Non spegnere la voce di "Sosta Forzata" di Daniela De Robert www.articolo21.org, 29 marzo 2015 Da undici anni dà voce al mondo del carcere. Per undici anni ha rappresentato un ponte tra il mondo prigioniero e il mondo libero. Ora però Sosta forzata, il giornale della Casa circondariale di Piacenza, dovrà chiudere. Niente problemi economici dietro la decisione e neanche una decisione editorial-strategica dell'editore. A decretare la fine di una delle testate storiche del carcere è la direzione dell'istituto di pena: la redazione è sciolta, gli incontri non si possono più svolgere, l'attività è sospesa. Fine delle riunioni di redazione per impostare il giornale, per discutere ragionare sul mondo del carcere, sul senso della pena, sul reinserimento, per leggere insieme le domande, le critiche, le esigenze dei lettori. Quel dialogo tra il "dentro" e il "fuori" che è stato costruito faticosamente e tenacemente dalla direttora Carla Chiappini e dai redattori galeotti si interrompe. Le pagine di Sosta forzata allegate al giornale diocesano "Il Nuovo Giornale" resteranno bianche. Niente discussione tra gli ospiti della Casa circondariale e i cittadini del territorio; niente più incontri e confronti anche accesi tra i due punti di vista. Sosta forza non è solo uno strumento per dare voce a una delle tante periferie del nostro mondo, non solo uno strumento di informazione. Sosta forzata è anche uno spazio di riflessione all'interno del mondo prigioniero, dove prendere coscienza delle responsabilità di ognuno. Un luogo dove i propri diritti si confrontano con quelli degli altri, dove le proprie certezze vengono messe in discussione, dove insomma il muro invalicabile della prigione si fa più sottile e si trasforma in dialogo e confronto costruttivo. Insomma, per usare un linguaggio delle istituzioni penitenziarie, Sosta forzata era - ma preferisco dire ancora è - un prezioso strumento per favorire quel cambiamento necessario al reinserimento sociale delle persone detenute. Ed è anche uno strumento di cambiamento culturale del mondo esterno. Tutto questo finisce. Nonostante le proteste anche di tanti lettori. Nel mondo prigioniero funziona così. Non sempre arrivano i perché. Si chiude e basta. Poco importa o forse proprio perché - come scrive Ristretti Orizzonti: "Un carcere dove volontari e detenuti fanno informazione ha molte probabilità di diventare un carcere trasparente". La difesa di Sosta forzata è dunque una battaglia in difesa della libertà di stampa, ma anche una battaglia di civiltà. Allora le associazioni che operano in carcere insieme alla Federazione nazionale della Stampa, all'Assostampa dell'Emilia Romagna e adesso anche ad Articolo 21 chiedono alla direzione del carcere di ripensarci. Di non spegnere la voce di Sosta Forzata. Di dimostrare con i fatti che anche loro credono che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato" e che la libertà è un bene prezioso, anche quella di informare, anche per chi sta scontando una pena. Giustizia: molte leggi, poche idee, la "grande riforma" che ancora non si vede di Giuseppe Gargani Il Garantista, 29 marzo 2015 Non si interviene sullo strapotere delle toghe. Innalzare le pene per la corruzione non è la via giusta e la prescrizione "infinita" è la negazione del diritto. Il Governo italiano e per esso il presidente Matteo Renzi ritiene di aver completato la riforma della giustizia riducendo le ferie ai magistrati, modificando la legge sulla responsabilità civile e aumentando le pene per i reati di corruzione. E in più, avendo ottenuto dal Parlamento il primo sì alla "prescrizione lunga" che è come dire "l'abolizione della prescrizione", ritiene di aver risolto tutti i problemi. Non si può che restare sbalorditi di fronte a questi approssimativi interventi del legislatore che dimostrano come la problematicità della giustizia sia incompresa o volutamente trascurata. Le nuove norme aggravano la situazione giudiziaria, rendono più difficile lo svolgimento dei processi e mettono in crisi le conquiste che negli anni si erano realizzate per garantire le libertà del cittadino. La citazione di un grande giurista come Carnelutti, che diceva che la democrazia di un Paese si giudica dalle leggi che regolano il processo penale, è stata fatta spesse volte, ma vale la pena ripeterla. I quattro interventi citati tengono conto dell'emotività dell'opinione pubblica e per questo sono considerati necessari. È appena il caso di soffermarsi sulla riduzione delle ferie ai magistrati, che è un provvedimento di poco momento e di nessun significato. I magistrati debbono essere costretti non a stare in ufficio come impiegati, ma a scrivere le sentenze. La apparente riforma della responsabilità civile non modifica la legge precedente se non per l'obbligatorietà dello Stato di rivalersi sul magistrato nel caso di accertate responsabilità per colpa grave; ma anche questo, che sembra un problema rilevante, è certamente indispensabile ma marginale e non risolve alcunché. La responsabilità del giudice o del pubblico ministero deve essere istituzionale, cioè deve orientare il magistrato nell'esercizio della sua funzione, prima della sua decisione. Essere condannato al risarcimento del danno per colpa grave nell'esercizio delle funzioni è poca cosa quando si è determinato il danno. I meccanismi di controllo preventivi, la professionalità verificata, dovrebbero evitare che una persona perda la sua dignità per una indagine sbagliata o "azzardata". Il problema è molto complesso e dovrebbe essere risolto con una "riforma" vera adeguata, capace di "regolare" il "potere" che i magistrati hanno accumulato in questi anni. Si tratta di una battaglia culturale e costituzionale che una politica molto debole ha difficoltà ad affrontare. Bisogna aprire un grande dibattito sul ruolo del giudice nella attuale realtà sociale, che è profondamente diverso da quello individuato dal costituente nel 1948, in Italia, in Europa e in altre parti del mondo. La classe politica non si è mai resa conto fino in fondo che questo "potere" anomalo dei magistrati non è compreso, ne gradito dal popolo, tant'è che il grado di fiducia nei confronti della giustizia è bassissimo. È per questo che i magistrati chiedono legittimazione alla politica, che è costretta a dargliela, e chiedono protezione al Consiglio Superiore, attribuendogli una funzione anomala, cioè quella di garantire e appunto "proteggere" la loro indipendenza. Non è questa per la Costituzione Repubblicana la funzione del Csm. La conseguenza è che la indipendenza può diventare irresponsabilità, il giudice assume le funzioni di fustigatore dei costumi nei confronti di un tessuto sociale corrotto e soprattutto nei confronti della politica corrotta e finisce per avere una funzione etica. Questo enorme problema della democrazia moderna non si risolve con provvedimenti tampone come quelli messi in essere. L'aumento delle pene per i reati di corruzione è davvero risibile: qualunque giurista sa che l'ordinamento giuridico deve avere un'armonia e una logica nello stabilire le sanzioni, che non possono non essere "proporzionate", e sa che una pena "sproporzionata" non risolve il problema. La lotta alla corruzione deve essere fatta dalle istituzioni non con leggi esagerate. Né spetta ai magistrati, il cui compito importante e determinante è quello di reprimere il reato e stabilire le sanzioni adeguate, non quello di "lottare". Siamo angosciati dalla devianza, dalla delinquenza organizzata e dalla corruzione, ma senza idee precise e senza un disegno generale modifichiamo le leggi e inaspriamo le pene, o creiamo carrozzoni come quello dell'anticorruzione, ma non risolviamo il problema. L'antico vizio italiano di fare leggi o "commissioni" per rispondere all'allarme dei cittadini di fronte a fenomeni di corruzione o devianza si perpetua senza alcuna novità. Per ultimo non si può non dichiarare con forza che aumentare oltre misura il termine per la prescrizione del reato è in disarmonia con lo spirito autentico della legislazione e determina maggiore lentezza nella conclusione dei processi. Ogni stato democratico ha un tempo limitato per perseguire i reati, per sanare cioè il vulnus che il reato ha determinato nella società. Un tempo illimitato fa aumentare l'incertezza delle indagini e della stessa legge, e rende senza significato pregnante qualunque sanzione. Il problema della Giustizia non è stato ancora affrontato e della "riforma" non si è cominciato a discutere. Giustizia: il ministro Orlando stoppa il piano-Gratteri sulla riforma delle intercettazioni di Francesco Grignetti La Stampa, 29 marzo 2015 Nel testo era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Il ministro: "Contributo importante dalla commissione, ma non tutto diventerà legge". È sempre la riforma delle intercettazioni, che Renzi vuole vedere entro il 2015, a far discutere. Il ministro Andrea Orlando giunge a Reggio Calabria per il congresso di Magistratura democratica e ripete: "La rivisitazione delle intercettazioni era già inserita nei dodici punti della riforma della giustizia e poi nel disegno di legge che ora si trova alla Camera". Lì, per l'appunto, "c'è una delega per limitare la diffusione delle intercettazioni quando non abbiano rilevanza penale". La riforma era stata annunciata a giugno, poi raccontata ad agosto, e presentata in Parlamento qualche mese fa. Un processo laborioso. Nel ddl sono previste due deleghe, ovvero due riforme da affidare al governo. La prima, sull'uso delle intercettazioni stesse (da estendere) nei reati contro la Pubblica amministrazione. La seconda, sulla loro pubblicabilità: quando e come. Un'ipotesi allo studio è il cosiddetto "archivio segreto" che custodisce le bobine; se uscisse qualcosa troppo presto si saprebbe chi è il colpevole. Resta il nodo di che cosa i magistrati stessi inseriscono nelle ordinanze: tutto quello che è lì, è automaticamente pubblicabile. Il Corriere della Sera, però, ieri ha raccontato che all'esame di Renzi c'è una proposta alternativa, giunta dalla commissione affidata al procuratore antimafia di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Ebbene, la commissione Gratteri (il cui presidente, ricordiamo, è stato in predicato di diventare ministro della Giustizia) da quanto si sa ha depositato a gennaio un articolato di 150 punti che svariano dalle norme penali, al processuale, al penitenziario. Tra gli altri c'è un nuovo reato, la "pubblicazione arbitraria di intercettazioni", attagliato esclusivamente ai giornalisti. Si sanzionerebbe chi pubblica i testi di intercettazioni "acquisite agli atti di un procedimento penale", ma il cui contenuto "abbia portata diffamatoria e risulti manifestamente irrilevante ai fini di prova". Si prevede una sanzione da 2.000 a 10.000 euro, o la detenzione da due a sei anni. Quel carcere per i giornalisti, che faticosamente il Parlamento sta cancellando dal reato di diffamazione, insomma, torna a bomba. Per di più si andrebbe a colpire con il carcere non chi esercita una diffamazione in virtù del suo ruolo, ma chi pubblica atti di un'inchiesta che siano stati portati a conoscenza delle parti, sia pure ritenuti irrilevanti penalmente dal magistrato. Una proposta che va in controtendenza con il senso di marcia del governo. E perciò difficilmente avrà il via libera. Come probabilmente l'intero lavoro: non una riforma organica, ma una sorta di menù da cui il governo pesca di volta in volta. Sembra essere farina del sacco di Gratteri, ad esempio, la norma che ha innalzato la pena minima della corruzione a 6 anni, così limitando moltissimo il ricorso alla sospensione condizionale della pena. Il ministro Orlando è esplicito: "La Commissione Gratteri ha fornito un importante contributo. Chiaramente non tutti i punti diventeranno testo di legge". Non proprio quello che si aspettava il procuratore, che pensava di portare la "sua riforma in Parlamento, quasi da ministro ombra. Che ora rischia di restare nell'ombra. Giustizia: David Ermini (Pd) "inasprire le pene sì, ma anche rieducare i reclusi" di Marco Scorzato Giornale di Vicenza, 29 marzo 2015 Intervista al deputato David Ermini, responsabile Giustizia del Pd. "Quella del benzinaio è legittima difesa, e va garantita la sicurezza. No a indulto o amnistia" Processi infiniti, incertezza della pena, carcere per pochi e poche carceri. Tra le note dolenti della giustizia italiana c'è l'imbarazzo della scelta. David Ermini, deputato e responsabile nazionale Giustizia del Partito democratico, l'altra sera era a Schio a discutere della "riforma" della materia con il deputato Filippo Crimi e con Diego Marchioro e Chiara Guglielmi, candidati renziani al Consiglio regionale. Ermini, qual è la priorità tra le note dolenti? "Stiamo riformando la giustizia nel complesso: prenda i provvedimenti su corruzione, falso in bilancio, prescrizione. E ora il ministro Orlando ha annunciato pene più dure per certi reati, come i furti in casa". Il caso Stacchio è fumante... "Sarò chiaro: quella di Stacchio è legittima difesa. Per me il caso penale non esiste. Però si pone, oltre al dramma umano, un problema di sicurezza". E come si affronta? "Con l'inasprimento delle pene, e lo stiamo facendo. Ma non basta Chi delinque deve andare in carcere, ma quando esce non deve ricascarci. I dati dimostrano che il detenuto che lavora nel 90% dei casi non ha la recidiva. Alla certezza della pena va affiancato il recupero con il lavoro". Serviranno indulto o amnistia? "Né l'uno né l'altra. Abbiamo già aumentato la capienza delle carceri del 10%, con manutenzioni delle strutture. Servono investimenti, ma nessun provvedimento demenziale". Tornando a Stacchio. La sensazione è che la destra fosse pronta, almeno a parole, a prendere posizioni nette, mentre il Pd è parso titubante. Solo sensazione? "Se c'è stato un errore è stato questo: aver dato la sensazione di non affrontare in modo deciso il tema. Ma il problema della sicurezza c'è, è forte, e lo stiamo affrontando: questo governo sta facendo le leggi, è tornato a investire nelle forze dell'ordine, ha aumentato i loro stipendi. Il nostro errore mediatico è l'opposto della demagogia dimostrata dalla destra ancora una volta". Perché ancora una volta? "Anche loro hanno governato l'Italia e governano il Veneto e la delinquenza con loro non è calata". Giustizia: indennizzi per ingiusta detenzione, in 22 anni lo Stato ha pagato 580 milioni Libero, 29 marzo 2015 Indennizzi per ingiusta detenzione? Un vero salasso, per lo Stato italiano. Oltre che un significativo indicatore di come troppo spesso, nel nostro Paese, finiscano dietro le sbarre degli innocenti, ritenuti tali dalle sentenze definitive. Le ultime, preoccupanti cifre le ha fornite lo scorso gennaio il viceministro della Giustizia, Enrico Costa. E fanno impressione: nel 2014 lo Stato italiano ha speso 35 milioni e 255mila euro proprio per riparare a ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, vale a dire il 41,3% in più rispetto al 2013 (995 domande liquidate contro le 757 dell'anno precedente). Lo stesso Costa ha poi ricordato che in 22 anni, dal 1992 al 2014, l'ammontare complessivo delle spese per riparazioni dopo le ingiuste detenzioni è arrivato a 580 milioni e 715mila euro, per una media di oltre 26 milioni l'anno. Complessivamente, sono state ben 23.226 le liquidazioni effettuate. La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è stata introdotta con l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, nel 1988, ed è regolata dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. La custodia cautelare in carcere è ingiusta (art. 314, primo comma) quando un imputato, all'esito del procedimento penale, viene prosciolto con sentenza di assoluzione diventata definitiva, ossia riconosciuto innocente per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato, oppure perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Chi ha subito una ingiusta detenzione vanta dunque un diritto soggettivo, ossia quello di ottenere un'equa riparazione. Peraltro, chi è stato licenziato dal posto di lavoro che occupava prima della custodia cautelare in carcere e a causa di essa, ha diritto a essere reintegrato. E l'entità dell'indennizzo come si calcola? Non può eccedere la somma di 516.456,90 euro. In genere, i tribunali calcolano circa 253 euro al giorno (più precisamente 253,83 euro), che si ottengono dividendo la cifra complessiva per 2.190 giorni, che corrispondono a sei anni, vale a due il periodo massimo di durata della custodia cautelare in carcere. Giustizia: chiusura degli Opg, chi curerà i "pazzi morali"? di Gilberto Corbellini e Elisabetta Sirgiovanni Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015 È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali. Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180. Il 31 marzo 2015 chiuderanno definitivamente gli ultimi istituti deputati in Italia alla cura e detenzione dei malati psichiatrici criminali: gli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Di "manicomi criminali", come li si chiamava all'epoca della loro istituzione nel 1870, sostenuta dalle teorie di Cesare Lombroso, ne sono rimasti sei: ad Aversa (1876), a Montelupo Fiorentino (1886), a Reggio Emilia (1897), a Napoli (1922), a Barcellona Pozzo di Gotto (1925), a Castiglione delle Stiviere (1939) e a Pozzuoli (1955). Gli Opg rientravano nelle misure di sicurezza controllate dal Ministero della Giustizia per colpevoli di reati gravi che, pur non ritenuti imputabili per le azioni commesse, in quanto diagnosticati infermi di mente, sono pericolosi per la società. Un tempo si definivano "pazzi morali". Perché li chiudono? Nel corso del 2010 una Commissione di inchiesta del Senato, dopo sopralluoghi in queste strutture, che ospitano oggi in tutto 700 pazienti circa, rileva in alcune di esse condizioni di degenza sconcertanti, documentate da video e fotografie: scarsa presenza di personale medico e mezzi, sovraffollamento, degrado strutturale e igienico-sanitario, reclusi in pessime condizioni e privi di supporti educativi o ricreativi. Come nel caso di un paziente tenuto nudo in stato di contenzione, legato con garze e con un evidente ematoma sul cranio della cui causa non c'è traccia nelle cartelle. Ma fu trovato anche un internato che, pur avendo ottenuto dalla magistratura l'autorizzazione al trasferimento, veniva trattenuto per mancanza di struttura territoriale adeguata, o altri due malati con ferite non documentate e vari casi di patologie fisiche non curate. In un video si dichiara di aver conosciuto un malato internato anni orsono solo perché usava vestirsi da donna. La descrizione dell'ospedale di Castiglione delle Stiviere (Mn) nella relazione della commissione, invece, si discosta positivamente dalle altre. Nell'ambito del decreto legge cosiddetto "svuota-carceri" (22 dicembre 2011, n. 211) e sull'onda dell'atmosfera creata dalla condanna dell'Unione Europea per la situazione carceraria in Italia, si decide frettolosamente di far fronte alla situazione con un articolo che subisce rinvii fino all'ultimo (Dl 30 maggio 2014, n. 81) e che impone la definitiva chiusura degli Opg in favore di nuove strutture locali dette Rems (Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria), gestite dalle Regioni e dal ministero della Salute. I pazienti più pericolosi verranno trasferiti nelle Rems, gli altri nei reparti psichiatrici degli ospedali territoriali. A oggi, solo dieci Regioni su venti si dicono pronte a gestire questo cambiamento, il ministero della Salute minaccia il commissariamento per le altre e cresce lo sconcerto tra gli operatori della salute mentale che si sentono impreparati a fronteggiare la situazione. A metterci il carico, le assurde pretese delle associazioni in difesa della chiusura che chiedono l'abolizione anche delle Rems, e la riabilitazione completa degli internati. Il diciannovesimo secolo fu il secolo del "sistema degli asili", quando si consolidò la cura del malato psichiatrico in luoghi specializzati, che costituivano un'evidente evoluzione terapeutica rispetto alla precedente carcerazione. Fu il medico francese Philippe Pinel nel 1793 a iniziare la sua battaglia per la fondazione di questi istituti proprio con un atteggiamento di tipo etico, che intendeva liberare il paziente psichiatrico dalle mostruosità della detenzione come incatenamenti e violenze brutali. Negli anni Sessanta libri come Asylums (1961) del sociologo canadese Erving Goffman o Manicomi come lager (1966) del giornalista italiano Angelo del Boca denunciavano gli orrori dei trattamenti manicomiali, e in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e antiscientifici. Quello che il clima ideologico anti-asili degli anni Settanta ha diffuso in Italia è un ragionamento infondato e insidioso, oltre che ascientifico: collegare l'attenzione etica al paziente neurologico e psichiatrico con l'idea falsa che le malattie mentali non esistano affatto e, in particolare, che non possano essere dannose per chi le ha e per coloro che gli sono intorno. Come accade per qualunque malattia, non tutte le condizioni psichiatriche richiedono interventi o causano gravi sofferenze o predispongono a comportamenti gravemente dannosi per sé o per altri. Ma alcune di esse sì. Le malattie psichiatriche non sono il frutto dell'immaginazione dei clinici o peggio uno strumento di potere e repressione, perché quando è così non si tratta di malattie psichiatriche. Anzi, è proprio chi sostiene che le malattie del cervello esistono e vanno diagnosticate e trattate adeguatamente a ritenere che l'isolamento pressoché carcerario e che le situazioni di svilimento e degrado del paziente sono non solo inaccettabili dal punto di vista etico, ma vanno contrastate perché controproducenti e inutili ai fini della cura e del suo benessere. Aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell'idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri. Non è il caso di cadere negli stessi errori della legge 180, impropriamente chiamata Basaglia e approvata nel clima politico tormentato del 1978, appena quattro giorni prima del rapimento di Aldo Moro. Anche in quel caso la chiusura degli ospedali psichiatrici prevedeva un'organizzazione territoriale dell'assistenza, che è stata valutata negli anni qualitativamente inefficace e inadeguata non solo localmente da chi doveva gestire con scarsi mezzi e risorse le esigenze del settore della salute mentale, ma anche in modo documentato dalla letteratura internazionale. Mescolare pazienti criminali, potenzialmente manipolatori o violenti, ad altri pazienti vulnerabili è in più una scelta azzardata e ingiustificabile, perché i primi necessitano di cure e attenzioni ancora più specifiche, come la psichiatria forense ha insegnato. Giustizia: la chiusura degli Opg spaventa medici e pm "rischi per la sicurezza pubblica" di Paolo Russo La Stampa, 29 marzo 2015 Il 31 marzo l'Italia dice addio ai vecchi manicomi criminali. "Con la nuova legge molti internati pericolosi usciranno". C'è il "cannibale di Pineto", che quattro anni fa tentò di uccidere una donna per poi cibarsene, recluso nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Le mura dell'Opg di Castiglione delle Stiviere custodiscono il "pugile omicida", che ha visto il diavolo mentre massacrava a mani nude una filippina di 41 anni. E c'è la badante ucraina di 33 anni, che quattro anni fa esatti uccise con dieci coltellate l'ottantottenne che accudiva perché "spinta dai vampiri". La diagnosi di schizofrenia l'ha portata dentro le mura dell' Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione, vicino Mantova. Ma tra quattro anni potrebbe tornare in piena libertà. Senza che nessuno tuteli lei e noi. Il perché è contenuto in un codicillo della legge che a partire dal 31 marzo prevede la chiusura degli Opg, come si abbreviano i vecchi "manicomi criminali", con relativa destinazione dei 741 pazienti che ancora ci vivono nelle Rems, le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive. Strutture al massimo da 20 letti, dotate di sistemi anti-evasione. Ma a causa di una norma contenuta nella legge, scrive all'Associazione nazionale magistrati, il giudice del Tribunale di Roma, Paola Di Nicola, "siamo tenuti a revocare le misure di sicurezza per internati pericolosi che abbiano superato il limite massimo della pena edittale". Quella che avrebbero dovuto scontare in carcere se fossero stati in grado di intendere e di volere. A confermare l'allarme è anche la Società italiana psichiatria, la Sip, che pure si è battuta contro gli "ergastoli bianchi" e per la chiusura degli "Opg-lager". "È un pasticcio", ammette il segretario nazionale, Enrico Zanalda, che ci tiene a respingere la formula di "pericolosità sociale". "Ma è chiaro che serve una modifica del codice penale che, in caso di vizio totale o parziale di mente, consenta di detenere e curare in case circondariali le persone più gravi". "L'ipotesi che, quantomeno in un numero limitato di casi, la pericolosità sociale in senso psichiatrico sia legata alle peculiari caratteristiche psicopatologiche non pare essere stata vagliata", rimarcano anche Stefano Ferracuti e Gabriele Mandarelli, rispettivamente psicologo e psichiatra dell'Università la Sapienza di Roma. "La legge - denuncia invece Massimo Cozza, segretario nazionale della Cgil medici e psichiatra- affida ai soli infermieri il compito di accompagnare i sorvegliati dalle Rems agli ospedali quando necessario per una cura e anche questo non sembra un modo di garantire la sicurezza". Non a caso qualche giorno fa A.M., che strangolò la madre a Prato, è fuggito durante un trasferimento. Circa la metà degli internati dovrebbe essere dimessa, dicono all'Associazione "Stop Opg". Gli altri dovrebbero essere accolti dalle Rems. "Per ora solo in Emilia Romagna sono però pronte, in altre nove regioni ci si è limitati ad individuare dove aprirle e altrove non si è fatto nulla", spiega Zanalda. Dove i magistrati dovrebbero far sorvegliare gli internati resta un mistero. In Lombardia una delibera prevede che a Castiglione si cambi targa, passando dalla scritta Opg a Rems. Come dire: "cambiare tutto perché non cambi nulla". Giustizia: Marino "il consiglio d'Europa li definì luoghi di tortura, giusto voltare pagina" di Mattia Feltri La Stampa, 29 marzo 2015 Sindaco Marino, fra quarantotto ore chiudono gli ospedali psichiatrici giudiziari, discendenti dei manicomi criminali. Un orrore che dura dal 1904. Ce l'ha fatta. "Ne sono felice. È stata una battaglia mia e di tanti altri e arriva a compimento. Sono diventato presidente della commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale nel 2008, una di quelle che per prassi vanno all'opposizione. Premier era Silvio Berlusconi. Ma devo dire che si votò ogni passaggio all'unanimità". In quegli anni avete girato tutti gli Opg. "C'erano condizioni di vita spaventose. Ricordo per esempio che nell'Opg di Aversa vidi una bottiglia di plastica nel buco del bagno alla turca. Mi domandai il perché. Cambiai camerata e anche lì c'era la bottiglia nel bagno, e poi una terza. Va bene che sono matti, mi dissi, ma non saranno tutti matti allo stesso modo. Un detenuto mi spiegò - era estate, c'era un caldo soffocante - che era l'unico modo per tenere l'acqua in fresco: non c'era il frigo. E d'inverno la bottiglia serviva per non far salire i topi. Facemmo una scenata alla direttrice". Siete andanti a raccontarlo al Presidente Napolitano. "Fu lui a consigliarmi di fare dei video perché, disse, se non si vede non ci si crede. La commissione cominciò ad andare negli Opg con un regista, Francesco Cordio, che realizzò 13 ore di girato e ne ha ricavato un film, Lo Stato della follia. Tornammo al Quirinale con un dvd di mezzora (si trova su YouTube alla voce Documentario psichiatria Opg, è raggelante, ndr). Ricordo che il presidente inserì il dvd, furono spente le luci e lo guardammo. Quando le luci furono riaccese nessuno fiatò per parecchi secondi. Poi Giorgio Napolitano mormorò "ma come è possibile?". Che ricorda di quelle visite? "Ricordo un uomo nudo, legato polsi e caviglie al letto, con un foro attraverso cui orinare e defecare. Ricordo questo tanfo di escrementi di cui erano intrise le stanze, le lenzuola, le persone. Ricordo un uomo sulla cinquantina che piangeva e diceva papà vienimi a salvare. I detenuti erano legati o intorpiditi da psicofarmaci che erano somministrati ma non prescritti: i medici firmavano le prescrizioni una volta l'anno e si faceva dei medicinali un uso indiscriminato". E voi che facevate? "La commissione aveva poteri equivalenti a quelli del pm, per cui - lo ricorderete - chiudemmo gli ospedali o gran parte di essi. Capitava che in ospedale ci fosse un solo medico, che non ci fosse nemmeno uno psichiatra. E molti detenuti non dovevano essere lì: ricordo uno, a Barcellona Pozzo di Gotto, che nel 1992 aveva fatto una rapina simulando col dito di avere una pistola in tasca. I tre complici furono dichiarati capaci di intendere e di volere e non fecero un giorno di carcere; lui entrò in ospedale psichiatrico e non ne è mai uscito. Lo facemmo dimettere, ma lui non è più in grado di concepire la sua vita lontano da lì, e ci è tornato". E adesso che gli Opg vengono chiusi? "È giusto così. Il Consiglio d'Europa li ha definiti luoghi di tortura. Quando cominciammo il lavoro con la commissione i detenuti erano circa mille e cinquecento. Oggi sono più o meno ottocento. Il 60 per cento di loro torna a casa, ha parenti che li aspetta. Certo, un uomo che era in Opg da anni mi si faceva incontro coi pugni perché era spaventato all'idea della chiusura dell'ospedale. Ma sono casi rari". Ci saranno persone pericolose che verranno liberate? "No. La maggior parte dei detenuti ha commesso reati minori. Per dire: uno era lì perché in crisi d'astinenza aveva distrutto le slot machine di un locale, un altro perché era uscito da un bar ubriaco e aveva resistito alle forze dell'ordine. Da quei luoghi sono stati devastati. Poi, certo, ci sono degli assassini, ma non andranno per strada". E dove vanno? "Ci sono le case famiglia, le comunità. In teoria ogni Regione dovrebbe disporre di nuove strutture, le residenze assistite per i pazienti più delicati". Molte non ne hanno ancora. "Immaginavo. La chiusura degli Opg è stata rinviata più volte per motivi vari e Napolitano si arrabbiò e disse che non avrebbe mai più firmato proroghe. In ogni caso il governo può commissariare tutte le Regioni inadempienti. Il tempo delle parole è finito, quello degli ospedali psichiatrici giudiziari anche". Giustizia: tra due giorni finisce l'era degli Opg, ma non tutte le Regioni pronte Ansa, 29 marzo 2015 Dall'1 aprile 250 internati dimissibili, 450 da trasferire. Dal primo aprile finisce l'era degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): entra infatti in vigore, dopo due deroghe, la legge per il superamento di tali strutture, che l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì, già nel 2012, "un autentico orrore indegno di un paese appena civile". Al posto degli Opg, che sono attualmente sei su tutto il territorio nazionale, ogni Regione dovrà attivare delle strutture alternative non carcerarie, le cosiddette Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) dove saranno gradualmente trasferiti i pazienti internati. Secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, però, sono solo 10 le Regioni davvero pronte a far fronte alla riforma e che hanno organizzato le strutture alternative di ricovero. C'è dunque, come prevede la legge, un probabile rischio commissariamento per le regioni inadempienti. Al momento il Veneto, ma anche il Piemonte, presentano le situazioni "più critiche in relazione ad un'ipotesi di eventuale commissariamento", come ha affermato il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo. Ad oggi sono 704 gli internati negli attuali sei ospedali psichiatrici giudiziari attivi, di questi circa 250 sono considerati dimissibili al primo aprile ma potranno di fatto essere dimessi solo se vi sarà una presa in carico da parte delle strutture territoriali. Gli altri 450 internati dovranno invece essere trasferiti gradualmente nelle Rems, gestite dal servizio sanitario nazionale, in base alla provenienza, tornando dunque nelle regioni d'origine. I trasferimenti avverranno sulla base di provvedimenti della magistratura e di precisi programmi terapeutici. Ogni Regione è dunque chiamata per legge a rendere operative le Rems, che non saranno più strutture carcerarie in senso stretto ma finalizzate alla riabilitazione dei pazienti internati. I sei Opg ancora attivi sono localizzati in cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Tra questi l'Opg di Castiglione delle Stiviere si trasformerà in struttura Rems, mentre gli altri Opg potrebbero - una volta concluse le operazioni di trasferimento degli internati - essere destinati ad altro uso. Intanto, è stato deciso che al tavolo di coordinamento per il superamento degli Opg, attivato presso il ministero della Salute, parteciperanno anche magistrati di sorveglianza nominati dal ministero della Giustizia. L'obiettivo è quello di individuare soluzioni efficaci ed omogenee sul territorio nella fase attuativa della normativa. Dal momento che non tutte le Regioni hanno infatti ancora attivato le Rems, una delle criticità che saranno monitorate dal tavolo e dai magistrati di sorveglianza è appunto il rischio che i pazienti internati provenienti da regioni che non hanno attivato le Rems al primo aprile, come previsto dalla legge, possano gravare totalmente su regioni limitrofe che abbiano invece già attivato le strutture alternative. Giustizia: Amanda e Raffaele, il principio della "iuris-prudentia" della Cassazione di Vincenzo Vitale Il Garantista, 29 marzo 2015 La Suprema Corte ha affermato il principio della "iuris-prudentia", cioè del senso del limite quando si tratta di reati cosi importanti. E così la Corte di Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall'omicidio della giovane Meredith Kercher, dopo circa otto anni di processi e sentenze. Soltanto gli sprovveduti - cioè coloro che non son provvisti di senso del diritto - possono restarne sorpresi, immaginando chissà quali contorsionismi giuridici. In realtà, la Cassazione ci ha impartito una lezione di prudenza giuridica - la quale, peraltro, non fa male nel nostro tempo caratterizzato da una eccessiva disinvoltura - ricordando a tutti appunto che quando si tratta di giudicare essere umani per delitti così gravi, ciò che occorre è la "iuris-prudentia", vale a dire il senso del limite. Infatti, la cosa più importante del diritto, ciò che lo fa essere indispensabile per la coesistenza umana, non è tanto il comando - ciò che va fatto -quanto il divieto - ciò che non può mai essere permesso, vale a dire, appunto, il limite: in linea teorica, un codice di soli divieti sarebbe preferibile ad uno di soli comandi, perché è più importante vietare l'omicidio o di passare con il rosso, che imporre di pagare la tassa di circolazione (indipendentemente da ciò che si comandi o si vieti). Ebbene, la Cassazione ha mostrato come si possa e in che senso si debba rispettare il senso del limite, proprio annullando la sentenza di condanna emessa a carico dei due giovani e, soprattutto, evitando di rinviare ad altro giudice per la prosecuzione del processo. È come se la Corte avesse implicitamente detto che non è giuridicamente possibile processare sei o sette volte gli stessi imputati per lo stesso fatto, provocando una girandola inesplicabile di assoluzioni e condanne che si susseguono l'una dopo l'altra, ma prive di un senso riconoscibile e fondato. Proprio così. Qualcosa del genere accadde anni or sono con Adriano Sofri, assolto, condannato, poi ancora assolto e poi condannato in una sorta di capriccioso giuoco dell'oca durato per una dozzina di processi e alla fine del quale c'era una sola certezza: che cioè nessuno ci capiva più nulla. Nel senso che non si capiva più che ci fossero prove reali per condannare o per assolvere e che perciò, come è necessario fare, bisognava assolvere: cosa che allora non fu fatta e ne ebbero rimorso tutti, perfino coloro che si battevano per una condanna. Prova ne sia che si premurarono a trovare il sistema di metterlo fuori, ma con poco costrutto umano e giuridico: poco del primo, perché comunque una condanna assai dura ne colpiva l'anima e l'immagine pubblica; poco del secondo, perché la sollecitudine per consentirgli di star fuori dalle mura del carcere strideva con la pesantezza della pena inflitta. Oggi, invece e per fortuna, la Cassazione ha saputo porre un freno ad una simile deriva processuale, annullando la condanna dei due giovani senza alcun rinvio, cioè senza che si possa ancora rimestare quella che in senso proprio è soltanto aria fritta. In questa prospettiva, si comprende bene perché anni fa il governo Berlusconi aveva sancito la non appellabilità, da parte delle Procure, della sentenza di assoluzione di primo grado: perché se un collegio di giudici - anche uno soltanto - dichiara l'imputato innocente, anche se un altro collegio lo ritenesse colpevole, non per questo il dubbio residuo ne permetterebbe la condanna. Tuttavia, urgono anche altre brevi riflessioni. Bisogna chiedersi come siano state svolte nel caso in esame le investigazioni tecnologiche dei primi momenti: probabilmente male, malissimo, tanto da far revocare in dubbio i risultati conseguiti. Non solo. Da qualche anno a questa parte, si diffonde l'idea che le indagini tecnologiche siano autosufficienti, bastevoli a sé, capaci di far tutto comprendere e tutto giudicare. Che non sia così è sotto gli occhi di tutti: anche se non tutti lo ammettono, spesso gli esiti delle indagini scientifiche si presentano ambigui, suscettibili di letture diverse o contrapposte. Non sarebbe male allora usare la sana logica induttiva e deduttiva, vale a dire la capacità di ragionare quale antidoto contro gli stalli delle prove scientifiche. Bene allora ha fatto la Cassazione. Non semplicemente perché ha assolto Sollecito e la Knox. Ma perché ha mostrato che non li si poteva in alcun modo condannare. Giustizia: Amanda e Raffaele, una sconfitta della magistratura inquirente di Astolfo Di Amato Il Garantista, 29 marzo 2015 Si è ormai affermata l'idea che chi ha un ruolo pubblico può fare quello che vuole. La Corte di Cassazione ha assolto. Ha così messo la parola fine ad una vicenda che da otto anni appassiona l'opinione pubblica. E corretta la decisione della Cassazione? Su questo interrogativo innocentisti e colpevolisti continueranno a discutere, essendo i primi certamente avvantaggiati dalla decisione della Suprema Corte. Quell'interrogativo sarà posto, man mano che il tempo passa, con sempre minore frequenza, sino a scomparire. A quel punto il caso sarà chiuso anche nella coscienza sociale e si discuterà di un nuovo caso. Resterà, perciò, ancora una volta inevaso un aspetto centrale del processo penale e, prima ancora, del rapporto tra stato e cittadino. Le indagini che hanno portato Amanda e Raffaele davanti ai giudici sono state condotte bene? E cioè con intelligenza, con scrupolo, con rispetto anche sostanziale dei diritti degli imputati e della vittima? Gli investigatori hanno agito senza schemi preconcetti, cercando la verità con mente sgombra? O vi sono state forzature per giungere ad una verità "intuita" e che necessitava di conferme, che inevitabilmente sono state trovate? Insomma, lo Stato accusatore, prima ancora che lo Stato giudice, ha fatto il suo dovere? E se non ha fatto il suo dovere, nel caso in cui dovesse emergere che le indagini sono state pasticciate, qualcuno ne sarà responsabile? Si tratta di interrogativi che si pongono a monte del quesito se Amanda ed il suo fidanzatino dell'epoca fossero innocenti o no. Ed è un interrogativo di portata generale e che da molto tempo è trascurato. È, ormai, passata l'opinione che chi, rivestendo un ruolo pubblico, mette in croce gli altri fa il suo dovere. L'importante è che non sia corrotto. Così, in forza dei suoi poteri può calpestare le regole più elementari, proporre interpretazioni del tutto inusuali, essere poco diligente nella valutazione degli elementi che ha a disposizione, mettere in croce, come si dice con espressione corrente, gli altri, sarà un benemerito. Con tutte le conseguenze in termini di carriera e di pubblici riconoscimenti. La regola, non scritta ma costantemente osservata, che chi mette in croce gli altri, nell'esercizio di un pubblico potere, non ha mai responsabilità è una delle ragioni del degrado del nostro paese. Da un lato, questa situazione legittima gli abusi ed ingenera una situazione di costante incertezza sui propri diritti, se ci sono. Favorisce, poi, quella stessa corruzione che spesso i tormentatori affermano di voler combattere. Si pensi, per fare un esempio, a certi controlli in materia ambientale, fiscale, di sicurezza del lavoro, palesemente strampalati, che hanno come solo effetto di opprimere i cittadini, che dopo molti anni vedranno riconosciute le loro ragioni, e di ridurre ulteriormente la credibilità delle istituzioni. Ha senso che gli autori di tali controlli, gli investigatori che non sanno fare il loro mestiere possano fare una brillante carriera, siccome meritevoli di aver adempiuto al compito di mettere in croce il prossimo? Il caso di Amanda e Raffaele si presta a questa riflessione, perché sin dall'inizio sono stati sollevati molti rilievi, anche dagli osservatori esteri, circa l'efficienza e l'adeguatezza del nostro sistema investigativo. Ma costituisce lo spunto per una riflessione più generale. Che non può restare inevasa, se davvero si vuole che nel nostro paese la parola democrazia non abbia un significato mutilato. Il penalista Gamberini: 5 gradi di giudizio? Ragione vince su cultura inquisitoria Cinque gradi di giudizio, un'altalena di decisioni fatte di assoluzioni e condanne, rinvii su rinvii, per arrivare alla definitiva assoluzione degli imputati. "Non siamo davanti ad una sconfitta del giudice ma ad una vittoria della ragione su una cultura inquisitoria che non ha più ragione d'essere". Alessandro Gamberini, docente di diritto penale all'Università di Bologna, il penalista che ha difeso Adriano Sofri, riflette sull'avvicendamento dei gradi di giudizio che dopo otto anni dal delitto di Meredith Kercher, a Perugia, hanno portato, ieri sera, la Cassazione a mettere la parola fine al caso, con un'assoluzione con formula piena per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, i due giovani che nell'appello bis erano stati condannati a 28 e 25 anni di reclusione per l'omicidio della studentessa inglese. "L'altalena di giudizi deriva dal fatto che nella nostra cultura inquisitoria, il giudice ritiene che l'arrendersi al dubbio sia una sconfitta. Ma non è così. Se esiste un dubbio, se non c'è la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, non si può mandare in carcere nessuno". A modo di vedere del penalista, il secondo giudizio della Cassazione (diverso da quello arrivato nel 2013 con cui la stessa Suprema Corte aveva annullato l'assoluzione accordata ai due giovani, disponendo un appello bis) "solo in apparenza contraddice il primo. Quale che sia la ragione, sta di fatto che i giudici hanno rilevato che esiste il dubbio". Il penalista Migliucci: fino a 500mila euro per Amanda e Raffaele Per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, dopo l'assoluzione definitiva della Corte di Cassazione, "è molto facile che si arrivi al massimo dell'indennizzo riconosciuto per l'ingiusta detenzione, che è pari a 500 mila euro. Questo anche in base al solo criterio di calcolo numerico, al quale è da sommare sicuramente una serie di elementi aggiuntivi". Ne è convinto leader dei penalisti italiani, Beniamino Migliucci che, all'indomani della sentenza che ha chiuso il caso dell'omicidio di Meredith Kercher, spiega come funziona la richiesta di risarcimento, annunciata dai legali dei due giovani, qual è l'iter e quali sono i parametri in base ai quale si calcola la cifra erogata. Intanto, chiarisce Migliucci, "non è un risarcimento ma un'indennità, i cui termini sono prefissati, fino a un massimo appunto di 500 mila euro. Non si tratta di risarcimento perché il danno subito potrebbe anche essere superiore". In presenza di "disomogeneità delle decisioni in materia, la Cassazione ha cercato di dare un criterio, proprio perché non era un risarcimento ma un indennizzo, e ha stabilito che, essendo 6 anni il massimo della custodia cautelare, si dividessero i 500 mila euro per i corrispondenti giorni arrivando a una cifra per ciascun giorno di ingiusta permanenza in carcere". "Questo parametro - spiega il penalista - può essere integrato sulla base di sofferenze aggiuntive: se la persona ha perso il rapporto con la famiglia, con la società, con il mondo del lavoro; può esserci una malattia o anche il danno subito da una sovraesposizione mediatica, determinata non dal processo ma proprio dalla carcerazione, che può aver avuto un effetto negativo nella vita futura". Il discorso vale per entrambi, nonostante Amanda abbia avuto una condanna a tre anni per calunnia e dunque rispetto ai 4 anni trascorsi in carcere "ci sarebbe solo un anno in più, e comunque - sottolinea Migliucci - non è detto che la pena per calunnia dovesse essere scontata in carcere e non, ad esempio, con l'affidamento in prova ai servizi sociali". Quanto alla strada da seguire, il presidente delle Camere penali ricorda che "gli avvocati difensori devono proporre un'istanza alla Corte d'Appello di Perugia per ingiusta detenzione. La corte valuta tenendo presente il singolo caso: c'è un'udienza, nella quale prende posizione la procura e può farlo anche l'Avvocatura dello Stato; poi, esaminati tutti gli elementi, dà la sua valutazione di merito sull'entità della somma. E sulla decisione è possibile ricorrere in Cassazione". Giustizia: "Sono una vittima!"… e spara fuori dal teatro che ospita il ministro Orlando di Consolato Minniti Il Manifesto, 29 marzo 2015 Prima gli spari, poi le urla: "Sono una vittima del sistema giustizia". Ha percorso tanta strada il 61enne Fausto Bortolotti, per raggiungere Reggio Calabria, dalla sua Ventimiglia. Centinaia di chilometri per impugnare una pistola calibro 7,65 ed esplodere in aria due colpi, a pochi metri dal teatro Cilea, dove era in corso il congresso nazionale di Magistratura democratica, che ieri ospitava anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Sono stati proprio gli uomini della scorta del Guardasigilli a bloccare l'uomo, prima che potesse fuggire a bordo della sua auto parcheggiata davanti al teatro. Tutto è accaduto nelle prime ore del pomeriggio di ieri, quando Bortolotti è arrivato su una Suzuki rossa e si è appostato su corso Garibaldi, cuore del centro storico di Reggio. Lì, secondo il racconto di alcuni testimoni, è rimasto per diversi minuti. All'improvviso, pare abbia aperto il finestrino della sua auto, ha estratto una pistola calibro 7,65 e ha fatto fuoco. Sono stati momenti di autentico terrore per chi si trovava fuori dal teatro. Le forze dell'ordine si sono allora avventate sull'uomo che, nel frattempo, ha tentato di far perdere le tracce. Frangenti concitati terminati con l'arresto di Bortolotti, caricato su una gazzella dei carabinieri e trasferito al comando provinciale dell'Arma. In pochi minuti la via centrale di Reggio Calabria ha visto arrivare sirene e lampeggianti. Sul posto anche gli uomini della polizia scientifica, che hanno transennato una porzione del corso Garibaldi e iniziato a raccogliere i rilievi. Sull'asfalto i due bossoli esplosi dalla calibro 7,65, prelevati per i successivi accertamenti tecnici. Dentro il Cilea, invece, i lavori sono proseguiti regolarmente. Anche l'intervento del ministro Orlando è scivolato via senza intoppo alcuno. Si è parlato di giustizia, riforme, lungaggini e criticità. Ed è proprio a quel "sistema" che Bortolotti sembra aver fatto riferimento poco dopo il folle gesto. I primi approfondimenti consentono di tracciare un identikit del 61enne. Nato a Cene, in provincia di Bergamo, è residente a Ventimiglia. Dagli archivi viene fuori che il suo nome non è nuovo alle forze di polizia. Bortolotti, infatti, ha precedenti per reati contro il patrimonio. Rimangono, però, da chiarire le ragioni per le quali abbia scelto di arrivare sino a Reggio Calabria per compiere un gesto così plateale. Interrogato dai carabinieri, non avrebbe fornito alcuna spiegazione plausibile. Un altro nodo da sciogliere è quello dell'arma. Gli esami balistici sulla 7,65 consentiranno di conoscere la provenienza della pistola e se questa sia stata utilizzata in altri fatti criminosi. Secondo gli investigatori, Bortolotti avrebbe vissuto gli ultimi giorni dentro la sua autovettura e, al momento dell'arresto, il suo tasso alcolemico sarebbe stato oltre la soglia consentita. Poco prima di lasciare Reggio Calabria, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è complimentato con le forze dell'ordine per la tempestività dell'intervento: "Dico loro grazie non tanto per la mia incolumità, quanto per la sicurezza delle altre persone, visto che gli spari sono avvenuti in una strada in pieno centro". E ha concluso: "Si tratta del gesto di uno squilibrato". Poco dopo, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha telefonato al collega per esprimere "affettuosa vicinanza", per un "gesto gravissimo, qualunque sia stato il movente". Lettere: la giostra della giustizia per un delitto senza castigo di Michele Ainis Corriere della Sera, 29 marzo 2015 Il processo sull'omicidio di Meredith Kercher, con il suo esito finale raggiunto venerdì, lascia frustrati. Perché la vicenda giudiziaria s'è svolta a passo di lumaca; perché ci sono vittima e reato, ma l'unico condannato - Rudy Guede - lo è stato per omicidio "in concorso" non si sa con chi; per i molti verdetti contrastanti. In questa sconfitta della giustizia risiede però anche la sua vittoria. Per trovare la giustizia bisogna esserle fedeli, diceva Calamandrei: come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede. Dopo l'ultima vicenda giudiziaria, difficilmente questa Dea guadagnerà nuovi proseliti. Perché il processo sull'omicidio di Meredith Kercher sconcerta anzitutto per i numeri, capricciosi come quelli del lotto. Quasi 8 anni per risolverlo, 5 giudizi, 2 sentenze opposte delle Corti d'assise di Perugia e di Firenze, 3 interventi della Cassazione. Appelli e contrappelli, mentre intanto quel processo diventava un caso internazionale, con americani e inglesi a fare il tifo gli uni contro gli altri. E mentre s'accendeva l'attenzione pubblica, con 2 film, 9 libri, migliaia di resoconti sui giornali. Quattro anni trascorsi in una cella per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, i presunti colpevoli. Infine la loro assoluzione: delitto senza castigo. O meglio con un mezzo castigo, giacché nel frattempo era stato condannato in via definitiva Rudy Guede, per "concorso in omicidio". Ma con chi concorreva il concorrente? Vattelappesca. Da qui la frustrazione che ci lascia in corpo la vicenda. Perché intanto si è consumata a passo di lumaca; e la giustizia tardiva è sempre una giustizia negata, come recita una massima della Corte suprema statunitense. Perché in secondo luogo c'è la vittima, c'è il reato, ma non c'è invece il reo. Perché in terzo luogo i giudici ci hanno somministrato un ping pong di verdetti contrastanti, e chissà se ne hanno scritto almeno uno veritiero. Eppure in questa sconfitta della giustizia risiede altresì la sua vittoria. Il vero e il falso, ahimè, albergano in un nido d'ombra. E la verità giudiziaria non è meno opinabile della verità storica, filosofica, scientifica. Ecco perché ogni sentenza può venire ribaltata dalla sentenza successiva: per controllarne prove ed argomenti, per ottenere, se non la verità, almeno una verifica. Ma quest'esame non può rimbalzare all'infinito, a scapito della certezza del diritto. L'ultima sentenza diventa perciò definitiva, giusta o sbagliata che sia. Ed è esattamente qui il bene giuridico e civile che ci ha offerto la Cassazione: ha scritto la parola fine a questa storia, o quantomeno alla storia di Amanda e Raffaele. Che poi siano davvero innocenti lo sapranno solo loro, insieme al Padreterno. Noi, però, almeno una cosa la sappiamo. Sappiamo che in Italia il riesame giudiziario è come la tela di Penelope. Troppi appelli, troppi rimpalli da una Corte all'altra. È questo accanimento nella ricerca d'una verità impossibile che scuote la fiducia popolare in giudici che si contraddicono a vicenda, che allunga a dismisura i tempi delle loro decisioni, che brucia i processi con la prescrizione. Altrove non è affatto una regola scolpita sulla pietra. In Spagna, nel Regno Unito, in Germania, in Francia, l'appello viene consentito solo in casi circoscritti. Negli Usa ne hanno pieno diritto unicamente i condannati a morte. Laggiù, del resto, la Corte suprema riceve 80 casi l'anno; la nostra Cassazione ne assorbe 80 mila. Eppure l'antidoto verrebbe in mente anche a un bambino: se un tribunale ti dichiarerà innocente (come accadde nel 2011 per Amanda e Raffaele), nessun altro tribunale avrà più di che dichiarare. Fine della giostra. Sicilia: scompare il Garante regionale dei diritti dei detenuti, ora la decisione è ufficiale di Damiano Aliprandi Il Garantista, 29 marzo 2015 La notizia non sorprende vista la mancata nomina da oramai due anni, ruolo ricoperto sino al 2013 dall'ex senatore Salvo Fleres. In Sicilia scompare definitivamente la figura del garante dei detenuti. La notizia non può però sorprendere vista la mancata nomina di un garante da oramai due anni. Ora è ufficiale perché la nuova Finanziaria ha definito il ruolo dell'ufficio per diventare una branca dell'assessorato regionale alla Famiglia. Istituita nel 2005, con legge regionale, la figura del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, è stata ricoperta sino al 2013 dall'ex senatore Salvo Fleres. In sette anni di effettiva attività sono state esitate oltre 20 mila pratiche, senza contare le denunce, i ricorsi, le ispezioni all'interno delle carceri, la riapertura di processi archiviati erroneamente come suicidi, e i numerosi esposti per le condizioni inumane e il mancato rispetto dei diritti dei detenuti. Battaglie portate avanti dall'ufficio e che, per i tempi della giustizia, non sono ancora tutte concluse. E in questi due anni di mancata nomina del garante, le lettere di denuncia - indirizzate all'ufficio - non erano diminuite. Anzi, sono ne sono state centinaia e ancora giacciono sugli scaffali. "Quelle indirizzate al Garante non possono essere aperte, se non dal Garante, che di fatto non c'è - precisa Gloria Cammarata, funzionario direttivo assegnato all'ufficio del Garante dei detenuti - quelle indirizzate all'ufficio sono state aperte, ma nessuno può rispondere. Al loro interno, richieste d'aiuto per il trattamento ricevuto, denunce di abusi, e ingiustizie subite dai carcerati e chissà cos'altro". L'ufficio ha all'attivo due dipendenti a Palermo e quattro nella sede di Catania, dipendenti che negli anni hanno acquisito competenze specifiche nel settore (c'è chi, ad esempio, ha frequentato a spese proprie master e corsi di specializzazione) che adesso la Regione dovrà rimodulare e assegnare ad altri uffici. Stipendi, affitto dei locali e spese di gestione: la Regione, per questi due anni ha sborsato una cifra esorbitante per tenere in vita un ufficio "fantasma", reso improduttivo proprio a causa della mancata nomina del Garante da parte del governatore Rosario Crocetta. Costi che, adesso, non verranno però né ammortizzati né ridotti in nessun modo. I dipendenti regionali saranno riassegnati ad altri uffici e i locali resteranno comunque a disposizione della Regione, per cui continuerà a pagare il canone di locazione. In realtà a denunciare la situazione per primi sono stati i radicali tramite la segretaria Rita Bernardini, la quale non aveva parlato solo di danno economico, ma anche di scarso senso civico: "Abbiamo presentato una denuncia contro il presidente Crocetta alla Corte dei conti - disse Bernardini - per danno erariale perché non solo si comporta in maniera illegale per non avere nominato il Garante dei detenuti, ma in più spende 500 mila euro l'anno per gli uffici di Catania e Palermo in cui i dipendenti si girano i pollici perché non hanno niente da fare". Poi la Bernardini aggiunse: "In questi uffici addirittura, e questo è cosa gravissima, non aprono nemmeno le lettere di denuncia presentate dai detenuti. C'è un'omissione molto grave che va al di là del danno erariale". Ma oggi la storia si è conclusa con la definitiva scomparsa del garante dei detenuti in Sicilia. Chi si occuperà dei ristretti e che fine faranno le centinaia di lettere oramai impolverate dove in ognuna di esse c'è un grido di dolore? La figura del Garante è importantissima. Il Garante (o difensore civico o ombudsman) è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 con il compito principale di sorvegliare l'applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali, nella seconda metà dell'Ottocento si è trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. Oggi questa figura, con diverse denominazioni, funzioni e procedure di nomina, è presente in 23 paesi dell'Unione europea. In Italia è stata istituita la figura di un Garante nazionale per i diritti dei detenuti però ancora non è stato nominato, nel frattempo esistono Garanti regionali, provinciali e comunali, le funzioni dei quali sono definite dai relativi atti istitutivi. I Garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all'autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. I Garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli art. 18 e 67 dell'ordinamento penitenziario. Sardegna: Mura (Pd): no ad arrivo 92 mafiosi nell'isola, scelta inopportuna e pericolosa Dire, 29 marzo 2015 Una interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando per sapere "quali misure intenda adottare per far sì che il trasferimento nelle carceri della Sardegna di 92 detenuti sottoposti al regime del carcere duro non aggravi le condizioni sociali ed economiche di una terra che, anche attraverso il peso delle servitù militari, non può farsi carico da sola di problemi ed emergenze nazionali". Così la deputata del Pd Romina Mura, che chiede al Guardasigilli un passo indietro sulla decisione di trasferire in Sardegna "poco meno di un terzo dei ristretti considerati più pericolosi in Italia" facendoli arrivare nell'isola prima dell'estate nelle due case circondariali di Sassari-Bancali e Cagliari-Uta. "Il trasferimento nell'isola di un numero così elevato di detenuti pericolosi, sottoposti al regime del carcere duro è inoltre inopportuno e pericoloso per l'ambiente sociale e la sicurezza dei due istituti di pena", chiarisce Mura, che sottolinea anche una "brusca accelerazione" dei lavori del penitenziario di Sassari-Bacali proprio per permettere l'arrivo prima dell'estate di detenuti sottoposti al regime detentivo di isolamento previsto per i reati di terrorismo, eversione, ndrangheta e mafia. E questo "nonostante le polemiche sulla concentrazione di 184 detenuti al regime di 41-bis suddivisi tra Cagliari e Sassari". Secondo Mura "il regime ‘durò applicato potrebbe negativamente incidere sul clima generale della detenzione e si profila anche il rischio di limitare le iniziative finalizzate al recupero sociale e rieducativo dei reclusi. Anche la necessaria presenza dei Gom, il reparto della Polizia penitenziaria istituito nel 1999 che opera alle dirette dipendenze del capo del dipartimento per i compiti relativi alla custodia della detenzione speciale - continua Mura - potrebbe trasformare profondamente la realtà dei due luoghi di pena, da poco inaugurati e ancora in fase di rodaggio, dove l'umanità degli assistenti penitenziari è un tratto caratteristico". Veneto: la Regione unica senza un piano per il dopo-Opg, ricoverati "scaricati" in Emilia di Franco Giubilei La Stampa, 29 marzo 2015 "Chiusura" è una parola grossa: diciamo che l'Opg di Reggio Emilia, dove sono rinchiuse circa 140 persone con problemi psichiatrici, si avvia verso un graduale ridimensionamento. Si tratta di 90 internati non punibili per i loro reati in quanto incapaci di intendere e di volere, ma comunque ritenuti socialmente pericolosi - provenienti da Emilia Romagna, Veneto, Friuli, Trentino Alto Adige e Marche, che dovrebbero beneficiare della nuove sistemazioni alternative al carcere. A questi si aggiungono altri 50 detenuti comuni affetti da infermità mentale che resteranno comunque nel reparto speciale dell'istituto reggiano finché non avranno scontato la loro pena. Di certo saranno spostati in speciali residenze già ultimate dalla regione Emilia Romagna - due strutture da 14 e 10 posti situate a Bologna e nel Parmense - i 24 internati emiliano-romagnoli del primo gruppo. Già, perché la legge prevede che ogni regione provveda al reinserimento dei propri malati, ma mentre le Marche, il Trentino Alto Adige e il Friuli hanno già presentato i loro programmi, il Veneto non ha niente di pronto per i suoi 40 pazienti e rischia il commissariamento: l'assessore alla salute Coletto ha già detto che "noi i malati di mente giudicati pericolosi non li metteremo in lager improvvisati e insicuri, per rispetto della loro dignità e per la tranquillità sociale dei territori". Sede definitiva e progetto, aggiunge l'assessore veneto, sono stati individuati, ma "anche partendo oggi con le procedure, occorreranno fra due e quattro anni per vedere l'opera realizzata". Fino ad allora, salvo che non si trovino altre soluzioni e sempre che il governo non nomini un commissario, i 40 malati veneti resteranno nell'Opg di Reggio. Per i pazienti emiliani tutto sembra filare per il verso giusto: "Abbiamo realizzato due strutture sanitarie residenziali a Bologna e in provincia di Parma - spiega Mila Ferri, responsabile dei servizi di salute mentale della regione: hanno stanze da uno o due letti, con un sistema di telecamere di sorveglianza e rete perimetrali più alte, sul modello dei presidi psichiatrici di diagnosi e cura. Gli infermieri saranno presenti 24 ore su 24 e all'interno agirà un'équipe formata da medico, psicologo ed esperti di riabilitazione. Il protocollo siglato con le prefetture prevede le modalità di intervento delle forze dell'ordine in caso di fuga o di tensioni particolari all'interno delle residenze. Noi non abbiamo competenza di pubblica sicurezza, ma solo sanitaria". Il trasferimento dei malati nelle nuove residenze, le Rems, avverrà gradualmente. L'ex manicomio criminale intanto continuerà a funzionare e don Daniele Simonazzi, cappellano dell'Opg di Reggio da 25 anni, continuerà a battersi per renderlo più dignitoso come ha fatto finora: "Il problema qui è la struttura fatiscente e le condizioni difficili in cui vivono gli ospiti, difficoltà testimoniate dal fatto che moltissimi operatori presentano domanda di trasferimento. Quelli che resteranno dentro continueranno a soffrire molto, ma non si può far finta che non esistano". Piemonte: ex internati nell'ex ospedale civile di Biella, ma scoppia la polemica con Torino di Giuseppe Buffa La Stampa, 29 marzo 2015 Corridoi da "Shining", carrozzelle abbandonate, vecchi letti senza materasso. È qui, all'ex ospedale Degli Infermi di Biella, svuotato quattro mesi fa, che potrebbero arrivare i detenuti psichiatrici del Piemonte. Sono 43, sparsi fra i morenti "Opg" d'Italia. L'idea è di Antonio Saitta, assessore regionale alla Sanità, che poi frena un po': "Solo un'ipotesi, per ora". Ma a Biella c'è spazio, e proprio in provincia, a Bioglio, dovrebbe nascere una delle due "Rems" del Piemonte (l'altra è nell'Alessandrino): sono le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, che sostituiranno gli ospedali giudiziari. Quella di Bioglio non solo non è pronta, ma forse è ancora da finanziare: "Sulle Rems siamo in ritardo - ammette Saitta. La giunta regionale precedente aveva ottenuto 12 milioni per creare le strutture di Alessandria e Bioglio. Ma quando io sono arrivato alla guida dell'assessorato questi soldi non c'erano". Morale: bisogna trovare "una soluzione immediata" per risolvere un problema che sta avanzando velocemente. Senza lo spettro del commissariamento, però, agitato dal ministero della Salute: "Il Piemonte non ha bisogno di un commissario, cioè di qualcuno che ci trovi una soluzione. Ci pensiamo noi". Una "proroga fino all'autunno", invece, secondo Saitta è indispensabile, perché se i detenuti psichiatrici arrivano dopodomani non si sa dove metterli. Neppure a Biella, che deve preparare il terreno e avere la conferma di essere stata scelta come "Rems" provvisoria. I malati sarebbero ospitati nell'ex reparto psichiatrico, che è in una palazzina isolata del vecchio palazzone dello storico "Degli Infermi". È vuota dalla fine di novembre, quando l'intero ospedale ha traslocato nella nuova sede di Ponderano, e dev'essere adattata per poter accogliere i detenuti. Non è neanche detto che tutti i 43 pazienti piemontesi finiscano a Biella: l'assessore Saitta ha infatti parlato dell'ipotesi di dividerli in due gruppi. E ha messo subito le mani avanti: "Quella dell'ex ospedale sarebbe una sistemazione provvisoria, in attesa che sia definitivamente pronta la residenza di Bioglio. Ma bisogna vedere comunque quali saranno le reazioni della città. Non voglio certamente scatenare una guerra. Sto cercando comunità capaci di capire che dobbiamo risolvere un importante problema sociale". Il vecchio ospedale è in pieno centro, ma il sindaco Pd Marco Cavicchioli l'ha presa bene, spiegando che l'arrivo dei malati ex Opg sarebbe "un'opportunità": "Se si fanno le cose bene e si garantisce la massima sicurezza, la Rems potrebbe ridare un senso a un immobile svuotato e oggi privo di ogni funzione". Possibilista sulla questione Rems anche la Lega Nord, molto più crucciata e preoccupata dall'arrivo (annunciato) di altri 228 profughi: chiede "garanzie di sorveglianza", ma considera "adeguato" il casermone dell'ex ospedale Degli Infermi. Meno tenero, invece, il centrodestra, con Fratelli d'Italia che spara cannonate contro il capoluogo di regione: "Biella non è una colonia torinese, tantomeno una colonia penale per ristretti psichiatrici - dice il consigliere comunale Andrea Delmastro. Se il sindaco si schiera al fianco dell'assessore regionale Saitta e del Pd torinese, il danno per la città sarà incalcolabile". Basilicata: chiusura degli Opg, domani la Regione inaugura la sua Rems nel materano Adnkronos, 29 marzo 2015 Le Rems, Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza previste nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, rappresentano "un nuovo approccio alla patologia psichiatrica. Nel passato i pazienti venivano internati e il tutto ha consegnato in Europa una immagine poco edificante". Lo ha affermato il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, durante una conferenza stampa presso la sede della Rems di Tinchi di Pisticci che sarà inaugurata lunedì 30 marzo. Il governatore lucano ha illustrato le caratteristiche della Rems e gli investimenti in strutture e arredi realizzati dall'azienda sanitaria di Matera su finanziamento regionale. "Restituiamo questa struttura a un utilizzo - ha sottolineato il governatore - perché recuperiamo una sfida, quella dell'approccio alle patologie psichiatriche, che non abbiamo ancora vinto. Oggi aggiungiamo un tassello. Soltanto un contesto di reinserimento sociale può essere di aiuto. Questo non è né un carcere né un ospedale. È un luogo in cui persone si ritrovano a mo' di famiglia e vivono il loro approccio in compagnia. Dobbiamo garantire il percorso terapeutico di prima diagnosi, stabilizzazione e programma terapeutico. Poi si va al percorso di riabilitazione". "L'uomo è al centro di questa vicenda nella sua drammatica esistenza - ha osservato ancora Pittella - Poi c'è un tema relativo alla sicurezza che va inserito in un contesto più articolato. La sicurezza sta dentro un percorso che rassicura le persone malate accompagnandole alla rieducazione. Questo è un esempio di pratica della cultura garantista. Abbiamo colto una sfida che questo tempo ci consegna", ha proseguito il presidente ringraziando tutti gli attori che hanno contribuito alla realizzazione della Rems: "Persone che hanno saputo interpretare bene il loro tempo. Abbiamo assunto Tinchi come emblema di un cambio di fronte. Vogliamo far seguire alle intese raggiunte i fatti". "Il Comune di Pisticci ha sposato il progetto che ha voluto la prima Rems in Italia insieme all'Emilia Romagna - ha evidenziato il direttore generale dell'Asm, Pietro Quinto - Dopo il superamento dell'Opg sono nate strutture come questa che servono a riavviare i ricoverati verso la fase finale di espiazione della pena. Un ringraziamento va a tutta la struttura tecnica che in 101 giorni consegna un'opera di eccellenza, tra l'altro costata poco. La Basilicata si segnala ancora una volta per un uso appropriato delle risorse a servizio dei cittadini". Alla conferenza è intervenuta l'assessore regionale alle Politiche per la persona Flavia Franconi: "Si tratta una struttura bella - ha detto in merito alla Rems - che assolve agli obblighi di legge che prevedono il superamento degli Opg. È stata un'impresa raggiungere l'obiettivo in 10 mesi e 22 giorni. È stata una velocità ottenuta in sinergia tra amministrazioni. Ringrazio i lavoratori e le loro famiglie. Quanto realizzato é motivo di orgoglio per tutta la Regione Basilicata". All'incontro ha preso parte anche il presidente della IV Commissione consiliare, Luigi Bradascio. Firenze: il Premio "Impresa + Innovazione + Lavoro" va alla coop dei detenuti "Ulisse" di Domenico Coviello www.firenzepost.it, 29 marzo 2015 Quindici anni di crescita a Firenze adesso un riconoscimento importante a livello toscano. La cooperativa sociale Ulisse, nota in città per favorire l'avviamento al lavoro dei detenuti del carcere di Sollicciano tramite la ristrutturazione delle biciclette abbandonate, ha ricevuto il premio "Impresa + Innovazione + Lavoro" del Consiglio regionale toscano per il progetto "Piede libero Ri-Cicli. Idee in circolazione", ritirato dal presidente di Ulisse, Giovanni Autorino. In origine, nell'anno 2000, fu l'idea imprenditoriale "Milleunabici": le biciclette abbandonate provenienti dai depositi comunali, riparate e restaurate dai detenuti nelle officine del carcere fiorentino, venivano vendute e rimesse in circolazione. L'iniziativa ebbe subito successo. Tanto che nel 2006 si affiancò al progetto anche l'istituto minorile con l'apertura di un laboratorio-officina per la formazione di giovani meccanici. Adesso, da un'idea di Catoni Associati, agenzia di pubblicità fiorentina attenta alle tematiche sociali, è nato il progetto "Piedelibero Ri-cicli": le biciclette restituite a nuova vita dai detenuti del carcere di Sollicciano hanno adesso un nome e un marchio che le rende riconoscibili "e il restauro non è più solo funzionale, ma prevede uno studio di re-design che comprende colori e accessori", spiegano dalla cooperativa Ulisse. Piedelibero quindi è un brand. Che comprende una linea di felpe, t-shirts e shoppers, e si propone di diventare un contenitore, all'interno del quale si identificheranno prodotti diversi tra loro provenienti dal mondo del carcere. Ma l'obiettivo è quello di sempre: favorire il riavviamento al lavoro dei detenuti. "L'esaltazione di un valore etico - raccontano Giovanni Autorino e i suoi collaboratori - si affianca alla notevole qualità dei prodotti messi a disposizione di chi circola in libertà con le proprie idee". Imprenditorialità, idee, innovazione e quindi lavoro: sono ingredienti vincenti anche a partire dalla dura realtà del carcere. Sanremo: fiamme e fuoco in cella. La denuncia del Sappe "carcere allo sbando" www.riviera24.it, 29 marzo 2015 Il Sappe tira un sospiro di sollievo "per l'ennesima tragedia evitata dal coraggio e dalla professionalità degli uomini del Reparto di Polizia penitenziaria di Sanremo" ma solleva dubbi sull'Amministrazione penitenziaria locale. Le fiamme divampano per la sconsiderata protesta di un detenuto marocchino, che da fuoco alla sua cella, e solo il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari ha impedito che nel carcere di Sanremo si potesse verificare una tragedia. La denuncia è del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Spiega il Segretario Generale Sappe Donato Capece: "Quel che accade all'interno del carcere di Sanremo è inquietante ed i numeri sono quelli di un fenomeno che, alimentato dall'effetto emulativo, ha ormai assunto le proporzioni dell'emergenza. Dopo le aggressioni a poliziotti e le risse, un detenuto marocchino ha dato fuoco alla sua cella, nascondendosi poi in bagno. I Baschi Azzurri hanno impedito che la situazione degenerasse ma è chiaro che nel carcere di Sanremo la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Il Sappe tira un sospiro di sollievo "per l'ennesima tragedia evitata dal coraggio e dalla professionalità degli uomini del Reparto di Polizia penitenziaria di Sanremo" ma solleva dubbi sull'Amministrazione penitenziaria locale: "mi sembra che direttore e comandante di reparto non hanno la situazione sotto controllo. Cosa aspetta il Dap a dare nuovi vertici al carcere di Sanremo?". Capece sottolinea infine che "per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere a Sanremo con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità del penitenziario di Sanremo sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria, con un direttore ed un comandante a nostro avviso da avvicendare, e con urgenza, dalla guida del penitenziario di Valle Armea". Ragusa: progetto "Cultura e legalità", i detenuti si raccontano attraverso la scrittura di Laura Curella La Sicilia, 29 marzo 2015 Il progetto, sposato dall'amministrazione comunale, prevede due incontri incentrati sul connubio tra cultura e legalità. In città anche gli scrittori Massimo Lugli e Federico Moccia, tutor del premio letterario nazionale "Goliarda Sapienza". Promuovere un linguaggio comune, quello della cultura, che possa fare da ponte fra la società che vive "fuori" e la comunità che vive all'interno della casa circondariale di Ragusa. Questa è una delle finalità alla base del progetto "Cultura e legalità: raccontare il disagio", promosso dall'assessorato comunale ai Servizi sociali, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio di Ragusa. L'iniziativa, che si inquadra nell'ambito del Premio letterario "Goliarda Sapienza - Racconti dal Carcere", prevede due importanti momenti, il primo dei quali lunedì pomeriggio presso la Casa circondariale di Ragusa, all'interno della quale alcuni illustri giornalisti e scrittori (tra gli altri Antonella Bolelli Ferrera, Massimo Lugli e Federico Moccia, da anni tutor a disposizione dei partecipanti al Premio letterario) incontreranno i detenuti. Il secondo appuntamento si svolgerà invece martedì 31 marzo, a partire dalle ore 9.30 presso l'Aula magna "A. D'Arrigo" dell'Istituto "Fabio Besta". È previsto un incontro dibattito sul tema: "Cultura per la legalità: raccontare il disagio" rivolto agli studenti. L'organizzazione dell'evento ha visto la partecipazione in maniera attiva dell'associazione "InVersoOnlus", presieduta dalla giornalista e scrittrice Antonella Bolelli Ferrera. Alle due giornate interverranno anche il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri ed il capo dell'amministrazione penitenziaria Santi Consolo. A fornire tutti i dettagli del progetto, venerdì mattina a Palazzo dell'Aquila in conferenza stampa, il presidente del Consiglio comunale Giovanni Iacono e l'assessore ai Servizi sociali Salvatore Martorana. "Si tratta di un progetto al quale crediamo molto", ha esordito l'assessore Martorana, esponente di Partecipiamo: "e che ricalca le orme di una serie di iniziative che da anni legano le istituzioni all'istituto penitenziario ibleo. Ricordo con molto piacere il laboratorio teatrale che, sotto la guida di Gianni Battaglia, ha coinvolto i carcerati per due anni. Altrettanto importante la giornata di incontro che abbiamo promosso a Natale. Non si tratta quindi di gesti isolati, ma frutto di un'attenzione che l'assessorato ai Servizi sociali tiene sempre alta nei confronti di questa realtà". "Nelle carceri italiane", ha continuato il presidente Iacono: "si legge e, da un po' di tempo a questa parte, si scrive anche molto. Uno sconfinare attraverso le parole al di fuori delle mura e delle grate. Un mezzo potente per una "evasione", prima di tutto dall'amarezza e da un vissuto problematico che ogni detenuto porta dentro di sé. La scrittura dalle carceri, al di là dei tanti esempi illustri di cui la storia della letteratura è piena, rappresenta quindi anche un momento di riflessione e di controllo ricco di spunti sociali e culturali. Per questo - ha concluso Giovanni Iacono - alla visita presso la Casa circondariale di Ragusa seguirà, il giorno successivo, un incontro con gli studenti dell'Istituto Fabio Besta incentrato sul connubio cultura e legalità". Treviso: un pallone di speranza, sfida sul campo di calcio tra allievi nel carcere minorile di Alessandro Torre La Tribuna di Treviso, 29 marzo 2015 Esperienza speciale per i ragazzi dell'Union Cadoneghe Ruzza: "Con il gioco insegniamo il rispetto delle regole". Gli Istituti di pena sono aree di reclusione piene di contraddizioni e problemi. Certamente uno di quei posti dove si pensa non si possa raccontare l'esito di una storia positiva. Invece si parte proprio da qui, con l'esperienza di due società calcistiche venete che hanno fatto proprio un progetto del presidente regionale della Figc Giuseppe Ruzza, quando era presidente del settore giovanile e scolastico. Union Cadoneghe 1957 e Altobello Aleardi Barche (Mestre) in questi primi mesi hanno aderito al programma "Un pallone di speranza", nato nel dicembre del 2009 dalla preziosa collaborazione della Figc con la direttrice Maria Catalano dell' Istituto per Minori di Santa Bona di Treviso. Le squadre Allievi delle due società, hanno giocato contro una formazione di ragazzi detenuti nel carcere minorile. Esperienza bellissima a detta di tutti i partecipanti, al di là del risultato sportivo. "L'idea è nata dalla cultura che uno ha, dalla consapevolezza che lo sport non finisce in un campo di gioco, ha tanti risvolti, non solo vittoria, pareggio e sconfitta", sottolinea il presidente Ruzza. "Così adesso siamo consapevoli che quello che abbiamo portato all'interno delle mura del carcere, oltre alle esperienze positive che i ragazzi hanno nell'allenarsi e nel confrontarsi con i pari età, è la consapevolezza che se vogliono tornare a vivere normalmente devono rispettare delle regole, quelle stesse regole che il calcio insegna. Proprio quel tanto vituperato calcio, che è l'unico che crede ancora nelle buone pratiche. L'unica disciplina che ancora resiste a proprie spese, come per questo progetto solo a carico del Comitato Regionale, rispetto a tutti gli altri sport che in queste attività non hanno più creduto. E di questo noi siamo orgogliosi. Sotto l'aspetto della solidarietà non siamo secondi a nessuno". E sembrano aver recepito bene le società venete questo messaggio, con l'Union Cadoneghe che qualche settimana fa ha varcato le porte dell'Istituto. "È stata un'opera buona, anche per i nostri giovani, venti ragazzi, nessuno escluso. Erano d'accordo anche i genitori senza la cui autorizzazione non ci sarebbe stato nulla", racconta Gianfranco Boscolo, presidente del Cadoneghe. "Esperienza forte a livello emotivo. Organizzata benissimo, con arbitri federali e un indimenticabile terzo tempo. Forse abbiamo regalato loro qualche ora di normalità. Sono cose che si possono raccontare, che rimangono. Tornei ne facciamo, partite tantissime, ma esperienze del genere sono forse troppo poche". Esperienze che ancora sopravvivono anche per la volontà e la passione che ci mette il veneziano Stefano Trevisanello, ex giocatore e delegato regionale Figc, successore ideale di Ruzza alla guida del progetto e allenatore della squadre del Santa Bona. "Ci vuole costanza. Dopo che hai iniziato un progetto non puoi mollare. Loro credono in te". Per poi concludere con il sorriso. "Credo di essere l'unico allenatore in Italia che sia contento quando non ha la rosa al completo. Vuol dire che magari il mio titolare ha finito di scontare la sua pena. Civitavecchia: Associazione "Sangue Giusto", continuano gli eventi a favore dei detenuti www.trcgiornale.it, 29 marzo 2015 Ancora due eventi realizzati dagli istituti penitenziari di Civitavecchia, in collaborazione con l'Associazione "Sangue Giusto". Il 25 scorso è stato riproposto presso la Casa di Reclusione lo spettacolo "L'Orda Oliva", interpretato su un testo riadattato di Leonardo Sciascia, dai detenuti partecipanti al Laboratorio Teatrale, che di recente aveva riscosso grande successo presso la Cittadella della Musica. Il 27 è stato presentato per la prima volta lo spettacolo "Moby Dick", liberamente tratto dal noto romanzo di Herman Melville, riadattato per il teatro da Federica Paoli. Entrambi gli spettacolo sono stati realizzati grazie al progetto "Con Amleto Dentro", finanziato dall' Assessorato alla Cultura della Regione Lazio, il contributo della Cassa di Risparmio di Civitavecchia, il patrocinio del Comune di Civitavecchia ed il sostegno del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio. Le attività teatrali costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute. L'Unicef plaude al "Moby Dick" rappresentato dai detenuti "Era gremito ieri il Teatro della Casa Circondariale di Civitavecchia N.C di Via Aurelia k. 79,5 per - Teatro in Carcere. Una interpretazione magistrale e commovente hanno offerto al numeroso pubblico i detenuti del settore B, sembravano attori di lunga esperienza , sono seguiti dall'Associazione " Sangue Giusto", ed hanno recitato Moby Dick di H. Melville adattamento di F. Paoli". "Presente allo spettacolo il Direttore della Casa Circondariale Patrizia Bravetti , il Direttore della Casa di Reclusione di Via Tarquinia Anna Angeletti , le educatrici, i piscologi, numerose istituzioni, alcuni Magistrati di sorveglianza venuti da Roma, l'Unicef che con l'occasione, attraverso la responsabile Pina tarantino del Comitato Provinciale di Civitavecchia , ringrazia alcuni detenuti che hanno realizzato e donato per i bambini cartoline con disegni per la Santa Pasqua, nonché l'educatrice Alessia Giuliani. Ieri la rappresentazione teatrale era in concomitanza della giornata nazionale del Teatro Sociale, progetto voluto dall'Assessorato alla Cultura Regione Lazio, con il sostegno del Garante dei detenuti , in tutta Italia in numerosi carceri i detenuti si sono esibiti in rappresentazioni teatrali". Palmi (Rc): i ragazzi diversamente abili dell'Associazione "Presenza" visitano i detenuti www.zoomsud.it, 29 marzo 2015 Nel contesto del cammino quaresimale che i detenuti della casa circondariale di Palmi, insieme a tutti gli operatori e gli agenti di polizia Penitenziaria hanno vissuto, la presenza di oltre venti giovani diversamente abili, ospiti del centro "Emmanuele" dell'Associazione di Volontariato "Presenza, oltre che anticipare il messaggio della Pasqua, ha segnato un momento storico per il carcere in quanto tale, ma soprattutto dal punto di vista sociale, culturale e spirituale per tutte le persone recluse e coloro che quotidianamente vivono in contatto con loro. Dopo avere regalato l'immagine di Cristo crocifisso ed una crocetta in metallo a tutti i presenti, segno dell'infinito Amore che Dio ha realizzato con la passione e morte del Figlio Suo Gesù Cristo, gli educatori del centro "Presenza" ed i loro collaboratori, circa venti operatori volontari, hanno evidenziato come la visita dei ragazzi voleva essere un segno tangibile di carità ed espressione dell'amore gratuito, via necessaria per ogni forma di riconciliazione, di conversione e di convivenza pacifica. Lo spettacolo musicale, artistico e teatrale ha visto protagonisti tutti i giovani, poco abili da punto di vista fisico, ma eccellenti nelle loro esibizioni, accompagnate dalla chitarra di Ruggero, di Matteo e di Enzo, che ormai da oltre un decennio vivono quotidianamente a contatto con loro. I detenuti da parte loro hanno goduto dello spettacolo, mescolando agli applausi infiniti, anche non poche lacrime espressione di riconoscenza e di amore, Particolare menzione va riservata ad Enzo Arena, che quasi ospite d'onore, ha concluso lo spettacolo esibendosi con canzoni inedite e diversi balletti movimentati, eseguiti insieme a tutte le ragazze del centro, "normali e meno normali", ma tutti accomunati dall'entusiasmo per l'esperienza vissuta. Accanto all'entusiasmo dei detenuti che diverse volte si sono alzati in piedi per manifestare la loro ammirazione, un momento significativo è stata la consegna di una grande barca che i detenuti hanno voluto regalare al centro come ricordo della giornata. Importante e significativo il messaggio del direttore dell'istituto, il quale, dopo aver salutato e ringraziato i volontari del Centro "Presenza", rivolgendosi ai detenuti presenti, circa 120, ha sottolineato come l'iniziativa avesse un sapore del tutto rivoluzionario per un carcere in cui tutti coloro che nel entrano dall'esterno lo fanno come opera di misericordia:" visitare i carcerati" per aiutarli" nel loro cammino di riabilitazione e di reinserimento nella società civile. Questa- ha evidenziato il direttore, è un'esperienza nuova quanto sostanzialmente diversa, in quanto sono presenti persone affette da limiti ai quali è annessa "una pena , quotidiana che non finisce mai. L'esperienza vissuta nel contesto dell'ordinamento penitenziario è segno evidente che anche nel carcere è presente una parte positiva dell'uomo quale la sensibilità umana che è emersa nelle espressioni di solidarietà , che per i "ragazzi del centro Emmanuele" ha creato una pausa nel loro cammino di sofferenza, vissuta spesso nell' indifferenza culturale, sociale e spesso morale. Camerun: l'inferno in carcere per il furto di un panino di Stefano Pasta La Repubblica, 29 marzo 2015 Nel penitenziario di Maroua la Comunità di Sant'Egidio costruisce un moderno sistema di estrazione dell'acqua potabile. La dura realtà delle prigioni, tra minori condannati per aver rubato una mela e donne dimenticate dietro le sbarre senza processo. Alla fine della pena, chi non può pagare non esce. Scabbia, pene aggiuntive, fame, sete e detenzioni di anni per reati minimi. Piccoli furti come quello di una mela, di una barra di sapone o di due galline. È la quotidianità nelle carceri del Camerun. A Maroua, nel nord colpito dagli attacchi di Boko Haram, la Comunità di Sant'Egidio ha però realizzato un nuovo impianto idrico. Finora, mesi interi senz'acqua potabile, con la temperatura che nella stagione secca (da marzo a maggio) saliva a 40 gradi e le sbarre diventavano roventi. Tra scabbia e sovraffollamento. "La vita ritorna nella prigione", ha detto commosso Mahaila, un anziano da trent'anni dietro le sbarre. Prima i tubi danneggiati e la mancanza di serbatoi permettevano alla poca acqua disponibile di raggiungere la prigione solo per alcune ore di notte, quando le celle erano chiuse e i prigionieri non potevano usufruirne. Inoltre, periodicamente la Comunità di Sant'Egidio finanzia la disinfestazione delle celle, dove il sovraffollamento è del 394% (987 persone per 250 posti). Le pessime condizioni igieniche facilitano la diffusione della scabbia, di cui sono affetti quasi tutti i detenuti, la tubercolosi, le malattie intestinali, l'aids e il colera. Senza soldi non si mangia, anche i minori. Maroua è una delle dieci prigioni del Paese visitate ogni settimana dai membri di Sant'Egidio. Tutti camerunensi, che operano a titolo gratuito. Creano un legame personale con i carcerati e portano materassi per chi dorme sulla nuda terra, medicine, sapone, vestiti e cibo. Infatti si mangia una volta al giorno un piatto di polenta di mais, lasciando alla famiglia il compito di integrare il pasto: quando è lontana o troppo povera, il prigioniero rischia gravi stati di malnutrizione. Per i minori detenuti, spesso ragazzi di strada, Sant'Egidio organizza corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, utili per il reinserimento nella società. Dietro le sbarre senza processo per anni. La legge non pone limiti alla custodia cautelare e si può rimanere dietro le sbarre per anni, senza essere condannati. Succede quando l'accusato non può pagare un avvocato, senza il quale non si può avviare il processo, oppure perché il dossier sul caso resta "dimenticato" nel commissariato dove è avvenuto l'arresto. Christelle, 36 anni, era stata arrestata insieme ad altre cinque donne con l'accusa di aver rubato un sacco di riso. A un anno di distanza, nessuno aveva verificato l'accusa o cercato testimoni e il processo non era mai stato convocato. L'intervento della Comunità è stato quello di prendere contatto con l'accusatore, stabilire con lui un indennizzo (20 euro) e ottenere la scarcerazione. Scontata la pena, chi non paga resta in carcere. "Il problema principale - spiega Luc de Bolle di Sant'Egidio - è quello di riuscire ad ottenere la scarcerazione anche quando sarebbe dovuta". Spesso in Africa la pena consiste in due parti, una detentiva e una pecuniaria. Per tornare in libertà è necessario pagare una somma di denaro che comprende anche il rimborso delle spese legali. Chi non può pagare resta dietro le sbarre più a lungo. "In Camerun - aggiunge il volontario - hai anche un obbligo ulteriore: terminata la pena, lavori in carcere per ripagare lo Stato dei soldi spesi per mantenerti durante la detenzione". De Bolle ricorda il caso di un ragazzino condannato a un anno per il furto di un panino: ha dovuto scontare sei mesi aggiuntivi proprio per questo motivo. Liberare i prigionieri nelle carceri africane. In Camerun e in altri 14 Stati subsahariani, la Comunità di Sant'Egidio paga le spese per liberare alcuni detenuti che hanno terminato di scontare la pena. "Anche dopo l'uscita dal carcere - dice De Bolle - seguiamo il loro percorso, avviandoli a un lavoro". La cifra varia a seconda del Paese, da 200 a 500 euro. Così Josè, un ragazzo del nord del Mozambico, è tornato in libertà. Era stato arrestato a 16 anni per aver rubato una cassetta di frutta da un venditore ambulante. Lo avevano preso mentre scappava. In prigione è rimasto quattro anni, tre di più della pena che gli spettava. "Quando lo abbiamo conosciuto - spiegano dall'associazione - era in grave stato di denutrizione, pieno di piaghe". Giamaica: reportage dal carcere di Tower street di Flavio Bacchetta Il Manifesto, 29 marzo 2015 Sull'isola la quasi totalità dei detenuti poveri accusati di crimini gravi non ha mai incontrato un legale e ignora di aver diritto a una difesa. Il clamoroso caso di Clifton Wright, condannato a morte nell'86. Lo scorso anno ci siamo occupati dello stato pietoso in cui versano le carceri in Giamaica ("Giamaica in scatola", il manifesto, 8 luglio 2014) all'interno di edifici che risalgono ai tempi dello schiavismo, tra detenuti senza cure sanitarie, celle prive di bagni infestate da scarafaggi e quant'altro. Siamo tornati laggiù per rilevare quella che è la deficienza più grave del sistema giudiziario: l'assenza del diritto internazionale alla difesa, che riguarda i casi dei prigionieri squattrinati. La storia di Clifton Wright, condannato a morte nel 1986, ne è l'esempio clamoroso. Il percorso giudiziario giamaicano, si snoda essenzialmente lungo Tower street, la chilometrica Via Crucis che congiunge il carcere omonimo a King street, la strada dei tribunali di Kingston, con Corte suprema e Corte d'appello che si fronteggiano altezzose. A lato di quest'ultima, è la sede di Dpp (Department of public prosecution), il pubblico ministero. La via è una spina nel fianco di uno dei quartieri più poveri a downtown. Prima di arrivare al sancta sanctorum della giustizia, abbiamo cercato con il lanternino le tracce di una difesa pro bono degna di questo nome. Tra casupole diroccate e tetti di lamiera zincata, al n° 131 ha sede il Legal Aid del governo, la difesa gratuita. Una saletta d'aspetto affollata di disperati, che aspettano pazienti, come solo i giamaicani sanno essere, il loro turno per conferire con Leroy Equiano, l'impalpabile paladino dei poveracci. Il paladino (simbolico) dei poveracci Quanto sia simbolico il suo ruolo di fronte alle corti di giustizia, lo testimonia lui stesso affermando che la quasi totalità dei detenuti poveri accusati di crimini gravi non ha mai incontrato un legale, o meglio, ignora di aver diritto a una difesa anche in mancanza d i soldi. Al piano superiore la segreteria di Jchr (Jamaica council for human rights), l'ong che dovrebbe difendere dei diritti violati, non accetta più casi da anni. Anche Jfj (Jamaicans for justice), ong per un decennio in prima linea contro gli abusi giudiziari, ora non ne prende più a carico perché non riesce a smaltire il lavoro arretrato. Sul piazzale dei tribunali, spicca la Circuit court, la sezione criminale della Corte suprema. Un Frank Kafka dai lineamenti camitici, avrebbe preso spunto da questi corridoi senza speranza, per scrivere il suo Processo. Stiamo cercando la sentenza originale che ha condannato nel 1986 Clifton Wright, incontrato in prigione, a un incubo che dura già da 34 anni. Niente da fare. Rimbalzati agli Archivi generali, un'altra settimana persa. Solo dopo un mese di ricerche, spunta finalmente una fotocopia del documento, sopravvissuta all'interno della Corte d'appello. Il "caso" Clifton Wright è una sentenza di morte per l'omicidio di Louis McDonald, scomparso il 28 agosto 1981, basata sulla singola testimonianza di un certo Cole; questi affermò di aver ricevuto un passaggio da Wright quella sera, e di aver notato, una volta sceso dall'auto, che puntava una pistola al collo dell'autista. L'uomo identificò Clifton in seguito a una procedura illegale: difatti la Corte prescrive che il teste proceda al riconoscimento dopo un confronto all'americana, tecnicamente noto come identification parade; un gruppo assortito deve sfilare davanti al teste, che ha il compito della scelta. Al contrario, Cole fu confrontato solo a Clifton Wright; nella stessa sentenza fu annotata tale anomalia. È evidente anche l'assurdità che un uomo, intento a rapinare un altro, dia un passaggio a uno sconosciuto. Pestato e torturato con l'acido Il corpo della vittima fu ritrovato il 30 agosto 1981. Il giorno prima, la polizia aveva già arrestato Clifton, in seguito a una segnalazione che egli fosse alla guida dell'auto di McDonald. L'uomo fu pestato e torturato con l'acido. Il verdetto trascura un dettaglio essenziale: il referto dell'autopsia del medico legale, il quale affermò la morte essere avvenuta nel pomeriggio di domenica 30 agosto, quando Wright era già detenuto da 24 ore. Non ve ne é traccia nel testo, e solo un'indagine di Iachr (la Commissione americana per i diritti umani) accertò nel 1988 questa macroscopica lacuna. Dopo tanto tempo, Clifton avrebbe diritto a parole, la libertà vigilata, oppure a una petizione da inoltrare al governatore generale, che ha facoltà di annullare la vecchia sentenza. Allo stato attuale, dopo il nostro intervento, un noto studio legale di Londra guidato da Saul Lehrfreund, UK Director of Death Penalty Project, l'ufficio governativo inglese che assiste i casi di pena di morte, ha accettato l'incarico. E l'unica legale che abbia acconsentito a rappresentarlo pro bono sul territorio è Nancy Anderson, tutrice al la facoltà di legge dell'università di Mona a Kingston. Un'altra inglese. Si contano migliaia di casi Wright in Giamaica; però riguardo a omicidi commessi dalle forze dell'ordine, la situazione si capovolge: prove inconfutabili, quali perizie balistiche e testimonianze multiple, sono spesso ignorate o cancellate dal giudice di turno; le difese hanno gioco facile a stravolgere la sequenza dei fatti. La regola di due pesi e due misure è sancita a livello istituzionale.