Gli Stati Generali sul carcere e la pena visti… dal di dentro di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 21 marzo 2015 "Gli ergastolani sono sciolti da tutti i problemi meno da uno solo, quello di essere ancora vivi". (Diario di un ergastolano: www.carmelomusumeci.com). Prima parte. Un po' di storia: gli Stati Generali era un organo di rappresentazione nazionale esistente in Francia prima del 1789, con il compito di approvare la politica tributaria del re. Luigi XVI vi fece appello per affrontare la crisi finanziaria che stava paralizzando la Francia, dando così inizio alla Rivoluzione francese. E quando il nostro Ministro della Giustizia Orlando ha annunciato la convocazione degli Stati Generali sul carcere e sulla pena, ho pensato che questa sarebbe stata l'occasione per portare finalmente la legalità e la nostra Carta Costituzionale in galera. I giornalisti detenuti volontari della Redazione di Ristretti Orizzonti si sono subito entusiasmati di questa convocazione e ci siamo detti: finalmente un ministro della giustizia rivoluzionario. L'entusiasmo però sta un po' scemando, perché nonostante ci siamo subito messi pubblicamente a disposizione per dare una mano e per rappresentare le ragioni dei detenuti delle nostre Patrie Galere, il ministro non ha ancora ufficializzato il coinvolgimento delle persone detenute e abbiamo paura che abbia anche ripensato all'idea di fare gli Stati Generali. Oggi nella riunione redazionale che facciamo tutti i giorni abbiamo discusso cosa fare di tutte queste testimonianze, contributi e pareri che abbiamo già raccolto dai detenuti per gli Stati Generali, se questi non si faranno mai (dei politici i prigionieri hanno imparato a non fidarsi). Nella mia ingenuità ho pensato di farci gli Stati Generali da soli pubblicando sulla Rassegna Stampa di "Ristretti Orizzonti" tutte le testimonianze che ci sono arrivate da molte carceri d'Italia. Ed eccovi le prime. Carmelo, io non so neppure che c. siano gli Stati Generali, ma ti posso dire che ieri sera ci siamo messi d'accordo per fare una partita di pallone (tre contro tre) al passeggio grande. E questa mattina le guardie ci hanno creato difficoltà perché dicono che hanno l'ordine di non farci giocare a pallone. Per certi nostri presunti educatori, che hanno la cultura della punizione, il carcere non basta, per loro il carcere deve essere un inferno e qui nella sezione dell'Alta Sicurezza ci proibiscono persino di tirare due calci ad un pallone. Poi l'altro giorno ho ricevuto una agenda che mi ha mandato mia figlia e c'era inserita una graziosa penna che mi hanno sequestrato perché di metallo e questi tipi di oggetti non passano per l'eventualità che ci si possa fare dei coltelli. E quando mia figlia mi manda qualcosa e non la posso avere mi danno l'anima. Carmelo, ieri è venuto a trovarmi nella mia cella un parlamentare, simpatico e solare. Mi ha trasmesso la sua solidarietà per la battaglia che sto portando avanti per essere trasferito. Il direttore come al solito ha perso una buona occasione per stare zitto giustificando il mancato trasferimento perché sono pericoloso. Non capisce o non vuole capire che bisognerebbe mettere sullo stesso piano sicurezza e "rieducazione" come d'altronde la legge vuole. Ho ricevuto la circolare del Dap sui trasferimenti che mi hai mandato ed ho fatto subito la richiesta per essere mandato in un carcere vicino a casa, ma non mi hanno ancora risposto. E sono otto mesi che non vedo mia moglie e non capisco cosa stanno ancora aspettando ad applicarmi il diritto della territorialità della pena. Ti confido che ho una grande voglia di prendere carta e penna per mandare a quel paese le anime nere del Ministero di Giustizia e non è detto che non lo farò. Mi raccomando se fate gli Stati Generali nel carcere di Padova parlate che non ci concedono i trasferimenti vicino alle nostre famiglie e che persino neppure ci rispondano. Giustizia: Papa Bergoglio "l'ergastolo pena di morte occulta" di Luca Kocci Il Manifesto, 21 marzo 2015 Dal Papa, che oggi a Napoli pranzerà con i detenuti di Poggioreale, una condanna senza appello dei sistemi giudiziari disumani, le pene capitali e le detenzioni a vita. Papa Francesco torna ad intervenire sul tema della giustizia penale e condanna senza appello la pena di morte ma anche l'ergastolo e le lunghe detenzioni. "La pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del condannato", "per uno Stato di diritto rappresenta un fallimento", scrive Bergoglio in una lettera che ieri ha consegnato a Federico Mayor, presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte - una cui delegazione è stata ricevuta in udienza in Vaticano, ringraziandolo ed incoraggiandolo ad andare avanti nell'impegno per una "moratoria universale delle esecuzioni in tutto il mondo, al fine di abolire la pena capitale". La pena di morte, per il papa, è inutile, perché si applica a persone detenute in carcere, "private della propria libertà", la cui capacità di recare danno quindi "è già stata neutralizzata. Ed ingiusta: "Non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano", "non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta", rischia di mandare a morte degli innocenti ("a motivo della difettosa selettività del sistema penale e di fronte alla possibilità dell'errore giudiziario"), "nega al condannato la possibilità della riparazione o correzione del danno causato". Senza considerare le implicazioni che precedono l'esecuzione della pena, ovvero "un trattamento crudele, disumano e degradante, come lo sono anche l'angoscia previa al momento dell'esecuzione e la terribile attesa tra l'emissione della sentenza e l'applicazione della pena, una "tortura" che, in nome del dovuto processo, suole durare molti anni, e che nell'anticamera della morte non poche volte porta alla malattia e alla follia". Quindi - Bergoglio cita Dostoevskij -, "uccidere chi ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L'assassinio in virtù di una sentenza è più spaventoso dell'assassinio che commette un criminale". L'ergastolo non è da meno: è una "pena di morte occulta". L'ergastolo, scrive il papa, e le lunghe detenzioni (che "comportano l'impossibilità per il condannato di progettare un futuro in libertà") "possono essere considerate pene di morte occulte, poiché con esse non si priva il colpevole della sua libertà, ma si cerca di privarlo della speranza". Non è la prima volta che Bergoglio interviene su questo tema. Lo aveva già fatto ad ottobre, ricevendo una delegazione dell'Associazione internazionale di diritto penale. In quell'occasione aveva usato più o meno le stesse parole sia sulla pena di morte che sull'ergastolo, allora definito "pena di morte nascosta". Una sottolineatura doppia, quindi, di quella che evidentemente dal papa viene considerata un'urgenza e che chiama direttamente in causa i sistemi giudiziari degli Stati, compreso quello italiano. E che per singolare coincidenza è arrivata alla vigilia della visita pastorale a Napoli, dove oggi Bergoglio pranzerà a nel carcere di Poggioreale, insieme anche a 90 detenuti - fra cui 10 provenienti dalla sezione riservata a transessuali, omosessuali e malati di Aids, in rappresentanza degli circa 1.900 reclusi. La giornata di ieri di papa Francesco è stata caratterizzata anche da un altro episodio, che parzialmente potrebbe essere ricondotto al tema della giustizia, sebbene ecclesiastica. Bergoglio ha infatti accettato "la rinuncia ai diritti e alle prerogative del cardinalato" da parte del cardinale scozzese Keith OBrien, colpevole di abusi sessuali nei confronti di quattro giovani seminaristi e preti della sua diocesi negli anni 80. Per questi motivi lo stesso OBrien nel febbraio 2013 si era dimesso dalla guida della diocesi di Edimburgo e, anche a causa dello scandalo internazionale suscitato dalla notizia, aveva rinunciato a partecipare al Conclave che poi elesse pontefice Bergoglio. Era seguito poi un periodo di "preghiera e penitenza" - imposto da Francesco - e l'apertura di un'inchiesta canonica sul suo conto affidata a mons. Scicluna, già promotore di giustizia della Congregazione per la dottrina della fede, oggi arcivescovo di Malta, che evidentemente ha fatto il suo corso. Ora arrivano le dimissioni, subito accolte dal papa. Ma parlare di "tolleranza zero", nonostante quello di OBrien sia un precedente importante - l'ultimo caso di un cardinale "dimissionato" risale al 1927: il francese Louis Billot, sostenitore del movimento nazionalista Action française, condannato da Pio XI - pare fuori luogo: mantiene infatti il titolo onorifico di cardinale e, sebbene "fuori servizio", resta prete e vescovo. Giustizia: la lettera del Papa al presidente della Commissione contro la pena di morte L'Osservatore Romano, 21 marzo 2015 All'Eccellentissimo Federico Mayor, Presidente della Commissione Internazionale contro la Pena di Morte. Signor Presidente, con queste parole, desidero far giungere il mio saluto a tutti i membri della Commissione Internazionale contro la Pena di Morte, al gruppo di paesi che la sostengono e a quanti collaborano con l'organismo che lei presiede. Desidero inoltre esprimere il mio ringraziamento personale, e anche quello degli uomini di buona volontà, per il loro impegno con un mondo libero dalla pena di morte e per il loro contributo volto a stabilire una moratoria universale delle esecuzioni in tutto il mondo, al fine di abolire la pena capitale. Ho condiviso alcune idee su questo tema nella mia lettera all'Associazione Internazionale di Diritto Penale e all'Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia, del 30 maggio 2014. Ho avuto l'opportunità di approfondirle nel mio discorso di fronte alle cinque grandi associazioni mondiali dedite allo studio del diritto penale, della criminologia, e della vittimologia e le questioni penitenziarie, del 23 ottobre 2014. In questa occasione, desidero condividere con voi alcune riflessioni con cui la Chiesa possa contribuire allo sforzo umanistico della Commissione. Il Magistero della Chiesa, a partire dalla Sacra Scrittura e dall'esperienza millenaria del Popolo di Dio, difende la vita dal concepimento alla morte naturale, e sostiene la piena dignità umana in quanto immagine di Dio (cfr. Gn 1, 26). La vita umana è sacra perché fin dal suo inizio, dal primo istante del concepimento, è frutto dell'azione creatrice di Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2258), e da quel momento, l'uomo, la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, è oggetto di un amore personale da parte di Dio (cfr. Gaudium et spes, n. 24). Gli Stati possono uccidere per azione quando applicano la pena di morte, quando portano i loro popoli alla guerra o quando compiono esecuzioni extragiudiziali o sommarie. Possono uccidere anche per omissione, quando non garantiscono ai loro popoli l'accesso ai mezzi essenziali per la vita. "Così come il comandamento "non uccidere" pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire "no a un'economia dell'esclusione e della inequità" (Evangelii gaudium, n. 53). La vita, soprattutto quella umana, appartiene solo a Dio. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Come insegna sant'Ambrogio, Dio non volle punire Caino con l'omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte (cfr. Evangelium vitae, n. 9). In certe occasioni è necessario respingere proporzionalmente un'aggressione in corso per evitare che un aggressore causi un danno, e la necessità di neutralizzarlo può comportare la sua eliminazione; è il caso della legittima difesa (cfr. Evangelium vitae, n. 55). Tuttavia, i presupposti della legittima difesa personale non sono applicabili all'ambito sociale, senza rischio di travisamento. Di fatto, quando si applica la pena di morte, si uccidono persone non per aggressioni attuali, ma per danni commessi nel passato. Si applica inoltre a persone la cui capacità di recare danno non è attuale, ma che è già stata neutralizzata e che si trovano private della propria libertà. Oggigiorno la pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del condannato. È un'offesa all'inviolabilità della vita e alla dignità della persona umana che contraddice il disegno di Dio sull'uomo e sulla società e la sua giustizia misericordiosa, e impedisce di conformarsi a qualsiasi finalità giusta delle pene. Non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta. Per uno Stato di diritto, la pena di morte rappresenta un fallimento, perché lo obbliga a uccidere in nome della giustizia. Dostoevskij scrisse: "Uccidere chi ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L'assassinio in virtù di una sentenza è più spaventoso dell'assassinio che commette un criminale". Non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano. La pena di morte perde ogni legittimità a motivo della difettosa selettività del sistema penale e di fronte alla possibilità dell'errore giudiziario. La giustizia umana è imperfetta, e il non riconoscere la sua fallibilità può trasformarla in fonte di ingiustizie. Con l'applicazione della pena capitale, si nega al condannato la possibilità della riparazione o correzione del danno causato; la possibilità della confessione, con la quale l'uomo esprime la sua conversione interiore; e della contrizione, portico del pentimento e dell'espiazione, per giungere all'incontro con l'amore misericordioso e risanatore di Dio. La pena capitale è inoltre una pratica frequente a cui ricorrono alcuni regimi totalitari e gruppi di fanatici, per lo sterminio di dissidenti politici, di minoranze, e di ogni soggetto etichettato come "pericoloso" o che può essere percepito come una minaccia per il loro potere o per il conseguimento dei loro fini. Come nei primi secoli, anche in quello presente la Chiesa subisce l'applicazione di questa pena ai suoi nuovi martiri. La pena di morte è contraria al significato dell'humanitas e alla misericordia divina, che devono essere modello per la giustizia degli uomini. Implica un trattamento crudele, disumano e degradante, come lo sono anche l'angoscia previa al momento dell'esecuzione e la terribile attesa tra l'emissione della sentenza e l'applicazione della pena, una "tortura" che, in nome del dovuto processo, suole durare molti anni, e che nell'anticamera della morte non poche volte porta alla malattia e alla follia. In alcuni ambiti si dibatte sul modo di uccidere, come se si trattasse di trovare il modo di "farlo bene". Nel corso della storia, diversi meccanismi di morte sono stati difesi perché riducevano la sofferenza e l'agonia dei condannati. Ma non esiste una forma umana di uccidere un'altra persona. Oggigiorno non solo esistono mezzi per reprimere il crimine in modo efficace senza privare definitivamente della possibilità di redimersi chi lo ha commesso (cfr. Evangelium vitae, n. 27), ma si è anche sviluppata una maggiore sensibilità morale rispetto al valore della vita umana, suscitando una crescente avversione alla pena di morte e il sostegno dell'opinione pubblica alle diverse disposizioni che mirano alla sua abolizione o alla sospensione della sua applicazione (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 405). D'altro canto, la pena dell'ergastolo, come pure quelle che per la loro durata comportano l'impossibilità per il condannato di progettare un futuro in libertà, possono essere considerate pene di morte occulte, poiché con esse non si priva il colpevole della sua libertà, ma si cerca di privarlo della speranza. Ma, sebbene il sistema penale possa prendersi il tempo dei colpevoli, non potrà mai prendersi la loro speranza. Come ho detto nel mio discorso del 23 ottobre scorso, la pena di morte implica la negazione dell'amore per i nemici, predicata nel Vangelo. "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l'abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà". Cari amici, vi incoraggio a continuare con l'opera che state realizzando, poiché il mondo ha bisogno di testimoni della misericordia e della tenerezza di Dio. Mi congedo affidandovi al Signore Gesù, che nei giorni della sua vita terrena non volle che ferissero i suoi persecutori in sua difesa, — "Rimetti la spada nel fodero" (Mt 26, 52) — fu catturato e condannato ingiustamente a morte, e s'identificò con tutti i carcerati, colpevoli o meno: "Ero carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt 25, 36). Lui, che di fronte alla donna adultera non s'interrogò sulla sua colpevolezza, ma invitò gli accusatori a esaminare la propria coscienza prima di lapidarla (cfr. Gv 8, 1-11), vi conceda il dono della saggezza, affinché le azioni che intraprenderete a favore dell'abolizione di questa pena crudele, siano opportune e feconde. Vi chiedo di pregare per me. Cordialmente. Giustizia: carcere delle Costarelle, L'Aquila, nove donne sepolte vive al 41 bis di Francesco Lo Dico Il Garantista, 21 marzo 2015 Ora d'aria in compagnia di una sola detenuta, in una vasca di cemento da tre metri per tre. Massimo due libri e due quaderni: ma tutti tacciono. Sanno in pochi a quale tipo di asprezze va incontro un detenuto che è sottoposto al 41 bis, regime di carcere duro. E sono ancora meno quelli che conoscono la realtà della sezione femminile del carcere delle Costarelle, L'Aquila, dove le nove recluse vivono in un regime di carcere duro più duro degli altri. Le donne che lo abitano sono seppellite vive da anni. Recluse in un sepolcro entro il quale scalciano. Oltre il quale nessuno può sentirne lo strazio. Vivono in isolamento totale. Non riescono a far sentire la loro voce. A far sapere all'esterno quale sia la quotidiana umiliazione della loro dignità, in spregio delle stesse norme che regolano il 41 bis. "Un carcere femminile peggiore di Guantánamo e di Alcatraz", lo definisce l'esponente politico del centrosinistra aquilano, Giulio Petrilli. Un autentico bunker, dove è in vigore l'isolamento totale. Qui alle Costarelle, dove la sezione femminile speciale fu inaugurata nell'autunno del 2005 da Nadia Lioce, Laura Proietti e Diana Blefari, brigatiste coinvolte nei delitti Biagi e D'An-tona, le detenute sono trattate peggio dei boss mafiosi. Le loro celle si trovano alla fine di un lungo tunnel sotterraneo. Sono grandi due metri per due. Si affacciano sul nulla. E ancora peggio di così va per l'ora d'aria. Alla maggior parte dei boss mafiosi è consentito socializzare, scambiare due chiacchiere nell'in gruppi di sei persone. E in luoghi dove un po' d'aria, magari la si respira davvero. Non si parla certo dei giardini di Boboli. Ma di spazi che a volte arrivano alle dimensioni di un campo di calcetto. Non alle Costarelle, dove l'ora d'aria la si trascorre in una vasca di cemento grande tre metri per tre. In pratica è un po' come restare in cella. E del sole neanche l'ombra. Sarà per lo meno l'occasione per scambiare due chiacchiere, si potrebbe immaginare. Niente affatto. Alle donne delle Costarelle, Lioce compresa, è imposto di poter socializzare al massimo con una sola compagna. Se le due non si piacciono? Pazienza. E se una si ammala? L'ora d'aria te la fai da sola, come una pazza. E accaduto così poco tempo fa proprio alla Lioce. La compagna d'aria si ammalò per un bel po' di tempo. E così la brigatista che sconta la sua pena all'ergastolo, dovette subire un'inutile e dannosa pena accessoria: la condanna al silenzio totale. Si sostiene che la socializzazione, in regime di 41 bis, viene limitata per ragioni di sicurezza. Per impedire che mafiosi si parlino e possano scambiarsi informazioni. Con le dovute cautele, però chi è al 41 bis può trascorrere l'ora d'aria in gruppi di sei o sette persone. Non così alle Costarelle, dove tra l'altro, delle nove donne prigioniere, Lioce è l'unica ergastolana condannata per fatti terroristici. Di che cosa dovrebbe parlare con le altre detenute condannate per fatti di associazione mafiosa? E in secondo ordine, perché le donne di questo carcere possono trascorrere l'ora d'aria in coppia, e non in gruppo? Abolita la socialità, il desiderio di dire "come va", di restare umani nonostante tutto, si potrebbe credere che una detenuta delle Costarelle potrebbe vocarsi per lo meno ai piaceri dello studio e della lettura. Ma anche in questo caso, vince l'accanimento. Un accanimento che va oltre il 41 bis. Le sgradite ospiti del carcere aquiliano possono avere massimo due libri al mese, e due soli quaderni sui quali scrivere o prendere appunti. Diplomarsi, laurearsi, dedicarsi a uno studio? Pazza idea. I libri sono sottoposti a censura. Alle detenute è vietato scambiarsi libri. E possono averne soltanto se hanno denari da spendere. Un po' complicato farne a sufficienza, vivendo seppellite vive. Anche ai familiari e ai parenti, è vietato inviarne in regalo. E comunque deve trattarsi di libri nuovi. Vecchie edizioni di libri, che qualcuno si trova in casa, non possono essere consegnati. Immaginate che spasso, per chi magari vuole studiare e ha bisogno di approfondire su testi polverosi di cui non ci sono nuove edizioni. In pratica la norma, per chi sostiene esami universitari. A vivere in condizioni di questo genere, è facile ammalarsi. E fino a poco tempo fa, in questi casi, la beffa. Le detenute potevano essere visitate, anche per problemi intimi, solo in presenza di una guardia. Quanta intimità. Ma vivere in queste condizioni, significa anche andare via di testa. È già successo. È accaduto a Diana Blefari, prigioniera alle Costarelle. "Era caduta in uno stato di profonda prostrazione e inerzia psicologica. Se ne stava rannicchiata tutto il giorno nel letto, con la coperta fino agli occhi e senza nessun cenno di interesse per il mondo", racconta Elettra Deiana. Piegata dal carcere duro, Blefari si suicidò il 31 ottobre del 2009. Non si discute qui quali siano le colpe di queste detenute. Qui ci si chiede se è legittimo sottoporre chi sconta la sua pena, a un surplus di accanimento. A inutili torture che le circolari del Ministero autorizzano anche qui a Costarelle. Una tomba dove chi scalcia non può essere sentito. Dove queste detenute, ormai come spettri, interrogano tutti noi sul significato di dignità e diritti, che spetterebbero anche al peggiore dei criminali, in quanto essere umano. Giustizia: a Sollicciano e Biella… penzolavano con il cappio al collo, salvi per miracolo di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 marzo 2015 "Il detenuto mi tirava su e l'agente ha tagliato il cappio. Ma ti posso promettere che non è finita qua. Preferisco farla finita". Ennesimo doppio dramma sfiorato e un suicidio nelle nostre patrie galere. Dopo il carcere fiorentino di Sollicciano dove un detenuto ha dato fuoco alla cella e un altro ha tentato di suicidarsi, è stata la volta di Biella. Sono stati ben due infatti gli episodi di violenza che avrebbero potuto avere conseguenze ben più drammatiche senza il tempestivo intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Erano da poco passate le 14 nella giornata di martedì quando un detenuto di 32 anni di origine marocchina è stato salvato in extremis nella sua cella al primo piano della sezione B dopo che aveva tentato di togliersi la vita con la cinghia dell'accappatoio, legata alle sbarre della finestra. Gli agenti sono subito accorsi e lo hanno salvato appunto praticandogli un massaggio cardiaco. Subito dopo protagonista è stato un altro detenuto marocchino, di 21 anni, della medesima sezione, che al termine della doccia ha preso a schiaffi un agente per futili motivi. Lo stesso detenuto, visibilmente alterato, una volta tornato in cella ha preso una lametta e si è procurato una serie di ferite sul corpo, tanto che si è reso necessario il trasporto in ospedale, dove gli sono state praticate le cure del caso e dove è tutt'ora ricoverato. Sempre nella giornata di martedì, a Cuneo si è impiccato nella sua cella del carcere del Cerialdo un detenuto campano di 53 anni, che era sottoposto al regime detentivo del 41bis e condannato all'ergastolo. A darne notizia è il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria. Avrebbe usato un cordone fatto di lenzuola e lacci. L'uomo è Palmerino Gargiulo, classe 1960, nativo di Torre del Greco ed affiliato al clan camorristico dei Francois legato al clan Birra-Iacomino di Ercolano. Il suo corpo senza vita è stato trovato dalle guardie carcerarie. "Purtroppo - commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe - il pur tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari non ha potuto impedire che l'uomo, che era in cella da solo, mettesse in atto il tragico gesto". Sempre Capece poi conclude: "In un anno la popolazione detenuta in Italia è calata di poche migliaia di unità: il 28 febbraio scorso erano presenti nelle celle 53.982 detenuti, che erano l'anno prima 60.828; la situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione: ogni giorno, i poliziotti penitenziari nella prima linea delle sezioni detentive hanno a che fare, in media, con almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti". Nel frattempo è in corso una petizione popolare on line per aiutare Longobardi Vincenzo, detenuto nel carcere di Frosinone dal 2008 che ha più volte tentato il suicido. A riferirlo è stato lui stesso tramite una lettera inviata ad Alfredo Cosco, una delle "menti" che hanno ideato il seguitissimo blog dedicato ai detenuti "Le urla dal silenzio". La lettera esordisce così: "Caro Alfredo. Ti sto scrivendo per puro miracolo. Il 28 febbraio ho deciso di farla finita impiccandomi. Per puro miracolo un detenuto e la guardia si sono accorti che penzolavo. Sono corsi tempestivamente. Il detenuto mi tirava su e l'agente ha tagliato il cappio. Mi sono svegliato in infermeria. Ero incosciente di tutto. Ti posso promettere che non è finita qua. Sto male. Preferisco farla finita". La petizione per chiedere che il detenuto venga salvaguardato con delle misure alternative al carcere, è rivolta al direttore del carcere di Frosinone, al garante regionale dei detenuto Angiolo Marroni e al magistrato di sorveglianza di competenza. Giustizia: leggi anticorruzione; tante norme e troppi buchi consentono di farla franca di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 marzo 2015 Fermi tutti perché sono troppo severe, dice delle proposte di legge su corruzione, prescrizione e falso in bilancio chi vede una minaccia alle imprese in qualunque recupero di rigore. Fermi tutti perché quelle norme sono troppo poco severe, protesta al contrario chi mai è sazio di pene draconiane, prescrizioni eterne e intercettazioni indiscriminate. In realtà, se si guarda senza pregiudizio l'attuale versione dei testi al banco di prova dopo due anni di sonno in Parlamento e un anno di annunci a Palazzo Chigi, vi si trova un po' di tutto. Misure promettenti, a cominciare dall'attenuante premiale per gli imputati che con le proprie informazioni spezzino l'asse corruttore-corrotto. Ma anche furbizie, e i "vorrei ma non posso" frutto di troppi compromessi. Si può alzare quanto si vuole per la corruzione la pena minima-massima da 1-5 anni (com'era fino al 2102) a 4-8 anni (com'è oggi dopo la legge Severino) o a 6-10 anni (come propone ora il governo), e ha senso obbligare chi vuole patteggiare a restituire prima il profitto della tangente: ma ormai tutti hanno compreso che a prosciugare le tangenti attorno ai grandi appalti ben più gioverebbe impedire almeno che i "general contractors" continuino a scegliersi il direttore dei lavori che in teoria dovrebbe controllarne tempi e costi d'esecuzione; o fare ordine in un codice degli appalti di 1.560 commi (più 1.392 del regolamento di attuazione), modificato in 560 punti in 8 anni. Così come il predicato rispetto delle regole sarebbe più persuasivo se la politica tenesse ad esempio presente, specie dopo che tre giorni fa la Consulta glielo ha ricordato dichiarando incostituzionale un decreto del governo Monti e le successive proroghe dei governi Letta e Renzi, che senza concorso pubblico non si possono fare o sanare 1.200 nomine di dirigenti delle Agenzie fiscali, ora a rischio paralisi per quelle eccezioni su eccezioni. Che la salvezza non possa arrivare soltanto dalle leggi in sé, del resto, lo testimoniano le aspettative riposte nella tenaglia normativa fra auto-riciclaggio (condotta di chi cerca di occultare la provenienza illecita di ciò che ha guadagnato dalla commissione di un reato) e rimpatrio volontario dei capitali dall'estero entro settembre: grandi potenzialità ma controversi nodi interpretativi stanno producendo tanti convegni tra giudici-avvocati-commercialisti per capirci qualcosa, e sinora una sola contestazione di auto-riciclaggio ad opera del pool romano di Nello Rossi. Può accadere anche al nuovo falso in bilancio, benché sia lodevole l'inversione di tendenza di rinvigorire il reato depotenziato nel 2001 da Berlusconi, prevedendo (senza più soglie di punibilità) sino a 8 anni di carcere per gli amministratori sia delle società quotate, sia delle società non quotate ma controllanti (per esempio le casseforti familiari delle grandi dinastie imprenditoriali), sia dei gestori di risparmio pubblico e degli esercenti su un mercato regolamentato italiano o europeo. Quando infatti la relazione che accompagna l'emendamento del governo spiega di aver ricopiato la condotta punibile (l'esposizione di "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero") dall'attuale formulazione del reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle Autorità pubbliche di vigilanza tace però che la sta amputando di quattro paroline non da poco: fatti materiali non rispondenti al vero, "ancorché oggetto di valutazioni". A tenore letterale, dunque, resterebbe non punibile una importante fetta di falsi in bilancio: quelli per "valutazioni" (ad esempio tramite l'esagerazione o sottovalutazione della stima del magazzino o dell'ammortamento dei crediti o del valore di immobili e partecipazioni), che persino nella legge Berlusconi erano rimaste penalmente rilevanti seppure sopra la robusta soglia del 10% di scostamento dalla realtà. È un'incertezza ben più significativa, a ben vedere, della diatriba sulla non possibilità di intercettazioni per il falso in bilancio nelle società non quotate, dove il massimo di pena è stato appositamente limato a 5 anni. E si aggiunge all'altra incertezza di come distinguere, sempre nelle non quotate, i falsi in bilancio di "tenue entità" (per i quali i magistrati potranno disporre la non punibilità) da quelli di "lieve entità" (che resteranno reato ma con pena ridotta fra 6 mesi e 3 anni). La moda dell'inasprimento delle pene è poi selettiva nel lasciare ferma e bassa (1-3 anni, quindi niente intercettazioni e misure cautelari) il reato di "traffico di influenze illecite", nel 2012 richiesto (questo sì) dall'Europa per arginare "cricche", "reti gelatinose" o "sistemi" che le varie inchieste faticano a inquadrare: la norma non verrà migliorata, sebbene la Cassazione l'anno scorso abbia rilevato che il traffico di influenze illecite, nel 2012 "presentato all'insegna del rafforzamento della repressione, ha prodotto almeno in questo caso l'esito contrario", di fatto derubricando condotte prima inquadrate almeno nel reato di millantato credito (1-5 anni). Il potere di interdizione delle mutevoli alleanze politiche frena infine le scelte di fondo sulla prescrizione, flagello da 1 milione e 552.000 di procedimenti estinti in 10 anni, il 73% in fase preliminare. La proposta legislativa sul tavolo preferisce continuare ad alimentare la patologica soluzione da un lato di alzare ancora le pene solo di alcuni reati, allo scopo di allungarne surrettiziamente la prescrizione (che per la corruzione giungerebbe a 20 anni); e dall'altro di congelare la prescrizione per tutti i reati dopo la sentenza di primo grado, ma facendola ripartire se l'Appello non si celebra entro due anni e la Cassazione in un anno. È un ibrido che sottovaluta come ad affossare i processi siano soprattutto i tempi morti tra una fase di giudizio e l'altra, dovuti a carenze organizzative e farraginosità procedurali che verrebbero lenite, molto più che qualunque faccia feroce sulle pene, già dalla rivisitazione di impugnazioni-nullità-notifiche, e dalla copertura degli 8.000 cancellieri mancanti (1.000 dei quali ora attesi in esodo dalle Province e dalla Difesa). Ma soprattutto è un ibrido che non metterà al riparo né i processi dalla marea di impugnazioni strumentali ad approdare all'agognato e solo dilazionato tempo scaduto, né gli imputati da un supplemento di graticola: esigenze che invece forse sarebbero entrambe più tutelate da un termine di prescrizione magari relativamente breve (6/7 anni per arrivare a una sentenza definitiva) ma calcolato a partire non dalla data di commissione del reato, bensì da quella di iscrizione nel registro degli indagati. Giustizia: burocrazia, mostro che costringe il cittadino a cadere nel girone della corruzione di Cesate Goretti Il Garantista, 21 marzo 2015 Ringraziare i vari Ercole o i vari Lupi, è sicuramente eccessivo. Ma forse è anche grazie a loro che possiamo compiacerci di una novità: il dibattito sui rimedi all'attività criminale che lega concussori, corrotti, corruttori, sta uscendo dalla logica manettara dell'aumento delle pene e della proliferazione di leggi inutili. E sta emergendo un nuovo modo di sciogliere i diversi grovigli che generano la corruzione nel nostro Paese. Può essere infatti più che giusto, come fa il Presidente del Senato Grasso nel disegno di legge che ha presentato all'inizio della legislatura, proporre di servirsi di concussori o corruttori di basso livello, per scoperchiare le pentole dei signori della mazzetta. Ed è sicuramente indispensabile immaginare che i vertici della burocrazia non possano occupare la stessa poltrona a tempo indeterminato. Unico modo per prevenire l'allacciarsi di vincoli pericolosi. Ma a questi rimedi repressivi o preventivi occorre aggiungere qualcosa di efficace su cui nessuno si è ancora pronunciato: il rovesciamento del rapporto tra burocrazia e cittadino. Chiunque debba domandare una delle innumerevoli autorizzazioni burocratiche che ci affliggono, si trova di fronte agli innumerevoli gironi infernali danteschi delle scartoffie e degli iter senza fine. Qual è il mostro che li ha generati, e di cui la Medusa della burocrazia è figlia? Un principio che si può sinteticamente illustrare e spiegare con la frase che il Marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi dice a un poveraccio nell'omonimo film: "Io sò io e tu non sei un cazzo...". In Italia lo Stato è tutto e il cittadino, di fronte allo Stato, non è niente. E un principio che abbiamo ereditato dal Fascismo e che capovolge il fondamento dello Stato Liberale, dove il cittadino è tutto e lo Stato è un suo dipendente. Ma, vi chiederete, come si traduce questo fondamento dello Stato autoritario nella corruzione che ci affligge? Risposta semplice: quando il cittadino ha un obbligo verso lo Stato (tassa, multa, bolletta, ecc.) se non rispetta i tempi stabiliti per fare quello che deve viene penalizzato. Pagherà una tassa o una multa maggiorata, verrà espropriato di un bene relativo, perderà il diritto ad esercitare una attività o una professione. In gergo tecnico i termini di pagamento o di rinnovo di autorizzazioni sono indicati dalle leggi che regolamentano la materia come "perentori". Se è lo stato invece a non rispettare i termini del servizio che deve offrire, non è soggetto a sanzioni e, pur essendo definiti per legge i tempi entro i quali devono essere erogati permessi o prestazioni, le norme relative diventano solamente "ordinatorie". Così, un imprenditore che ha investito decine di migliaia di euro nella sua attività, e che deve aspettare le certificazioni (ad esempio) di igiene, sicurezza, rispetto ambientale, rischia di dover aspettare all'infinito per aprire il suo cantiere o il suo negozio. E intanto rischia di fallire. Per sveltire queste autorizzazioni cosa farebbe qualsiasi buon padre di famiglia? Pagherebbe una mazzetta ovviamente. Anche perché non avrebbe alternative. Infatti per ottenere anche solo una prima udienza dal Tar o dal Tribunale ordinario, a cui rivolgersi per far rispettare i propri diritti, dovrebbe aspettare almeno diversi mesi, e non avrebbe alcuna certezza su tempi e esito processuale della vicenda. Cosa occorre allora per rimediare a questa situazione? Quattro articoli di legge semplici semplici: "Articolo 1: dall'entrata in vigore della presente legge tutti i termini ordinatori elencati in qualsiasi norma che riguardi la Pubblica Amministrazione divengono perentori. Art. 2. Qualsiasi autorizzazione data o rifiutata oltre i termini previsti dalla legge, comporterà il pagamento di una multa di un centesimo di euro a carico del dirigente dell'ufficio a cui è diretta la pratica, o del dirigente responsabile dell'ufficio in cui la pratica è rimasta ferma. Art. 3 Qualsiasi rifiuto di rilasciare un permesso, fermi restando i criteri stabiliti agli articoli 1) e 2) della presente legge, deve essere motivato per iscritto in modo semplice, essenziale, e facilmente comprensibile. Articolo 4) Nel caso in cui le ragioni di tale rifiuto dovessero essere riconosciute ingiuste o immotivate dal Tar, dal Consiglio di Stato o da un Tribunale Ordinario, il redattore del rifiuto pagherà una multa di 1.000 euro. Così non solo si ristabilirebbe il principio di parità tra Stato e cittadino, ma nessuno potrebbe essere costretto a pagare mazzette. Giustizia: Sabelli (Anm); magistrati presi a schiaffi? una metafora, che esprime dati reali Italpress, 21 marzo 2015 "Pentito? Certo che no, ho usato una metafora, ma è una metafora che esprime dati reali". Così il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, intervistato a Mix 24 da Giovanni Minoli su Radio 24, tornando sulle sue dichiarazioni dei giorni scorsi sugli "schiaffi" ai magistrati. Su chi si debba intendere come "lo Stato", Sabelli dice: "L'ho usato come un'espressione sintetica. Poi, a seconda dei casi, può intendersi il governo, può intendersi la maggioranza politica. Ho fatto riferimento alle riforme, ho fatto riferimento alle offese, quindi di volta in volta il governo, maggioranza politica o anche singoli esponenti". Sulle dichiarazione del procuratore di Venezia Nordio, per il quale parlare di "schiaffi" sia improprio e ingiustificato, Sabelli osserva: "è una metafora, ha torto perché si tratta di una metafora. Ma, del resto, quando siamo stati definiti una metastasi della democrazia, che cos'era questa, una carezza?". Sulla replica di Renzi, secondo Sabelli "questa non è una partita, ma rischia poi di diventare una sconfitta per tutti se non riusciamo a guardare ai problemi veri, i reali problemi reali del Paese. Il nostro compito, come associazione, è anche quello di segnalare i problemi, le cattive riforme. Allora i toni possono servire per richiamare l'attenzione. Poi, capisce che non ha senso usare gli stessi toni tutti i giorni". Giustizia: Piercamillo Davigo contro l'Anm, la spaccatura nella magistratura di Cataldo Intrieri Il Garantista, 21 marzo 2015 Guardiamo un attimo in casa d'altri. Martedì il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli, con parole inusitatamente aspre, ha criticato un ingrato governo che dispenserebbe schiaffi ai magistrati e carezze ai corruttori. La lamentela strumentale a spuntare, con astuzia, trattamenti di favore è una vecchia abitudine nazionale e non ci sarebbe da stupirsi se non fosse per i toni utilizzati da Sabelli, notoriamente misurato e poco incline alla sloganistica da talk show. Alle sue dichiarazioni, a dir poco incendiarie per le sue abitudini, hanno fatto seguito quelle del segretario dell'Anm Carbone il giorno dopo, che ha accusato il governo di aver sottoposto la magistratura "a una scientifica strategia di delegittimazione" concretizzatasi nel taglio delle ferie e nel varo a mezzo decreto legge della modifiche sulla responsabilità civile. Le dichiarazioni dei vertici dell'Anm sono state diffuse in coincidenza della pubblicazione di un esplosivo articolo a firma di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita sulla rivista Micromega. I toni sono di inaudita durezza ed improntati ad una logica di puro antagonismo verso la politica, in tutte le sue declinazioni. Oltre quella dei partiti, anche quella interna all'associazione E dunque se si lamenta che "...attraverso le soluzioni sbagliate offerte per risolvere la crisi della Giustizia, la politica ha sviluppato l'iniziativa per mettere sotto accusa il lavoro dei magistrati e per ridurre il controllo di legalità sulla politica", ce n'è anche per l'attuale dirigenza dell'Anm colpevole della "remissiva accettazione del nuovo modello efficientista disegnato dal nuovo ordinamento giudiziario". Spietatamente si contesta che "anche la magistratura associata e l'autogoverno dei giudici hanno fatto la propria parte, rincorrendo - con miopia politica - un modello di efficienza e di produttività interna, ed accettando supinamente un sovraccarico di lavoro giudiziario prodotto da un sistema sbagliato, che ha reso disfunzionale il servizio giustizia". Parrebbe di capire che per Davigo e Starita il problema di fondo sia l'affermazione di "un principio di produttività numerica, con riflessi sul rapporto quantità/qualità del lavoro". Invece di consentire, evidentemente, l'adozione di tempi e ritmi più adeguati ad una sana delibazione e stagionatura delle decisioni, come avviene per i vini pregiati. L'eccesso di disciplinare - proseguono - ha prodotto l'effetto di trascinare "dinanzi al giudice disciplinare alcuni tra i migliori magistrati italiani, colpevoli di non avere depositato decisioni per le quali era oggettivamente difficile redigere nei termini articolate e coscienziose motivazioni". Che poi, per consentire una tale ponderazione si ammetta ad esempio la dilatazione della custodia cautelare, ai due requirenti deve sembrare un dettaglio trascurabile. Ma la parte veramente succosa dell'articolo è quella finale laddove si accusa come unica vera responsabile la "sinistra giudiziaria" detentrice di un potere soffocante che avrebbe represso ogni possibile alternativa associazionistica e che avrebbe portato addirittura l'Anm "ad un passo dall'esplosione di una guerra interna il cui vero risultato non sarebbe certo quello di salvaguardare i valori della magistratura ma semmai quello di indebolirla ulteriormente". Da non credere. Dunque andrebbe demolita la centralità dell'Anm "associazione di lotta e di corporazione" per rifugiarsi in una dimensione di base lontana da ogni pericolosa commistione. Irresponsabilità sempre e comunque. Qui mi fermo perché impicciarsi degli affari in casa degli altri non sta bene; è invece importante riflettere se questa spaccatura che oggi vediamo nella magistratura associata non sia speculare ad una analoga divisione che percorre il mondo dell'avvocatura. Infatti anche l'associazionismo forense conosce una crescente divaricazione tra due anime. Una protezionistica e meramente sindacale ed una eminentemente politica. L'avvocatura penalista da molti anni si riconosce nell'Unione delle camere penali e nella sua vocazione politica. All'interno oggi ferve un dibattito su quale debba essere l'indirizzo oggi. Riscoprire il movimentismo antagonista cosi caro a padri (e madri) fondatori oppure perseguire una politica "dentro" le istituzioni. Personalmente, e da molto tempo, ritengo che oggi le differenze tra magistratura ed avvocatura non siano tanto tra " blocchi" ma tra culture "trasversali e comuni" incompatibili molto più di quanto lo siano tra loro le rispettive "associazioni". L'Unione oggi di fronte al concreto rischio di degenerazioni giustizialiste ha saputo mostrare un atteggiamento fermo e nello stesso tempo dialogante ottenendo il risultato di depotenziare riforme in partenza devastanti. E da augurarsi che questa capacità vi sia anche in futuro. Analogamente deve andare avanti, anche sul versante culturale, il confronto con la magistratura Il felicissimo esito dell'importante convegno organizzato dal Laboratorio del Lapec ai primi di Marzo sulle "ragioni di un confronto tra avvocatura e magistratura", affollato come da parecchio tempo non era dato vedere in convegni del genere, sembra sottolineare una domanda di impegno su questo differente versante dove il fine è trasmettere la propria visione sociale e di progetto, individuando ove possibile soluzioni condivise, che tengano conto, magari scandalosamente anche delle "ragioni degli altri". E fondamentale che in questo momento cruciale l'associazione arrivi a contemperare queste due spinte, quella politica e quella culturale, avendo chiaro il concetto che esse sono complementari e reciprocamente funzionali. Diversamente si diventerebbe i migliori alleati e gli "utili idioti" di un pericoloso e retrogrado revanscismo giudiziario. Giustizia: Partito Radicale e Alternativa Libera visitano Ospedali Psichiatrici Giudiziari www.radicali.it, 21 marzo 2015 Le deputate e i deputati di Alternativa Libera, insieme ad ex deputati e militanti del Partito Radicale, sono impegnati, ieri 20 marzo e oggi 21 marzo, in una visita istituzionale presso gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Gli Opg sono situati nei comuni di Montelupo Fiorentino (Toscana); Aversa e Napoli (Campania); Reggio Emilia (Emilia Romagna); Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia); Castiglione delle Stiviere (Lombardia). Oggetto della visita istituzionale: la verifica delle modalità con cui queste strutture si stanno preparando al 31 marzo 2015, data in cui è previsto il loro superamento, in particolare in riferimento alla condizione di coloro che vi sono ospitati. Lunedì 23 marzo, alle ore 16, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, si terrà la conferenza stampa di presentazione dei dati rilevati in occasione della visita stessa. Interverranno alla conferenza stampa: Eleonora Bechis, Tancredi Turco, Rita Bernardini e Maria Antonietta Farina Coscioni. Saranno presenti le deputate e i deputati di Alternativa Libera e i radicali Sergio Delia, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti. Giustizia: donne in uniforme, un posto nella Polizia penitenziaria resta un tabù www.toscanamedianews.it, 21 marzo 2015 Mentre negli altri corpi d'armata le differenze di genere stanno scomparendo, l'accesso alle donne nella polizia penitenziaria rimane difficile. Su 38mila agenti della Polizia penitenziaria attualmente in forza nelle carceri italiane solo 2.400 circa sono donne. Non solo. Secondo quando ha raccontato la presidente del Dipartimento di polizia penitenziaria del Lazio Maria Claudia Di Paolo nel corso di un convegno organizzato dal vicepresidente del consiglio regionale, Giuliano Fedeli, a Firenze, anche il rapporto con i colleghi maschi è complicato. "C'è più rispetto per le donne in uniforme da parte dei detenuti, piuttosto che da parte dei colleghi - ha raccontato Di Paolo. È pur vero che i detenuti sono in una condizione di libertà ristretta e quindi si guardano bene dal crearsi ulteriori problemi". Nel corso del convegno però sono emerse anche esperienze diverse: donne che nella loro professione, nella polizia di stato piuttosto che nei carabinieri o in marina, si trovano perfettamente a loro agio e, pur dovendo sgomitare quanto e più dei colleghi maschi per raggiungere posizioni di vertice, non si sentono per nulla discriminate. "La legge sull'accesso delle donne nelle forze armate - ha detto il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi - è arrivata tardi, ma è tra le più avanzate d'Europa. Nei prossimi mesi effettueremo una mappatura per capire se ci sono criticità". Secondo il vicepresidente Fedeli, invece, il problema è soprattutto culturale. "Bisogna uscire dalla concezione dell'uomo macho e della donna che viene accostata all'uniforme solo se è bella - ha detto Fedeli. Bisogna togliersi di dosso il maschilismo". Lettere: il mistero Gratteri e il gran ballo (d'immagine) dei magistrati nel Pd di Marianna Rizzini Il Foglio, 21 marzo 2015 Un indizio non fa una prova, due indizi già di più, ma tre o quattro indizi sono troppi per non avere almeno un sospetto: quando i giochi si fanno duri, quando l'allarme tangenti (o "Mafia Capitale") si fa pressante, quando le primarie, croce e delizia, rischiano di diventare campo di rissa o, peggio, possibile terra di voto "cinese", ecco che nel Pd ti tirano fuori il magistrato (o ex magistrato), possibilmente anche scrittore (o senatore). Ed è un gran ballo di pm ed ex pm per presentarsi in società con l'immagine di quelli che ci tengono: alla lotta al malaffare, alla trasparenza, alla cancellazione anche preventiva d'ogni possibile macchia. Ed ecco che, nei giorni difficili dell'emergenza Lupi (Maurizio, ex ministro delle Infrastrutture dimessosi ieri), spuntava un nome, sotto forma di voce dal sen fuggita (dalle stanze di Palazzo Chigi, dal passaparola in Transatlantico): vuoi vedere che il successore di Lupi, dopo l'interim del premier fino all'apertura dell'Expo, sarà proprio quel Nicola Gratteri, magistrato- scrittore nonché illustre candidato (invano) al ministero della Giustizia? Perché quello di Nicola Gratteri, se non è un mistero oggi, mistero è stato ieri: era il febbraio del 2014, il neo premier era salito al Quirinale con una lista di nomi ("guardate", scrivevano i retroscenisti fornendo prova fotografica su Twitter, "accanto alla casella Giustizia c'era scritto magistrato in servizio"). Solo che poi alla Giustizia era andato Andrea Orlando. Ma Gratteri, nato a Gerace nella Locride del 1958, e massima autorità nella lotta alla ‘ndrangheta, già consigliere della commissione parlamentare Antimafia, dev'essere rimasto nel cassetto dei sogni renziani, tanto che, nell'agosto scorso, è stato nominato presidente della commissione per l'elaborazione di "proposte normative in tema di lotta alle mafie". E siccome Gratteri ha pubblicato un libro che s'intitola "la Mafia fa schifo", e siccome gira per le scuole per fare "prevenzione", il suo nome per il ministero Infrastrutture scorporato circola, circola eccome. Ma non è l'unico. C'è la variante, per la verità eterna variante, da un po' di tempo a questa parte, per le poltrone rimaste vuote: Raffaele Cantone, giudice e scrittore anch'egli, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione. E chissà se, nelle intenzioni governative, il nome di Cantone è un po' quello che il nome di Antonio Di Pietro (a monte delle inchieste di "Report") fu per l'allora premier Romano Prodi: la legge che si fa carica operativa. Fatto sta che Cantone non è Di Pietro, e tempo fa, intervistato da Repubblica, mostrava di non amare "il clima da 1993", e di sentirsi a disagio quando la gente, per strada, gli gridava: "Arrestali tutti". "È difficile far ragionare la pancia delle persone", diceva Cantone, "il nostro compito è non farci prendere dall'emotività". Lido che vai, magistrato che trovi: nella Roma squassata dall'eco anche estera delle inchieste targate "Mafia Capitale", e giù fino al mare (Ostia), un solo nome risuona per risolvere qualsiasi emergenza criminalità: quello di Alfonso Sabella, magistrato in aspettativa con i galloni dell'Antimafia (a Palermo con Gian Carlo Caselli, nel 1993). E ieri, sul Corriere della Sera edizione romana, Maurizio Fortuna amaramente rifletteva sul "taumaturgo per il colle capitolino", quel Sabella buono per tutto, da Ostia alle cooperative sotto inchiesta al Giubileo (commissario straordinario). "Beata la città che non ha bisogno di Sabella", scriveva, ma ce n'è già un'altra, di città (stavolta al nord), che di un magistrato ora si serve, magistrato non scrittore ma senatore, appunto: Felice Casson, incoronato candidato sindaco alle primarie. Un nome non renziano in partenza - piuttosto civatiano - eppure contento, ex post, di definirsi gradito ("Renzi mi ha espresso i suoi complimenti e mi ha detto che ora si lavora come partito", ha detto Casson, nome di prestigio nel Pd, al di là della corrente, viste le inchieste cui ha lavorato, da Gladio all'amianto). Persino in Sicilia, nel governo Crocetta-ter, è a un pm che ci si è affidati, con gran plauso di renziani locali: il nuovo assessore regionale ai Rifiuti è Vania Contrafatto, già pm alla procura di Palermo. Lettere: la politica è diventata ostaggio della magistratura di Renato Brunetta (Capogruppo Fi alla Camera) Il Garantista, 21 marzo 2015 Saluto non l'addio alla politica del ministro Lupi, ma la sua uscita dal governo, da questo cattivo governo, uscita che penso sia equivalente a una liberazione. Sappiamo bene che lei era l'unico resistente dentro questo esecutivo, dunque prima o poi doveva sloggiare. Ci spiace che i suoi colleghi di partito, salvo rare eccezioni, non si siano presi la briga di una sonora difesa pubblica né l'abbiano pretesa dal capo del governo. Mi sono dispiaciuto non solo delle sue dimissioni, ma dal fatto di aver appreso le abbia annunciate non in Parlamento ma in una trasmissione televisiva, senza aspettare il dibattito che oggi avrebbe seguito le sue attese spiegazioni. Che io, tra l'altro, ho molto apprezzato. Questo però in fondo è un atto di coerenza, non tanto suo, ma rispetto alla linea del governo e della maggioranza, per cui le Camere sono un fatto marginale, non il luogo della democrazia, ma un luogo dove ammannire con prepotenza e una certa supponenza annoiata scelte decise in luoghi separati. Questo mi è dispiaciuto ancor di più perché lei, signor ministro Lupi, è sempre stato rispettoso del Parlamento. Esprimo solidarietà alla sua persona colpita senza scrupoli. Abbiamo assistito a una battuta di caccia mediatica diretta a ferire la sua famiglia con intercettazioni centellinate ad arte, osservata senza scandali dal premier Renzi, come se fosse normale che un ministro sia intercettato per due anni, con la tecnica della dissimulazione, per cui per sottrarsi all'articolo 68 della Costituzione è sufficiente mettere sotto controllo i telefoni di tutti coloro che sono nella cerchia tecnica, politica e amicale del ministro. No, signor ministro, questa non è giustizia, questa non è ricerca della verità. Noi siamo garantisti. Lo siamo sempre. Ci siamo trovati isolati in questa posizione. Renzi, questo governo, questa maggioranza applicano un'etica di circostanza, una morale daltonica, funzionale alla sistemazione degli affari politici del presidente del Consiglio. Non sono stato io ma è stato Fabrizio Cicchitto a rilevare ancora stamane che si tollera tranquillamente che cinque sottosegretari siano sottoposti a indagine o abbiano subito il rinvio a giudizio, e siano lasciati tranquillamente al loro posto. Il ministro Lupi non ha ricevuto neppure un avviso, non che questo a nostro giudizio avrebbe implicato l'obbligo di dimettersi, ma non si può che constatare la diversità di trattamento riservato da Renzi agli amici rispetto ai meno amici e rispetto anche a se stesso. C'è infine una questione politica seria e grave. Da Mani pulite in poi la politica non è più stata autonoma dalle decisioni della magistratura. Le procure hanno da quel momento avuto la golden share sul destino dei governi. In quest'ultima legislatura si è arrivati all'eliminazione del leader dell'opposizione con una decisione trasferita dalle aule di tribunale a quelle del Parlamento, che ha così rinunciato alla sua prerogativa di espressione della sovranità popolare, consentendo l'amputazione della nostra democrazia. La politica, quella buona, quella per bene, deve riprendere la propria autonomia. Autonomia dalla magistratura. Ma anche dignità della politica. Le indagini della magistratura non possono essere il comodo strumento dell'uomo solo al comando di questo o di qualsiasi altro uomo solo al comando, per scegliere a discrezione delle sue tattiche di potere quali trasformare in sentenze di morte politica e quali ignorare. No presidente Renzi, questo noi non lo potremo mai accettare per il bene del nostro paese, per il bene della nostra democrazia. Lettere: quando la prescrizione "salva" il maltolto di Antonio Esposito (Presidente II sezione della Corte di Cassazione) Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2015 Il presidente della Corte di Cassazione, nel discorso inaugurale dell'anno giudiziario, ha quantificato in oltre 1.500.000 il numero dei processi per i quali, nell'ultimo decennio, è stata dichiarata la prescrizione, così confermando i dati forniti dal Csm che, già nel 2011, stimava in 150.000 i processi che, ogni anno, si estinguono per prescrizione. Questa "mattanza" giudiziaria - che trova la causa prima nella emanazione della legge "ex Cirielli" (2005), la quale ha ridotto per un gran numero di reati il termine massimo prescrizionale (abbassandolo da 15 a 7 anni e mezzo) - ha interessato, e in misura rilevante, anche i reati di corruzione e di truffa aggravata ai danni dello Stato e, segnatamente, le truffe comunitarie, in ordine ai quali, oltre al breve termine prescrizionale, influisce anche la circostanza che l'accertamento del reato avviene a distanza di anni dalla commissione del fatto, data dalla quale inizia, comunque, a decorrere il termine di prescrizione. A nulla è valsa, ai fini di rimuovere l'inerzia della classe politica, la ratifica, con legge n° 116/2009, della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la Corruzione che, all'art. 29 stabilisce: "...ciascuno Stato parte fissa, nell'ambito del proprio diritto interno, un lungo termine di prescrizione entro il quale i procedimenti possono essere avviati per uno dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione". Così come a nulla è valso il rapporto del 2-7-2009 del "Gruppo di Stati" contro la corruzione che agisce nell'ambito del Consiglio europeo ("Greco") che - nel valutare le politiche anticorruzione poste in essere dall'Italia - ha sottolineato in termini negativi il fatto che "in Italia i processi per corruzione sovente non arrivano a una decisione di merito, in considerazione del maturare del termine di prescrizione del reato prima di una pronuncia definitiva". Nonostante l'ecatombe dei processi, vero "scandalo" della giustizia italiana, Parlamento e governo sono rimasti inerti per dieci anni. Solo il 29-8-2014 il governo ha approvato un ddl riguardante anche la prescrizione, al quale non è stata data alcuna corsia preferenziale e che, comunque, risolve solo in minima parte il problema, limitandosi a far valere brevi periodi di sospensione (due anni per l'appello, uno per il ricorso in Cassazione) anziché stabilire che l'ulteriore corso della prescrizione del reato deve ritenersi precluso dal concreto esercizio dell'azione penale mediante l'instaurazione del giudizio. Ma il problema più grave è che la prescrizione, non solo elimina applicazione della pena, quanto impedisce allo Stato di riottenere la restituzione del denaro "frutto" del - la truffa ai suoi danni, di confiscare i beni dei corrotti, ovvero "il denaro, i beni e le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" (art. 12 quinquies L. 552/92). Invero le Sezioni Unite (S.U.), con sentenza n. 38834/08, hanno affermato che non è possibile procedere alla confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il "prezzo" del reato di corruzione, e, cioè, delle cose date o promesse per indurre il p.u. a commettere il reato, di fronte a una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, essendo sempre necessaria una sentenza di condanna. Va precisato che le S.U. - nel risolvere un forte contrasto insorto tra le varie sezioni e tra le stesse S.U. - hanno, comunque, invitato il legislatore a "riflettere" per evitare l'arricchimento "antigiuridico e immorale" degli imputati che ottengono la restituzione del prezzo della corruzione. Tale invito è rimasto disatteso, così come sono state disattesi gli appelli di varie associazioni che avevano invitato il Parlamento e il ministro della Giustizia ad adottare provvedimenti atti a consentire la confisca dei beni dei corrotti anche in caso di estinzione del reato per prescrizione. Tale interpretazione delle S.U. - del tutto inconciliabile con le esigenze di lotta al crimine organizzato - è stata, comunque, incisivamente contrastata dalla sezione II della Cassazione (sentenza n. 32273/10), la quale ha affermato che - oltre che nel caso di sentenza di condanna, in cui va sempre disposta la confisca del "profitto" del reato di cui all'art. 240 secondo comma n. 1 c.p. ovvero "del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" di cui agli articoli 12 quinquies e sexies L. 552/92 - anche nella ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione, il giudice può disporre la confisca delle cose suddette; in tal caso, il provvedimento ablatorio è subordinato all'accertamento (incidentale) da parte del giudice del fatto costituente reato. Si è affermato in tale decisione che la confisca obbligatoria risponde a una duplice finalità, ossia quella di colpire il soggetto che ha acquisito i beni illecitamente e quella di eliminare in maniera definitiva dal mondo giuridico e dai traffici commerciali valori patrimoniali, la cui origine risale all'attività criminale posta in essere, essendo il provvedimento ablativo correlato a una precisa connotazione obiettiva di illiceità che investe la res determinandone la pericolosità in sé. Tale interpretazione è stata confermata sempre dalla II Sez. della Corte con sentenza n. 39756/11 nel procedimento penale a carico di Massimo Ciancimino ed altri, ove, pur nella declaratoria di estinzione per prescrizione del reato, si è confermata la confisca del patrimonio del Ciancimino disposta con la sentenza di condanna di II grado. A fronte dell'invito rivolto dalle S.U. e del contrasto giurisprudenziale in atto, ci si aspettava un pronto intervento del legislatore che - partendo dal dato incontestabile che l'obiettivo della confisca obbligatoria, è quello di privare l'autore del reato degli illeciti vantaggi economici che da esso derivano e di contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità - riconosca, in caso di estinzione del reato, al giudice poteri di accertamento del reato stesso ai fini dell'applicazione della confisca (anche per equivalente) allo stesso modo in cui è normativamente riconosciuto al giudice di appello e di legittimità il potere di accertamento (incidentale) del reato ai fini delle statuizioni civili. L'appello dei magistrati della Corte non è stato finora accolto dal legislatore consentendosi, così, che il pubblico ufficiale corrotto, non punibile per il mero decorso del tempo, continui a "godersi" il denaro che egli ebbe a ricevere per commettere il fatto delittuoso. Campobasso: il detenuto 36enne morto non aveva gravi problemi salute, disposta autopsia Ansa, 21 marzo 2015 "Si tratta di una persona che non aveva gravi problemi di salute, per questo i familiari chiedono che venga fatta piena luce su quanto accaduto. Abbiamo già chiesto alla procura che venga effettuata l'autopsia". È quanto afferma l'avvocato Silvio Tolesino, legale della famiglia del detenuto 36enne trovato morto ieri pomeriggio nella sua cella del carcere di Campobasso. "Vogliamo che vengano fatti tutti gli accertamenti, in questi casi è sempre meglio andare fino in fondo - aggiunge per fugare ogni dubbio. Questa persona stava bene ed è morta all'improvviso, credo che un approfondimento sia doveroso". La procura deciderà in queste ore se disporre l'autopsia in quanto la prima ipotesi sulle cause del decesso è quella di un arresto cardiaco. Il 36enne era in carcere dallo scorso mese per scontare un residuo di pena per reati contro il patrimonio. È stato trovato privo di vita in cella dagli altri detenuti e dagli agenti della polizia penitenziaria. Il sostituto procuratore Rossana Venditti, titolare dell'inchiesta sul detenuto morto in cella ieri pomeriggio nel carcere di Campobasso, ha disposto l'autopsia sul corpo dell'uomo. L'esame sarà eseguito all'ospedale Cardarelli del capoluogo molisano nelle prossime ore. Le indagini si concentrano ora su un presunto ritardo nei soccorsi. "Da quanto ci è stato riferito - spiega l'avvocato Silvio Tolesino, che insieme al collega Antonello Veneziano assiste la famiglia del 36enne - il detenuto avrebbe cominciato a lamentarsi per dei dolori intorno alle 14 ma solo dopo ore, intorno alle 17, quando è collassato, sono intervenuti i primi soccorsi. Sono queste dunque le circostanze da approfondire e verificare". Teramo: detenuto 56enne ritrovato morto in cella, disposta l'autopsia di Teodora Poeta Il Messaggero, 21 marzo 2015 Si trovava recluso nella sezione sex offender il detenuto che ieri mattina è stato trovato morto in carcere, a Castrogno. A dare l'allarme è stato il suo compagno di cella quando si è accorto che Luciano Grigoldo, 56 anni, di Farindola, non si alzava. Erano all'incirca le 7.30. A quell'ora stavano servendo le colazioni. I detenuti era già tutti svegli e pronti per il caffè. Secondo una prima ricognizione cadaverica Grigoldo potrebbe essere stato colto da un infarto durante il sonno. Il suo cuore avrebbe cessato di battere improvvisamente senza dargli alcun preavviso. Mercoledì Grigoldo si era sottoposto all'ultima visita medica di routine all'interno del carcere, così come molti altri suoi compagni di detenzione, e tutti i valori erano risultati nella norma. Nulla insomma aveva fatto presagire un infarto, né malori. Il giorno seguente, però, è morto. Il suo decesso ha già fatto aprire un fascicolo in Procura contro ignoti. Il sostituto procuratore Stefano Giovagnoni ha subito disposto l'autopsia per chiarire l'esatta causa della morte. Stamattina ci sarà il conferimento dell'incarico al medico legale Gina Quaglione. Il figlio del detenuto potrà nominare un consulente di parte per assistere all'esame irripetibile. A Teramo Grigoldo era stato trasferito nel 2013 dopo un periodo di detenzione nel carcere di Pescara. La sua pena l'avrebbe terminata tra tre anni. Recentemente aveva partecipato ad un progetto trattamentale per i sex offender organizzato dal penitenziario in provincia di Pesaro ma non l'aveva terminato e una volta lì aveva deciso di tornarsene a Castrogno. In carcere scontando una pena definitiva per accuse gravi: violenza sessuale. Dietro le sbarre era una persona solitaria che in questi anni non aveva mai dato fastidio né agli altri detenuti, né agli agenti della Polizia penitenziaria. Pur non trattandosi stravolta di suicidio (anche se l'autopsia deve ancora confermare l'eventuale morte naturale di Grigoldo, sul cui corpo non sono stati trovati segni di violenza) si allunga la lista di decessi all'interno di Castrogno. Il 2015 non ne aveva ancora. Il 70enne è il primo di quest'anno. Lo scorso giugno a togliersi la vita fu una detenuta bulgara che si strinse al collo le lenzuola della sua branda, legate poi all'inferriata della cella. Il gesto lo mise in atto durante le ore in cui le celle restano aperte e le detenute escono. Fu allora che la 50enne bulgara ne approfittò e si tolse la vita. A febbraio del 2013 morì, invece, anche lui per un infarto, Tommaso De Angelis, l'assassino della prostituta Svetlana Alexeenko. Il detenuto. all'epoca dei fatti operaio, commise l'omicidio nel 2002. In primo grado era stato condannato a 24 anni, confermati poi in Appello. Napoli: dieci giorni alla chiusura degli Opg. Il direttore: "ora intervengano i territori" di Mirella D'Ambrosio Corriere della Sera, 21 marzo 2015 A dieci giorni dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani, che segue all'applicazione di un articolo del decreto legge "svuota carceri", il direttore dell'Opg di Napoli-Secondigliano Michele Pennino spiega cosa cambia con il nuovo percorso per chi compie un crimine e viene considerato "incapace e di intendere e di volere". La legge 81/2014 prevede che alcuni soggetti andranno nelle strutture residenziali appropriate, le Rems. Chi? E secondo quali criteri? "I soggetti attualmente presenti negli Opg e ritenuti non dimissibili saranno accolti dalle Rems, più diffuse sul territorio e con capienza massima di venti posti letto. Sarà l'inizio del processo di svuotamento degli Opg e, allo stesso tempo, un nuovo percorso per coloro che saranno destinati a queste strutture dalla magistratura, per i quali la permanenza nelle Rems sarà solo temporanea ed eccezionale". I soggetti internati ma dichiarati dimissibili saranno presi in carico dai dipartimenti di salute mentale del territorio di residenza. Il personale è pronto? "Si. La riforma prevede anche il potenziamento dei dipartimenti di salute mentale, nuovo arruolamento e l'azione specialistica per il supporto nelle carceri. Si agirà, dunque, a monte del problema visto che solitamente l'invio agli Opg arriva dopo un periodo detentivo in casa circondariale". Un maggior numero di dimissioni potrebbe creare un problema di sicurezza? "Se si vuole intendere che la sicurezza cresca in termini di custodia, allora si può cadere nel luogo comune e pensare che aumenti il pericolo. Invece la nostra sicurezza cresce in proporzione alla qualità della cura che possiamo offrire all'ammalato e non in funzione dell'estremo custodiale". Possiamo dire che, se ben applicata, la nuova legge potrebbe portare una dose maggiore di umanità nell'assistenza ai malati psichiatrici per cui è stata riconosciuta la "pericolosità sociale"? "Certamente. La nostra umanità aumenta con la maggiore vicinanza al paziente e alla sua sofferenza. L'azione criminis rappresenta in questi casi una ricerca d'aiuto (anche se i casi vanno sempre esaminati singolarmente). L'azione offensiva è a difesa di un mondo che lui vede minacciato dall'esterno. La prevenzione, dunque, deve essere maggiore". Manca ancora qualcosa a rendere perfetto il nuovo percorso? "Deve aumentare la cultura del sistema assistenziale, che passa da una più diffusa presenza. Ora la responsabilità passa ai territori, quindi potrebbe essere l'occasione giusta". Milano: sconta due volte la stessa pena. Il pm: "un bonus al prossimo reato" di Marinella Rossi Il Giorno, 21 marzo 2015 La stessa pena scontata due volte. Un bis. E nessuna scusa va al doppiamente carcerato. Solo una frase anodina, suono irreale: "Il condannato ha sofferto un periodo di carcerazione in eccesso pari a (ma il quanto viene lasciato in bianco, ndr), periodo eventualmente fungibile per altro procedimento". Un procedimento che però allo stato non pare esserci: così da interpretare che l'allora pm dell'Ufficio esecuzioni della Procura di Milano, Nunzia Gatto (titolare del fascicolo), nel riparare all'errore si sia portata avanti, dando per scontato che l'interessato, marocchino di 27 anni, avrà certo modo di delinquere ancora, e allora gli verrebbe scontato il pre e ingiusto sofferto. Il conteggio della pena patita due volte per lo stesso reato, in realtà, lo aveva ben fatto, ma senza essere ascoltato, Aminje Cheraouaqi, ragazzo di Settat, e lo ha rifatto ora il suo avvocato Debora Piazza, che ha appena avanzato istanza di riparazione per 208 giorni di ingiusta detenzione. Otto mesi e 20 giorni, per furto e resistenza, ma moltiplicati per due, per lo stesso furto e la stessa resistenza: un anno e mezzo, alla fine, trascorsi in galera, senza che nessuno si sia dato pena di verificare. Come? Collegare il nome di Aminje - probabilmente (ma è solo ipotesi perché nessuno sa dare conto dell'errore, ndr) trascritto con una lettera diversa nel database dell'ufficio esecuzioni - al numero di procedimento che avrebbe evidenziato la pena già scontata. E inutili i lamenti del ladruncolo, che tutti i suoi precedenti conti (reati contro il patrimonio) aveva regolato: abbandonato da un primo avvocato alla solitudine, Aminje mandava lettere all'ufficio matricola del carcere, in cui scriveva che aveva passato in galera gli 8 mesi e 20 giorni, confermati dalla Corte d'appello di Milano il 3 marzo 2010 e divenuti irrevocabili il 18 aprile 2010. Ma in risposta? "Lui scriveva che doveva uscire - spiega il suo legale Piazza - e loro rispondevano, eh, tutti dicono che devono uscire". Infatti il 4 aprile 2013 il pm Gatto aveva emesso un nuovo ordine di esecuzione relativo alla sentenza definitiva del 2010, e disponeva che la pena di Aminje "decorreva dal 14 novembre 2013 al 3 agosto 2014". Ma il 6 giugno 2014 è la Direzione della Casa circondariale di Biella a trasmettere una nota all'Ufficio esecuzione penale per dire che "il 5 giugno ha fatto ingresso in questo istituto il detenuto specificato in oggetto, in espiazione" della condanna del 3 marzo 2010. E, "da una verifica degli atti matricolari risulterebbe che Cherouaqi Aminje è stato detenuto dal 10.6.2009 all'1.3.2010 nell'ambito del procedimento penale 24647/09". Lo stesso procedimento. "A parere di questo ufficio, nonostante alcune discrepanze presenti nell'ordine di esecuzione, verosimilmente il titolo attualmente in esecuzione parrebbe riconducibile alla suddetta carcerazione". La nota apre gli occhi al pm che ricalcola la pena: "Accertato che il condannato ha effettivamente espiato la pena dal 10.6.2009 all'1.3.2010" si dispone "l'immediata scarcerazione". Con la postilla dell'abbuono dell'ingiustamente sofferto, in caso di altra condanna. "Ma a me altre condanne non risultano" dice l'avvocato Piazza, che, nell'avanzare una richiesta di risarcimento di 49.052 euro per i 208 giorni di galera indebita, si chiede: "Sarebbe mai potuto accadere se al posto di un Aminje ci fosse stato uno di noi?". Bolzano: detenuto in permesso fugge con il fratello che era ai domiciliari a Livorno di Luca Ingegneri Il Gazzettino, 21 marzo 2015 I due tunisini sono imputati nel processo sul traffico di droga e cellulari nel carcere Due Palazzi di Padova. Avrebbero dovuto prendere parte al processo. Ma non si sono presentati in aula. E qualora non fossero rintracciati in tempo utile per la prossima udienza, verranno dichiarati latitanti. Due fratelli tunisini che fanno parte dell'elenco dei trentuno imputati dell'inchiesta sullo spaccio di droga e sul traffico di telefoni cellulari nel carcere Due Palazzi hanno disertato l'udienza preliminare. È toccato al pubblico ministero Sergio Dini, titolare della laboriosa indagine condotta dalla Squadra mobile, informare il giudice Domenica Gambardella che Issam e Mohamed Tlili, di 36 e 41 anni, pluripregiudicati con vari precedenti per spaccio, hanno fatto perdere le proprie tracce. Il più giovane stava scontando una condanna agli arresti domiciliari a Livorno. È evaso dalla sua abitazione senza farvi ritorno. Le ricerche non hanno dato alcun esito. Issam Tlili sembra letteralmente scomparso. È probabile che abbia concordato la fuga con il fratello Mohamed, volatilizzatosi nelle stesse ore. Il 41enne stava scontando la pena per spaccio di stupefacenti nel carcere di Bolzano. Di recente aveva ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza un permesso premio per buona condotta. Aveva potuto lasciare il penitenziario altoatesino per qualche giorno. Il suo rientro era previsto per giovedì sera. Ieri avrebbe dovuto essere tradotto a Padova per poter partecipare al processo. Ma in carcere non è mai rientrato. I due fratelli erano legati a doppio filo a Pietro Rega, l'agente penitenziario di origini campane, accusato di aver gestito in prima persona il rifornimento di droga e di telefoni cellulari ai detenuti del Due Palazzi. Tra il 2012 e il 2014 in più occasioni il boss delle guardie, meglio conosciuto con i nomignoli di "Capo" o "Uomo brutto", avrebbe ricevuto soldi da Issam Tlili per rifornire il fratello Mohamed, all'epoca detenuto, di droga e telefonini, anche con la complicità del collega Angelo Telesca. Il 41enne tunisino avrebbe fatto parte della "cupola" che gestiva gli approvvigionamenti di cocaina ed eroina: avrebbe consegnato stupefacente al detenuto Antonino Fiocco, in altre occasioni avrebbe concordato i rifornimenti con Rega e con l'altro agente Luca Bellino, gestendone poi la distribuzione assieme ad un altro carcerato, l'albanese Adrian Patosi. Nel 2013 Mohamed Tlili avrebbe ricevuto dallo stesso Rega un quantitativo di eroina del valore di cinquanta euro. L'acquisto sarebbe stato effettuato da Luca Bellino che avrebbe trattenuto per sé e per il collega metà dello stupefacente a titolo di ricompensa. I due fratelli spacciatori rischiano il rinvio a giudizio come la gran parte degli altri detenuti coinvolti nell'inchiesta. Le cinque guardie finite nei guai sceglieranno invece riti alternativi: patteggiamento o giudizio abbreviato. Napoli: oggi il Papa a pranzo in carcere con i detenuti Rosanna Borzillo Avvenire, 21 marzo 2015 Si sono identificati nel lupo: per questo hanno voluto realizzare una statua che ritrae Francesco di Assisi in compagnia dell'animale che viene emarginato da tutti. I detenuti del carcere di Poggioreale attendono così il Papa "venuto da lontano". Hanno realizzato un "giardino", nello spazio antistante la cappella: qui, oltre a piante dai mille colori, l'immagine del poverello di Assisi e il lupo, emarginato da tutti, ma accolto da Francesco, il Papa. "Si sentono prescelti - spiega il cappellano del carcere, don Franco Esposito - perché il Papa volendo pranzare con loro ha scelto la condivisione". Francesco come Gesù quando si reca a casa del pubblicano Zaccheo. "È il segno di una Chiesa che si siede accanto, senza telecamere e senza autorità - commenta don Franco - condividendo il cibo con uomini che la società rifiuta e addita e, ancora più profondamente, il segno dello Spirito Santo che attraverso papa Francesco opera e si adopera per produrre miracoli di cambiamento. Quel miracolo che per ogni carcerato è possibile: riconoscere il male per desiderare il bene". Alle 13, il Pontefice, alla casa circondariale "Giuseppe Salvia" (dal nome del vice direttore ucciso in un agguato di mafia) verrà accolto dal direttore Antonio Fullone, dal comandante Gaetano Diglio, dal cappellano. Nessun altro: un incontro in famiglia. Negli ultimi mesi i detenuti si sono preparati: incontri di catechesi, la preghiera per le famiglie e per il Papa. Attualmente a Poggioreale sono attivi quattordici gruppi di catechesi, da uno a tre gruppi in ciascun padiglione. La Chiesa è presente con tre cappellani, tre suore, tre diaconi permanenti, trentacinque catechisti e venticinque operatori volontari. "Certamente la visita, i gesti, le parole, l'abbraccio di papa Francesco saranno un dono enorme e daranno grande vigore proprio all'annuncio evangelico di salvezza e al desiderio di liberazione che si annida nel cuore di ogni uomo", commenta Antonio Spagnoli, volontario di Azione cattolica a Poggioreale. "Mi sembra impossibile. Mangerò a tavola con papa Francesco", gli ha riferito Salvatore, 30 anni, detenuto da diversi mesi. E, mentre lo dice, sorride come un bambino che riceve il regalo più bello, quello inatteso, quello sognato ma che non si osa chiedere, perché considerato impossibile da ottenere. Al carcere di Poggioreale a tavola con il Papa ci saranno "ospiti" provenienti da varie strutture: quindici dal carcere di Secondigliano, cinque dall'ospedale psichiatrico di Aversa, quattro dal carcere minorile di Nisida e novanta di Poggioreale stesso, oltre ad altri estratti a sorte tra gli addetti alle cucine e che prepareranno il pranzo per il Papa. Tutti hanno contribuito a preparare l'incontro con Francesco: alcuni detenuti hanno provveduto a "ridipingere le pareti della chiesa in un clima di grande familiarità ed entusiasmo, andando ben oltre il loro orario di lavoro", aggiunge il cappellano. C'è chi ha poi preparato il pranzo: "Ingredienti tipici che diventeranno un menu gustoso ma semplice come richiesto dal Pontefice stesso: pasta al forno, arrosto di vitello con patate e cime di rapa, le immancabili sfogliatelle e anche mezzo bicchiere di vino". Mentre la tavola è apparecchiata con le tovaglie, cucite a mano, dalle detenute di Santa Maria Capua Vetere: simbolicamente anche loro partecipano all'incontro con Pietro. E al Papa un dono speciale: una statuina di Pulcinella realizzata dai detenuti in uno dei laboratori artigianali dell'istituto. Pulcinella simbolo di Napoli, ma anche segno del riscatto, della speranza che da sabato non avrà frontiere. Vicenza: l'Assessore regionale Donazzan in visita al carcere "solidarietà agli agenti" www.vicenzatoday.it, 21 marzo 2015 L'assessore regionale Elena Donazzan è stata venerdì in visita al carcere di Vicenza "perché sentivo - ha dichiarato - il dovere di esprimere la mia vicinanza agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria e al personale civile che lavora nella struttura. Ho conosciuto persone straordinarie come il dottor Fabrizio Cacciabue, direttore dell'istituto di detenzione, e il dottor Giuseppe Testa, comandante del corpo di polizia. Nel dialogare con loro alcuni numeri emersi mi hanno subito colpita ma purtroppo non mi hanno sorpresa: la penitenziaria a Vicenza soffre una carenza di organico di quasi 50 uomini e nella casa circondariale ci sono oltre 200 detenuti, con un sovraffollamento ben al di sopra della capienza". "Questo significa - ha sottolineato l'Assessore - che gli operatori impegnati quotidianamente per garantire l'ordine e la sicurezza della struttura, lavorano in condizioni difficili, soprattutto dal punto di vista dello stress psicologico. Hanno a che fare ogni giorno non solo con la sorveglianza ma anche con le intemperanze dei delinquenti, il 70% stranieri, che si rendono protagonisti di atti di aggressione, anche solo verbale, nei confronti del personale, o di autolesionismo, in un contesto allucinante". "Molti agenti - ha proseguito Donazzan - provengono dalle regioni del sud ed è evidente che, a fronte di tutto ciò, abbiano fatto una scelta di vita chiara e di sacrificio, lasciando la propria terra di origine per indossare una divisa e servire lo Stato, quello stesso Stato che oggi dovrebbe impegnarsi di più per garantire loro condizioni di lavoro migliori e adeguate alla loro professionalità". "Un'altra cosa mi ha colpito - ha evidenzia Donazzan: in ogni ufficio ho visto foto di Falcone e Borsellino e questo dimostra su quali valori si fondano le azioni di questi uomini e queste donne. Sono gente per bene che va difesa e da assessore regionale, sulla base delle mie competenze, farò di tutto affinché questo avvenga con corsi di formazione ad hoc che valorizzino la loro professionalità". "Nel carcere inoltre con uno specifico programma di lavoro-produzione nel settore della panificazione, e al contempo di formazione professionale, solo per fare un esempio, sono stati finora 101 i contratti di lavoro stipulati e 150 i tirocinanti. Questi lavoratori, che sono detenuti in fase di rieducazione, sono remunerati. Non condivido - chiosa Donazzan - perché con il lavoro queste persone dovrebbero ripagare la società per le malefatte commesse". Udine: accordo tra la Biblioteca civica e la Casa circondariale per libri a detenuti Ansa, 21 marzo 2015 La biblioteca civica del Comune di Udine e la Casa circondariale hanno sottoscritto oggi una convenzione che garantirà l'erogazione del prestito di libri ai detenuti. Il protocollo di intesa, che avrà una durata di tre anni, si appoggerà per la movimentazione dei libri e la gestione dei prestiti sugli operatori dell'associazione "Icaro" di volontariato penitenziario. I docenti del Centro provinciale istruzione adulti di Udine garantiranno invece la fornitura di percorsi di lettura tematici, con testi utili per l'apprendimento della lingua italiana per gli stranieri. I partner del progetto collaboreranno inoltre alla realizzazione di iniziative di promozione della lettura in carcere programmando incontri tematici, anche con gli autori, e fornendo un servizio di consulenza al comitato di redazione del periodico d'istituto "La voce del silenzio". "Sono molto lieto di poter proseguire questa collaborazione - sottolinea il sindaco, Furio Honsell. In questi anni la nostra biblioteca si è sviluppata come un'istituzione sempre più aperta alla città, promotrice dell'integrazione dei nuovi cittadini e di un articolato programma di iniziative che riguardano la messa a disposizione di materiali bibliografici adatti a nuove fasce di residenti, ma anche la realizzazione di attività legate alla promozione della lettura". Salerno: accordo per reinserire i detenuti facendoli lavorare in strutture sportive scuole www.salernonotizie.it, 21 marzo 2015 In mattinata presso la Sala del Gonfalone del Palazzo di Città, alla presenza dell'Assessore comunale alla Pubblica Istruzione Eva Avossa, è stato firmato un protocollo d'intesa tra Comune di Salerno, Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - e il Centro Sportivo Italiano - Comitato Provinciale di Salerno - volto a favorire il reinserimento dei detenuti attraverso la disponibilità ad operare presso le strutture sportive collocate all'interno degli istituti scolastici cittadini. L'obiettivo del progetto "Fare Squadra" è dare il via ad una proficua collaborazione tra i tre soggetti coinvolti, che intraprenderanno iniziative utili a favorire percorsi riabilitativi per le persone che scontano pene detentive e insieme migliorare le strutture scolastiche. Grosseto: "Diversi ma non avversi", i ragazzi delle scuole suoneranno per i detenuti www.ilgiunco.net, 21 marzo 2015 I ragazzi del corso ad indirizzo musicale della scuola secondaria di primo grado "L. Pacioli" di Follonica in concerto per i detenuti della Casa Circondariale di Massa Marittima: il 30 marzo 2015, con partenza da via Gorizia alle ore 9,00 e rientro alle ore 12.00. Un evento didattico che, quest'anno, coinvolgerà anche gli alunni della terza C a conclusione del progetto interdisciplinare "Possiamo essere diversi ma non avversi", come occasione di ulteriore riflessione ed approfondimento della conoscenza della figura dell'altro attraverso un'esperienza educativa concreta di confronto ed arricchimento reciproci: per il consolidamento "del ruolo dei giovani nel processo di interazione/integrazione sociale nella scuola e nella società"; per valorizzare le cose che uniscono piuttosto di quelle che dividono. L'iniziativa, è organizzata dall'Istituto comprensivo Follonica 1, nell'ambito del 20esimo anniversario dell'indirizzo musicale, in collaborazione con il coordinamento delle opere caritative ed è stata resa possibile dal sostegno del Comune di Follonica. Turchia: attesa per messaggio Ocalan, ergastolano a Imrali, su fine questione curda Aki, 21 marzo 2015 È atteso per oggi, giorno in cui prende il via il nuovo anno curdo, un messaggio di Abdullah Ocalan, leader dei ribelli del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), che traccerà la tabella di marcia del negoziato per mettere fine al conflitto con il governo turco, partito due anni fa e rilanciato nelle ultime settimane. Si tratterà, secondo il Pkk, di un messaggio storico, che sarà letto di fronte a migliaia di persone riunite per celebrare l'anno nuovo (Norouz) a Diyarbakir, la città principale del sud-est della Turchia, a maggioranza curda. Il messaggio di Ocalan, che sconta l'ergastolo in un carcere di massima sicurezza sull'isola di Imrali, è stato consegnato ieri ad alcuni politici curdi. Il suo contenuto non è stato rivelato, ma si prevede che contenga proposte concrete per fare avanzare il negoziato e arrivare alla fine del conflitto, che dal 1984 ha fatto oltre 40.000 vittime. Si tratta, secondo il deputato curdo Sirri Sureyya Onder, di una "road map per la nazione e per la regione, con dettagli teorici e pratici sul percorso per la pace". Dopo una lunga fase di stallo, Ocalan ha dato una prima scossa ai negoziati lo scorso 28 febbraio, quando ha chiesto ai suoi di convocare un congresso per decidere la fine delle ostilità. "Ci avviamo verso la fine di questo conflitto vecchio di 30 anni, sotto la forma di una pace definitiva", diceva in quell'occasione Ocalan in un altro messaggio scritto. Turchia: detenuto uccide moglie durante visita in carcere nella "camera rosa" Ansa, 21 marzo 2015 Un detenuto turco ha ucciso la moglie, tagliandole il collo, durante una "visita matrimoniale", riferisce la stampa di Ankara. È l'ultimo episodio di violenza contro le donne in Turchia, dove il fenomeno assume dimensioni endemiche. Migliaia di persone sono scese in piazza nelle ultime settimane per protestare contro l'assassinio della studentessa di Mersin Ozgecan Aslan in febbraio, picchiata, violentata, uccisa, fatta a pezzi e bruciata dall'autista di un minibus. L'ultimo assassinio si è verificato nella "camera rosa" della prigione di Sivas, dove i detenuti possono ricevere in privato per 24 ore le mogli. Il carcerato, Metin Avci, 33 anni, che sconta una condanna a 16 anni per omicidio, riferisce l'agenzia Dogan, è stato autorizzato ieri a ricevere la moglie Leyla Avci. Per ragioni ancora non chiarite l'uomo ha ucciso la consorte usando un coltello lasciato dalla direzione della prigione con un vassoio di frutta nella "camera rosa". Poi si è tagliato le vene. È stato ricoverato. Ma per la moglie non c'era più nulla da fare. La Turchia ha autorizzato le "visite coniugali" nelle carceri nel 2013.