casa di reclusione diventi un'eccellenza, accogliere queste richieste garantirebbe alla struttura di rappresentare un modello di vivibilità". "Il carcere circondariale femminile di Empoli è una piccola struttura di eccellenza in Toscana: ha buoni progetti di reinserimento, poiché si prevedono lavori all'esterno per le ospiti del carcere, ed un'ottima interazione con la comunità circostante. Un'esperienza sicuramente da prendere ad esempio e riproporla in altre carceri toscane". È quanto ha dichiarato stamani Marta Gazzarri, capogruppo de "il Popolo toscano", al termine della visita al carcere femminile di Empoli. La struttura, in grado di ospitare un massimo di 35 detenute, ne ospita attualmente 15, che stanno scontando gli ultimi cinque anni di pena; all'interno vi lavorano un totale 32 agenti di polizia penitenziaria, più altri operatori, per un totale di 38 persone. "È molto basso il numero di detenute che usufruiscono di questa struttura, che ha, tra l'altro anche costi alti di gestione, seppur presentando progetti di grande qualità - ha commentato la consigliera Gazzarri; quindi, proprio per questo, sarebbe opportuno pensare ad ospitare un numero maggiore di detenute, modificando magari il metodo di valutazione per entrare nel carcere stesso". "Non solo, dati alla mano: le donne in Toscana non arrivano a 150, su un totale di 3.000 detenuti. A questo proposito - sottolinea Gazzarri - sarebbe auspicabile creare proprio nella nostra regione una struttura unica, in grado di ospitare tutte le detenute, considerando ormai che la vicinanza territoriale, così come è prevista dalla legge, è oggi meno problematica, in un mondo sempre più globalizzato". "Ripensare ad un polo carcerario unico per le donne in Toscana - ha concluso la consigliera regionale - tenendo conto delle rispettive problematiche ed esigenze, senza perdere di vista i progetti di inserimento nella comunità, magari proprio sulla falsariga del carcere empolese, che si è rivelato, ad oggi, un ottimo esempio di qualità". Frescobaldi raddoppia. Sono state impiantate ieri da alcuni detenuti dell'isola carcere di Gorgona insieme al Marchese Lamberto Frescobaldi, all'enologo Federico Falossi e al suo staff le barbatelle di Vermentino per portare a due ettari il piccolo vigneto sull'ultima isola carcere esistente in Italia, adottato dai Frescobaldi nell'agosto del 2012, che ad oggi ha regalato tre vendemmie. Questo secondo ettaro permetterà ad un numero sempre maggiore di detenuti di lavorare sul progetto Frescobaldi per Gorgona. Ad oggi sono circa 20 i ragazzi che si sono dedicati alla vigna, a rotazione, dei 70 che vivono sull'isola e al momento sono 5 quelli assunti e stipendiati dai Frescobaldi. I lavori termineranno nel giro di un paio di giorni poi bisognerà avere pazienza. Almeno sei anni per poter assaggiare quello che andrà a produrre questa vite. "Allevare una vigna è una cosa bellissima, ha un che di sacrale perché poi la vigna cresce, ha una storia diversa ogni giorno, è vita e mi auguro che sia vita anche per le persone che lavorano qui, che li faccia appassionare e li coinvolga in questa coltivazione millenaria che ha unito e fatto discutere i popoli ma che oggi ci abbraccia tutti". Un progetto sociale destinato a durare nel tempo, ad oggi i Frescobaldi hanno firmato un contratto di affitto per ben 15 anni con anche l'obiettivo di arrivare dalle 3200 bottiglie della vendemmia 2014, di vino bianco a base di uve Ansonica e Vermentino, alle 6 mila bottiglie nei prossimi anni per raccontare l'unicità del luogo ma anche l'eccellenza italiana. Un progetto nel quale l'azienda crede molto: ad oggi annualmente ha investito 100.000 euro di cui quasi il 50% per la formazione dei detenuti che in un momento di crisi del Paese significa molto. Un bell'esempio di come pubblico e privato possano fare sistema; un modello di carcere positivo tutto italiano che ha fatto il giro del mondo e che si spera venga replicato anche da altre realtà sul territorio. "Presto sarà attivo il nuovo padiglione di alta sicurezza; manca solo il collaudo della cucina, ma per rendere le condizioni del carcere di Livorno accettabili c'è ancora molto da lavorare" ha detto il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, al termine del sopralluogo a Livorno "Sono preoccupato - ha aggiunto Corleone - per la disparità di ambienti, per la differenza abissale che c'è tra il padiglione di alta sicurezza e le altre strutture. I 97 detenuti che andranno nel nuovo padiglione avranno celle doppie con servizi, una sala colloqui ampia e luminosa, mentre i 117 "poveretti" che sono nei locali di media sicurezza, per reati minori, si trovano in tre per cella, in locali piccoli con docce e servivi igienici inadeguati". "Un conto è se tutti stanno male - ha commentato Corleone - ma le scale sociali in carcere possono rappresentare un problema". La visita al penitenziario Le Sughere rientra nel percorso che il garante sta portando avanti attraverso gli istituti penitenziari della Toscana con l'obbiettivo di verificare sul campo se la diminuzione delle presenze di detenuti rispecchi anche il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie. Corleone ha parlato della mancanza della sezione femminile che "in Toscana è presente solo a Pisa, Empoli e Sollicciano", "il penitenziario di Livorno avrebbe lo spazio per riattivare il reparto donne". "Dei 117 detenuti presenti - ha aggiunto il garante - ben il 50 sono per detenzione a fine di spaccio e oltre la metà sono stranieri". Tra le criticità evidenziate da Corleone ci sono le condizioni deplorevoli in cui si trovano la vecchia cucina, l'infermeria e la biblioteca, quest'ultima "ospita 4 mila volumi, adesso inaccessibili per l'inagibilità dei locali". Piemonte: Protocollo sulle carceri, è l'undicesima Intesa promossa dal Ministero della Giustizia di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 marzo 2015 Ancora un protocollo di intesa sulle carceri siglato questa volta dal Ministero della giustizia con la Regione Piemonte, l'Anci regionale, il Tribunale di sorveglianza di Torino e il Garante regionale dei detenuti in tema di reinserimento delle persone in esecuzione penale. Si tratta dell'undicesimo protocollo di tale tipo sottoscritto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha già firmato intese con le regioni Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Umbria, Puglia, Sicilia, Lombardia, Abruzzo e Molise. In precedenza, erano stati firmati analoghi protocolli con Emilia-Romagna e Toscana. L'obiettivo è quello di garantire, attraverso la collaborazione con il territorio, l'inserimento lavorativo dei detenuti e il trattamento di quelli tossicodipendenti. "L'intesa ha un valore politico particolarmente rilevante perché a firmarla è il presidente della Conferenza delle regioni", ha sottolineato Orlando in riferimento all'ulteriore ruolo del Governatore della regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ricordando che "la strada è quella dell'esecuzione della pena che non ruoti solo intorno al carcere, dove si sviluppa un sistema di pene alternative diminuisce la recidiva". Un tema che merita attenzione visto che l'Italia spende 3 miliardi di euro all'anno per l'esecuzione penale, con tassi di recidiva tra i più alti d'Europa. D'accordo sull'importanza delle pene alternative e dell'inserimento lavorativo dei detenuti anche lo stesso presidente della regione Piemonte che di rimando ha assunto "l'impegno a lavorare con la rete degli enti locali per trovare soluzione al problema dei detenuti tossicodipendenti, la cui condizione spesso peggiora con la permanenza in carcere, che non aiuta percorsi di risocializzazione". L'obiettivo dell'accordo, com'è scritto nel protocollo di intesa, è quello di "sostenere l'incremento dei percorsi di inclusione sociale a favore dei soggetti sottoposti a privazione o limitazione della libertà e dei progetti di pubblica utilità". Per i detenuti con problemi di tossicodipendenza ci si concentra sulla necessità di fare rete tra servizi Asl, ospedali, carceri e uffici di esecuzione penale esterna e servizi già presenti sul territorio per disegnare "percorsi finalizzati al reinserimento sociale". L'impegno tra le parti sarà quello di "individuare insieme i soggetti tossicodipendenti potenzialmente idonei all'inserimento in un percorso terapeutico e considerare come presi in carico i soggetti attualmente presenti sul territorio regionale, anche se con residenzialità diversa, contenendo invece l'ingresso di altri detenuti da fuori regione per arginare il sovraffollamento carcerario degli istituti piemontesi". E più in generale, il protocollo spiega come "l'applicazione delle misure alternative speciali sarà favorita da un piano di azione regionale per definire modalità e prassi operative per consentire l'attivazione di percorsi terapeutici rivolti alla popolazione detenuta che presenti problematiche correlate alle dipendenze patologiche". In particolare, poi, la Regione Piemonte rappresentata dal Presidente Chiamparino, il Ministero della Giustizia e il Tribunale di sorveglianza di Torino con il suo presidente Marco Viglino, tutti intervenuti alla firma, si impegnano rispettivamente a individuare comunità residenziali anche a sfondo non terapeutico che possano ospitare i detenuti agli arresti domiciliari o coloro già sottoposti a misure alternative al carcere, a non trasferire, se non eccezionalmente, chi è già stato individuato per l'inserimento in comunità e per la presidenza del Tribunale di sorveglianza torinese, a trattare con priorità e urgenza le istanze di scarcerazione per chi debba entrare in comunità terapeutiche. Il passo successivo sarà quello di costituire un tavolo tecnico tra Regione Piemonte, Provveditorato regionale, Tribunale di sorveglianza e Garante regionale verso "una programmazione comune per realizzare interventi mirati e finalizzati all'umanizzazione della pena, ad aumentare le opportunità di attività nelle strutture, ad implementare l'accesso alle misure alternative, a ridurre il numero dei detenuti e favorire il loro reinserimento sociale". Lamezia Terme: il Consigliere regionale Salerno "opportuno riaprire il carcere della città" www.strettoweb.com, 2 marzo 2015 "Di fronte alla grave situazione carceraria italiana e calabrese, ritengo opportuno che il Governo proceda con la riapertura della struttura di Lamezia che consentirebbe di alleggerire le altre carceri calabresi e riparare ad un errore precedentemente compiuto. Nello svolgimento del mandato di assessore regionale alle Politiche sociali ho avuto modo di visitare diverse strutture calabresi notando condizioni non sempre sostenibili dovute proprio al sovraffollamento" afferma in una nota Nazzareno Salerno, consigliere regionale della Calabria. "La detenzione non costituisce semplicemente una pena da scontare, ma ha una sua funzione educativa che viene esplicata attraverso l'avvio di diverse attività. Vi è dunque l'esigenza - continua - di consentire che le strutture siano effettivamente funzionali e che rispettino i parametri previsti e segnatamente che siano disponibili 3 mq per detenuto. Proprio in quest'ottica, pare ragionevole rivedere la decisione della chiusura adottata in passato e porre in essere quanto necessario per riaprire la Casa circondariale lametina, la quale non solo rispetta i requisiti previsti dalla cosiddetta sentenza Torreggiani, ma, diversamente da altre strutture presenti ed operative sul territorio nazionale, può raggiungere la capienza dei 100 detenuti. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di riservare la struttura lametina ad una o più categorie di detenuti anche all'interno di un più generale processo di riorganizzazione delle carceri della nostra regione. È pertanto doveroso - conclude Salerno- promuovere ogni azione utile presso il Governo al fine di facilitare un provvedimento che va nell'interesse dei detenuti, di tutti gli operatori che lavorano nelle carceri e dei cittadini". Firenze: "chiude l'Ospedale psichiatrico giudiziario, noi senza lavoro", protesta infermieri di Ylenia Cecchetti La Nazione, 2 marzo 2015 Dubbi, punti interrogativi, preoccupazioni e perplessità. Tra i tanti nodi ancora da sciogliere, la chiusura dell'Opg - ormai vicina, è prevista per il 31 marzo - porta con sé un'unica, grande certezza: la lettera di licenziamento per una decina di infermieri, liberi professionisti e storici operatori sanitari all'interno della struttura montelupina. "Non abbiamo più bisogno di voi, arrivederci". Questo il contenuto, in sintesi, della lettera raccomandata che a metà gennaio 10 infermieri a partita Iva (di cui 4 non ancora in età pensionabile), si sono visti recapitare. Con grande amarezza. "Dal 31 marzo - si sfoga una delle infermiere mandate a casa dall'Asl 11 - siamo senza lavoro. E questa è l'unica cosa certa in un abisso fatto di proroghe e ritardi". Non ci sono soltanto gli agenti penitenziari a chiedersi quale sarà il loro futuro dopo il 31 del mese. C'è tutto un indotto, fatto di professionisti che per anni hanno prestato servizio all'interno dell'Opg. E che oggi, proprio come gli internati, aspettano di conoscere il loro destino. Voltare pagina e ricominciare. Sì, ma come? Dove? "Lavoro all'Opg da 16 anni - racconta l'infermiera che ha deciso di rompere il silenzio anche a nome di altri colleghi e dipendenti della struttura - presto servizio anche alla Casa circondariale di Empoli. Da metà gennaio le cose sono cambiate. Ci siamo visti costretti a dimezzare i turni di servizio; siamo stati avvisati dall'Asl che dal 31 al nostro posto subentrerà una cooperativa. La motivazione? In questo modo sarà migliorata l'assistenza infermieristica. E questo a prescindere dal fatto che ancora non si sa dove finiranno gli internati". Ignorate, emarginate, umiliate. Si sentono così quelle persone che hanno dedicato una vita al servizio dei pazienti detenuti in viale Umberto I. "Ci siamo rimasti male. Ma siamo sicuri che lasciare tutto in mano ad una nuova cooperativa, di punto in bianco, sia la soluzione giusta? Non possono accusarci di non aver svolto il nostro lavoro al meglio. Per anni abbiamo lavorato a ritmi frenetici: di giorno, di notte, per le feste. Non ci siamo mai tirati indietro: la situazione, anche se migliorata gradualmente negli anni, è restata e resta difficile". In prima linea c'erano loro, quelli che oggi sono stati esclusi dall'attività lavorativa. "Sì, lo scriva, sul "fronte Opg" c'eravamo noi. Che abbiamo esperienza da vendere. All'interno dell'ospedale abbiamo fatto di tutto, sacrificandoci all'occorrenza: abbiamo pulito i bagni, fatto il bucato per gli internati, li abbiamo assistiti quando gli educatori non c'erano". Tra meno di un mese a casa senza lavoro. "Diventa problematico cercare un altro impiego per chi come me ha due anni alla pensione. Molti di noi sono padri e madri di famiglia, ora dovremo reinventarci una vita. Come liberi professionisti non abbiano sindacati che ci tutelino, ma vogliamo far sentire la nostra voce e chiedere alle istituzioni di tenere presente la nostra difficile condizione". Alessandria: educatori in carcere… possibile il reinserimento in società dei detenuti? di Marco Madonia www.alessandrianews.it, 2 marzo 2015 Prosegue il nostro viaggio all'interno del carcere. Oggi intervistiamo Manuela Allegra, Capo Area Educativa della Casa di reclusione di San Michele, per scoprire tutte le attività che vengono svolte all'interno del carcere, quali sono i percorsi di reinserimento possibili, quali le difficoltà maggiori e le più grandi soddisfazioni. Quante persone compongono l'organico degli educatori a San Michele? Sono sufficienti? "Per ora siamo 6 persone in tutto, ma da pianta organica dovremmo essere 11. Essere praticamente la metà di quanto sarebbe necessario ovviamente ci dà qualche problema, ma questo per fortuna è un periodo con meno detenuti rispetto al passato e diciamo che riusciamo comunque a gestirci abbastanza bene". Qual è il ruolo dell'educatore all'interno del carcere? "Quella dell'educatore è una figura istituzionale che ha il compito di svolgere attività di osservazione e trattamento del detenuto. In pratica ciascuno di noi ha certo numero di detenuti in carico, ripartiti in ordine alfabetico. Attualmente sono circa 50 a testa. A San Michele esiste un polo scolastico un polo scolastico interno con un educatore specifico. Io in particolare seguo poi le persone in articolo 21 e i semi liberi, quindi i detenuti che hanno già contatto con l'esterno della struttura". Come funziona la vostra attività di osservazione? "Dobbiamo cercare di conoscere il più possibile delle persone che abbiamo in carico: ricostruiamo le loro storie di vita, cercando di capire quali possano essere le loro risorse positive da sviluppare e gli aspetti nei quali invece ciascuno è più carente. La legge ci impone 9 mesi di osservazione prima di costruire con loro un vero e proprio percorso, ma è chiaro che non è possibile incasellare rigidamente le persone. Dopo questo periodo viene steso un documento di sintesi che tiene conto delle osservazioni di tutto lo staff che ha a che fare con il detenuto, non solo gli educatori quindi, e si delinea un possibile percorso da seguire, che sia di studio o di lavoro all'interno del carcere, o la concessione dei primi permessi premio o in coinvolgimento in altre attività. Diciamo che ogni percorso è personalizzato". Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate nel vostro lavoro? "Il nostro compito è anche quello di progettare e organizzare tutte le attività all'interno del carcere. Dobbiamo cercare di dare ai detenuti l'opportunità di innescare in loro una riflessione profonda su quanto accaduto e lavorare a un cambiamento che consenta loro di reinserirsi meglio in società. Per capire le difficoltà maggiori che incontriamo è necessario ricordare che l'ordinamento penitenziario è del 1975. Da allora nella società ci sono stati cambiamenti radicali. Circa la metà dei detenuti di San Michele è straniera: la lingua è il primo grande problema che incontriamo e ovviamente è un ostacolo per l'inserimento nelle attività. I detenuti tendono a fare gruppo con i propri connazionali e questo non aiuta. Tantissimi poi non hanno poi parenti o legami sul territorio: le procedure di espulsione e di estradizione sono spesso molto lunghe e quindi si ritrovano qui senza nessuno che possa dare loro sostegno, sia psicologico che economico. Si tratta di persone sulle quali non riusciamo a intervenire più di tanto, anche perché è impossibile pensare a reinserimento in società se si sa già che verranno espulse una volta uscite dal carcere. Finiscono così per essere discriminati due volte: non avendo legami sul territorio non possono contare su una serie di diritti e benefit disponibili invece per altri. È odioso dirlo ma finiamo in qualche modo per discriminarli anche noi: quando le risorse sono scarse si sceglie di puntare su chi avrà più occasioni di reinserirsi in società potendo contare su maggiori legali con il territorio". Tantissimi detenuti sono a San Michele per reati legati alla droga. Molti di loro sono tossicodipendenti. Come viene gestito questo problema e come incide sul vostro lavoro? "È vero, circa la metà della popolazione carceraria giunge qui con problemi di tossicodipendenza. È difficilissimo lavorare con loro, più per gli effetti della dipendenza psicologica che per veri e propri malesseri fisici. Abbiamo degli operatori del Sert che operano qui con noi. Paradossalmente chi ha problemi di tossicodipendenza è però avvantaggiato nel poter usufruire di una serie di programmi speciali e può contare su maggiori legami con il territorio. Il problema è così sentito che esistono comunità di recupero pronte all'affidamento e ci sono misure alternative alla detenzione che per altre situazioni non esistono. Due educatori, due psicologhe, un assistente sociale e un medico qui in carcere hanno il compito specifico di seguire tutte le persone con problemi di dipendenza da sostanze". Quali sono le attività che proponete come educatori? "Essendo San Michele caratterizzato da una popolazione di detenuti con condanne mediamente lunghe, si possono proporre moltissime attività. Già a partire dal 1956 nel carcere è presente una scuola, fra le prime esperienze in Italia di questo genere. Oggi copriamo tutti gli ordini scolastici, dalla scuola primaria alla media, dall'istituto tecnico per geometri all'odontotecnico (ora sospeso), dai corsi professionali di falegnameria e aiuto cuoco a quelli universitari di giurisprudenza, scienze politiche e informatica. Ovviamente cerchiamo di selezionare le attività che più possano essere utili ai detenuti, offrendo loro qualche opportunità di reinserimento una volta scontata la propria pena. A questo proposito stiamo puntando forte sul settore agro-alimentare. Con la cooperativa Pausa Caffè dal 2012 abbiamo avviato un forno al quale lavorano 8 detenuti e che distribuisce pane e grissini nei presidii coop e Eataly. Quest'anno parteciperemo anche a Expo 2015 e per questo assumeremo a tempo determinato altri 9 detenuti. Questa è la classica attività con importanti potenzialità di reinserimento. Bisogna ricordare che il livello culturale di chi si trova in carcere di solito è molto basso, anche fra gli italiani. Consentire loro di studiare e di fare percorsi di questo tipo vuol dire dar loro la possibilità di aprire la mente e di guardare al futuro con più forza e speranza, anche se in un periodo di crisi come quello attuale non è facile". Quali sono le altre attività? "Stiamo lavorando per dare alla cooperativa Company la gestione di un ettaro circa di terreno all'interno del carcere, sperando che ci potranno lavorare altri detenuti. Abbiamo poi in mente di avviare un laboratorio di pasticceria perché un detenuto quando era in libertà era un cuoco professionista specializzato in pasticceria. Per noi può essere una risorsa importante da valorizzare. Siamo alla ricerca del partner giusto per poterlo realizzare. Oltre a questo ci sono in carcere attività artistiche con laboratori di pittura e da quest'anno anche di fotografia, gestiti da Piero Sacchi. Il valore aggiunto di queste attività è il contatto con l'esterno del carcere. C'è stata una collaborazione con la scuola Galilei e sono stati organizzati incontri sia all'interno di San Michele che in città. Noi tendiamo a dimenticarci un po' dell'esterno e la città si dimentica di noi, ma fra qui e l'istituto Catiello Gaeta (ex don Soria) ci sono più o meno 500 persone che sono comunque parte di Alessandria. Oltre a questo abbiamo avuto un laboratorio di scultura, ora sospeso, e diverse compagnie teatrali che organizzato attività con i detenuti. Quest'anno l'associazione Musica Libera ha organizzato un concerto sia all'interno che all'esterno del carcere. Abbiamo una convenzione con biblioteca di Alessandria per il prestito interbibliotecario, portato avanti grazie all'impegno di 3 ragazzi che svolgono il servizio civile e abbiamo organizzato anche gruppi di lettura, a cui partecipano soprattutto i ragazzi del polo universitario (una decina in tutto). C'è poi il progetto di volontariato "Cittadella senza sbarre" nel quale sono attualmente inseriti 7 detenuti che svolgono attività di "restituzione sociale" presso la Cittadella di Alessandria per la manutenzione della struttura e la lotta all'ailanto e il progetto in collaborazione con AlessandriaNews.it per raccontare le storie dei detenuti e stabilire così un legame più profondo con la città. A breve partiranno anche una serie di attività sportive con la Uisp: un corso di calcetto, yoga, tennis tavolo, bodybuilding e un corso di preparazione atletica al rugby (funzionando da potenziale vivaio per la squadra di rugby costituita presso il carcere di Torino). Le attività fisica sono importantissime per sfogare tutta l'energia che si accumula in una situazione di detenzione". Il livello di recidiva fra coloro che escono dal carcere resta mediamente alto. È frustrante per un educatore? Come lo si può gestire? La frustrazione non nasce tanto dal vedere fallire dei percorsi, perché questo è un aspetto che chi fa questo lavoro deve tenere in conto. Bisogna lasciare alla persona la possibilità di autodeterminazione: se si parte con il delirio di onnipotenza, ragionando secondo il modello del "io ti salverò" si parte molto male e si finisce con il non rispettare le persone. Su mille se anche solo una persona riesce davvero a cambiare vita questo è sufficiente per dare un senso a ciò che facciamo. L'aspetto più pesante da gestire è il carico quotidiano di rabbia e sofferenza che ci portiamo dentro. I detenuti scaricano su di noi le loro tensioni e dobbiamo essere bravi a restituirgliele elaborate, trasformandole in messaggi positivi e speranza. È un lavoro che a me piace moltissimo e può dare grandi soddisfazioni, anche se sicuramente non è semplice. Chiudiamo con un sogno nel cassetto. Se avesse da esprimere un desiderio, cosa chiederebbe? "Magari risorse per costruire legami sul territorio. È essenziale per la buona riuscita di qualsiasi percorso di reinserimento e un'attenzione maggiore al territorio sarebbe anche la migliore forma di prevenzione possibile. Il carcere finisce per essere visto come un luogo dove tenere lontano chi si ritiene socialmente pericoloso, ma bisogna rendersi conto che sono persone che prima o poi usciranno e senza un sostegno adeguato, a tutti i livelli, il rischio è che si finisca per uscire peggiori di quando si è entrati, o con meno risorse ancora, perché i pochi legami prima presenti duranti la detenzione si deteriorano. La conoscenza della vita del carcere può essere il primo passo per sensibilizzare e magari proseguire il percorso di reinserimento anche all'esterno della struttura. C'è molto pregiudizio su questi temi, e non mi sento neppure di biasimare chi pensa male, perché i casi mediatici fanno scalpore. Un clima diverso però sarebbe fondamentale e sarebbe anche in grado di ridurre di molti i casi di recidiva". Le è mai capitato di incontrare detenuti una volta usciti dal carcere? "Sì, mi è capitato di rivederli, per esempio alla Ristorazione Sociale di Alessandria. Loro sono il fiore all'occhiello del lavoro che viene fatto, ma è chiaro che il merito è prima di tutto loro. Osservarli oggi dà commozione e soddisfazione. Sono la prova che il reinserimento si può davvero fare e chi si può cambiare vita. Non sono gli unici casi. Abbiamo studenti di informatica che hanno fatto carriera e mi è capitato in qualche caso che ex detenuti mi ricontattassero per raccontarmi cosa avevano fatto nella vita, che si erano sposati, avevano avuto degli figli, avevano aperto una piccola attività. Questo genere di gratificazioni è così grande che giustifica ampiamente tutti i nostri sforzi". Ivrea (To): Progetto Laboratorio vegetale; lavoro per tre detenuti, preparano marmellate La Sentinella del Canavese, 2 marzo 2015 Presentato il progetto Laboratorio vegetale, promosso dalla cooperativa "Alce Blu" a Cascina Praie si opera sui prodotti ortofrutticoli coltivati in carcere. Si chiama Laboratorio vegetale, ed è un'attività di trasformazione dei prodotti ortofrutticoli delle serre della casa circondariale e di Cascina Praie in marmellate e composte da distribuire e commercializzare localmente. Ente capofila del progetto, presentato venerdì proprio a Cascina Praie di Salerano, è la cooperativa Alce blu, in partenariato con Consorzio Copernico, proprietario di cascina Praie, e la casa circondariale di Ivrea e con la collaborazione operativa della cooperativa sociale agricola Vivai Canavesani . Il finanziatore della fase di start-up del laboratorio è Compagnia di San Paolo. Il progetto occuperà tre persone in semilibertà del carcere di Ivrea e coinvolgerà anche altri soggetti in situazioni di difficoltà o disabilità che già lavorano in cascina. "Laboratorio vegetale - illustra Gabriella Levrio, presidente di Alce blu- non è una semplice iniziativa commerciale, ma un tentativo di creare un collegamento forte tra realtà marginali del territorio e la comunità locale attraverso l'occupazione stabile di persone che hanno poche alternative a livello lavorativo e di progetto di vita". "La nostra realtà di Cascina Praie - ricorda Cristina Arrò, presidente di Copernico - poggia da sempre sull'idea di fare sperimentazione sociale, di mettere insieme competenze e risorse delle cooperative aderenti, che oggi sono sei, per cercare soluzioni innovative alla oggettiva crisi di servizi e del sistema di welfare in generale che il nostro territorio sta vivendo. Siamo convinti che solo coinvolgendo attori diversi nella realizzazione di un progetto si possa arrivare a un risultato efficace e duraturo che abbia ricadute positive sul territorio". "Il progetto è importante - rimarca Assuntina Di Rienzo, direttrice del carcere - in quanto offre ai detenuti la possibilità di essere produttivi e poter sperare, attraverso l'operosità, in un futuro migliore. Se le persone detenute non hanno la speranza di un futuro migliore, non ci può essere recupero e la possibilità di imparare un mestiere, di lavorare, di essere produttivi è la loro principale fonte di speranza". "È importante dare prospettive alle persone - aggiunge Giorgio Siri, responsabile dell'area trattamentale del carcere. Solo così l'esperienza della detenzione diventa formativa". "Sono trascorsi 25 anni da quando Cascina Praie accolse per un inserimento lavorativo la prima persona in semilibertà", ha ricordato Armando Michelizza, da sempre impegnato nella realtà carceraria e, dal 2012, Garante dei detenuti. La presentazione del progetto si è conclusa con un buffet preparato dalla cooperativa Divieto di sosta che lavora con i detenuti all'interno del carcere. I prodotti del Laboratorio vegetale e del Forno del gabbio si possono già trovare in commercio a Cascina Praie, con il progetto Filiera corta, allo Zac e presto in altri esercizi commerciali. Paliano (Fr): detenuto ergastolano consegue terza laurea in 25 anni di carcere di Marco Leone www.dazebaonews.it, 2 marzo 2015 In videoconferenza con Viterbo dall'interno del carcere di Paliano (Fr), ha conseguito, con 110 e lode la Laurea magistrale in Scienze della Comunicazione, sostenendo una tesi di laurea intitolata "Comunicazione e socializzazione in carcere". La vera notizia - diffusa dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - è però che il 43enne Massimo (nome di fantasia), in carcere dall'inizio degli anni Novanta con un "fine pena mai", di lauree in carcere ne ha conseguite addirittura tre: una nel 2007 in Economia e Commercio sul "Recupero del detenuto: una prospettiva economica" (110) ed una nel 2010 in Scienze Politiche intitolata "Dal vecchio mondo al nuovo continente: interconnessione e complementarità nella storia della Mafia" (110 e lode). Massimo aveva iniziato, nel carcere di Viterbo, il Corso di Laurea in Scienza della Comunicazione dell'Università della Tuscia, dove già aveva conseguito la sua seconda laurea. Alla discussione della tesi di laurea hanno assistito i familiari, i volontari e gli operatori del trattamento che lo hanno incoraggiato e sostenuto durante il cammino universitario in questi anni. Massimo è il primo laureato del carcere di Paliano. La scorsa estate a Rebibbia N.C, avevano conseguito la laurea triennale i primi 4 detenuti del progetto "Tele università in carcere" ideato dal Garante dei detenuti del Lazio, uno dei quali in collegamento via skype dal carcere di Tirana. A dicembre, sempre a Rebibbia, in videoconferenza con l'Università di Roma Tor Vergata, aveva conseguito la prima Laurea Magistrale in legge un altro detenuto del reparto di Alta Sicurezza. "Abbiamo deciso di rendere nota la storia di Massimo - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - perché è una vicenda unica. Per i gravi fatti in cui è stato implicato ha trascorso più di venti anni in carcere e, davanti a sé, non ha un futuro certo ma solo il "fine pena mai". Di fronte a tale prospettiva, ha deciso di non abbandonarsi alla disperazione della cella ma ha visto nello studio l'occasione di riscatto sociale. L'ennesima conferma, ove ce ne fosse bisogno, che la criminalità si combatte anche con la cultura e l'istruzione. Noi abbiamo investito molto sui percorsi scolastici in carcere. Con il Sistema Universitario Penitenziario (S.U.P.) abbiamo ideato un modello costituito da una rete istituzionale che mette insieme la Conferenza dei Rettori delle Università del Lazio, Laziodisu, Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, le carceri, il Dap, la Regione Lazio e le Università Roma Tre, Tor Vergata, Cassino, La Tuscia e La Sapienza. Con questo Modello, oggi sono 120 i detenuti che, nel Lazio, frequentano l'Università. Nel 2005, i detenuti universitari nel Lazio erano appena 17". Torino: giovane detenuto scavalca la recinzione e evade dall'Ipm Ferrante Aporti di Federico Genta La Stampa, 2 marzo 2015 Era al Ferrante Aporti da sette mesi. E malgrado i 18 anni compiuti da poco, era già una vecchia conoscenza del carcere minorile. Pasquale Del Duca è residente a Ivrea. Conosce a memoria gli spazi di corso Unione Sovietica: le celle, i corridoi, le sale comuni e i punti deboli. Così, sabato, è riuscito a scappare. Sono le 12,30, è l'ora d'aria. Pasquale insieme agli altri detenuti esce nel cortile del campo sportivo. Sono in tutto 35 ragazzi. A controllarli c'è un solo agente di polizia penitenziaria. Pasquale si mette subito a correre. Punta dritto alla cancellata di ferro, regolarmente chiusa, che si affaccia sui campi di allenamento del centro Sisport. "Uno scatto fulmineo e imprevedibile" racconterà poi il personale ai responsabili del centro di giustizia minorile. Del Duca afferra la recinzione e scavalca il muro. Gli agenti della squadra mobile e i carabinieri non hanno mai smesso di cercarlo. Lui stava scontando una condanna per rapina. L'ultimo episodio, quando era ancora minorenne, risale a novembre 2013. Lo avevano arrestato i militari della stazione di Verolengo. Insieme a un complice di nazionalità marocchina aveva rapinato un sedicenne alla stazione ferroviaria di Chivasso. Calci e pugni per una macchina fotografica, un cellulare e 40 euro in contanti. I due, per altro, erano sospettati per una serie di episodi analoghi, denunciati dai pendolari della stessa stazione. Sull'accaduto, per ora, la direttrice del carcere, Gabriella Picco, preferisce non rilasciare dichiarazioni. Forse, dietro alla fuga del detenuto, c'è la momentanea distrazione dell'agente che doveva controllarlo. Uno solo contro 35.Ma la ricostruzione dell'Osapp, l'organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, è diversa. Il segretario generale, Leo Beneduci, parla apertamente "di molteplici scelte sbagliate da parte del ministero". E ricorda come, solo due settimane fa, un minore sudamericano abbia dato fuoco alla sua cella. "È stato salvato in extremis dal personale, ma ancora oggi stiamo aspettando un provvedimento di allontanamento verso un altro istituto più idoneo. La verità è che ormai è una prassi trasformare il Ferrante Aporti in un ricettacolo dei casi più delicati e critici di tutto il territorio nazionale". Le colpe? "Le ragioni di questa situazione, non più tollerabile - dice Beneduci, vanno ricercate nell'inerzia dei vertici romani della giustizia minorile e della stessa amministrazione penitenziaria. La polizia lancia un appello al presidente della Repubblica Mattarella per una netta inversione di tendenza, figlia di scelte sbagliate e inutile burocrazia". Bologna: la Festa dell'8 Marzo con i detenuti del Dozza, per parlare di violenza e salute Adnkronos, 2 marzo 2015 Un 8 marzo in carcere, per parlare di lotta alla violenza di genere con i detenuti e di salute femminile con le detenute. È quanto avverrà alla Dozza di Bologna, in occasione della Festa della donna. Nello specifico, domani alle 9,30, una delegazione istituzionale incontrerà i detenuti della Casa Circondariale, per approfondire i temi legati agli abusi sulle donne. L'incontro sarà curato da Giuditta Creazzo, Paolo Ballarin e Gabriele Pinto dell'associazione Senza Violenza. Parteciperanno anche i consiglieri comunali di Palazzo D'Accursio Corrado Melega e Leonardo Barcelò. Una seconda visita, il 6 marzo alle 15, coinvolgerà invece la Sezione femminile del carcere in un incontro con le volontarie del progetto "Non solo Mimosa", rivolto alle donne detenute e centrato sui temi della salute ed il benessere femminile. Le due iniziative sono state organizzate in accordo e con il pieno appoggio della Direttrice della Casa circondariale, Claudia Clementi. Gli incontri sono promossi dalla presidente della commissione delle Elette di Palazzo D'Accursio Maria Raffaella Ferri, insieme alla presidente del consiglio comunale Simona Lembi e alla Garante per i diritti delle persone private della Libertà Elisabetta Laganà. Ma complessivamente, la Giornata internazionale della donna verrà ricordata a livello metropolitano con oltre 70 iniziative che si svolgono in oltre 30 Comuni del territorio bolognese. Per celebrare l'8 marzo alla programmazione istituzionale si affiancherà quella delle associazioni di donne del territorio, con spettacoli teatrali e musicali, incontri, letture, conferenze, tavole rotonde e mostre. Tra i tanti incontri in programma tra febbraio, marzo e aprile, la mostra sulle donne Masai allestita al centro cultura P. Guidotti a Castiglione dei Pepoli. Il 3 marzo ad Argelato si terrà invece l'incontro con l'autrice Marilù Oliva che presenterà il suo ultimo romanzo "Le sultane" e racconterà la propria esperienza di scrittrice, donna, insegnante. E ancora, dal 4 marzo al 21 aprile ad Imola è in agenda "Contrastare la violenza sui/sulle minori", corso di formazione proposto dal Centro antiviolenza di Trama di Terre rivolto ad educatori ed insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado. Il 5 marzo a San Pietro in Casale spazio al seminario "Gaza - Italia: donne in viaggio oltre i confini della disabilità", per far conoscere la difficile situazione di isolamento culturale ed economico della popolazione della striscia di Gaza e, in particolare, delle persone più vulnerabili, le donne con disabilità. L'appuntamento permetterà uno scambio di esperienze tra una delegazione di donne della Striscia di Gaza ed esperienze di inclusione sociale dei territori dell'Unione Reno-Galliera. Si prosegue l'8 marzo con la "Stradozza" camminata delle donne non competitiva tra le colline di Dozza, aperta alle donne di tutte le età promossa dal gruppo ‘Rina e le sue amiché e l'Associazione calcio Dozzese. Le celebrazioni proseguiranno per diverse settimane. Dal 16 marzo al 14 aprile, infatti, Imola ospiterà il percorso formativo "Mutilazioni genitali femminili. Rappresentazioni sociali e approcci sociosanitari" organizzato dall'Ufficio Pari opportunità e tutela delle differenze del Comune di Bologna, e dall'associazione Trama di terre Onlus, con il patrocinio del Comune di Imola. Infine, il 19 marzo ci sarà un incontro fra le donne dell'Anpi e quelle di Srebrenica, in visita a Bologna nel quadro del programma di eventi promossi da Libera. Arabia Saudita: altro che "solo" frustate, il blogger Raef Badawi rischia la pena di morte Agi, 2 marzo 2015 Lo ha reso noto la moglie, Ensaf Haidar. In una serie di messaggi inviati al quotidiano britannico The Independent, la donna sostiene che i giudici di un tribunale penale saudita vogliono sottoporlo a un nuovo processo per apostasia; e se fosse giudicato colpevole, a questo punto rischierebbe la pena di morte. La donna riferisce di avere notizie "preoccupanti" fornite da "fonti ufficiali" all'interno del regno. Badawi, 30 anni, è stato condannato per vilipendio dell'Islam; e la pena ha fatto infuriare la comunità internazionale: mille frustate (50 a settimana), dieci anni di reclusione e una multa di un milione di rial, pari a oltre 235.000 euro. Al giovane per ora è toccata solo la prima ‘porzionè di frustate, il 9 gennaio scorso; poi, tutte le fasi successive del supplizio sono state sempre rimandate per motivi di salute (la prima volta, il 15 gennaio, perché un certificato medico del carcere accertava che non era pronto ad affrontare la punizione, considerate le ferite riportate la settimana precedente). Nel 2013, un giudice saudita aveva già respinto l'accusa di apostasia dopo che il blogger aveva assicurato ai magistrati di esse musulmano; in quel caso tra le prove addotte contro di lui, anche il fatto che avesse premuto il pulsante "Mi piace" sui una pagina di Facebook per cristiani arabi. Adesso si ripresenta il rischio. La donna, che nel frattempo è riparata in Canada insieme ai tre figli, a fine gennaio ha denunciato il costante aggravarsi delle condizioni di salute del marito, affetto da forte ipertensione fin dall'epoca dell'arresto, risalente al giugno 2012. Stati Uniti: a Chicago attivisti in piazza contro il "black site" della polizia di Leonardo Rossi Il Tempo, 2 marzo 2015 L'edificio Homan Square al centro delle polemiche per abusi e violenze sui detenuti. "Aprire un'inchiesta". Si tratta, probabilmente, del peggiore caso di abuso di potere da parte della polizia negli Stati Uniti. Più di 100 attivisti si sono riuniti a Chicago per chiedere un'inchiesta ufficiale e anche un'eventuale chiusura di Homan Square, l'edificio in uso alla polizia della città, al centro del caso peggiore di abusi incostituzionali che si sia registrato negli ultimi vent'anni. Così grave da aver dato vita a un movimento che si chiama #Gitmo2Chicago. È stato il giornale inglese Guardian a scoprire l'orrore. È riuscito a entrare in contatto con alcune vittime che hanno raccontato degli abusi e delle detenzioni, durante le quali è stato loro precluso il diritto basico di contattare il proprio legale o perlomeno i familiari. Il gruppo di manifestanti è variegato. Proprio come in Italia. Si contano gli Anonymous e i Black Lives Matter che spingono perché si renda pubblico l'accesso all'edificio della polizia. La folla si è rivolta a gran voce direttamente al sindaco: Rahm Emanuel, che sta, tra le altre cose, correndo per una nuova rielezione, con una campagna elettorale estesa anche a una possibile riforma della polizia; questo non importa alla folla, lei vuole dal sindaco la verità. "Il sindaco Emanuel dice "credeteci, stiamo facendo la cosa giusta". Dice l'attivista Andy Thayer della Gay Liberation Network, riferendosi al briefing che il sindaco ha tenuto, proprio riguardo quello che sta accadendo, giovedì scorso. "Mi dispiace, signor sindaco, ci hai mentito molto riguardo ad altre cose, noi non ci beviamo più quello che dici - continua Thayer - non crediamo per niente che in questo palazzo (riferendosi alla sede della polizia ndr) siano state fatte cose eccellenti". "Vogliamo - conclude - che sia chiuso subito". Il sindaco, che era impegnato in un rally elettorale che lo ha visto incontrare più di 50mila elettori in un solo giorno, non ha detto nulla riguardo Homan Square questo sabato. Per molti manifestanti questo è un "black site" della CIA. Durante questa settimana il Guardian non ha mollato per un solo secondo il posto. Lo scoop era troppo grande. In Usa si stanno usando metodi nazisti per estorcere confessioni. Una lunga serie di avvocati ha dichiarato al giornale inglese che la polizia detiene per lunghi periodi le persone dentro Homan Square, senza il diritto di poter contattare i propri legali o le loro famiglie. Molti di loro dicono di essere stati abusati e malmenati. Travis McDermott, uno tra i leader che hanno organizzato la manifestazione di sabato, parla riguardo al Ndaa (National Defense Authorization Act), cioè di un documento che autorizza i militari a detenere persone che sono sospettate di azioni terroristiche. Il problema, secondo McDermott, è proprio l'esistenza del Ndaa che autorizza l'uso di edifici orrendi come questo. "Il problema principale - ha spiegato - è quando all'individuo viene tolto il potere politico per contratto - non c'è paura di controllo, non c'è speranza che si autoregolino. Loro possono negarlo, e quindi è una battaglia sulla fiducia: tra chi l'ha visto e vissuto e chi, invece, lo protegge. McDermott dice di volere delle risposte vere, serie e conclusive riguardo a Homan Square, non semplici alzate di spalle. "Il nostro scopo è arrivare a tenere in mano la smoking gun la prova ufficiale". Dice al giornale. "Perché l'onere della prova per ora sta nelle mani della polizia di Chicago". Brian Jacob Church è stato il primo detenuto a uscire allo scoperto parla al Guardian riguardo ciò che gli era successo dentro il sito. Non potendo partecipare alla manifestazione ha chiesto a McDermott di leggere una dichiarazione, scritta da lui stesso. Lui era uno di cosiddetto "Nato Three", che ha attraverso la città per protestare contro il summit del 2012 della Nato. Church è finito detenuto per 17 ore a Homan Square, prima di essere accusato e condannato a due anni di galera, solo per aver partecipato, a quanto sembra, a una manifestazione. "Voi oggi siete qui per manifestare - c'è scritto nella sua dichiarazione - perché i diritti umani fondamentali sono stati messi in saldo al mercato". "Sentiamo che queste cose accadono sempre negli altri paesi - ha continuato a leggere McDermott - ma non ci aspettavamo che succedesse da noi". Vetress Boyce, candidata come assessore per il 24° distretto di Chicago, dice che le comunità della città sapevano perfettamente della inclinazione all'uso della violenza da parte delle forze dell'ordine. Lei ha dichiarato di partecipare di cuore insieme ai manifestanti, chiedendo un'inchiesta lucida e pubblica sul caso che lei definisce di "tortura". "Il problema è che abbiamo smesso di marciare quando ce n'era bisogno: abbiamo abbassato la guardia". Ha detto Il reverendo Gregg Greer, della Southern Christian Leadership Conference, ha chiesto a tutti gli altri che sono finiti dentro Homan Square di farsi avanti. "Se il Dipartimento di polizia di Chicago non ha niente da nascondere - ha detto Greer - allora apra le porte". La polizia ha rifiutato di rilasciare ogni commento, fin dall'inizio dell'indagine del Guardian. In una nota, rilasciata a più giornali martedì scorso, il Dipartimento ha dichiarato che "tutto era secondo le norme, leggi e linee guida, riguardo ogni possibile interrogatorio di sospetti o testimoni". Senza dire nulla riguardo ai modi con i quali i detenuti potessero contattare i loro avvocati, sempre nella stessa nota è scritto: "Se il legale avesse avuto un cliente dentro Homan Square, non ci sarebbe stato nessun problema a farglielo visitare". "Spero torniate tutti ancora - ha continuato Greer - e la prossima settimana, di mattina, lo abbatteremo se necessario. Perché dobbiamo farlo? Per la nostra libertà". A questo punto la folla ha cominciato a urlare contro la polizia. A fine giornata, molti pensano di tornare domenica per organizzare una manifestazione lunedì vicino all'ufficio del sindaco Emanuel. Intanto Anonymous ha assicurato che comincerà una guerriglia informatica contro Homan Square. Insomma, la situazione si fa incandescente. Si profilano scontri tra la polizia e i cittadini di Chicago, stanchi dei metodi da Gestapo che le forze dell'ordine spesso usano contro sospetti e testimoni. Stati Uniti: "via i criminali di guerra bosniaci", la giustizia non fa sconti di Francesco Semprini La Stampa, 2 marzo 2015 Saranno espulsi 150 cittadini riconducibili a stragi compiute nei Balcani La prima volta che il nome di Slobodan Mutic viene menzionato in un documento delle autorità americane è il 25 febbraio 2008. Si tratta di un cablogramma riservato del dipartimento di Stato, che contiene il resoconto di una visita di funzionari del ministero di Giustizia Usa in Croazia. Al paragrafo otto vengono elencati nove nomi, nove cittadini serbo-bosniaci immigrati negli Usa, tutti sospettati dalle autorità di Zagabria di essere criminali di guerra. Mutic è ritenuto il carnefice di una coppia di civili croati uccisi durante il conflitto nei Balcani, e l'autore di violenze perpetrate nell'ambito della sistematica pulizia etnica condotta durante la guerra. In quel memo si chiede di emettere un ordine di estradizione nei suoi confronti, entro 90 giorni. Quasi tre anni dopo il cablogramma diventa di dominio pubblico con lo scandalo Wikileaks, ma Mutic risiede ancora in Ohio dove lavora in una fonderia di Akron. Continua a essere un immigrato apparentemente qualunque, come gli altri 150 concittadini della ex Jugoslavia nei cui confronti è stata avviata procedura di estrazione, nell'ambito di una gigantesca inchiesta condotta dalle autorità giudiziarie Usa, in coordinamento con quelle dei Paesi dei Balcani. Dieci annidi indagini L'inchiesta ha mosso i primi passi oltre dieci anni fa, quando le autorità federali del Massachusetts ordinarono l'arresto di Marko Boskic, cittadino serbo-bosniaco fermato con l'accusa di aver mentito sui suoi trascorsi militari durante la disgregazione della ex Jugoslavia e la guerra dei Balcani. Viene accusato di essere l'autore di esecuzioni nella regione di Srebrenica, e quindi deportato in Bosnia dove è condannato a dieci anni di prigione. Ma Boskic è solo la punta dell'iceberg, visto che come lui, ovvero di cittadini dal nome slavo e trascorsi con crimini di guerra, cene sono tanti altri negli Usa. Sono giunti nella seconda metà degli Anni 90, senza essere intercettati dai radar della Giustizia, "mimetizzati" nella grande onda di profughi che lascia i Balcani a causa delle persecuzioni. Almeno 150 persone che - secondo le autorità Usa - si sono macchiate di crimini di guerra e attività di "pulizia etnica" durante le ostilità nella ex Jugoslavia. Ex soldati o affiliati a gruppi paramilitari riconducibili al leader serbo Slobodan Milosevic, che si sono integrati perfettamente nella società Usa, come ad esempio un allenatore di una squadra di calcio della Virginia, diversi impiegati di società private in Arizona, e quattro dipendenti di casinò di Las Vegas. La maggioranza sono coinvolti nel peggior massacro compiuto dalla Seconda guerra mondiale, quello di Srebrenica del 1995, dove le forze serbo-bosniache hanno sterminato circa ottomila musulmani completamente indifesi. Un atto di "genocidio", secondo la definizione data dall'Onu nel 2004.Non solo di origine serba sono tuttavia i 150 cittadini finite nelle maglie della Giustizia e destinati alla estradizione. Come la croata Azra Basic, ad esempio, una donna del Kentucky con trascorsi come guardia carceraria in un centro di detenzione. È stata arrestata perché accusata di aver compiuto, proprio nel corso del suo servizio in guerra, torture nei confronti di prigionieri serbi, e di averli costretti a bere benzina e sangue umano. Edin Sakoc, musulmano bosniaco, è stato invece condannato per stupro, duplice omicidio e incendio doloso nei confronti di serbi nel 1992. L'inchiesta, condotta osservando la massima riservatezza da parte delle autorità Usa, è destinata ad allargarsi, secondo quanto riporta il "New York Times". La Giustizia americana avrebbe individuato almeno 300 persone riconducibili ad atti criminali compiuti durante la guerra nei Balcani. Ma i sospetti potrebbero arrivare finanche a 600 man mano che gli inquirenti raccoglieranno altra documentazione. "Più scaviamo, più prove siamo in grado di raccogliere", avverte Michael MacQueen, esperto della Immigration and Customs Enforcement, che ha guidato diverse indagini per conto della sezione "crimini di guerra" dell'agenzia. Ciò che invece non è chiaro è quando potrebbe avvenire la deportazione, visto che a causa delle lungaggini giudiziari, in alcuni casi gli ordini potrebbero non diventare esecutivi prima del 2019.