Redazioni carcerarie. Aser e Fnsi: no alla chiusura del giornale "Sosta forzata" Ansa, 26 marzo 2015 A Piacenza, "chiusi battenti senza giustificazione". "L'associazione Stampa dell'Emilia-Romagna-Aser e la Federazione Nazionale della Stampa esprimono la loro solidarietà alla direttrice del giornale "Sosta Forzata" Carla Chiappini per l'improvvisa e immotivata sospensione delle pubblicazioni da parte della direzione della casa circondariale delle Novate di Piacenza". Lo afferma una nota di Aser e Fnsi. "Apprendiamo - spiega la nota - che il giornale attivo nel penitenziario piacentino da undici anni e diretto dalla stimata collega, già vicepresidente dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna, ha chiuso i battenti senza ricevere motivazioni ufficiali circostanziate da parte della direzione del carcere. Ci uniamo alla speranza della collega: non si interrompa il dialogo che Sosta Forzata ha instaurato in questi anni tra le persone recluse e quelle libere. "Sosta Forzata" è nato come allegato del giornale diocesano "Il Nuovo Giornale" con una tiratura di 4.500 copie, sul quale scrivevano una media di 20 detenuti all'anno. Condividiamo l'appello dei redattori del giornale "Ristretti orizzonti" attorno alla volontà che davvero le carceri diventino luoghi trasparenti e dignitosi per chi vi abita e per chi vi lavora, anche attraverso la redazione di un giornale che come ricordano da Ristretti Orizzonti "non può essere un'attività ricreativa per detenuti autorizzata sotto stretto controllo, l'informazione dal carcere è un bene comune, una risorsa di civiltà utile soprattutto al territorio, che può così conoscere meglio qualcosa che gli appartiene. Un carcere dove volontari e detenuti fanno informazione ha molte probabilità di diventare un carcere trasparente". "Riteniamo inaccettabile - proseguono Fnsi e Aser - sospendere una redazione senza motivazioni e stigmatizziamo quanto sostenuto in una nota dalla dottoressa Caterina Zurlo, direttrice del Carcere di Piacenza, pubblicata dal quotidiano Libertà: il ruolo e la funzione di un giornale diretto da una stimata collega che da anni sviluppa progetti nel mondo dell'editoria carceraria non possono essere rimpiazzati da un giornale scolastico, senza nulla togliere agli studenti delle scuole medie-superiori di Piacenza impegnati in un progetto che ha tutto il nostro sostegno, ma non è alternativo - semmai complementare - alla pubblicazione di Sosta Forzata. Ricordiamo che Ordine dei Giornalisti e Federazione nazionale della Stampa in primis - grazie alla storia e all'impegno dei molti colleghi che realizzano strumenti di informazione all'interno degli istituti di pena in collaborazione con i detenuti - hanno dato vita alla Carta di Milano. Ci uniamo a chi, per combattere la precarietà di queste pubblicazioni carcerarie, in queste settimana ha richiesto ai rappresentanti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di convocare un incontro con le redazioni. Aser e Fnsi sono al fianco delle redazioni carcerarie". Giustizia: il carcere va abolito di Luigi Manconi (Sociologo e Senatore del Pd) Internazionale, 26 marzo 2015 Mercoledì 11 marzo un internato dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione. Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell'attuale sistema della reclusione. Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per "cause naturali"; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così. Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l'idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all'interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun'altra parte e tanto meno nella costituzione italiana. È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall'autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell'ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui "dolcezza" avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci. La nostra carta, all'articolo 27, dice che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia - in sostanza - una pena inumana. E d'altra parte è incontestabile che la pena detentiva - nella grande maggioranza dei casi - non tende alla "rieducazione" del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino. Inoltre, la costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averne fatto esperienza direttamente durante il fascismo) e la pena capitale, furono lungimiranti: saggiamente non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. E quel legislatore dovrebbe sapere, innanzitutto, come sia inequivocabilmente provato che il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione. In primo luogo perché quanti vi sono reclusi si troveranno a commettere nuovi delitti in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento. Il sistema penitenziario, pertanto, produce l'effetto opposto a quello a cui dovrebbe mirare - ridurre il tasso generale di criminalità - e finisce con l'affinare le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto della illegalità e negando loro ogni alternativa di vita. Allo stato attuale, le diverse finalità della carcerazione, inoltre, tendono a ridursi via via a una sola e a concentrarsi, alla prova dei fatti, nell'esclusiva funzione di affliggere il condannato per il reato commesso. Così, la pena si mostra nella sua essenzialità come vera e propria vendetta. In quanto tale, essa risulta priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea - direi: indifferente - a quel fine che la costituzione indica nella "rieducazione del condannato". Se la pena, infatti, viene considerata esclusivamente per la sua finalità "retributiva" - ovvero compensare la colpevolezza del reo - saremmo in presenza di una misura che ha il solo obiettivo di arrecare dolore, ovvero affliggere il detenuto. E ciò la renderebbe iniqua e sostanzialmente immorale. All'opposto, il fondamento di una possibile moralità risiede proprio in quello che consideriamo come il più rigoroso e radicale habeas corpus: cioè l'incondizionata tutela dell'integrità e della incolumità del corpo e della personalità del condannato. In caso contrario non c'è dubbio che è la violenza istituzionale, fino all'esecuzione capitale, la forma di sanzione più equa. Nel caso estremo, solo la pena di morte rappresenta effettivamente la retribuzione più "proporzionata": morte per morte. Non c'è il minimo dubbio, infatti, che la pena capitale - sotto il profilo della massima utilità - risulti più incisiva di lunghe e costose carcerazioni, meno capaci di bloccare la diffusione del delitto e la sua perpetuazione. A conferma della maggiore "ragionevolezza" che avrebbe, in un simile contesto, la pena di morte, si può far riferimento a quanto accaduto nei primi giorni del 2015, quando un ergastolano belga ha chiesto di poter accedere al protocollo per l'eutanasia, ricevendo inizialmente una risposta positiva da parte del ministero della giustizia. L'uomo, Frank Van den Bleeken, avrebbe voluto esser curato in una clinica specializzata per la sua patologia - si definisce uno "stupratore seriale" - ma, nonostante ripetute richieste, non gli è stato concesso. Lo stato, di fatto, avrebbe preferito la sua morte, con l'ipocrisia di un atto giustificato come rispondente alla sua volontà. Così l'ergastolo, la pena senza speranza, ridiventa, anche in senso materiale, pena di morte. Al di là di questo esito estremo, la contraddizione strutturale dello strumento-carcere manifesta la sua evidenza anche sotto altri aspetti. Il primo. La sua rozzezza: la prigione è uno strumento palesemente non sensibile e non intelligente. Esso può essere applicato solo indistintamente e grossolanamente senza alcuna duttilità e flessibilità. In estrema sintesi: il carcere è lo stesso per chi vi finisce per aver rubato un pacco di wafer e per Bernardo Provenzano. In altre parole, la qualità della pena comminata per la gran parte delle fattispecie penali del nostro ordinamento è essenzialmente sempre la stessa: la reclusione. Ovvero la misura che, nel nostro codice, è prevista per i delitti e che può avere una durata compresa tra 15 giorni e 30 anni. Se poi si tiene conto che per le contravvenzioni la pena detentiva è denominata arresto ma può comportare le stesse conseguenze di restrizione della libertà, è facile dedurre che la prigione costituisce il cuore stesso dell'idea e della pratica della punizione per come il codice e la prassi giudiziaria l'hanno definita. D'altra parte, non va dimenticato mai che il carcere è un prodotto umano e come tale va sottoposto a un test di validità. E il criterio fondamentale è quello relativo alla quantità di bene e alla quantità di male che ne derivano. Ovvero: il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti. Si prenda un anno qualsiasi, il 1998, per esempio: un anno come tanti nella recente storia italiana. Nel corso di quell'anno 5.772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso nuovi reati. Si tratta esattamente del 68,4 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998. Una percentuale enorme che costituisce, necessariamente, il punto di partenza di qualunque discorso sul sistema penitenziario. Ripetiamo, a scanso di equivoci: il 1998 fu un anno come tutti gli altri. Parto da lì solo perché è l'unico anno su cui l'amministrazione penitenziaria ci ha fatto conoscere, incidentalmente, questo piccolo e incontrovertibile dato sull'efficacia "rieducativa" della pena detentiva: una bocciatura senza appello. Certo, sull'altro piatto della bilancia ci sono alcune decine, forse alcune centinaia (non certo alcune migliaia) di detenuti che attraverso un corso di formazione, il lavoro all'interno del carcere, poi quello fuori e, magari, una misura alternativa alla detenzione, in galera non ci sono rientrati, ma il bilancio resta clamorosamente negativo e insistere sulle ammirevoli "buone prassi" rischia di farle apparire come foglie di fico sulla vergogna di un carcere insensato. Possiamo continuare a invocare, minacciare, eseguire pene detentive sempre più dure per qualsiasi violazione della legge: ma se il loro risultato è questo, il realismo e la misura ci impongono di trovare delle alternative. Giustizia: chiudono gli Opg, internati in galera… roba da manicomio di Franco Insardà Il Garantista, 26 marzo 2015 Alessandro Meluzzi lancia l'allarme: "sta per esplodere una bomba, la situazione rischia davvero di degenerare". Opg: una bomba a tempo che sta per esplodere in Italia. Ne è convinto lo psichiatra Alessandro Meluzzi che, intervenendo al convegno "Salute mentale, un paese fuori controllo", organizzato dall'Università Lumsa in collaborazione con il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio, ha lanciato l'allarme. Il 31 marzo, infatti, gli Ospedali psichiatrici giudiziari dovranno chiudere, come prevede la legge 81 del 30 maggio 2014. Ma delle strutture di accoglienza (le Rems, Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) che le Regioni avrebbero dovuto approntare sul territorio non ce n'è ancora traccia, tranne poche eccezioni. A oggi sono 704 gli internati negli attuali sei ospedali psichiatrici giudiziari attivi, di queste circa 250 sono considerati dimissibili al primo aprile ma potranno di fatto essere dimessi solo se vi sarà una presa in carico da parte delle strutture territoriali. Gli altri 450 internati dovranno invece essere trasferiti gradualmente nelle Rems, gestite dal servizio sanitario nazionale, in base alla provenienza, tornando dunque nelle regioni d'origine. Dovranno essere strutture con venti posti al massimo. I trasferimenti avverranno sulla base di provvedimenti della magistratura e di precisi programmi terapeutici. Ogni Regione è dunque chiamata per legge a rendere operative le Rems, che non saranno più strutture carcerarie in senso stretto ma finalizzate alla riabilitazione dei pazienti internati. I sei Opg ancora attivi sono localizzati in cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Tra questi l'Opg di Castiglione delle Stiviere si trasformerà in Rems, mentre gli altri potrebbero - una volta concluse le operazioni di trasferimento degli internati - essere destinati ad altro uso. Quasi tutte le nuove Rems saranno provvisorie, perché quelle definitive finanziate con 172 milioni consegnati alle Regioni, non sono pronte. Le uniche regioni che potranno aprire subito le Rems sono Basilicata ed Emilia Romagna, le altre solo piani di transizione. Il Friuli ha deciso di non recepire la legge nazionale, mentre altre otto Rems saranno aperte in Lombardia a Castiglione delle Stiviere. Con questo quadro, mentre il governo sta valutando i commissariamenti, il rischio, secondo Alessandro Meluzzi, è che "i malati, ospitati fino al 31 marzo negli Opg, finiranno in carcere. I responsabili, per non commettere degli illeciti, dovranno rivolgersi ai prefetti che, come succede quando ci sono gli sbarchi di massa, reperiranno in fretta e furia delle strutture di fortuna. Si svilupperà un sistema di allocazione random-clientelare, ma temo, visto la particolarità delle persone, che li appoggeranno "temporaneamente" nelle case circondariali. Chi come me visita periodicamente le carceri può capire bene che la situazione rischia davvero di degenerare. Il carcere in molti casi è, secondo me, il manicomio vero". L'allarme del professor Meluzzi è condiviso anche dal Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che, dopo un'aggressione ai danni di poliziotti penitenziari da parte di un detenuto con problemi psichiatrici, rientrato nel carcere da pochissimi giorni. Il segretario nazionale del Sappe in una nota denuncia: "Purtroppo gli episodi di aggressione ad agenti hanno ormai abbondantemente superato la soglia fisiologica soprattutto ultimamente, a causa della forte presenza di detenuti affetti da seri problemi psichiatrici che per mancanza di strutture, presidi, personale specializzato, viene allocato nelle stanze con gli altri detenuti. Ormai il carcere è diventato un posto dove scaricare le tensioni sociali ed umane, poiché la popolazione detenuta per la maggior parte è composta da tossicodipendenti, malati cronici ed ultimamente da detenuti con gravi problemi di carattere psichiatrico che mettono a dura prova la professionalità dei poliziotti penitenziari che si devono inventare infermieri, educatori". Il professor Meluzzi si è soffermato anche su altri aspetti di non poco conto, come quelli del personale e della sorveglianza: "Si ripeterà quella che io definisco come la "formula della Tab", cioè la terapia al bisogno a base di sedativi. Al bisogno di chi? Degli operatori che per evitare rischi tengono sedati i pazienti. Tra le altre cose - ha aggiunto Meluzzi - anche in questi ultimi giorni si registrano nuovi ingressi negli Opg di persone condannate dai magistrati che, nonostante le resistenze dei dirigenti delle strutture, continua a prevederne la reclusione". Non esiste un censimento aggiornato dei pazienti, da uno studio di dieci anni fa risulta comunque che "i pazienti in Opg erano in gran parte affetti da disturbi psichiatrici gravi (schizofrenia e altri disturbi psicotici dal 61,2 al 70,1 per cento). Avevano commesso nella maggior parte dei casi reati gravi contro la persona (nel 54 per cento dei casi omicidio o tentato omicidio)". I numeri degli internati sono cambiati (1282 nel marzo 2001, 988 nel giugno 2013 ai 704 di oggi), ma l'alta percentuale di omicidi o tentati omicidi potrebbe far aumentare l'allarme sociale. Giustizia: luci e ombre nel "dopo Opg", i timori di chi è al fianco dei pazienti Adnkronos, 26 marzo 2015 I Fatebenefratelli gestiscono strutture dove già sono in carico ex ospiti, "ancora barriere da abbattere". "La chiusura degli Opg è imminente e, come ha dichiarato il ministro della giustizia Orlando, non si farà nulla per ritardarla. Questo è un bene. Se non che il termine è il 31 marzo e la situazione è ancora confusa e variegata da regione a regione. La scelta del Governo di superare il modello esistente rappresenta certamente un'assunzione di responsabilità verso i più ‘impresentabilì tra tutti i sofferenti, anche se non risolve il problema che è ad un tempo giudiziario e sanitario, di sicurezza e di umanità". Vede luci e ombre nel dopo Opg l'Ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli, che gestisce diverse strutture di riabilitazione psichiatrica dove già si ospitano pazienti provenienti dagli ospedali psichiatrici giudiziari e dove anche in queste ore si stanno "ricevendo nuove richieste". Mentre la dead-line si avvicina, i religiosi fanno il punto: le Rems (Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) previste in Lombardia "sono ad esempio per la massima parte rappresentate dalla riconversione delle Comunità presenti nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. In altri territori ci si sta ancora attrezzando. Nella società dell'efficienza e della competizione non c'è nessuno di più lontano di un malato di mente che ha compiuto un crimine e che ha violato le regole della società. Ma soprattutto, non vi è nulla di più sensato, oltre che cristiano, dell'offrirgli una reale opportunità di riabilitazione, nell'ambito del percorso che la giustizia ha deciso per il suo caso. Originariamente, gli Opg dovevano assolvere anche a questa funzione: sappiamo che non è stato così". Con le Rems, continuano i Fetebenefratelli, "si vuole cogliere l'occasione per recuperare nei fatti una funzione terapeutico-risocializzatrice diversa dalla classica pena manicomiale, ma per farlo bisogna allargare gli strumenti di collegamento con la società, abbattere le barriere che persistono". "In virtù dell'esperienza maturata - sottolineano i Fatebenefratelli - siamo consapevoli che le Rems forniscono una risposta solo ai bisogni di alto contenimento dei pazienti affetti da disturbo psichiatrico e socialmente pericolosi. I numeri dimostrano che, a fronte dell'incremento delle dimissioni, continuano comunque, anche se a ranghi ridotti, i nuovi ricoveri in Opg e ciò indica la mancanza di una vera alternativa a tali strutture. Non ci illudiamo che il 31 marzo cambi tutto, ma invitiamo a riflettere sul percorso dei pazienti che già oggi vengono dimessi dagli Opg ed entrano in un limbo sociale, perché solo 1 su 10 torna a casa, nella propria famiglia, mentre il 90% prosegue il proprio percorso clinico entro strutture residenziali ove la supervisione e la vigilanza sono garantite dalla presenza costante degli operatori". Per i pazienti "spesso il lavoro di rete e la ricostruzione di rapporti familiari e sociali rappresenta l'elemento fondante il recupero clinico e sociale. È proprio la complessità del problema che ci ha indotto a chiedere un abbandono di un modello datato come gli Opg e a rallegrarci per la scelta compiuta dal Governo, per quanto non dimentichiamo che solo una struttura su tanti Opg è riuscita a fornire una risposta soddisfacente e che quindi occorre valutare preventivamente la portata della riforma che ci si accinge ad attuare". Giustizia: Consulta; reato prescritto in caso d'infermità mentale irreversibile dell'imputato di Antonio Ciccia Italia Oggi, 26 marzo 2015 Prescrizione del reato anche per i malati "eterni giudicabili" e cioè per gli imputati incapaci di stare in giudizio per infermità mentale irreversibile. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 45 depositata ieri 25 marzo 2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 159, primo comma, del codice penale, nella parte in cui, se lo stato mentale dell'imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento penale e questo venga perciò sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile. Quindi se lo stato di infermità è irreversibile, la prescrizione corre e l'imputato può avere il proscioglimento per intervenuta prescrizione. Mentre con il sistema vigente l'imputato in stato di incapacità non poteva fruire della prescrizione, che veniva sospesa insieme al procedimento, di fatto per tutta la durata della malattia. E se la malattia era irreversibile, allora, la sospensione della prescrizione durava per tutta la vita. Ma vediamo la motivazione della sentenza. Il caso, che ha sollevato la questione, ha riguardato un imputato di falso in bilancio colpito, a causa di un incidente stradale, da disturbo delirante megalomaniaco di carattere irreversibile. Quindi il tribunale si è trovato di fronte a un paziente psicotico senza alcuna possibilità di miglioramento. Il processo penale è stato sospeso e, come nota la sentenza in commento, in casi come questo nel caso in cui, con il passar del tempo, lo stato mentale dell'imputato non migliori, ma anzi dia luogo a una condizione di incapacità irreversibile, si produce una paralisi processuale destinata a durare fino alla morte dell'imputato: è questa la ragione per cui si parla di "eterni giudicabili". Per tutto il periodo della sospensione, che può durare per tutta la vita, la prescrizione è sospesa. La Corte costituzionale è stata chiamata, quindi, a decidere se è legittima la sospensione senza limiti del corso della prescrizione, nel caso di incapacità processuale irreversibile dell'imputato. La sentenza risponde di no e rimprovera il legislatore di non avere rimediato da solo alla situazione, nonostante precedenti moniti della stessa Consulta. Non è legittima la sospensione della prescrizione perché contrasta con gli obiettivi della prescrizione e cioè il diritto all'oblio sul fato di reato, quando sia trascorso un lasso di tempo tale da ritenere insussistente l'interesse della collettività alla punizione del colpevole. Inoltre la Consulta ritiene irragionevole una sospensione del processo e, quindi, della prescrizione senza un termine. Una sospensione del corso della prescrizione senza fine, si legge nella pronuncia, determina di fatto l'imprescrittibilità del reato, e questa situazione, in violazione dell'articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza), dà luogo a una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti degli imputati che vengono a trovarsi in uno stato irreversibile di incapacità processuale. Vediamo le ricadute operative della pronuncia. Una volta ripristinato il decorso della prescrizione, diventa necessariamente limitata nel tempo anche la sospensione del procedimento, il quale, si chiude dopo il decorso del termine di prescrizione con una sentenza di improcedibilità per estinzione del reato. Da un lato si evita che il procedimento penale si protragga per tutta la vita dell'imputato in stato d'incapacità. Ma, rileva la Consulta, non è la soluzione migliore, soprattutto quando il tempo necessario a prescrivere è ancora lungo, e, quindi, altrettanto lunga è la durata della sospensione del procedimento, con l'onere per il giudice di periodici, inutili accertamenti peritali. L'opzione preferibile sarebbe definire subito il procedimento con una sentenza di non doversi procedere per incapacità irreversibile dell'imputato, come tra l'altro proposto in un disegno di legge pendente in parlamento. Ma questa è una scelta che la Consulta lascia alla discrezionalità del legislatore. Giustizia: la Camera cambia il decreto anti-terrorismo, meno privacy su social e Pc di Giovanni Innamorati Ansa, 26 marzo 2015 Il decreto anti-terrorismo approda nell'Aula della Camera, dopo un passaggio nelle Commissioni di merito che lo hanno arricchito di norme che pongono l'eterno dilemma del contrasto tra privacy e sicurezza. Tra gli emendamenti inseriti ve ne è infatti uno che permette le intercettazioni "preventive" delle comunicazioni via web dei sospettati di terrorismo e la possibilità di conservare fino a due anni i dati del traffico telefonico. Il decreto da una parte rifinanzia le missioni militari all'estero e dall'altra introduce norme per contrastare le nuove forme di terrorismo: di qui pene severe per i "foreign fighters", cioè persone che non commettono reati sul suolo italiano. E il carcere scatta anche per i reclutatori, per chi fa propaganda e per chi addestra. Con in più la previsione dell'aggravante delle pene se i reati vengono commessi attraverso mezzi informatici. Ma a destare i dubbi del garante della privacy, Antonello Soro, espresse martedì prima della loro approvazione da parte delle Commissioni, sono le norme che autorizzano la polizia a effettuare le intercettazioni preventive dei sospettati sulle reti informatiche, utilizzando programmi per acquisire "da remoto" le comunicazioni su social, come "whatsapp" o altre piattaforme. L'altra misura oggetto delle perplessità di Soro è quella che porta a 2 anni il termine di conservazione dei dati di traffico telematico e delle chiamate senza risposta (oggi rispettivamente di un anno e di un mese). Eppure le norme sono state votate a larga maggioranza dalle Commissioni Difesa e Giustizia, e sono frutto del lavoro dell'Intergruppo per la lotta al terrorismo. E ad ampia maggioranza sono stati approvati altri emendamenti che cercano di far fronte alle nuove modalità del terrorismo. Per contrastare i "lupi solitari", vengono puniti anche coloro che si addestrano da soli per compiere attacchi, anche se non li portano a termine. Così come l'autorizzazione ai Servizi di infiltrarsi nelle carceri, luoghi di reclutamento degli aspiranti jihadisti. Inoltre è stato previsto un coordinamento delle indagini, affidato al Procuratore nazionale anti-mafia, che è ora anche "anti-terrorismo". Infine, su proposta del relatore Andrea Manciulli (Pd), è stata introdotta una misura per scoraggiare i viaggi in aree a rischio, chiamata informalmente "norma Anti Greta e Vanessa". Il Ministero degli Esteri indicherà le aree a rischio e sconsiglierà esplicitamente i Paesi dove recarsi: "Chi intraprende viaggi in zone pericolose o li organizza avrà l'esclusiva responsabilità individuale" sulle conseguenze. Il decreto però si è inceppato su una norma che prevede l'assunzione di nuovi allievi ufficiali dei carabinieri, che costa 4 milioni di Euro. L'assenza del parere del Tesoro ha impedito alla Commissione Bilancio di esprimersi. Domani arriva il responso, così come la decisione se ricorrere o meno alla fiducia, davanti ai 250 emendamenti. Il governo vorrebbe evitarla e ha chiesto alle opposizioni di circoscrivere la discussione a un numero più limitato di emendamenti. Giustizia: contro il terrorismo controlli su comunicazioni e dati contenuti nei computer di Carlo Lania Il Manifesto, 26 marzo 2015 La necessità di contrastare il terrorismo internazionale rischia di trasformarci tutti e a nostra insaputa in sorvegliati speciali. Il pericolo, per niente teorico, è contenuto nel decreto antiterrorismo varato dal governo e in discussione alla Camera. Salvo correzioni dell'utimo minuto, il testo licenziato dalle Commissioni Difesa e Giustizia prevede infatti la possibilità per la polizia di utilizzare programmi che consentono di controllare da "remoto" le comunicazioni e i dati presenti in un sistema informatico, ma anche di effettuare intercettazioni preventive sulle reti informatiche. Una possibilità che al momento non è limitata ai soli sospetti di terrorismo, ma estesa a tutti i cittadini indiscriminatamente. "Una svista" per il deputato di Scelta civica Stefano Quintarelli che per primo ha denunciato i rischi di un nuovo e più esteso Grande fratello dal quale sarebbe impossibile difendersi. La speranza è che ora l'aula intervenga correggendo il tiro e introducendo paletti che limitino i controlli a soli soggetti sospetti tutelando di più la privacy dei cittadini. Ma non si tratta dell'unica novità introdotta dalle commissioni. Un emendamento del relatore Pd Andrea Manciulli e chiamato "anti-Greta e Vanessa" dal nome delle due volontarie rapite e poi rilasciate in Siria, introduce per la prima volta la responsabilità individuale per quanti decidono di recarsi in Paesi considerati a rischio dalla Farnesina. Un modo per scoraggiare viaggi in aree considerate pericolose e come tali indicate sul sito del ministero degli Esteri. "Resta fermo - specifica la norma, che le conseguenze dei viaggi all'estero ricadono nell'esclusiva responsabilità individuale e di chi si assume la decisione di intraprendere o di organizzare i viaggi stessi". Ieri, mercoledì, il decreto è stato bloccato in attesa di un parere del governo su alcun emendamenti per i quali manca la copertura di spesa. La situazione dovrebbe sbloccarsi oggi, ma visti i 250 emendamenti presentati dalle opposizioni, palazzo Chigi sta valutando la possibilità di un ricorso al voto di fiducia in modo da poter licenziare il testo martedì prossimo. Già oggi, però, si saprà se saremo destinati a perdere una grossa fetta della nostra libertà. A rischio non c'è infatti solo il contenuto di una conversazione telefonica, ma tutto ciò che abbiamo inserito nel nostro computer ritenendolo al sicuro da occhi indiscreti: fotografie, scritti, filmati, registrazioni, appunti di lavoro, corrispondenza con gli amici. Tutta una vita a disposizione di chi sarà addetto ai controlli. Tecnicamente questo sarà possibile grazie a captatori informatici (Trojan, Keylogger, sniffer ecc.) che dopo essere stati scaricati casualmente consentiranno alle autorità di sicurezza di accedere ai nostri dati senza limiti di tempo. "Con questo emendamento l'Italia diventa, per quanto a me noto, il primo paese europeo che rende esplicitamente ed in via generalizzata legale e autorizzato la "remote computer searches" e l'utilizzo di captatori occulti da parte dello Stato!", scrive Quintarelli sul suo sito. "L'uso di captatori informatici quale mezzo di ricerca delle prove - prosegue - è controverso in tutti i paesi democratici per una ragione tecnica: con quei sistemi compio una delle operazioni più invasive che lo Stato possa fare nei confronti dei cittadini". È opportuno ricordare come solo due giorni fa il garante per la privacy Antonello Soro ha espresso preoccupazione per la mancata proporzionalità esistente nel decreto tra le esigenze della privacy e della sicurezza. Il decreto prevede inoltre altre misure finalizzate contrastare il terrorismo internazionale. Si va dallo stanziamento di 40 milioni di euro per la missione mare sicuro nel Mediterraneo, all'affidamento al procuratore nazionale antimafia anche delle indagini sul terrorismo. Prevista inoltre la reclusione dai 5 agli 8 anni di carcere per i foreign fighters, l'aggravante se reati come l'arruolamento e la propaganda vengono effettuati via web e la perdita della patria potestà per i condannati per associazione terroristica che abbiamo coinvolto dei minori nella realizzazione del reato. Infine il decreto consente l'arresto in flagranza per gli scafisti, i promotori, gli organizzatori e i finanziatori dei viaggi dei migranti. oltre all'assuzione di 150 carabinieri e all'aumento di 300 unità del contingente impiegato nell'operazione stade sicure. Giustizia: l'anticorruzione del primo aprile di Domenico Cirillo Il Manifesto, 26 marzo 2015 Senato. Ncd minaccia battaglia sulla giustizia. Le divisioni tra alleati di governo dopo il caso Lupi si riflettono in aula. Slitto alla prossima settimana la legge che alza le pene per i corrotti, quando si riesce a condannarli. Hanno scelto il primo aprile, mercoledì prossimo, come il giorno giusto per l'approvazione (in prima lettura) della legge cosiddetta "anticorruzione" al senato. La legge - otto articoli piuttosto modificati rispetto alla proposta di inizio legislatura del presidente Grasso - prevede sostanzialmente l'innalzamento delle pene per la corruzione (si arriva fino a 12 anni per la corruzione in atti giudiziari) e la riformulazione del reato di falso in bilancio, con un regime più tollerante per le società non quotate. Non proprio quell'intervento "di sistema" tanto spesso evocato, ma anzi un provvedimento nemmeno coordinato con quello approvato martedì alla camera che allunga i termini di prescrizione per la stesso reato di corruzione. Da qui - anche da qui - i problemi nella maggioranza, con gli alfaniani che si sono astenuti a Montecitorio e che minacciano "battaglia" a palazzo Madama (dove possono essere determinanti). Tensioni ravvivate ieri dalla presidente della commissione giustizia della camera. la democratica Donatella Ferranti, secondo la quale "il preoccupante dato che emerge dal report dell'Ocse sulla corruzione rende a maggior ragione incomprensibile l'atteggiamento del Ncd, mi auguro un ravvedimento operoso al senato". Il report dell'Ocse in questione è in realtà il documento preparatorio della conferenza sulla corruzione che è cominciata ieri a Parigi, che peggiora le già pessime stime del 2013 di Transparency International, spostando l'Italia dal terzultimo all'ultimo posto tra i paesi sviluppati quanto a corruzione percepita. Il primo risultato del grande freddo tra Ncd e Pd - la cui origine ha a che fare con la corruzione sono nel senso che riguarda le dimissioni dell'ex ministro Lupi e la partita per la sua sostituzione - è appunto la frenata sull'anticorruzione. Che espone il presidente del senato a una gaffe: Grasso comincia la giornata prevedendo un'approvazione dell'aula entro la settimana, poi , dopo la conferenza dei capigruppo, deve prendere atto che si va a mercoledì. E fedeli all'accordo, i senatori del Pd cominciano da subito a intervenire in massa nella discussione generale - mentre in tanti altri passaggi come le riforme o la legge elettorale hanno saputo dare prova di mutismo interessato. Contraria Forza Italia, che parla di provvedimento "manifesto", "non una buona legge ma una grida manzoniana per dare un segnale". Sono critici, ma non nel tutto, i grillini e Sel. E la stessa posizione potrebbe assumere la Lega. Nel conteggio finale, i 36 voti degli alfaniani possono risultare indispensabili. Il ministro della giustizia Orlando si esercita allora in una professione di serenità: "Il relatore è del Ncd, il testo è concordato con il Ncd, non vedo perché dovrebbero dare battaglia". Oggi e martedì prossimo saranno i giorni dedicati all'esame degli emendamenti, prima delle dichiarazioni di voto e del voto finale mercoledì pomeriggio. Gli emendamenti sono 213 e non mancano proposte di modifica firmate da senatori del Pd, anzi sono almeno una quindicina. Tra queste una che si riferisce direttamente alla prescrizione (la legge approvata in prima lettura alla camera) e propone di congelarla del tutto dopo il rinvio al giudizio (idea anche dei grillini). Un altro emendamento riscrive la legge Severino, riportando a un'unica fattispecie la concussione per costrizione e la concussione per induzione (della distinzione ha beneficiato Berlusconi nel processo Ruby). Una terza proposta di modifica del Pd aumenta la pena massima per il falso in bilancio delle società non quotate, così da consentire il ricorso alle intercettazioni durante le indagini. In ognuno di questi passaggi i senatori del Ncd saranno sicuramente di opinione opposta. Giustizia: Ncd sotto schiaffo, disagio nel partito di Alfano per l'arroganza di Renzi di Riccardo Paradisi Il Garantista, 26 marzo 2015 Il nuovo schiaffo di Renzi a Ncd sull'allungamento dei tempi della prescrizione, provvedimento passato alla Camera martedì scorso, malgrado le resistenze del partito di Alfano, continua a far male. Nunzia De Girolamo, la più esplicita nel verbalizzare il senso di disagio del partito, arriva a chiedere più rispetto per il Nuovo centrodestra, perché il governo non appaia un monocolore Pd dove Ncd funziona solo da ala di copertura. Alfano cerca di sopire il malcontento interno e confida che al Senato sarà modificata la legge sulla prescrizione. Ma sulla durata dei processi per corruzione arriva la doccia scozzese del guardasigilli Orlando. Intanto il voto finale sul ddl sulla Corruzione è stato fissato per la serata di mercoledì prossimo primo aprile. Un altro scherzo - e la giornata è adatta - per Ncd. Perché gli aumenti di pena previsti in questo provvedimento contribuiscono a loro volta ad allungare i termini di estinzione dei reati. Continua a far male lo schiaffo - un altro - dato da Renzi a Ncd sull'allungamento dei tempi della prescrizione, provvedimento passato alla Camera martedì scorso malgrado le resistenze del partito di Alfano. Tanto che Nunzia De Girolamo, la più esplicita nel verbalizzare il senso di disagio del partito, arriva a chiedere più rispetto per il Nuovo centrodestra, perché il governo non appaia un monocolore Pd dove Ncd funziona da ala di copertura. De Girolamo striglia anche il presidente del partito Schifani invitandolo a far sentire la voce del partito che, "purtroppo, anche mediaticamente, non sempre riesce a far emergere il contributo fondamentale che dà a Renzi". De Girolamo usa un eufemismo ma rivendica i voti determinanti di Ncd e auspica che al Senato questi vengano fatti pesare così "da far capire a Renzi che c'è una parte che gli consente di governare che si chiama Ncd e che va rispettata nelle idee". Nunzia de Girolamo è la sola a parlare ma il suo pensiero è condiviso da molti dentro Ncd dove si diffonde ogni giorno di più l'idea che Angelino Alfano non sia in grado di marcare una presenza nel governo e di ottenere da Renzi quel minimo di considerazione che si deve agli alleati. Anzi l'accusa che viene fatta ad Alfano è quella di una subordinazione totale nei confronti del premier. Il quale è riuscito a infliggere a Ncd un'umiliazione dietro l'altra: dall'operazione Mattarella alle indotte dimissioni di Lupi passando per i tempi della prescrizione. Tanto che al partito non bastano più le rassicurazioni di Alfano, l'ultima quella di dar credito alla promessa del Pd che al senato verranno resi più brevi i tempi del processo per compensare l'allungamento di quelli della prescrizione. Convincono talmente poco le rassicurazioni di Alfano che deve intervenire Renato Schifani, capogruppo del partito a Palazzo Madama a sostenerlo invitando tutti alla calma e alla fiducia. Parole che suonano surreali mentre Renzi sta pensando a un nuovo rimpasto di governo approfittando dell'occasione fornita dalle dimissioni di Lupi: "Non si capisce perché dovremmo essere penalizzati con le nuove nomine - insiste Alfano - noi siamo un partito leale, serio e affidabile, che sta centrando i risultati tipici dei moderati italiani in tema di fisco, giustizia e lavoro, non ne facciamo un problema, di ministero". Parole indirizzate al partito ma soprattutto pensate come messaggio di rassicurazione per Renzi. Al quale si rivolge la nota ufficiale della portavoce del partito, Valentina Castandini che smentisce ogni intenzione da parte di Ncd di uscire dal governo: "L'appoggio esterno non è un'ipotesi da noi contemplata. È una posizione ibrida, una non posizione, non è né carne né pesce". Ma questi messaggi intonati alla distensione non coprono il nervosismo. Ancora ieri in un'intervista al Corriere della Sera Alessandro Pagano, responsabile Giustizia di Ncd, ribadiva la contrarietà del suo partito alla riforma sulla prescrizione: "L'accordo di maggioranza era diverso - dice Pagano - e visto che non è stato rispettato abbiamo alzato il tiro. Poi Orlando ci è venuto incontro e il tiro è stato parzialmente aggiustato. In un paese dove il 57% dei processi si risolvono a favore dell'imputato voi volete tenere sotto botta qualcuno per 21 anni? Volete rovinargli la famiglia? L'impresa? E chissà cos'altro?". Ma a freddare i facili ottimismi di ricomposizione a favore delle idee di Ncd è lo stesso ministro della Giustizia Orlando che a proposito del dibattito che si è aperto ieri in commissione Senato sul ddl corruzione usa una certa ironia sulle intenzioni bellicose di Ncd: "Non so, il relatore è del-l'Ncd il testo è concordato con l'Ncd...non vedo con chi dovrebbero dare battaglia". E sul merito della riduzione dei tempi del processo Orlando non è affatto rassicurante: "La corruzione è uno di quei casi in cui essere cauti. L'atto corruttivo spesso emerge molto tempo dopo...". Ma Alfano continua a rassicurare e a ribadire che "Non esiste la possibilità che Ncd esca dal governo per assicurargli un appoggio esterno. E per quanto riguarda il caso Lupi, l'ex ministro secondo Alfano si è dimesso, non è stato cacciato da nessuno". Raggiunti telefonicamente sono diversi gli esponenti di Ncd che pensano con De Girolamo che la misura sia colma. Ma preferiscono mantenere l'anonimato: "Siamo condannati a cantare e portare la croce" dice uno di loro. Intanto oggi verrà annunciata la costituzione definitiva di Area Popolare, Ncd e Udc si fonderanno per dare vita a un nuovo partito con un nuovo simbolo e un nuovo statuto. Il capogruppo alla camera non sarà più Nunzia De Girolamo. Giustizia: l'agitazione dei penalisti contro i processi lunghi, il 31 manifestazione a Roma Il Garantista, 26 marzo 2015 L'allungamento della prescrizione rende meno incisivo l'accertamento processuale sbilanciando il processo verso la fase delle indagini e delle cautele. Sia il Ministro Orlando che il Vice Ministro Costa hanno formulato una espressa apertura a possibili modifiche in Senato del ddl sulla prescrizione. Lo stato di agitazione proclamato dalla Giunta dell'Unione Camere Penali prosegue fino al completamento dell'iter legislativo in attesa del voto". Così in una nota i penalisti italiani, sottolineano le perplessità espresse dall'Ucpi che hanno trovato accoglimento non solo in sede parlamentare ma anche nelle opinioni espresse da numerosi giuristi e da esponenti della stessa magistratura. Nell'ambito della manifestazione nazionale fissata a Roma per il 31 marzo prossimo, alla quale parteciperanno i rappresentanti dell'avvocatura e dell'accademia ed esponenti politici della maggioranza e dell'opposizione, saranno esposte ed approfondite le ragioni del dissenso nei confronti del Ddl sulla prescrizione, approvato alla Camera. Tra i partecipanti all'incontro del 31 nella Sala Capranichetta a piazza Montecitorio (a partire dalle 14,30), il viceministro Enrico Costa e la Presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti. "I reati di corruzione - ribadiscono i penalisti - non si combattono con l'innalzamento delle pene (una strategia di contrasto della criminalità che si è sempre rivelata inefficace), ma con una seria riforma delle amministrazioni, delle burocrazie e della legge sugli appalti pubblici con leggi chiare e semplici. L allungamento della prescrizione per tali reati, da un quarto alla metà della pena massima edittale, provoca un deleterio allontanamento del giudicato dalla commissione del fatto, rendendo meno incisivo l'accertamento processuale e la eventuale espiazione della pena e sbilanciando inevitabilmente il processo verso la fase delle indagini e delle cautele. Il prolungamento generalizzato per tutti i reati di ben tre anni, ottenuto per effetto delle sospensioni nelle fasi di impugnazione provoca un ulteriore espansione di tale già notevolissimo intervallo temporale esasperandone gli effetti deleteri, senza che le relative sospensioni trovino una adeguata giustificazione dell'incidenza della prescrizione in tali fasi processuali, in quanto è noto che, ad esempio, le prescrizioni nel giudizio di Cassazione incidono in misura irrilevante (0,8 %). Più un reato è grave e dannoso per la società e più rapidi ed efficaci dovrebbero essere i procedimenti. Allungare la prescrizione significa, dunque, rendere i processi irragionevolmente lunghi con costi sociali altissimi e in aperta violazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 6 della Cedu". Per i penalisti, i cittadini "dovranno, dunque, rassegnarsi a procedimenti lunghissimi, prima di vedere risolta la propria posizione processuale, con danni umani, psicologici, patrimoniali e d'immagine assai rilevanti". L'Ucpi ha più volte rilevato come la riforma della giustizia dovrebbe essere affidata a provvedimenti di sistema organici e così anche il tema della prescrizione avrebbe dovuto essere approfondito e valutato insieme alle proposte di riforma del codice penale e del codice di procedura penale, senza trascurare che nel corso delle indagini maturano gran parte delle prescrizioni (circa il 70%) e rammentando che non viene sanzionata in modo appropriato la mancata corretta iscrizione nel registro degli indagati. "Ancora una volta la Politica, come bene ha osservato anche Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera - conclude la nota dei penalisti - ha inseguito gli umori dell'opinione pubblica e accelerato i tempi di approvazione di una norma sulla spinta di presunte emergenze, invece inesistenti. A riguardo basti osservare che rispetto al 2005 il numero delle prescrizioni era diminuito di circa la metà e che i reati contro la Pubblica Amministrazione che venivano definiti attraverso tale istituto erano solo il 3,5%. Operare sotto la spinta delle emozioni non è un buon modo di legiferare e risponde alla demagogia dell'urgenza, che mai può soddisfare l'esigenza di produrre buone riforme che consentano agli indagati e alle persone offese di avere un processo rispettoso di principi e regole costituzionali e sovranazionali". Giustizia: intercettazioni; con nuova legge niente freni ai giudici, ma limiti a pubblicazioni di Liana Milella La Repubblica, 26 marzo 2015 Intercettazioni, si riparte con la voglia di cambiarle. Il governo riapre il dossier e punta diritto a impedire che le conversazioni penalmente non rilevanti, ma assai appetibili sul piano del gossip politico, finiscano prima nei provvedimenti delle toghe, e dopo sui giornali. Nessuna stretta però sui magistrati, come fu ai tempi della legge bavaglio di Berlusconi, che non vedranno leso il loro potere di mettere microspie, ma regole rigide per utilizzare le sbobinature nelle famose ordinanze d'arresto, materia prima per la diffusione giornalistica. Il governo potrebbe prevedere anche una doppia griglia di sanzioni, sia per i funzionari infedeli che passano le intercettazioni di chi non è indagato, sia per i giornalisti che le pigliano e le utilizzano. Dove mettere tutto questo? Una legge ad hoc? La delega che è già stata approvata il 29 agosto all'interno del disegno di legge sul processo penale? Uno stralcio? Il contenitore delle nuove regole, proprio come ha chiesto Ncd al punto da presentare l'emendamento Pagano (vedi Repubblica del 27 gennaio 2015), potrebbe essere la legge sulla diffamazione in attesa alla Camera del suo secondo giro di boa parlamentare dopo quello del Senato. È lì dentro che verrebbe piazzata la delega al governo a riscrivere le regole delle intercettazioni, che per ora è inserita nel ddl sulla riforma del processo penale. La ragione è semplice: non solo perché lo ha già chiesto Ncd al punto da proporre l'emendamento ad hoc prima ancora che scoppiasse il caso Lupi, ma soprattutto perché alla diffamazione potrebbe bastare un solo passaggio parlamentare per essere approvata. Infine, visto che si ipotizzano delle sanzioni per chi pubblica intercettazioni "private", la legge sulla diffamazione a mezzo stampa viene ritenuta, da palazzo Chigi, un contenitore coerente. Dunque: il caso Lupi è destinato a lasciare un segno pesante nella storia delle intercettazioni. Dopo le telefonate dell'ex ministro delle Infrastrutture, che non è indagato nell'inchiesta di Firenze, riportate nelle carte di pm e gip e pubblicate sui giornali dopo il deposito, Ncd insorge e mette sul tavolo di Renzi la richiesta pressante e pesante di cambiare le regole delle intercettazioni. Renzi però, di suo, già ci pensa. Le telefonate private sui giornali non gli sono mai piaciute. Basta risentirlo il 30 giugno, nella conferenza stampa a palazzo Chigi in cui presenta i famosi 12 punti sulla giustizia. Quando arriva al capitolo delle intercettazioni eccolo dire: "I magistrati devono essere liberi di intercettare, ma dove sta il limite alla pubblicabilità? Se c'è una vicenda personale, slegata dall'indagine, capisco il giornalista, ma esiste ancora il diritto alla privacy? Dov'è il confine? Mi rivolgo ai direttori dei giornali, domando loro "qual è il limite?"". Quel giorno il premier ipotizza anche una sorta di consultazione tra tutti i direttori delle testate più importanti, proprio per sentire cosa ne pensano e decidere con loro. Oggi sarebbe politicamente sbagliato dire che Renzi cambia le regole delle intercettazioni perché Alfano glielo chiede, minacciando anche di ostacolare al Senato il cammino dell'anti-corruzione. L'attuale ministro dell'Interno, se lo ricordano tutti, è l'autore della famosa legge bavaglio che, dal 2008 al 2011, ha drammatizzato la vita del governo Berlusconi. Lì l'attacco ai magistrati era pesante, le limitazioni all'uso delle microspie massiccio, il bavaglio alla stampa tombale. Oggi Alfano non può riproporre quel testo, anche se il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, esponente di punta di Ncd, alla Camera lo ha già fatto. Ora la mediazione è un'altra. Niente limiti alle registrazioni, tutto resta com'è adesso. Ma limiti, questi sì massicci, all'utilizzo delle registrazioni nei provvedimenti dei magistrati, ordinanze di custodia cautelare, ordini di perquisizione e sequestro. Basta leggere la delega che il governo ha già approvato: "Prevedere disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche e telematiche oggetto di intercettazione attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale all'udienza di selezione del materiale intercettativo". Il linguaggio è da "sudoku" del diritto e c'è da chiedersi chi l'abbia scritto, ma la sostanza è chiara: i magistrati dovranno fare una selezione stringente delle intercettazioni che mettono nei provvedimenti, solo quelle penalmente rilevanti hanno diritto di starci, le altre vanno chiuse in cassaforte e devono restare per sempre segrete. Sarà poi un'udienza stralcio, con gli avvocati, a valutare il materiale e decidere definitivamente cosa può uscire e cosa deve restare riservato. C'è poi il capitolo delle sanzioni, punito in modo duro chi fa uscire le carte dagli armadi blindati, punito chi le pubblica. Sì, ma come? Già la legge sulla diffamazione è fortemente punitiva verso la stampa. C'è il rischio che l'ingresso anche delle intercettazioni finisca per essere veramente tombale. Giustizia: intercettazioni; limiti per le pubblicazioni, tutela persone estranee alle inchieste di Francesco Verderami Corriere della Sera, 26 marzo 2015 Tra Scilla e Cariddi, tra il dovere della legalità e il diritto alla privacy, Renzi ha preso in mano il delicato dossier sulle intercettazioni ed è convinto che si debba accelerare per arrivare a una riforma del sistema. Il punto non è intervenire sui presupposti che regolano l'uso dello strumento da parte della magistratura, ma porre un argine alla pubblicazione indiscriminata degli atti di un'indagine, specie quelli estranei all'inchiesta: una cosa che non gli va giù, "perché non è roba da Paese civile". Il premier si era già pubblicamente espresso sull'argomento, e in Consiglio dei ministri era stata approvata una delega ad hoc nel disegno di legge sul processo penale. Il fatto è che il provvedimento è costretto a seguire i tempi del Parlamento e al momento non è arrivato neppure a metà del percorso. Non è un caso infatti che dal testo siano state stralciate le norme sulla prescrizione e sulla corruzione per velocizzarne l'iter. Come non bastasse, peraltro, dopo l'esame delle Camere servirebbero poi almeno altri sei mesi al governo per applicare la delega sulle intercettazioni. Di qui la mossa del premier, l'idea cioè di dare un impulso sulla materia, che incrocia la richiesta a "far presto" del Nuovo centrodestra. Ci sarà un motivo se Alfano l'altra sera a Porta a porta ha battuto più volte sullo stesso tasto, rimarcando che le intercettazioni "vanno messe in pole position" e sostenendo che "sui giornali devono finire solo le cose strettamente pertinenti all'inchiesta". Un chiaro riferimento al caso Lupi, ma anche un'anticipazione della traccia su cui il governo vuole lavorare. Per Renzi, il difficile passaggio tra Scilla e Cariddi - cioè tra il dovere della legalità e il diritto alla privacy - può essere superato: per garantire la riservatezza bisogna istituire la figura di un "soggetto responsabile" che abbia il "dovere di vigilare" sugli atti di un'inchiesta e che poi risponda di eventuali violazioni. Il ventaglio di soluzioni tecniche è da esaminare. Il punto è superare lo status quo, perché oggi non esistono filtri, tutto confluisce nel mare delle carte giudiziarie che vengono rese pubbliche, facendo a brandelli i diritti costituzionali delle persone non coinvolte. E allora "via gli alibi", dice il premier: "Un conto sono le intercettazioni. I magistrati le adoperino, che nessuno le limiterà. Ma la pubblicazione è un'altra cosa". Il gesto politico c'è, bisognerà capire come il governo lo tradurrà in percorso legislativo, quale mezzo userà per accelerare l'iter in Parlamento, tenendo conto che i provvedimenti sulla giustizia in questa fase hanno potuto disporre di una corsia preferenziale, e che su corruzione e prescrizione nella maggioranza Pd e Ncd vanno verso una ritrovata intesa, come ha sottolineato ieri il guardasigilli Orlando. Non c'è dubbio però che le intercettazioni restano il tema più caldo, sebbene nella minoranza del Pd lo stesso Bersani ha chiesto di trovare "subito" una soluzione, "perché con questo sistema si impallina chiunque". E Renzi vuol premere sull'acceleratore. La tesi di Cantone, che la materia sia "fuori dall'agenda in questa fase" non fa molta presa nella maggioranza e nel governo. È vero, il presidente dell'Autorità anticorruzione si è affrettato a spiegare come "il problema dei criteri di pubblicità delle intercettazioni" sia un argomento sul quale andrà fatta "prima o poi una riflessione". Ma la sortita è parsa singolare, perché - per dirla con il viceministro alla Giustizia Costa - "è il governo a stilare l'agenda. Il primato spetta alla politica non può essere delegato ad altre personalità, per quanto autorevoli, con le quali invece si deve interloquire per avere un contributo di idee". E l'idea di fondo di Renzi - ripetuta più volte davanti alla segreteria del Pd - è che "la magistratura dev'essere messa nelle condizioni di lavorare, ma deve anche rispondere del proprio operato". Giustizia: l'anticorruzione di Cantone e le delazioni, il pasticcio all'italiana è servito di Diego Sabatinelli (Coordinatore di Rdfh-Radical Digital Frontiers/Hermes) Il Garantista, 26 marzo 2015 Istituzionalizzare le "gole profonde" italiane nelle pubbliche amministrazioni: questo sembra essere l'obiettivo dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), presieduta da Raffaele Cantone, che ha lanciato una consultazione pubblica, scaduta lo scorso 16 marzo, sulle Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (cd. whistle-blower) messe a punto dalla stessa Autorità. Le linee guida, come spiega la stessa Autorità sul proprio sito, hanno lo scopo di "promuovere l'applicazione di adeguati sistemi di whistleblowing presso tutte le pubbliche amministrazioni, individuando, al contempo, criteri idonei per la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti di cui viene a conoscenza nell'ambito del rapporto di lavoro". Alle consultazioni ha preso parte anche Radical Digital Frontiers/Hermes (Rdfh), l'associazione tra iscritti al Partito Radicale per il diritto alla conoscenza, le libertà civili digitali e le nuove tecnologie. Il giudizio dell'associazione Rdfh su queste linee guida è netto: mancanza di volontà politica, disinteresse operativo nelle best-practice o poca comprensione del whistleblowing sembrano connotare l'operato dell'Anac le cui linee guida risultano inadeguate e respingenti e sembrano essere state concepite per impedire la realizzazione di un vero sistema di segnalazione basato sull'anonimato. Sarebbe necessario un vero sistema di whistleblowing anonimo per una efficace tutela di chi intende segnalare illeciti e combattere la corruzione nella Pubblica amministrazione. Nel dettaglio la Rdfh ha rilevato un sistema troppo complicato di utilizzo della piattaforma, centrato troppo sul processo alle intenzioni del segnalante e non sull'informazione fornita, trovandosi così in una posizione di retroguardia non solo rispetto alle best-practice internazionali ma addirittura rispetto a quanto già realizzato da altre amministrazioni pubbliche, come ad esempio l'Agenzia delle Entrate. Si legge infatti nel documento dell'Anac "non rientra infatti nella nozione di "dipendente pubblico che segnala illeciti", il soggetto che, nell'inoltrare una segnalazione, non renda conoscibile la propria identità. La ratio della norma è di prevedere la tutela della riservatezza dell'identità solamente per le segnalazioni provenienti da dipendenti pubblici individuabili e riconoscibili". Si tratta dunque di uno pseudo-anonimato che nulla ha a che vedere con le "gole profonde" internazionali. Sulla base di queste premesse la Rdfh ha proposto ad Anac un modello di segnalazione alternativo - il sistema Allerta Anticorruzione di Transparency International - che si focalizza sul messaggio e non sulla presunta identità e motivazione del mittente. Inoltre Rdfh ha fornito ad Anac anche gli accorgimenti tecnici per utilizzare il progetto di whistleblowing open-source Global Leaks, interamente realizzato in Italia ma finanziato da fondi tecnologici esteri. In questo modo si potranno abbattere i costi di realizzazione, e ridurre i rischi operativi di un sistema che, nella forma proposta nelle linee guida, è facile presagio, si trasformerà in un ennesimo sistema informativo pubblico pletorico ed inutilizzato nei fatti. Almeno l'adozione di un software flessibile come Global Leaks potrà permettere di realizzare un buon sistema di whistleblowing senza ulteriore spreco di denaro pubblico. Giustizia: ferie e responsabilità civile, le toghe divise affilano i coltelli di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 26 marzo 2015 Sono in 86 quelli che hanno stracciato la tessera di Mi per aderire ad Autonomia e Indipendenza. Sono stati alle fine 1.447 i magistrati che hanno aderito all'appello lanciato le scorse settimane dal gruppo di Magistratura Indipendente per convocare un'Assemblea straordinaria dell'Associazione nazionale magistrati. Assemblea che, nelle intenzioni, dovrà finalmente decidere quali iniziative intraprendere riguardo la recente modifica della responsabilità civile delle toghe. Come si ricorderà, lo scorso novembre, l'Anni aveva infatti detto no alla proposta di sciopero avanzata da Mi, preferendo forme di protesta più "blande". Anche per evitare il rischio, come disse il presidente Rodolfo Maria Sabelli, di possibili strumentalizzazioni in un momento in cui la fiducia dei cittadini verso la magistratura è ai minimi storici. Come certificato dal rapporto Eurispes 2014. Per la convocazione dell'Assemblea nazionale erano sufficienti 250 firme. Unico requisito richiesto l'iscrizione all'Anm. Il Comitato direttivo centrale dell'Anni, tenutosi domenica, non ha potuto far altro, dunque, che convocare l'assemblea per il prossimo 19 aprile. Tenuto conto che gli iscritti a Mi sono 714, si può tranquillamente affermare che il tema della responsabilità civile continua ad essere al centro dei pensieri delle toghe. Un tema assai sentito che va oltre l'appartenenza ad una corrente ma è trasversale all'intera magistratura. Ed il fatto che saranno proprio i magistrati a giudicarsi fra loro non "tranquillizza", ma anzi svela scenari inquietanti se, un magistrato di spessore come Ilda Boccassini, arriva a dire di "aver paura della cattiveria dei colleghi". C'è il rischio, neppure tanto velato, che dietro la questione della responsabilità civile si nasconda uno "strumento" per regolare alcuni conti in sospeso fra le toghe. Magari proprio fra iscritti a correnti diverse. Un clima da lunghi coltelli che se spaventa la Boccassini figuriamoci quanto rende sereni i cittadini che devono sottoporsi al giudizio dei magistrati. Sempre in tema di numeri, poi, sono 66 i magistrati che hanno stracciato la tessera di Mi per aderire alla corrente Autonomia e Indipendenza di Piercamillo Davi-go e Sebastiano Ardita. Numeri, al momento, non particolarmente significativi. Segno che nonostante la grande visibilità mediatica di Davigo il grosso degli iscritti ad Mi ha preferito continuare sulla strada vecchia piuttosto che percorrere nuove avventure correntizie. Nel distretto di Milano, feudo del presidente di Autonomia e Indipendenza dai tempi di Tangentopoli, sono solo 4 magistrati che hanno lasciato Mi. Ma Davigo ha però pronto il jolly per poter far incetta di consensi e aumentare le tessere: il ricorso sul taglio delle ferie. Altro tema clou, dopo la responsabilità civile. In attesa che il legislatore chiarisca i dubbi interpretativi insorti, relativamente al fatto se il taglio da 45 a 30 giorni si applichi a tutti i magistrati o solo ai fuori ruolo, Autonomia e Indipendenza si fa promotrice del ricorso giurisdizionale. L'iniziativa, secondo i promotori, non è in concorrenza con quelle dell'Anni o del Csm ma vuole semplicemente essere uno contributo positivo per la tutela dei diritti delle toghe. C'è tempo fino al 10 aprile per dare l'adesione. 50 euro il costo dell'iniziativa. Vedremo in quanti aderiranno. Giustizia: Cassazione; affiliazione associazioni di stampo mafioso non cessa con il carcere Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2015 Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza 24 marzo 2015 n. 12514. Nelle associazioni di stampo mafioso il sopravvenuto stato detentivo dell'indagato non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio criminoso, che viene meno solo nel caso oggettivo della cessazione del gruppo criminale di appartenenza o in alcune e specifiche ipotesi di recesso o esclusione del singolo associato. L'attuale titolo coercitivo del condannato riguarda l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Giustizia: processo telematico; cause civili al computer? Fanno perdere tempo di Luigi Ferrarella Il Corriere della Sera, 26 marzo 2015 Il "processo civile telematico"? Funziona talmente male e a singhiozzo che, invece di far guadagnare tempo, lo fa perdere, perciò sono costretta a rinviare la causa di un anno. Firmato: una giudice del Tribunale civile di Napoli. Bizzarria di un magistrato lazzarone? No, ordinanza di una giudice che ha dimezzato l'arretrato di cause trovate e che era una delle più aperte alla novità del Pct-processo civile telematico, ormai obbligatorio per legge. E così il caso di Napoli - come già un'ordinanza a Milano, subito revocata perché aveva irrazionalmente accollato a un avvocato 5.000 euro di sanzione per non aver portato ai giudici a titolo di cortesia una copia cartacea degli atti telematici - segnala da un lato come i disservizi del Pct, quotidiani ma non percepiti fuori dai tribunali, stiano portando sull'orlo di una crisi di nervi parte dei magistrati; e dall'altro lato come tra le toghe si faccia fatica a gestire il cambio di mentalità imposto dal cambio di tecnologia. Nella sua ordinanza del 20 marzo la giudice premette che "l'ingresso del Pct sta provocando un rallentamento del lavoro di questo giudice essendo evidente che la preparazione dell'udienza, la lettura delle memorie caricate ogni giorno sulla consolle (di lunghezza spesso eccessiva e contenenti il più delle volte allegati indicati solo numericamente o istanze non portate singolarmente all'attenzione del magistrato), l'aumento considerevole dei decreti ingiuntivi in materia contrattuale, per non parlare di tutte le problematiche che di volta in volta occorre risolvere con gli avvocati e la cancelleria stante la frequente criticità del sistema, si traducono in un aggravio di lavoro che rende impossibile il rispetto del programma di smaltimento delle cause precedentemente fissato". E allora, "in attesa dell'adozione di più pertinenti modalità di conduzione dell'attività, quali ad esempio la fissazione di un numero di pagine entro cui contenere le memorie", la giudice "al fine di rispettare i termini di deposito di tutte le sentenze" ritiene "necessario rimettere sul ruolo le cause in primo grado iscritte a ruolo dopo il 30 giugno 2012 e gli appelli dopo l'1 gennaio 2013". Col risultato che la causa in questione, iscritta a ruolo il 12 febbraio 2013, è rinviata "per precisazione delle conclusioni al 14 marzo 2016". Quando la notizia si diffonde tra gli avvocati, giudici di mezza Italia criticano la collega (anche aspramente) nei vari gruppi di confronto sul Pct. Ma chi conosce Rosa Romano Cesareo avverte che, in una sezione dove ogni anno arrivano a ciascuna toga 350 nuovi fascicoli, la giudice è stata capace di ridurre l'arretrato da quasi 1.000 cause a meno di 400. Ai colleghi lei lamenta solo che si siano "scandalizzati a una lettura superficiale" dell'ordinanza: "Con entusiasmo ho accolto l'avvio del Pct, la cui portata innovativa e rivoluzionaria è innegabile", ma "ciò non mi impedisce di evidenziare che purtroppo la criticità del sistema, evidente agli occhi di molti operatori, allo stato attuale sta rallentando la mia produttività, imponendomi una nuova riorganizzazione del lavoro". Disservizi, instabilità del sistema e carenza di assistenza stanno accendendo una sorta di lotta di classe dentro la magistratura. Da un lato chi lavora con il Pct e, in attesa di sperimentarne i vantaggi, ne assaggia la più farraginosa gestione; dall'altro chi declama il Pct, ne valorizza i promettenti numeri (1 milione e 582.000 atti telematici depositati dai magistrati al 31 dicembre 2014, con 44 milioni di euro di risparmio stimato con la consegna per via non cartacea ma digitale di 12,6 milioni di comunicazioni) e però incorre nelle ire di chi dietro l'entusiasmo acritico coglie la ricerca del propellente di future carriere. Ma c'è anche chi, tra le toghe, addita la necessità di non rinchiudersi in un pregiudiziale scetticismo e di sforzarsi di dare sostegno alle novità anche se all'inizio costa alle abitudini dei magistrati. Di certo il Pct, per dare vantaggi, assorbe non meno ma più lavoro; e addossa al giudice (rileva ad esempio Antonio Lepre nel libro "Analisi della giustizia civile. Un'idea di riforma") compiti esecutivi e amministrativi, essendo dunque destinato a funzionare solo quando a supportare il giudice funzionerà (non solo sulla carta) un reale "ufficio del giudice". Giustizia: domani si celebra la Seconda Giornata Nazionale di Teatro in Carcere Ansa, 26 marzo 2015 Per il 27 marzo 2015, data ufficiale di celebrazione della Seconda Giornata Nazionale di Teatro in Carcere in concomitanza con la 53a Giornata Mondiale del Teatro (World Theatre Day), sono 54 gli Istituti Penitenziari coinvolti insieme ad altre 18 istituzioni tra università, istituti scolastici, teatri; e a otto enti regionali che sostengono le attività. E le adesioni cresceranno ancora. Il Cartellone è costantemente aggiornato sul Sito Internet del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (www.teatrocarcere.it) che ha promosso la manifestazione insieme al Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria tramite l'Istituto Superiore di Studi Penitenziari, nell'ambito dell'attuazione del Protocollo d'Intesa per una più ampia promozione del Teatro in Carcere in Italia sottoscritto tra i due organismi in data 18 settembre 2013 e poi esteso il 23 luglio 2014 all'Università Roma Tre. Dalle Marche (dove a Pesaro da 10 anni nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi si celebra la Giornata Mondiale del Teatro) al Lazio, dalla Toscana (Regione che maggiormente sostiene il Teatro in Carcere) alla Campania, dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, sono 16 le Regioni coinvolte per un totale di 74 eventi. Tra le iniziative previste, in prevalenza spettacoli teatrali in carcere, ma anche conferenze, proiezioni video, incontri, prove aperte al pubblico, con iniziative anche all'esterno degli istituti penitenziari, tendenti a valorizzare e promuovere interazioni espressive e socioeducative tra gli istituti penitenziari ed i loro contesti territoriali. Lettere: la falsa lotta alla corruzione (percepita) di Astolfo Di Amato Il Garantista, 26 marzo 2015 La lotta alla corruzione è un terreno sterminato di raccolta di consenso elettorale. Le ultime statistiche Ocse dicono che in Italia la percezione della corruzione nelle istituzioni governative e locali sfiora il 90%. La più alta di tutta l'Europa. Si badi bene, la corruzione percepita, non quella effettiva. La corruzione, perciò, costituisce un argomento capace di mobilitare, di dare forza politica, di spostare gli equilibri di potere, di muovere le masse. È tema delicato non solo la corruzione in sé, ma anche la strumentalizzazione che può essere fatta dell'argomento. Se la corruzione altera l'attività amministrativa e danneggia cittadini e collettività, l'esaltazione dell'argomento incide a sua volta sugli equilibri istituzionali e li altera, ha un'influenza sul consenso ai partiti e alle istituzioni. Storicamente, del resto, tutti i populismi hanno tratto la loro forza dalla necessità di lottare contro la corruzione. E, spesso, su tale necessità si sono appoggiate le svolte autoritarie. In questa prospettiva, allora, diventa inevitabile cercare di guardare la questione della corruzione sotto tutti e due gli aspetti. Sul primo, quello di una effettiva lotta alla corruzione, c'è l'attenzione di tutti. E, quindi, è inutile ripetere. Sul secondo, e cioè sull'uso della lotta alla corruzione come strumento di alterazione del gioco democratico, non si sofferma quasi nessuno. Bisognerebbe, invece, cominciare a chiedersi se le forzature giudiziarie in alcune inchieste, che riguardano la pubblica amministrazione, non vadano guardate solo come eccessi inammissibili, ma costituiscano veri e propri attacchi al corretto funzionamento delle regole della democrazia. Inchieste come quella su Mafia Capitale o sulle Grandi Opere, che occupano le prime pagine di tutti gli organi di informazione, ma che allo sguardo dei tecnici si palesano un po' leggere, che effetto hanno sugli equilibri democratici? Certamente mantengono alta, se addirittura non incrementano, quella percezione vicina al 90% di cui riferisce l'Ocse. E, dunque, rafforzano il partito, trasversale, che della lotta alla corruzione fa l'elemento centrale della sua raccolta di consenso. Al tempo stesso rendono più difficile l'opera di chi vuol guardare avanti e riformare il Paese. Tengono, in fondo, il paese inchiodato alla percezione del 90% ed a tutto ciò che ne consegue. Ovviamente, queste considerazioni non intendono affatto dire che la lotta alla corruzione non deve essere fatta, né che non debba essere una lotta senza quartiere. Il punto è che, nel momento in cui in Italia la percezione è del 90% ed è superiore a quella percepita negli altri paesi europei, tutti, sorge il dubbio che vi sia una componente artificiale. Gonfiata appositamente per alterare il gioco democratico delle istituzioni. Quella percezione serve ad impedire che sia riequilibrato il potere tra magistratura e politica, serve a dare spazio politico significativo anche a chi non ha alcuna reale proposta politica, serve a mantenere una amministrazione opprimente attraverso le sue mille, spesso incomprensibili, procedure. L'importante è che i sudditi non abbiano il coraggio di ribellarsi e di chiedere di essere trattati da cittadini. Ed il mostro della corruzione è perfettamente funzionale a questo scopo. Lettere: caso Lupi, il giustizialismo morale è più pericoloso di quello della legge Giovanni Maddalena Il Foglio, 26 marzo 2015 Il misterioso affaire Lupi, il delitto senza mandante, si è chiuso con le lapidarie parole di Matteo Renzi: non ci si dimette per un avviso di garanzia, ma solo per questioni morali o politiche. Si sta peggiorando o migliorando rispetto agli ultimi 20 anni di giustizialismo orchestrato dal circuito mediatico-giudiziario? Osserviamo il caso. Il ministro non è nemmeno indagato ma la macchina della comunicazione scandalistica si mette in moto ugualmente. Certo, è facile che qualcuno abbia passato le carte già sottolineate nei punti giusti, ma stavolta non c'è bisogno di magistrati accaniti, la comunicazione fa tutto da sé. Con ottimi risultati: attacca, fa montare il caso, fa dimettere il ministro - in televisione, e alla fine - prodigio - non c'è nessun colpevole: non il ministro, che non è indagato; non i compagni di partito, sempre solidali; non il premier gentile, che il ministro ringrazia; al massimo restano cattivi (poco) i grillini. Alla fine, il ministro esce, la comunicazione gli tributa servizi di buon'uscita. Sipario. Ora, le osservazioni. Primo, l'oggetto - da cui la comunicazione sempre nasce (anche quella astratta, diceva Matisse) - è uno dei grandi classici dell'umanità: la corruzione del potente. Dimenticando ciascuno la propria micro-corruzione, ecco una delle grandi idee dell'umanità: l'uomo è scellerato o, forse, come dice lo Jago di Verdi, è scellerato perché uomo, anzi politico. Soprattutto se guadagna molto di più di me. L'oggetto è di quelli vincenti, da sempre. Secondo, l'autore. Contrariamente a quanto si è detto spesso, nella comunicazione l'essere umano c'entra. L'autore non è un creatore assoluto, la comunicazione non nasce dal niente, ma dà il suo assenso ed esprime una direzione alle interpretazioni. Qui qualcosa stride, nell'affaire non c'è autore o mandante. A vederla da fuori, un meccanismo senza testa ha creato il caso, l'ha risolto, e alla fine si è liberato e assolto. Ma chi l'ha lasciato andare? Qual è la molla che è stata usata per innescare il meccanismo? Terzo, il significativo riassunto del premier. Non ci si dimette per avvisi di garanzia: dunque siamo nel garantismo. E perché allora il ministro si è dimesso? Ci si dimette per questioni morali e politiche. Sulle seconde la logica non ha dubbi: ci si dimette da incarichi politici per ragioni politiche. Ma cosa c'entra la morale? Ed ecco svelato l'affaire, che purtroppo non segna una retrocessione del giustizialismo ma ne svela piuttosto l'anima. Si può fare a meno dei magistrati perché la molla comunicativa non è la legge ma la morale, o meglio, il moralismo, cioè una morale eretta a verità unica e totale a prescindere da ogni considerazione sul bene comune. Una volta capito che la molla è quella, perché affannarsi e complicarsi con la legge e i magistrati? Per poi avere uno assolto, magari 10 anni dopo? Il moralismo non ha complicazioni e ciascuno lo può fomentare da solo, diventando un coautore della comunicazione. Bastava girare una radio nei giorni scorsi per accorgersi della creatività che ne nasce. Perché l'esigenza è di quelle profonde: sarebbe bello che la verità legale, quella morale e quella politica suonassero all'unisono. Ma il pretenderlo è uno strano fondamentalismo - tanto più strano in uno stato laico - che scambia un'esigenza con un ordine, che mischia pubblico e privato, e che fa finta di non conoscere la fragilità della natura umana, che in fondo le leggi tendono a contemplare. Non è un caso che lo show di accusatori e accusati stavolta si occupi soprattutto di atteggiamenti personali, di questioni familiari, di problemi educativi che poco hanno a che vedere con la politica. Attenzione all'escalation: il giustizialismo della sola morale è più pericoloso di quello della legge. Ma in politica non ci si dovrebbe dimettere solo per ragioni politiche? Sardegna: Pili (Unidos); nel carcere di Macomer sono stati detenuti pericolosi adepti Isis Ansa, 26 marzo 2015 Alcuni tra i più pericolosi terroristi islamici erano in Sardegna, detenuti nel carcere di Macomer, chiuso di recente; nel silenzio più assoluto. Lo ha denunciato il deputato di Unidos, Mauro Pili, intervenendo alla Camera durante la discussione del decreto antiterrorismo. Il parlamentare sardo ha fatto nomi e cognomi, raccontando il curriculum vitae di ognuno di loro. "Il numero uno della strage di Madrid, Rabei Osman - ha detto Pili - il grande reclutatore il franco-tunisino Raphael Gendron, braccio destro dell'imam Ayachi, leader islamista belga" pregiudicato per terrorismo, ucciso subito dopo la detenzione a Macomer in uno scontro con le truppe dell'esercito di Damasco, e il tunisino Bouyahia Hamadi Ben Abdul, inserito nella lista nera di Obama e tra i 60 terroristi più ricercati al mondo". Pili ha aggiunto alla lista "Khalil Jarraya, tunisino di 41 anni, detto il colonnello perché aveva combattuto nelle milizie bosniache dei Mujihaddin durante la guerra nella ex Jugoslavia". Secondo il parlamentare "era lui il vero promotore della cellula jihadista arrestata a Faenza e di cui facevano parte altri detenuti di Macomer come Hechmi Msaadi, tunisino di 33 anni, Ben Chedli Bergaoui, tunisino di 36 anni, e Mourad Mazioni". Sempre secondo Pili a Macomer "questi signori potevano organizzare di tutto, comprese le strategie terroristiche". Un racconto circostanziato: "In una visita riscontrai personalmente che tra i terroristi vi era un rapporto costante e aggiornato in tempo reale. Se fosse confermato che nel carcere di Macomer è stata architettata e progettata la strage di Tunisi devono essere individuati i responsabili". Ora il carcere di Macomer è chiuso, ma Pili ha rilanciato l'allarme: "Tutto questo conferma una gestione scandalosa del sistema carcerario in Sardegna e ci obbliga ad una mobilitazione ancora più decisa per evitare quella scellerata decisione di inviare in Sardegna i più efferati capi mafia. Ci batteremo in ogni modo per impedire l'attuazione di questa infausta decisione perché si tratta di un piano gravissimo che mette a rischio la sicurezza della Sardegna e del suo popolo". Sicilia: ufficio "fantasma" del Garante dei detenuti. Costo 500mila €, pagati dalla Regione di Cetty Mannino www.respubblica.it, 26 marzo 2015 Ci sono i detenuti, c'è l'ufficio per i diritti, ci sono circa 15 impiegati, distaccati dalla Regione, e ci sono anche 500mila euro stanziati ogni anno dalla Regione siciliana; peccato però che manca il garante, cioè la figura vertice che dovrebbe gestire tutta la macchina. Conseguenza? L'ufficio c'è ma non funziona: ecco un paradosso della Sicilia. Con Legge Regionale 19 maggio 2005 n. 5 è stata istituita la figura del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, cioè quella figura di garanzia che ha funzione di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Dal 2005 al 2013, in seguito a successiva modifica della legge, in Sicilia è stato nominato l'ex senatore Salvo Fleres. E dal 2013 ad oggi?. "Da un anno e mezzo - spiega Silvano Bartolomei, avvocato penalista - è solo un enorme spreco di denaro pubblico. La Regione continua a finanziare una struttura "fantasma". In pratica ci sono gli uffici, due a Palermo ed uno a Catania, e circa 15 dipendenti regionali pagati per non lavorare, ovviamente non per ragioni personali". Ma Bartolomei oltre a sollevare la questione dal punto di vista economico denuncia anche l'inottemperanza della legge e il disinteresse da parte del presidente della Regione, Rosario Crocetta, nell'istituire un nuovo garante. "Più volte mi sono offerto di ricoprire la carica in maniera assolutamente volontaria - dichiara il penalista. In qualità di già componente del Carcere Possibile, in seno alla Camera Penale di Palermo Bellavista, ritengo che questa figura sia di fondamentale importante, unica preposta a fare da cerniera tra lo Stato e i detenuti. Ma non ho mai ottenuto risposta". Ma ecco in pratica qual è il compito del garante. "Le persone private della libertà personale, personalmente oppure tramite i propri familiari segnalano il mancato rispetto della normativa penitenziaria, violazioni di diritti o omissioni da parte dell'amministrazione. Segnalazioni - si legge nel sito del ministero della Giustizia- ed interventi possono essere fatti in occasione dei colloqui o delle visite in istituto dei garanti, per iscritto o con altri mezzi informali". In pratica l'interessato "Si rivolge all'autorità competente per chiedere chiarimento o spiegazioni in merito a diritti violati o per sollecitare l'adempimento e le azioni necessarie. Il suo operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza". "La situazione all'interno delle carceri è davvero preoccupante" afferma Bartolomei. Ma come risolvere il problema? "Bisognerebbe depenalizzare alcuni reati, inserire maggiore personale, più polizia penitenziaria, medici e psicologi all'interno del carcere e non detenere, per reati minori e senza i presupposti, la gente in attesa di giudizio". Umbria: sport in carcere, un protocollo d'intesa tra il Coni e l'amministrazione carceraria Corriere dell'Umbria, 26 marzo 2015 Il presidente del Coni regionale Umbria Domenico Ignozza e la direttrice della Casa circondariale di Perugia, Bernardina Di Mario, hanno siglato un protocollo d'intesa che dà avvio al progetto "Sport in carcere" che a livello regionale rappresenta la realizzazione sul territorio dell'accordo siglato a fine 2013 tra il Ministero di Grazia e Giustizia ed il Coni. "Si tratta di un accordo molto importante - ha dichiarato il presidente del Coni regionale Domenico Ignozza - in quanto lo sport è stato riconosciuto quale strumento fra i più idonei per il recupero della popolazione carceraria. Soprattutto in questa fase di sovraffollamento delle carceri italiane - ha proseguito - lo sport può contribuire in maniera determinante a migliorare la condizione psico-fisica del detenuto che avrà modo di non lasciarsi andare alla depressione ma al contrario avrà un'occasione unica per migliorare se stesso, di rimettersi in gioco e di creare relazioni e socializzare". Molto soddisfatta della sigla dell'accordo anche la direttrice della casa circondariale Bernardina Di Mario. "Abbiamo ritenuto giusto aderire a questo progetto con un Ente estremamente rappresentativo come il Coni che siamo certi contribuirà a sviluppare le attività sportive tra gli ospiti della casa circondariale nel modo migliore, consapevoli del valore rieducativo dello sport - ha commentato la direttrice. Un accordo reso ancor più importante se consideriamo che all'interno della nostra struttura esistono diversi impianti sportivi tra cui la palestra e il campo sportivo che in questo modo potranno essere utilizzati appieno". Grazie alla disponibilità dei dirigenti della casa circondariale di Perugia e dei presidenti delle federazioni sportive, scelte direttamente dagli interessati, sarà possibile, attraverso lo sport e le sue regole, migliorare la condizioni dei reclusi sia maschi che femmine. Tre le federazioni che fino a fine anno si alterneranno all'interno della casa circondariale di Perugia ci saranno il calcio e la pallacanestro per la popolazione carceraria maschile, la danza sportiva per quella femminile. Campobasso: il detenuto morto si poteva salvare? sintomi da infarto curati col Malox www.primonumero.it, 26 marzo 2015 La Procura di Campobasso ha iscritto sul registro degli indagati quattro persone, sarebbero i secondini e i medici intervenuti nella cella del 34enne campobassano forse stroncato da un infarto. "Dalla mattina Alessandro si lamentava per dolori allo stomaco, al petto e alla spalla - racconta l'avvocato della famiglia, Silvio Tolesino - si sta cercando di capire chi gli ha somministrato il Malox. Noi vogliamo solo conoscere la verità". Tra 60 giorni si saprà anche l'esito dell'autopsia. Ianno aveva già avuto problemi cardiaci in passato. Alessandro Ianno si poteva salvare? Ruota attorno a questa domanda l'inchiesta sulla morte del detenuto 34enne di Campobasso stroncato, pare, da un infarto, il 19 marzo scorso. Quattro persone, tra secondini e personale medico del carcere di via Cavour, sono state iscritte sul registro degli indagati dalla Procura di Campobasso: l'accusa per loro è omissione di soccorso. L'avvocato della famiglia Ianno sospetta che le cure mediche siano state prestate in forte ritardo al ragazzo "che già dalla mattina si lamentava per dolori alla spalla, allo stomaco e al petto". I tipici segnali dell'arresto cardiocircolatorio. Ad Alessandro qualcuno, forse il medico della struttura di via Cavour "ma questo è ancora in fase di accertamento" avrebbe prescritto un Malox. "I dolori non si sono placati - riferisce il legale Silvio Tolesino che assieme ad Antonello Veneziano sta seguendo il caso - anzi sono diventati più forti". Alle 17 il collasso. Alessandro è morto sotto gli occhi di diversi testimoni. Inutili i tentativi di rianimarlo. "Il nostro non è un accanimento contro il personale penitenziario - con cui si è già schierato il sindacato Sappe - ma vogliamo sapere esattamente chi c'era per arrivare alla verità" dice ancora Tolesino nel giorno della sepoltura di Ianno i cui funerali si sono svolti questa mattina nella chiesta di San Pietro, a Campobasso. Alessandro divideva la stanza con altre tre persone, la loro versione non combacerebbe alla perfezione con quella del personale penitenziario in servizio. L'autopsia eseguita dal medico legale, dottor Vincenzo Vecchione stabilirà con esattezza come e perché è morto Alessandro e se, soprattutto, un tempestivo intervento sarebbe stato capace di salvargli la vita. La perizia non sarà depositata prima di 60 giorni. C'è un ulteriore particolare sul quale sta lavorando l'avvocato Tolesino: prima dell'arresto, avvenuto a fine febbraio, Ianno aveva avuto qualche problema cardiaco. E si era sottoposto anche a una cura. "Se in carcere sapevano delle condizioni di salute di Alessandro come hanno potuto sottovalutare dei segnali tanto inequivocabili?" si domanda il penalista che ha presentato una domanda di accesso agli atti per confrontare la cartella clinica del paziente Ianno con quella del detenuto Alessandro. Frosinone: Sappe; detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato da un agente penitenziario www.linchiestaquotidiano.it, 26 marzo 2015 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Frosinone: salvato dall'Agente di Polizia Penitenziaria in servizio, il detenuto si trova attualmente ricoverato in ospedale in gravi condizioni. Protagonista, ieri pomeriggio, un detenuto sessantenne. "L'insano gesto - posto in essere mediante impiccamento - non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma il detenuto si trova attualmente in gravi condizioni in ospedale. Durante l'ora d'aria, ha approfittato dell'assenza del suo compagno di cella per mettere in atto l'insano gesto, legando una corda ricavata dal lenzuolo alla grata della finestra e al collo, per poi lasciarsi penzolare. Soltanto grazie all'intervento provvidenziale dell'Agente di sezione si è evitato che l'estremo gesto avesse conseguenze fatali. Immediatamente soccorso dal personale medico ed infermieristico presente in carcere, il detenuto è stato successivamente trasportato d'urgenza al pronto soccorso dell'ospedale cittadino, dove tutt'ora si trova ricoverato in gravi condizioni. L'ennesimo evento critico accaduto in un carcere italiano è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Maurizio Somma, segretario regionale Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, sottolinea che "alla data del 28 febbraio scorso erano detenute a Frosinone 505 persone. Negli ultimi dodici mesi del 2014, nel penitenziario frusinate, si sono contati 10 tentati suicidi, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 82 episodi di autolesionismo, 28 colluttazioni e 10 ferimenti". "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Frosinone - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", conclude Capece. "Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia". Caserta: l'Opg Aversa chiude... anzi no, torna a essere una prigione di Damiano Aliprandi Il Garantista, 26 marzo 2015 L'Ospedale giudiziario psichiatrico di Aversa chiuderà, ma rimarrà sempre un carcere. Dopo il 31 marzo prossimo - giorno della chiusura degli Opg stabilito dalla legge - l'Opg verrà trasformato in un "Istituto di Reclusione" per condannati non pericolosi. Il Provveditore regionale campano dell'Amministrazione Penitenziaria Tommaso Contestabile, ha dichiarato: "Ho già presentato al ministero di della Giustizia un progetto di riconversione dell'Opg in istituto per 150-200 detenuti a basso indice di pericolosità". Intanto ha fatto visita nella struttura la Commissione Igiene e Sanità del Senato guidata dal senatore Lucio Romano. La delegazione, accompagnata dalla direttrice Elisabetta Palmieri, è giunta per "valutare lo stato attuale di assistenza degli internati e l'andamento del processo di dismissione attraverso delle audizioni con i responsabili". Per legge, gli Opg vanno chiusi entro il 1° aprile di quest'anno ma in molti territori le Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza), che dovrebbero prendere in cura gli internati, non sono operative. Romano a riguardo ha dichiarato: "Se le Regioni non saranno in grado in tempi ragionevoli di dare assistenza ai soggetti attualmente internati negli Opg verrà nominato un commissario ad acta che dovrà farsi carico di risolvere la situazione. Già in due circostanze la data di chiusura è stata prorogata, nonostante l'opposizione mia e di alcuni colleghi, ma è arrivato il momento di attuare la normativa che prevede un cambio di mentalità epocale, con il passaggio da una dimensione esclusivamente giudiziaria ad una assistenziale. Le Rems non saranno piccoli Opg". Nel frattempo, sempre a proposito della riconversione dell'ospedale giudiziario, la direttrice dell'Opg Elisabetta Palmieri ha spiegato che "il nuovo istituto dovrebbe ospitare soprattutto condannati con pena definitiva ma non ergastolani, mentre una piccola parte dovrebbero essere detenuti in attesa di giudizio inviatici dal Tribunale di Napoli Nord che oggi finiscono solitamente nella case circondariali Santa Maria Capua Vetere e Napoli". Per i nuovi ospiti che giungeranno nella città normanna è pronto il progetto "Habitat sociale" già finanziato con fondi della sanità penitenziaria e dal Dipartimento di Sanità Mentale dell'Asl di Caserta diretto dall'aversano Luigi Carrizzone. "Le celle - ha dichiarato il sociologo dell'Opg Massimo Ferrillo - non saranno come quelle delle normali carceri, spesso alienanti per i detenuti; i colori delle pareti saranno diversi e vivaci, ci sarà spazio per posizionare delle piantine, il letto sarà anche un divano. Sedici detenuti inoltre si costruiranno i mobili. Faremo in modo di migliorare l'ambiente carcerario". Non mancano le polemiche dei cittadini, i quali sono infastiditi che il nuovo istituto di reclusione sarà ubicato in pieno centro cittadino. Si sa, le carceri devono rimanere confinate nelle periferie, lontane dagli occhi indiscreti dei cittadini per bene. Altrimenti che emarginazione sociale sarebbe? Avellino: struttura psichiatrica per gli ex internati in Opg, cantiere ancora al palo di Michele De Leo Il Mattino, 26 marzo 2015 La comunità di San Nicola Baronia si prepara ad accogliere, con relativa tranquillità, la nascita in paese di una residenza per misure di sicurezza, una struttura destinata ad ospitare detenuti con problemi psichiatrici che possono aspirare ad un pieno reinserimento in società. "Ma è impensabile arrivare alla inaugurazione il 30 maggio" evidenziali sindaco Francesco Colella. I lavori di ristrutturazione devono ancora partire: la struttura nel centro del paese che ha prima ospitato un ospedale e quindi una residenza sanitaria per anziani ha bisogno di opere importanti di ammodernamento. "Non credo possano bastare due mesi - evidenzia il primo cittadino - per il rifacimento del tetto, la sistemazione esterna, il cambio degli infissi, l'istallazione di un sistema di allarme e video sorveglianza". Opere da 760mila euro, per i quali la ditta incaricata, che ha vinto la gara d'appalto avviata nello scorso mese di novembre, non si è ancora vista consegnare i lavori. La gente di San Nicola Baronia "ha accettato la nascita della strutturar al fianco dell'aspetto umano e della necessità di favorire il recupero e il reinserimento di malati psichiatrici che sono detenuti per reati non gravi, l'apertura di una residenza per misure di sicurezza può rappresentare anche un'opportunità positiva da cogliere per un piccolo centro come il nostro". Il servizio potrebbe creare, infatti, un minimo indotto, oltre ai poco più di trenta addetti che saranno occupati all'interno dell'ex ospedale. Il primo cittadino è convinto che i dipendenti della Rems - che sarà gestita dall'azienda sanitaria di Avellino in collaborazione con il Ministero della Giustizia - oltre agli eventuali visitatori dei pazienti ospitati potrebbero portare benefici anche all'economia locale. Intanto, "l'accettazione da parte della comunità locale dell'apertura di una residenza per misure di sicurezza" è arrivata anche grazie alle assicurazioni avute, in prima battuta, da parte dei vertici dell'azienda sanitaria, che hanno messo subito a tacere gli allarmismi. "La struttura - afferma ancora Colella - è destinata ad ospitare pazienti (venti detenuti, tutti di sesso maschile, provenienti dai territori di competenza delle aziende sanitarie di Avellino, Benevento, Napoli 3 Sud e Salerno) che possono essere recuperati e che hanno commesso reati non gravi". Non saranno trasferiti - a San Nicola e nella altre Rems che sorgeranno in regione Campania - detenuti per reati gravi pure con l'attenuante della malattia psichiatrica. Per questi ultimi dovrebbero essere allestite delle particolari sezioni nelle case circondariali "come già avvenuto presso il carcere di Sant'Angelo dei Lombardi". Ad avvalorare le assicurazioni pervenute al sindaco, ci sarebbero pure le modalità di gestione della struttura che sorgerà a San Nicola Baronia. "Non ci saranno guardie giurate - continua il primo cittadino Colella - e non ci sarà personale di controllo. I poco più di trenta addetti che saranno impegnati presso la residenza per misure di sicurezza sono tutte riferibili all'ambito sanitario". Pesaro: Sappe; detenuto appicca incendio nella cella, terzo episodio simile da inizio anno www.viverepesaro.it, 26 marzo 2015 Le fiamme divampano per la sesta volta negli ultimi 5 mesi e per la terza dall'inizio dell'anno all'interno del carcere di Pesaro. La denuncia è del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Spiega il Segretario Generale Sappe Donato Capece: "Quel che accade all'interno del carcere di Pesaro è inquietante ed i numeri sono quelli di un fenomeno che, alimentato dall'effetto emulativo, ha ormai assunto le proporzioni dell'emergenza. Il copione si è ripetuto nella tarda mattinata di lunedì 23 marzo scorso all'interno della Prima sezione detentiva. Ancora una volta recitato da un detenuto di origine magrebina che, con la complicità di altri due ristretti connazionali, R.S. e B.Y., il primo dei quali già protagonista delle analoghe azioni delittuose dello scorso febbraio, si è reso responsabile dei reati di incendio, danneggiamento, violenza, minaccia a pubblico ufficiale e detenzione di armi da taglio. A.A. classe 1986, allontanato da altri istituti regionali, è stato assegnato a Pesaro con il marchio della pericolosità. Una assegnazione che vede Villa Fastigi sempre come istituto detentivo che riceve i detenuti più problematici, con gravi ricadute sul servizio della Polizia Penitenziaria in termini di stress e operativi". Il Sappe tira un sospiro di sollievo "per l'ennesima tragedia evitata dal coraggio e dalla professionalità degli uomini del Reparto di Polizia penitenziaria di Pesaro" ma solleva dubbi sull'Amministrazione penitenziaria regionale per la "sempre più confusionaria politica di gestione, movimentazione e assegnazione dei detenuti nei circuiti regionali, ammesso che di circuiti si possa parlare. Il tutto mentre dall'Ufficio di sorveglianza cominciano ad arrivare, con il rigetto delle istanze di risarcimento avanzate per l'asserita sofferta condizione di sovraffollamento, le prime conferme a suggello dell'umanità del trattamento penitenziario dell'Istituto e del rispetto dei diritti inviolabili". Nicandro Silvestri, segretario regionale marchigiano del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, sottolinea che "alla data del 28 febbraio scorso erano detenute a Pesaro 260 persone (927 erano quelle complessivamente presenti nelle carceri delle Marche). Negli ultimi dodici mesi del 2014, nel penitenziario pesarese, si sono contati 6 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti. Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere a Pesaro con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità del penitenziario di Pesaro e delle carceri delle Marche sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria". Cremona: autolesionismo in cella, detenuto ingerisce candeggina, un altro psicofarmaci La Provincia di Cremona, 26 marzo 2015 "Ancora tensioni e follia in carcere. Un detenuto che ingerisce candeggina. Un altro che si ferisce. Un terzo che si intossica di psico-farmaci. Nel penitenziario il clima pesante è evidente. Via direttore e comandante". Attacca con queste parole, dure, diretteci comunicato con il quale un sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, il Sappe, torna a puntare i riflettori su quel che accade nella casa circondariale di Cremona, la struttura dove pochi giorni fa è stato toccato il record storico di detenuti stranieri, il 76 per cento del totale (320 su 417). "Sembra senza fine l'ingovernabilità e l'invivibilità del carcere di Cremona - si legge nelle prime righe della nota diffusa ieri dal Sappe - per la continua riproposizione di eventi critici. Quei che accade ogni giorno nel carcere di Cremona e sintomatico di una ingovernabilità e di una disorganizzazione da parte del direttore del carcere e del comandante del reparto di polizia penitenziaria rispetto alle quali l'amministrazione della giustizia regionale e nazionale - prosegue il documento - non possono continuare a restare inerti ma devono quanto prima avvicendarli con altri dirigenti e funzionari evidentemente più stimolati professionalmente". Secondo il segretario generale dei sindacato autonomo polizia penitenziaria , Donato Capece, "non si può continuare cosi. L'altra notte un detenuto ha ingerito candeggina. Sabato un altro si è inflitto lesioni al corpo mentre un terzo si è intossicato trangugiando psicofarmaci. Un altro ristretto - prosegue Capece - è stato colpito da infarto. Come si può lavorare in queste condizioni, con picchi di stress pazzeschi e il serio rischio di subire in prima persona queste forme di follia detentiva da parte di alcuni detenuti? E perché succedono tutte queste cose a Cremona? Possibile che lì, dove ci sono 417 detenuti, meno della metà di quelli presenti a San Vittore a Milano (965) ed un terzo di quelli ristretti a Opera (1.271), ci siano stati nel 2014 più episodi di autolesionismo (120) che nei due penitenziari milanesi (46 a San Vittore, 35 a Opera)? Come mai a Cremona 17 detenuti hanno tentato il suicidio nel 2014 rispetto ai 4 di Opera ed ai 14 di San Vittore, con un numero di presenze nettamente superiore? E allora che senso ha dire che tutto va bene, quasi che il Sappe fosse visionario, arrivando a minacciare ritorsioni ai nostri sindacalisti che ci raccontano quel che succede tra le quattro mura del carcere di via Palosca? Serve altro. Sarebbe ora di cambiare direttore e comandante a Cremona". Savona: in carcere per scontare 10 giorni, malato tumore fa chemio scortato dagli agenti di O. Stevanin e C. Vimercati La Stampa, 26 marzo 2015 Il caso del muratore finito in carcere per scontare una pena di 10 giorni. L'ex moglie: "Assassini liberi e lui dentro perché guidava ubriaco". "Ci sono delinquenti che stanno fuori dal carcere. Assassini liberi. E il mio ex marito? Lui è finito in cella per scontare dieci giorni, dico dieci giorni, di arresto. E per cosa? Guida in stato di ebbrezza. Lui, che fra l'altro è malato, ha un tumore, sta facendo la chemio". A parlare è l'ex moglie di V.E., il muratore sessantenne, che sabato scorso è stato arrestato dai carabinieri perché deve scontare dieci giorni di carcere per una vicenda che risaliva al settembre del 2006, quando durante un controllo stradale, era risultato che guidava ubriaco. Un caso di fanta-giustizia, ma non di mala giustizia, perché come emerge dalla ricostruzione della vicenda, tutte le parti in causa hanno fatto il loro dovere, non ci sono state dimenticanze, disattenzioni, negligenze: giudici, ufficio esecuzione della Procura, l'avvocato difensore, il giudice di sorveglianza. Ma alla fine, come dice ora la ex moglie, un "po' di amaro in bocca resta. Possibile che non c'erano soluzioni per evitargli la cella?". A quanto pare no. L'odissea di V.E. ha inizio il 12 settembre del 2006, nove anni fa, quando viene denunciato per guida in stato di ebbrezza. È recidivo, il muratore, e questo ha finito per costargli caro. Il 13 gennaio del 2009, il primo grado del processo, a Savona, si chiude con una condanna a dieci giorni di arresto e 500 euro di multa senza sospensione condizionale. L'appello (23 dicembre 2009) conferma la sentenza di Savona e la condanna diventa definitiva il 30 marzo del 2010. Passano i mesi, altri due anni, e il 28 maggio del 2012 (con notifica del provvedimento all'avvocato difensore l'11 giugno successivo) l'ufficio esecuzione della Procura sospende l'esecuzione della pena. L'avvocato di V.E. fa quindi istanza al giudice di sorveglianza di Genova che al suo assistito vengano concessi o la detenzione domiciliare o l'affidamento in prova ai servizi sociali. Istanza, però, che viene respinta e il 26 marzo del 2013 l'ufficio esecuzione della Procura di Savona ne prende atto, revoca la sospensione dell'esecuzione della pena. È il passo che precede l'ordine di carcerazione che a EV. è stato notificato domenica scorsa. Vicenda chiusa per la giustizia ma che fa riflettere. "Un'anomalia del nostro sistema giudiziario - dice Michele Lorenzo segretario regionale del Sappe il sindacato autonomo degli agenti penitenziari -. In un caso del genere, con una persona oltretutto malata, bisogna evitargli il carcere. Non dimentichiamo cosa costa un detenuto, 150-170 euro al giorno. E vogliamo proprio credere che con quei 10 giorni di reclusione, il carcere abbia assolto al suo compito che è quello della rieducazione?". Intanto oggi V.E. andrà a fare la chemio in ospedale. Ammanettato e scortato dagli agenti. Treviso: l'allarme della Uil-Pa Penitenziari "Il carcere minorile è affollato" di Federico Cipolla La Tribuna di Treviso, 26 marzo 2015 Secondo il sindacato non c'è la dovuta separazione fra zona di prima accoglienza e area di detenzione. "Siamo lontani dai parametri di civiltà che si addicono a un paese democratico come il nostro". Secondo il sindacato Uil è emergenza sovraffollamento nel carcere minorile Spazi promiscui e spesso troppo ridotti. È questa la situazione del carcere minorile di Treviso secondo la Uil-Pa Penitenziari. Ieri Gennarino De Fazio, segretario nazionale della sigla sindacale, con i dirigenti regionale e provinciale Leonardo Angiulli e Vincenzo Pascale, è andato in visita al carcere minorile di Treviso, nell'ambito dell'operazione "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori". Si tratta di una serie di ispezioni negli istituti penali che terminano con un dossier fotografico. "Il carcere minorile di Treviso è una struttura realizzata anni fa, e che difficilmente riesce a rispondere alle norme che nel frattempo sono sopravvenute. È di fatto un'ala della casa circondariale. E ogni intervento realizzato è pensato solo per migliorare le condizioni dell'utenza, sottraendo spazi agli operatori", spiega De Fazio. Insomma si guarda più ai detenuti che non a chi lavora nel carcere: "Ma è una logica sbagliata, perché far lavorare in cattive condizione gli operatori, ricade poi anche sui detenuti". Diverse le anomalie riscontrate e fotografate all'interno del carcere minorile, ma sono due quelle prese ad esempio per dimostrare la necessità di interventi sulla struttura. Uno su tutti, il centro di prima accoglienza (cpa), le cui finestre si affacciano sul carcere. "Dovrebbe essere una struttura esterna, e invece oltre a essere di fatto interna, mette a contatto visivo i detenuti con chi si trova nel cpa", aggiunge De Fazio. "Ma chi sta nel primo centro di accoglienza, è spesso in attesa della decisione del giudice e non è detto che entri poi nel carcere minorile". Se le comodità certo mancano ai detenuti, anche le guardie penitenziarie sono costrette a lavorare in condizioni al limite del sopportabile. Una trentina gli operatori, che hanno a disposizione un unico bagno. "In più si trova vicino all'unico telefono a disposizione dei detenuti, con solo una parete a dividerli. Non viene tutelata la privacy nemmeno dei ragazzi al telefono". A ciò si aggiunga il fatto che non sono previsti percorsi specifici per le guardie, come non ci sono uffici dedicati, con spazi adeguati. "Siamo leggermente sotto organico, ma questo è in linea con lo scenario nazionale", prosegue De Fazio. Sovraffollato invece il carcere minorile. Ufficialmente potrebbe detenere solo 12 ragazzi, mentre oggi ce ne sono 15; con evidenti problemi di spazi. In una camera dormono addirittura in quattro, contravvenendo alla norma che prevede che ognuno debba avere almeno tre metri quadrati di spazio. Per De Fazio la situazione della Casa circondariale, "è lontana dal raggiungere i parametri di civiltà e di dignità che si addicono a un moderno paese democratico". Inoltre restano delle difficoltà di organizzazione, e di distribuzione del personale. "Abbiamo registrato pessime condizioni di lavoro", prosegue il segretario regionale Leonardo Angiulli, "dovute anche a un'organizzazione che reputiamo assolutamente deficiente, e che si inserisce in un contesto di relazioni sindacali pressoché inesistenti". Insomma, il sindacato chiede una svolta. Sanremo (Im): detenuto danneggia cella, la protesta del Sappe www.ligurianotizie.it, 26 marzo 2015 Nuovi problemi per la gestione sicurezza del penitenziario di Sanremo. Ad affermarlo è il Sappe ligure che racconta come un detenuto affetto da problemi psichiatrici abbia danneggiato la propria cella. "Nei confronti dei poliziotti di turno intervenuti - spiega Lorenzo del Sappe - il detenuto ha scagliato contro ogni oggetto che aveva a portata di mano, non solo, ma si è anche auto lesionato ed ha ingerito delle pile ed oggetti di metallo. Non con poca difficoltà la Polizia Penitenziaria è riuscita nel riportarlo alla ragione ed assicurarlo alle cure ospedaliere". "È assurdo - continua il segretario Lorenzo - che a Sanremo vengano convogliati detenuti dalla difficile gestione e con problemi psichiatrici, ribadiamo che l'istituto non è una struttura ospedaliera, questi soggetti necessitano di cure e di continua assistenza sia psicologica che medica e questo non può essere affidato alla Polizia Penitenziaria ed al carcere. Ma lo sconcerto si ottiene quando il Direttore, che permane in quell'istituto da ben 25 lunghi anni, non pone la sua attenzione agli eventi critici, tanto meno alla dotazione di protezione individuale in uso alla sicurezza, mettendo a loro disposizione solo dei semplici guanti in lattice, senza maschere protettive e senza nessun protocollo ben definito per le emergenze. E ci chiediamo che fine hanno fatto le promesse dell'assessore Montaldo circa il piano di intervento nelle carceri liguri a favore del personale anche con l'organizzazione di corsi? Ad oggi solo parole e nessuna concretizzazione. Abbiamo anche chiesto un incontro con il Prefetto ed attendiamo una risposta. Ma la giornata di guerriglia non si è esaurita con questo evento. Altri due detenuti sono stati sorpresi con una lametta nascosta in bocca, non certo con intenti pacifici". Il Sappe attacca la direzione del carcere di Sanremo per quanto riguarda "la gestione sicurezza" definita "molto approssimativa" con "la Polizia Penitenziaria che in maniera autodidatta e mettendo a repentaglio la propria incolumità, riesce ad arginare alle inadempienza della Direzione". "La quotidianità dell'istituto si connota con atti di ordinaria violenza come televisori lanciati per terra in segno di protesta, detenuti che sono incompatibili con il regime detentivo e comunque restano in istituto. A questo risponde l'assenza della Direzione che non si preoccupa di quanto accade a danno della Polizia Penitenziaria subissata da continui eventi critici tipici da guerriglia interna che hanno deteriorato l'ambiente e la sicurezza". Il Sappe accusa il direttore ed il comandante chiedendone l' avvicendamento. "25 anni alla direzione dello stesso istituto sono tanti - conclude il segretario Lorenzo - e subentra l'assuefazione e la mancanza di interesse verso i reali problemi dell'istituto che oggi sono veramente tanti, per questo il Sappe chiede l'avvicendamento del Direttore e del Comandante". Milano: i detenuti diventano dog-sitter, cani ex-randagi nel carcere di Bollate di Roberta Ragni www.greenme.it, 26 marzo 2015 Onda, Titti e Tato. Sono alcuni dei cani che scodinzolano per il carcere di Bollate. Perché proprio qui si svolge un corso per operatori dog-sitter professionali ideato e progettato appositamente per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. A fine corso i detenuti conseguiranno tesserino tecnico e certificazione nazionale del Csen - il Centro Sportivo Educativo Nazionale e potranno svolgere autonomamente attività quali dog sitter, dog walker e dogdaycare. Si tratta di un progetto originale e nobile inserito nell'offerta ricreativo-culturale rivolta alle persone in esecuzione penale, che si svolge con cadenza settimanale, sia presso la sezione femminile che presso la sezione maschile. Organizzato e coordinato dal Divet dell'Università Statale di Milano, unisce all'obiettivo di rieducazione, crescita culturale e reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti quello del recupero e dell'adottabilità dei cani randagi ospitati da canili. Il percorso sarà strutturato su un modello innovativo di Eaa-Educazione assistita con animali professionalmente qualificante e in linea con quanto prescritto dalle linee guida nazionali in materia di interventi assistiti con animali (Iaa). Oltre a conferire agli allievi le tecniche e la professionalità di operatori del ramo pet care, il corso costituirà per i detenuti anche una vera e propria esperienza di pet therapy, un tipo di attività già in atto a Bollate sotto la supervisione dell'associazione Cani Dentro Onlus. Dopo la fase di formazione, si passerà alla creazione di un network operativo volto a facilitare l'assunzione dei detenuti autorizzati al lavoro esterno presso aziende agricole e di pet care. I vantaggi ci sono anche per i cani coinvolti nell'intervento, che saranno ex-randagi ospiti di canili o rifugi, preventivamente sottoposti a percorsi di rieducazione e socializzazione ad opera di personale specializzato. Questo tipo di lavoro, l'acquisizione delle attitudini richieste dalla pet therapy rappresenterà per questi cani una ulteriore occasione di socializzazione e relazione positiva con l'uomo, favorendo sensibilmente le loro possibilità di venire adottati e accolti in famiglia. "Malgrado la presenza di attività di pet therapy sia un dato abbastanza diffuso, il settore lavorativo del pet care è ancora molto poco proposto nelle carceri - osserva Federica Pirrone, ricercatrice alla Statale e responsabile del Progetto - esso invece si adatta molto bene alla realtà carceraria, perché comprende attività che richiedono un'assunzione di responsabilità da parte della persona e quindi risultano importanti dal punto di vista del trattamento; inoltre interessa figure professionale molto ricercate dal mercato". Ma come hanno reagito i detenuti? L'incontro con gli animali, racconta l'associazione Cani dentro, ha suscitato subito interesse e curiosità, anche perché alcuni partecipanti possiedono cani e animali in genere e la possibilità di avere un contatto diretto con il cane permette loro, da una parte, di riprendere il filo di un'affettività improvvisamente, e forzatamente interrotta, e, dall'altra, di tornare, seppur virtualmente e per un breve lasso di tempo, in libertà. I risultati sono così positivi e incoraggianti che non possiamo che augurarci che venga esteso a tutte le strutture di detenzione. Reggio Calabria: cosca mafiosa ormai estinta, ergastolano affiliato ottiene lavoro esterno Ansa, 26 marzo 2015 Il detenuto già da tempo ogni sabato mattina viaggia da solo in autobus per recarsi in una casa di riposo a fare volontariato. Si aprono le porte del carcere in cui è recluso per Santo Barreca, 56 anni, pluriergastolano della frazione Pellaro di Reggio Calabria, detenuto da 25 anni. A conclusione di un complesso iter procedimentale è intervenuto il parere favorevole della Procura in merito all'ammissione del condannato al lavoro esterno. Santo Barreca già ritenuto organico all'omonima cosca operante nella zona sud della città calabrese, che un Gip presso il Tribunale di Reggio Calabria, sin dal febbraio 2011 ha considerato "completamente estinta", "era da tempo avviato - spiegano gli avvocati - verso il completo recupero al consorzio civile". L'uomo aveva ottenuto dal Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Sassari una serie di permessi che gli hanno consentito di assentarsi temporaneamente dalla casa circondariale della città sarda per partecipare a manifestazioni esterne. "L'ergastolano Santo Barreca - spiegano i legali - in parziale esecuzione del programma connesso ai benefici di cui all'art. 21 O.P., da tempo espleta lodevolmente una giornata di volontariato presso la comunità alloggio per anziani (distante 40 Km da Tempio Pausania) che raggiunge ogni sabato con mezzo pubblico libero e senza vincoli di sorta uscendo la mattina alle otto per rientrare con le stesse modalità la sera. Il detenuto è inoltre autorizzato all'uso di un'utenza telefonica mobile". Secondo il sostituto procuratore Lombardo "il regime carcerario di alta sicurezza nel quale il Barreca Santo è attualmente allocato ha perso sostanzialmente la sua efficacia e la sua finalità" concludendo in ordine all'invocata declassificazione del detenuto affermando che "la stessa è già avvenuta sul piano sostanziale". Per gli avvocati Steve ed Aurelio Chizzoniti "l'ergastolano Barreca è ormai pronto ad usufruire di ulteriori benefici alternativi alla detenzione quali permessi premio e semilibertà alle cui conquiste "la già concessa autorizzazione al lavoro all'esterno è strettamente propedeutica". Gli stessi difensori hanno voluto sottolineare che "l'obbiettivo tenacemente raggiunto da Santo Barreca non soltanto premia un percorso di adamantino recupero dello stesso ma essenzialmente traduce una eloquente vittoria dello Stato nel cui contesto è dimostrato che la finalità detentiva volta al recupero del condannato non è soltanto un'astratta e quasi surreale previsione ex art. 27 della Costituzione". Teramo: "ergastolo bianco", oggi si svolge convegno sull'imminente chiusura degli Opg La Città, 26 marzo 2015 Il 31 marzo prossimo è la scadenza fissata dalla legge per la chiusura dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) ancora aperti sul territorio nazionale. Per l'occasione anche l'Università degli Studi di Teramo, sulla scorta di altre iniziative nazionali, promuove, con un convegno, una riflessione e un confronto per sollecitare l'attenzione dell'opinione pubblica su una questione da anni al centro del dibattito politico e sociale. Il convegno che si terrà oggi, giovedì 26 marzo, alle ore 16.00 nella Sala delle lauree della Facoltà di Giurisprudenza, sarà aperto dal rettore Luciano D'Amico e introdotto da Annacarla Valeriano che illustrerà le radici culturali del manicomio criminale. Seguirà il dibattito Sguardi a confronto, presieduto dall'onorevole Rita Bernardini, segretario nazionale dei Radicali italiani, al quale parteciperanno Francesco Saverio Moschetta, medico psichiatra che parlerà della 180 e della chiusura del Manicomio di Teramo, Igor De Amicis, commissario di Polizia Penitenziaria che si soffermerà sul tema della sicurezza intramurale e Giovanni Spinosa, presidente del Tribunale di Teramo con un intervento dal titolo "La chiusura degli Opg: un'occasione da non perdere". Il dibattito sarà moderato dal giornalista Rai Antimo Amore. Verona: "Democrazie e diritti", i ragazzi ne parlano. Incontro il prossimo 30 marzo Ristretti Orizzonti, 26 marzo 2015 Incontro il prossimo 30 marzo, alla Gran Guardia di Verona ore 9.00 - 12.30. Mesi di lavoro, discussioni, ricerca, produzione di documenti è tutto ciò che ha coinvolto gli studenti di 7 Istituti di Scuola Media Superiore della nostra città al fine di rispondere all'appello europeo 2014/2015 su come diffondere, ampliandolo, il concetto di Democrazie e Diritti La presentazione di questo immenso lavoro si terrà lunedì 30 marzo alle 9.00 al Palazzo della Gran Guardia di Verona. Tematica, dedicata all'irrinunciabile diritto alla salute, questa 3° edizione vede impegnati gli studenti di Marco Polo, Pindemonte, Fracastoro, Montanari, Einaudi, Angeli e la Consulta degli Studenti con una propria, speciale proposta legata alla protezione fisica delle persone più indifese. Coordinati dalla prof. Annalisa Tiberio, responsabile degli interventi educativi per il Contingente del Ministero dell'Istruzione dell' Università e della Ricerca e dalla dr Margherita Forestan, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, il progetto che trova il suo principale sponsor e attento sostenitore nel Presidente del Consiglio Comunale di Verona, dr Luca Zanotto, ha scelto quest'anno di affrontare uno dei diritti definiti "non negoziabili", quello della salute appunto, qui analizzato in molte della sue declinazioni: salute e depressione, salute e malattie mentali, salute e alimentazione, salute e ambiente, salute e dipendenze, salute e donazione di sangue e midollo. Gli studenti hanno elaborato filmati, raccolto storie, testimonianze dirette, cercato stimoli nel mondo della cultura che li circonda e lo hanno fatto utilizzando i loro saperi e le loro curiosità. Sarà interessante seguire il percorso che sul tema della salute è stato effettuato, mettere insieme i contributi per unica grande narrazione affidata, dalla progettazione alla presentazione, esclusivamente a loro: i giovani. Airola (Bn): laboratori per i detenuti dell'Ipm, finanziato il progetto "Artivamente" www.ilciriaco.it, 26 marzo 2015 L'associazione di Promozione sociale Sannio Irpinia Lab, mediante i propri rappresentanti dott.ssa Daniela Miele (Presidente) e dott. Luca Mauriello (Direttore), ha firmato in questi giorni (24 marzo 2015) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della gioventù e del Servizio Civile Nazionale a Roma, la convenzione per l'ammissione di un importante progetto dal titolo "Artivamente", finanziato nell'ambito del Piano Azione Coesione "Giovani per il Sociale". Con la collaborazione della Cooperativa Sociale s.r.l. Onlus "Familiamo", della Fondazione Opus Solidarietastis Pax Onlus di Avellino, dell'Associazione di Volontariato Gruppo Donatori di Sangue Fratres di Conza della Campania, della Confederazione Nazionale degli artigiani della Provincia di Benevento e dell'Istituto Penale per Minorenni di Airola, saranno realizzati dei laboratori gratuiti di Ceramica, recupero e restauro, lavorazione e package del feltro, fotografia e grafica informatica e un laboratorio di Recitazione, Musica e teatro, destinati ai detenuti dell'istituto penitenziario per minorenni di Airola (Bn), ai rifugiati politici del Centro di Conza della Campania nonché agli immigrati presenti sul territorio avellinese. Il progetto, persegue l'obiettivo di favorire l'integrazione delle persone con difficoltà sociali nel proprio contesto di vita attraverso l'esperienza artistica. Attraverso le diverse forme di arte, s'intende favorire l'incontro e la conoscenza tra le persone, per far sperimentare delle situazioni in cui ogni individuo può esprimere se stesso nella propria identità. Tutto ciò verrà realizzato in una concezione sociale dell'intervento educativo- riabilitativo e terapeutico, che sappia promuovere delle dinamiche cooperative e solidali. L'associazione non è nuova a questo tipo di progetti. Sin dal 2007, anno della sua costituzione, ha sempre dimostrato il suo interesse per le problematiche e i disagi sociali, mettendo in campo azioni volte alla sensibilizzazione e all'informazione sulle diverse tematiche inerenti il mondo dei giovani e dei più disagiati. Conoscere i modelli comunicativi, possederne la cultura attraverso la parola vuol dire innanzitutto riconoscere il valore universale della persona e sviluppare conseguentemente una comune cultura che può tradursi in occasioni di arricchimento e di maturazione civile; consente di relazionarsi con gli altri, essere riconosciuti e riconoscere, poter costruire o ricostruire un'identità civile, e migliorare la qualità della vita. Allo stesso modo il progetto "Artivamente" il cui taglio del nastro è previsto a partire dal Maggio 2015 e durerà per circa 18 mesi, coinvolgerà sul territorio diverse professionalità creando reali occasioni di lavoro a giovani laureati del Sannio e dell'Irpinia. Difatti l'intervento, prevede il coinvolgimento di circa 20 professionalità tra psicologi, consulenti economici e legali, esperti in comunicazione, giovani maestri artigiani, esperti in recitazione e teatro, assistenti sociali, educatori, ecc... mediante azioni tese alla diffusione della legalità tra i giovani, l'impegno civico e la partecipazione attiva nelle problematiche sociali, la cooperazione in attività di sostegno alle fasce deboli, la promozione di attività che avvicinino i giovani alle istituzioni. Roma: teatro-carcere; Bertold Brecht a Rebibbia e l'Arturo Ui diventa "Arturo Ué!" di Marta Rizzo La Repubblica, 26 marzo 2015 Il 26 marzo, nel carcere di Rebibbia, i detenuti recitano la rivisitazione, meridionalista, dell'opera di Bertold Brecht La resistibile ascesa di Arturto Ui. Dal 2003, il Centro Studi Enrico Maria Salerno si occupa di portare il teatro dentro Rebibbia e di far uscire mentalmente i carcerati dalla loro condizione reclusa. Alle 14 del 26 marzo il carcere di Rebibbia apre le porte al pubblico, per uno spettacolo recitato da carcerati, più o meno colpevoli di reati più o meno gravi. La forza catartica della parola teatrale, non libera solo le coscienze chi assiste a questo genere di rappresentazioni, ma dà maggior senso alle frustrate esistenze dei detenuti, che sembrano viverre la loro condizione in maniera quasi affrancata, nel denso tempo-spazio dell'interpretazione; al di là di qualsiasi retorica sulla funzione caritatevole del teatro "sociale". Le parole del regista di Arturo Uè! per capire meglio il lavoro con attori non professionisti. La resistibile ascesa di Arturo Ui diventa Arturo Uè!. Bertold Brecht, fuggiasco a Helsinki nel 1941 e in attesa di partire per l'America, scrive un testo (rappresentato solo nel 1958) in cui ogni personaggio corrisponde un reale delinquente di quel Nazismo che ha sconvolto per sempre il mondo. La cecità di fronte ai molti e inascoltati moniti di intellettuali e artisti che hanno previsto la più grande barbarie della storia risulta insopportabile all'autore che, per farsi ben comprendere dal mondo intero, ambienta le vicende dell'Arturo Ui a Chicago, sotto l'allegoria dell'ascesa al potere di un gangster. I criminali dentro e quelli fuori. "Brecht dice che la storia è opera di bande di criminali che, di epoca in epoca, assumono nuove sembianze - dice il regista della trasposizione di Rebibbia, Fabio Cavalli - Ho domandato ai detenuti-attori cosa ne pensassero. Mi hanno risposto che sì, chi il crimine lo organizza sui palcoscenici mondiali spesso resta impunito o celebrato con statue, mentre chi vive il crimine nelle periferie fra Napoli e Palermo marcisce in galera. Nessuno, meglio dei gangster di Rebibbia, può interpretare lo spirito di Brecht... E pretendono anche loro la statua, magari non di bronzo, pure di cartapesta, persino di cartone disegnato. Ecco: Brecht a fumetti! E siccome le lingue dei miei attori hanno gli accenti tronchi e aspri del meridione, intitoliamo questo cartone animato in 3D Arturo Ué!". Il senso etico del teatro in carcere. "Il Teatro non cerca appellativi: di prosa, d'avanguardia, classico, sociale, tutte definizioni vane. O c'è o non c'è - continua Cavalli - Come dice Aristotele, la catarsi nel teatro ha due funzioni: una estetica, legata al piacere della rappresentazione, e una psicologica, che riguarda una specie di temporanea terapia consolatoria di fronte all'incombere delle angosce del vivere. La funzione "terapeutica" sembrerebbe connaturata all'arte stessa. Il teatro, che sia più o meno sociale, si prende cura di noi, come interpreti o spettatori. Se è brutto non serve. Ma se funziona è potente. L'arte abbassa la recidività. Se è vero che il tasso medio di recidiva dei carcerati è del 65%, e invece, fra coloro che frequentano l'arte il numero si abbassa sotto il 10%, mi pare che i "portatori" di teatro in questi luoghi (i responsabili del ruolo etico del teatro in carcere), si carichino di una bella responsabilità. In carcere il teatro interviene a più livelli: sul corpo e sulla mente dei reclusi; sull'immagine che di loro hanno agenti, direttori, magistrati e sull'immagine restituita ai familiari, agli amici che aspettano di fuori e vedono scomparire il loro congiunto dalle pagine di cronaca nera per riapparire su quelle dello spettacolo. E il pubblico che entra, finalmente sfata il pregiudizio che là dentro abitino miserabili. Sul terreno comune, seppure transitorio, della poesia, le differenze fra liberi e reclusi scompaiono". Il senso doloroso della libertà. "Il carcere è un habitus mentale - prosegue il regista - Per chi commette crimini l'incontro con la cella è messo in conto fin dall'inizio. Se nasci nelle periferie e a cinque anni già vendi sigarette di contrabbando e a sette spacci il tuo primo pezzo di fumo, il carcere ce l'hai nel destino. Famiglia disgregata, abbandono scolastico, sopravvivenza obbligatoria dentro un mondo di sopraffazione e povertà materiale e culturale: così si finisce dentro una, infinite volte. E dentro ripeti la lezione imparata fuori. Certo, la bellezza, l'arte, il teatro possono causare un indicibile dolore, perché aprono gli occhi, allargano l'orizzonte. Ci avvertono di quante cose saremmo potuti essere e non siamo stati. Ma questo vale per tutti, non solo per chi sta pagando per i propri errori". "Teatro libero di Rebibbia": più seguito dei teatri stabili. Il 26 marzo è la 53° Giornata mondiale del Teatro, indetta dall'Istituto Internazionale del Teatro della sede Unesco di Parigi, ma è anche la II Giornata nazionale del Teatro in carcere, da quando il "Teatro Libero di Rebibbia" (anche sull'onda del successo mondiale del film dei fratelli Taviani Cesare deve morire, girato a Rebibbia), viene considerato una tra le esperienze teatrali più interessanti e riuscite d'Europa: "La sala di 350 posti è sempre piena - conclude Cavalli - migliaia di spettatori l'anno, che i teatri di fuori se li sognano. Cosa c'è di meglio che fare teatro così? Si possono mettere in scena testi che fuori non sono più rappresentabili, nemmeno dai Teatri Stabili: Shakespeare, Middleton, Brecht, Giordano Bruno, Gogol, i Tragici, le Commedie classiche con tanto di Cori, come se ne vedono solo d'estate al Teatro greco di Siracusa". L'organizzazione del "Teatro Libero di Rebibbia". Sotto la direzione artistica di Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli, il "Teatro Libero di Rebibbia" conta 3 compagnie teatrali, più di 100 detenuti-attori e una band musicale; il loro spazio, il Teatro del carcere, è diventato una delle principali sale teatrali di Roma per affluenza di pubblico, capace di realizzare collaborazioni anche con altri teatri della città, (in particolare con l'Argentina-Teatro di Roma). In collaborazione con il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, il Provveditorato Regionale del Lazio e la Direzione della Casa Circondariale Roma Rebibbia N. C., le esperienze di questo teatro, sono il frutto del pervicace lavoro del Centro Studi Enrico Maia Salerno, impegnato dal 2003 nella realizzazione di progetti culturali rivolti a detenuti. In quest'occasione, Arturo Uè! ha scene a fumetti di Alessandro De Nino, canzoni e musiche dal vivo di Franco Moretti, costumi di Paola Pischedda. Milano: un'Ape car shakespeariana… progetto del Centro europeo Teatro e Carcere Ansa, 26 marzo 2015 Animazioni teatrali e merende bio viaggeranno in Ape car dalle periferie ai giardini segreti del centro di Milano, in occasione di Expo, grazie al progetto "To bee or not to bee" del Centro europeo teatro e carcere diretto da Donatella Massimilla, che da 20 anni lavora all'interno del carcere di San Vittore. Proprio la casa circondariale milanese, dopodomani, in occasione della 53a Giornata Mondiale del Teatro e della 2a Giornata Nazionale Teatro e Carcere, ospiterà la performance itinerante "Le Bisbetiche domate", in collaborazione con l'Università degli Studi di Milano. Protagonisti della pièce, che attraverserà il braccio femminile e quello maschile del carcere, sono detenuti e detenute di San Vittore, che nel pomeriggio saranno ospiti del festival Sguardi Altrove allo Spazio Oberdan, dove daranno vita alla performance intermediale "Sguardi Edge. Un viaggio da Dentro a Fuori San Vittore Globe Theatre". Per quanto riguarda il metodo di lavoro "c'è libertà assoluta di aderire ai laboratori teatrali del Cetec, non c'è - racconta Massimilla - una selezione fatta sulla base di provini. Si parte con grandi gruppi e si arriva a una selezione naturale perché lavoriamo molto duramente: il teatro dentro San Vittore è praticato come fuori, inoltre c'è l'aspetto terapeutico e pedagogico del teatro che emerge in modo particolare in un luogo recluso dove c'è negazione del corpo e delle voce e si sente forte la necessità di rielaborare i propri vissuti". In questo senso "mi considero non solo una regista ma una pedagoga, amo lavorare - spiega Massimilla - sui vissuti degli attori che diventano dei sotto testi, una sorta di auto-drammaturgia". Oltre al valore terapeutico, il teatro veicola il reinserimento lavorativo: "ci sono ex detenuti che hanno continuato a fare teatro e con questa passione - racconta Massimilla - hanno accompagnato il loro reinserimento lavorativo, facendo per esempio esperienza di teatro-cucina". Proprio in questa scia si inserisce il progetto di "To bee or not to bee", l'ape car shakespeariana di teatro e cibo di strada che attraverserà Milano durante Expo, guidata dagli ex detenuti che si sono formati alla libera università di teatro e alla libera scuola di cucina di San Vittore. Televisione: questa sera su Rai3 il cortometraggio "Mala Vita" con Argentero e Montanari Adnkronos, 26 marzo 2015 Dopo essere stato trasmesso in anteprima sulla piattaforma Ray, da lunedì 16 marzo, il cortometraggio "Mala vita", della durata di 25 minuti, va in onda su Rai3, domani alle 22.45. "Mala Vita" nasce da un progetto rivolto ai detenuti nelle carceri italiane e che ha l'obiettivo di far emergere problematiche sociali spesso ignorate. Il breve film, per la regia di Angelo Licata, vede protagonista Luca Argentero, nei panni di un uomo abituato ad entrare e uscire dal carcere, che considera quasi la sua seconda casa, e dove tutto sommato riesce a cavarsela. Questa volta, però, dovrà vedersela con un boss della camorra prepotente e aggressivo, che gli renderà più pesante la già difficile esistenza in galera. Nel ruolo dell'antagonista, Francesco Montanari, che molti ricorderanno quale interprete del personaggio del Libanese in "Romanzo Criminale - La Serie", che dà vita ad un delinquente duro e violento. Prodotto da Fabrizio Rizzolo per Riviera Film, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, è liberamente ispirato al racconto "Pure in galera ha da passà ‘a nuttata" di Giuseppe Rampello, vincitore del "Premio Goliarda Sapienza" 2013, edito da RAI ERI nella raccolta "Mala Vita". I proventi derivati dall'opera saranno interamente devoluti a beneficio di progetti volti al miglioramento delle condizioni carcerarie. Televisione: "1992", nella nuova serie tv di Sky il grande romanzo di Mani Pulite di Katia Ippaso Il Garantista, 26 marzo 2015 Chi c'era, ha vissuto in presa diretta le fasi inesorabili di quel terremoto. Si respirava un'elettricità, un'euforia, e naturalmente anche una follia che avrebbe provocato esili e suicidi. Il tribunale di Milano, le sue strade, gli interni che fino a quel momento erano chiusi a chiave coi loro segreti di famiglia, divennero il teatro di un dramma che è difficile storicizzare: una guerra inedita alla corruzione che si rivelerà spietata ma che in quel momento portava in sé una grande novità, una luce in grado di accecare. Un oggetto che porti la data "1992" non può che destare sentimenti contrastanti, e ci si chiede come mai non ci sia scritto accanto anche "fragile". Come si narra Tangentopoli? Da quale distanza, con quale lente d'osservazione? "1992, la nuova serie tv di Sky, prodotta da Wildside in collaborazione con la7 (da stasera in onda su Sky Atlantic Hd, in contemporanea con altri 4 paesi: Inghilterra, germania, Irlanda e Austria) è andata a rovistare tra le pagine chiare e le pagine scure di quella straordinaria vicenda che ha segnato un punto zero della storia giudiziaria e politica di questo paese, trovando un equilibrio che era certamente difficile da mettere a fuoco, e che è il frutto di un lavoro serio ma anche leggero, che rispetta il documento ma non si intimorisce né indietreggia rispetto alla materia. Il primo dei dieci episodi parte dal 17 febbraio del 1992 con l'arresto di Mario Chiesa (Valerio Binasco), presidente di un ente comunale di assistenza agli anziani, il Pio Albergo Trivulzio. Il modo con cui viene raccontato ci fa capire che questi personaggi non verranno condannati e neanche assolti, perché non è questo il compito di una creazione televisiva (la prima di Sky veramente originale: le altre serie erano basate su romanzi), ma descritti nella loro ruvida ambiguità: gli inquirenti, gli indagati, i poliziotti, i pubblicitari, le loro amanti, le loro figlie, tutti. Prendiamo Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi). I suoi primi gesti sono persino sgradevoli, come sono antipatici i comportamenti di Dell'Utri. Ma ogni azione è polisemica. Persino un personaggio come quello di Stefano Accorsi (che ha avuto l'idea della serie), freddo uomo di marketing con un passato nero alle spalle, porta fin dalle prime battute un doppio tracciato che rende fertile la narrazione. Anche chi non è abituato alla serialità, troverà in "1992" un'opera densa, molto poco supponente, ma seduttiva, che si avrà voglia di seguire fino alla fine. Scritta con indubbia abilità dagli sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo (story editor Nicola Lusuardi), che hanno saputo mischiare il documento e l'invenzione, si affida ad una regia priva di quegli egotismi estetizzanti di cui ormai siamo saturi: la firma Giuseppe Gagliardi ("Tatanka"), che in conferenza stampa dichiara: "In genere un regista parte per la tangente, invece in questo caso è stato bello prendere stimoli da tutti". Perché gli sceneggiatori sono stati sempre sul set, per creare in contemporanea una partitura che si è andata costruendo nel corso di lunghi tre anni, tra ideazione, documentazione, riprese, montaggio. In "1992" ci sono alcuni personaggi i cui nomi aderiscono al piano del reale (Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Giovanni Falcone, Mario Segni, il leghista Formentini, Umberto Bossi), e altri sei personaggi immaginari che trattengono invece le scorie di tutto ciò che non si trasforma automaticamente in mega-inchiesta, una certa temperie culturale, una febbre, e a cui gli autori hanno potuto attribuire anche vicende private che potessero irrobustire il piano romanzesco della vicenda: i due poliziotti che lavorano nel pool di Antonio Di Pietro, Luca Pastore (Domenico Diele) e Rocco Venturi (Alessandro Roja), entrambi portatori di verità nascoste, la bella Veronica Castello (Miriam Leone) la cui ambizione è "di non essere una delle tante", che passerà nelle mani di tanti uomini importanti prima di intrecciare una relazione differente con Pietro Bosco (Guido Caprino), quel reduce dall'Iraq chiamato "Batman" che diventerà deputato leghista a Roma, e infine Beatrice Mainaghi (Tea Falco), figlia borderline di un potente industriale che finirà anche lui in manette, giovane erede suo malgrado di un impero che non sa come amministrare. Questo non significa che ci sia un doppio registro, perché anche i personaggi "veri" sono comunque ricreati nel senso che gli autori si sono sentiti liberi di fare i loro tradimenti e gli attori di cercare le proprie linee: "questo è l'Antonio Di Pietro di Gerardi, non è Antonio Di Pietro" dice Stefano Accorsi, che ha insistito per realizzare "1992" al fine di raccontare un'epoca su cui non esisteva narrazione: "Tangentopoli ha portato un senso di sorpresa enorme. Era una grande novità. E volevamo ricreare quel clima. Non c'è nessuna idealizzazione di quei personaggi, semmai sono cinematografati in un modo che non è politico né morale". Deliberatamente, gli autori hanno scelto di non trovare un attore per il personaggio di Berlusconi, che entra in scena nel secondo episodio ma che diventerà centrale strada facendo: sarà presente solo attraverso il materiale d'archivio, perché, come spiegano gli sceneggiatori, il Cavaliere ha avuto una sovra-esposizione rappresentativa e non c'era bisogno di un altro volto ancora. C'è invece il personaggio di Bettino Craxi, anche se viene dato respiro più all'intreccio stesso che all'uomo. C'è poi un'altra protagonista della serie, forse la più importante: la città di Milano, ricostruita con attenzione filologica ("abbiamo dovuto abolire soprattutto le smart e non inquadrare i grattacieli che nel frattempo sono sorti" ha dichiarato il regista) e con la consapevolezza che forse Tangentopoli non sarebbe potuta accadere che lì. Non più Napoli, o Roma, ma Milano, diventa lo scenario di una trattazione cinematografica che cuce i personaggi e i loro discorsi attorno al tessuto sonoro dell'unico luogo d'Italia in grado di esaltare i talenti fino a mangiarseli vivi, come aveva giustamente intuito negli anni Sessanta Luciano Bianciardi, che a Milano aveva ambientato "La vita agra". Una città grigia ma anche affascinante e sinuosa, operosa e cinica, l'unica capace di lanciare in alto le sue creature migliori, senza occuparsi minimamente di dare poi riparo alle loro cadute. Libri: "Anima" di Wajdi Mouawad e la singolarità umana della violenza recensione di Marco Rovelli Il Manifesto, 26 marzo 2015 "Anima" di Wajdi Mouawad per Fazi editore. Un omicidio dove la ricerca dell'assassino è una discesa negli abissi della Storia. Un romanzo scandito dalle parole degli animali. Cosa intende Spinoza per etica, si chiedeva Deleuze. Per capirlo pensiamo all'etologia, ovvero una "scienza pratica delle maniere di essere". Se la morale ha a che fare con l'essenza e con i valori, e dunque col giudizio, un'etica parla di singolarità, dove singolarità è cosa opposta a individualismo, perché non di atomi separati gli uni dagli altri si tratta, ma di un mondo fatto di infinite connessioni tra ogni singolarità. Ecco, Anima di Wajdi Mouawad (Fazi, 18 euro) è un romanzo-mondo che è (anche) un capolavoro di etica. Quella raccontato da Mouawad è un universo senza giudizio dove ogni ente (uomo o animale che sia) è connesso con ogni altro ente, ognuno restituito nella sua forma di vita assolutamente singolare, eppure intramata dell'altro da sé. Un universo di risonanze di "anime animali", dove a risuonare è una scrittura impetuosa, trascinante, a tratti miracolosa. Mouawad è un libanese cresciuto in Francia, dove è celebratissimo anche come autore teatrale. In questo romanzo, la messa in scena inizia con un evento tremendo: il selvaggio, folle, macabro omicidio di una donna. Da lì inizia il viaggio: il suo uomo si mette sulle tracce dell'assassino psicopatico, che la polizia ha rinunciato a cercare, e in quella rincorsa si aprono mondi, uno dopo l'altro. Prima le riserve indiane del Quebec, perché l'assassino è un mohawk; e poi sarà una corsa lungo tutti gli States, un punto zero che non si fermerà alla ricerca dell'assassino, ma proseguirà fino alla radice dell'orrore, una radice che abitava il protagonista da sempre. Sarà insieme una anabasi e una catabasi, per Wahhch (nome che in libanese significa "mostruoso", dove il cognome Debch significa "brutale"), una discesa/risalita al suo proprio orrore rimosso e cancellato, fino a quella Sabra e Chatila dove era nato, e dove aveva vissuto l'orrore che adesso doveva riscoprire nelle sue viscere, nella sua anima. Ma l'anima, racconta Mouwad, è una sola, nei suoi infiniti modi: tutto si tiene, tutto è connesso nel regno della vita. Anime ed animali, tutto risuona. Ed è questa la particolarità narrativa del romanzo: che a raccontare gli eventi sono gli animali che li osservano. È il loro sguardo "alieno" a farne parola. Fino a scoprire che quella presunta alterità degli animali rispetto all'uomo è solo apparente, fino a scoprire la profonda animalità dell'uomo stesso, nel bene e nel male: là dove bene e male scompaiono, e c'è solo un unico canto animale che tutto tiene, e lascia scorrere. Le parole risuonano grazie al silenzio degli animali che ascoltano gli uomini, ed è proprio grazie a quel silenzio che il mondo degli umani si riconnette al proprio senso più profondo. Gli animali guardano, e la sapienza narrativa di Mouawad riesce a mostrarci lo sguardo degli animali, la loro specifica forma di vita (restituita con precisione nella scrittura: del resto ogni capitolo, nelle prime due parti del romanzo, si intitola col nome scientifico dell'animale che racconta, e già questo segnala che non c'è impressionismo naif nell'immaginarsi quegli sguardi). Si costruisce così una trama di senso del mondo che coincide con la trama stessa del romanzo. Ovviamente, non c'è nessuna idillizzazione della natura: la ferocia appartiene al regno animale, è una delle modalità di quell'interconnessione universale. Ma la ferocia dell'umano ha un suo senso specifico, sembra dirci Mouawad, particolarmente abietto. E allora il viaggio del protagonista a partire dalla ferocia che lo ha toccato è un percorso ("una macabra caccia al tesoro") che va a toccare le corde più intime della violenza degli uomini, i frammenti di una storia esplosa che sono le loro guerre, che si richiamano le une con le altre. "Gli umani sono soli", così a un certo punto riflette Tomahawak, lo scimpanzé del capo indiano che aiuterà Wahhch. "Malgrado la pioggia, malgrado gli animali, malgrado i fiumi e gli alberi e il cielo e malgrado il fuoco. Gli umani sono sempre sulla soglia. Hanno avuto il dono della verticalità, e tuttavia conducono la loro esistenza curvi sotto un peso invisibile. C'è qualcosa che li schiaccia. Piove: ecco che corrono. Sperano nella venuta delle divinità, ma non vedono gli occhi degli animali che li guardano. Non sentono il nostro silenzio che li ascolta. Prigionieri della loro ragione, la maggior parte di loro non faranno mai il grande passo dell'irragionevolezza, se non al prezzo di un'illuminazione che li lascerà esangui, e folli. Sono assorbiti da ciò che hanno sotto mano e quando le loro mani sono vuote, se le portano al viso e piangono. Sono fatti così". Droghe: Scotto (Sel): non vogliamo diffondere la marijuana, ma regolamentarla Askanews, 26 marzo 2015 Superare Fini-Giovanardi, basta tribunale inquisizione. "Se dessimo spazio al monopolio pubblico daremmo l'opportunità allo stato di maggiori introiti e più sicurezza ai cittadini". Lo ha detto il capogruppo di Sel alla Camera, Arturo Scotto, dopo la conferenza stampa di presentazione della proposta di legge sulla libertà di coltivazione della cannabis e sul monopolio pubblico della cannabis. Con questa proposta, ha spiegato Scotto, "vogliamo mettere fine alle norme antiproibizioniste e repressive di dieci anni di dominio della destra italiana. La legge Fini-Giovanardi ha affollato le carceri e depresso generazioni: occorre una svolta, non si può avere questa impostazione in un paese moderno come l'Italia. Tutto il mondo va verso quella direzione, solo in Italia siamo ancora al tribunale della santa inquisizione". "Si tratta di un'operazione antimafia: vogliamo sottrarre un mercato a coloro che hanno distrutto questo paese, lo hanno ridotto alla periferia dell'impero, a coloro che hanno accumulato enormi capitali in questi anni, offeso il territorio, ammazzato per droga. Questa operazione antimafia ha anche un impatto economico molto significativo: stimiamo un impatto per la fiscalità generale tra i 5 e i 10 miliardi di euro. Immaginiamo solo cosa si può fare con quei soldi: dal reddito di cittadinanza, al riassetto del territorio, all'abbassamento delle tasse. Inoltre abbiamo una mole intensa di donne e uomini che in questi anni hanno scontato per queste norme repressive mesi in carcere". "Non pensiamo che bisogna diffondere la marijuana - ha concluso Scotto - ma regolamentarla, interrompere una catena di continuità tra droghe leggere e pesanti perché quando un giovane entra in un mercato la distinzione non è molto facile, è anche un'operazione pedagogica". Turchia: Dogan Alagoz, alias "Dott Droga" fugge dal carcere con falso ordine rilascio Ansa, 26 marzo 2015 Un importante boss della droga turco già detenuto anche in Italia, Francia e Germania è riuscito a scappare dal carcere grazie a un falso fax che ordinava la sua liberazione. Dogan Alagoz, detto anche "Dottor Droga" o "Barone della Sintetica", scontava una condanna a 12 anni e mezzo nella prigione di Silivri, a Istanbul. In gennaio un fax, apparentemente proveniente dalla Corte Suprema d'Appello, che ordinava la sua scarcerazione era arrivato alla Corte Penale di Istanbul. Il funzionario responsabile aveva avuto conferma dell'ordine, spiega Hurriyet, chiamando il numero di telefono indicato sul fax, che aveva poi girato alla direzione della prigione. Alagoz era stato quindi rimesso in libertà. Solo dopo due mesi un procuratore di Istanbul ha constatato che il "barone" non era più in carcere. Ha controllato, si è reso conto della truffa, e ha dato l'allarme. Alagoz è di nuovo attivamente ricercato in Turchia. Ma è possibile che nel frattempo sia fuggito, indisturbato, all'estero. Turchia: "insulti" al presidente Erdogan, due vignettisti condannati a 11 mesi di carcere Adnkronos, 26 marzo 2015 Due vignettisti turchi del popolare settimanale satirico Penguen, Bahadir Baruter e Ozer Aydogan, sono stati condannati a undici mesi di carcere con l'accusa di aver "insultato" il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. I due erano stati citati in giudizio il 21 agosto del 2014 a proposito della vignetta di copertina della rivista satirica sull'elezione di Erdogan alla presidenza della Turchia. Nel disegno appariva Erdogan che chiedeva ai funzionari del palazzo presidenziale di Ankara se avessero preparato "qualche giornalista da macellare", in riferimento al rituale del sacrificio nell'Islam, per celebrare la sua elezione. Dopo la pubblicazione, un cittadino turco, Cem Safcier, ha sporto querela sostenendo che uno dei funzionari raffigurati nella vignetta e che accoglie Erdogan farebbe un gesto con la mano considerato offensivo nella cultura turca, ovvero starebbe a indicare che la persona alla quale viene rivolto è omosessuale. Il gesto disegnato, secondo la procura, va "contro le norme etiche e culturali della società turca" e "va oltre il diritto di critica, è un insulto". L'accusa aveva chiesto per Baruter e Aydogan due anni di carcere, diminuiti a 11 mesi e 20 giorni per buona condotta. Gli avvocati di Erdogan avevano riferito che il loro era stato un "insulto a pubblico ufficiale". Nella prima udienza che si è svolta a Istanbul lo scorso 19 marzo, i due vignettisti si sono proclamati innocenti e affermano che il concetto su cui la vignetta ironizza non ha nulla a che fare con il gesto del funzionario, che sarebbe stato disegnato in modo casuale. "Se si guarda all'intera vignetta si può vedere che la battuta non ha nulla a che fare con quel gesto", ha detto Baruter. Non è la prima volta che Penguen finisce nel mirino di Erdogan, che ha già chiesto 40mila lire turche di danni per una serie di vignette nelle quali, quando era premier, venne rappresentato con le sembianze di vari animali. I disegni erano stati pubblicati in risposta a precedenti condanne di vignettisti dei quotidiani Cumhuriyet ed Evrensel, sempre per insulto a Erdogan. Sono oltre 70 le persone processate in Turchia per aver "insultato" Erdogan dalla sua elezione alla presidenza nell'agosto del 2014. Il reato di "insulto" viene punito in Turchia con tre mesi di carcere, ma se si tratta di un pubblico ufficiale la pena viene estesa a un anno.