Giustizia: un quarto dei processi penali dura oltre 2 anni ed è a "rischio" risarcimento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2015 Un rapporto del ministero sulla Giustizia penale mette in luce come un quarto dei processi in primo grado dura oltre due anni, a cui vanno aggiunti i tempi delle procure. Esponendo lo Stato al rischio risarcimento per effetto della legge Pinto. Concentrare gli sforzi sul 25% dei processi penali. Soprattutto quelli che si svolgono con rito collegiale. Nella consapevolezza, puramente teorica naturalmente, che un "fermo biologico" di un anno della giustizia penale permetterebbe di smaltire pressoché totalmente tutti i processi in lista d'attesa. Il ministero della Giustizia, e segnatamente il Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria (ora guidato dall'ex presidente del tribunale di Torino Mario Barbuto) in collaborazione con l'ufficio statistiche del ministero, scatta, dopo quella del civile, una fotografia anche del settore penale. Da ieri è infatti disponibile sul sito del ministero una mole di dati imponente. Che rappresenta un punto di riferimento fondamentale di conoscenza per poi mettere in atto interventi più mirati, ufficio per ufficio, nel rispetto dell'autonomia dei vertici delle diverse sedi, per aggredire in maniera più consapevole il debito pubblico della giustizia italiana. Per valutare il livello di gravità della durata delle procedure che si protraggono oltre i termini di legge, si sottolinea nella relazione di Barbuto che nella cifra di 3.544.633 pro-cessi pendenti a fine 2013 sono compresi i seguenti procedimenti: in Corte di Cassazione 31.871, pari allo 0,9% del totale; nelle Corti d'appello 266.475 (7,5%) mentre i processi non ancora definiti dagli Uffici giudicanti di primo grado sono 1.530.076 (43,2%) di cui: 1.314.511 (37%) nei tribunali ordinari; 172.439 (4,9%) dai Giudici di pace e 43.126 (1,2%) nei Tribunali per i minorenni. I procedimenti non ancora definiti dagli uffici requirenti sono invece 1.716.211 (48,4%) di cui il 47,9% presso le procure dei tribunali ordinari e lo 0,43% presso le procure dei Tribunali per i minorenni. In sintesi il 48,4% dei procedimenti sono pendenti presso gli uffici requirenti; il 43,2% davanti ai giudici di primo grado (di cui 37,1% davanti ai tribunali ordinari); il 7,5% in Appello e lo 0,9% in Cassazione. Ora, tenuto conto del dati di esaurimenti totali nel corso del 2013 pari a 3.288.184, è possibile affermare che, se per un anno e un mese non entrassero più affari penali, il sistema azzererebbe il totale dell'arretrato. Dato accademico certo, ma che suona un po' meno teorico perché corrobora la produttività della magistratura. Quanto alla durata, altro elemento chiave del "problema giustizia" anche in chiave internazionale, il monitoraggio del ministero mette in luce come tendenzialmente più della metà dei processi penali in primo grado dura meno di un anno, circa il 25% dura tra 1 e 2 anni e l'altro 25% dura oltre due anni (in tutti vanno aggiunti i tempi delle procure). Ed è su quest'ultimo quarto che deve concentrarsi, sottolinea la relazione di Barbuto di accompagnamento ai dati, il massimo dello sforzo. Anche perché sono questi i processi che rischiano più degli altri di costringere lo Stato al risarcimento per effetto della legge Pinto. Dalle statistiche della Giustizia emerge anche come una buona parte dei procedimenti critici si concentra in alcune tribunali. Per esempio, per quanto riguarda il primo grado, quasi un terzo del totale dei procedimenti giacenti a fine 2013 si concentra in dieci uffici. Con in testa Napoli con 61.149 pendenze, Santa Maria Capua Vetere con 58.793 e Roma con 48.901. Dati importanti che però andrebbero incrociati con altri, di cui pure il ministero non è stato avaro, come quelli sulla scopertura dei posti di magistrato e del personale amministrativo o sul tasso di criminalità (processi per abitanti) e che lo stesso ministero avverte ora di volere utilizzare anche per la revisione delle piante organiche. Come pure a livello di strumenti, questa volta normativi, a disposizione, un elemento importante potrà essere rappresentato oltre che dal futuro e annunciato intervento di depenalizzazione anche dalla possibilità di archiviazione per tenuità del fatto che servirà almeno a temperare un'altra delle specificità italiane: l'obbligatorietà dell'azione penale. Giustizia: online censimento penale realizzato da Dipartimento organizzazione giudiziaria Il Velino, 15 marzo 2015 Dopo il civile arriva il penale. Mantenendo un impegno annunciato in occasione della presentazione del censimento della Giustizia civile italiana, il Dipartimento organizzazione giudiziaria del ministero guidato da Mario Barbuto pubblica sul sito del ministero Giustizia.it l'analisi relativa ai dati del penale. Il dossier - elaborato dal Dog con la collaborazione della Direzione generale di Statistica - prende in esame, esattamente come fatto per il civile, i 139 tribunali del Paese utilizzando gli stessi parametri utilizzati da organismi e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e la Commissione Europea per l'Efficienza della Giustizia (Cepej). Il lavoro prodotto dal ministero ha come unico obiettivo quello di migliorare la produttività degli uffici giudiziari portandola al livello dei tribunali che riescono a sviluppare le performance migliori. La lettura dei dati rilevati consentirà di orientare con più efficacia gli interventi da operare per migliorare il servizio Giustizia reso ai cittadini verso obiettivi programmati e razionali. "Il completamento del censimento speciale di tipo selettivo iniziato con il settore civile e concluso con il settore penale", scrive il capo del Dipartimento dell'Organizzazione Giudiziaria Mario Barbuto nelle conclusioni della sua relazione che accompagna i dati del censimento, "consente ora al Ministero della Giustizia, di concerto con il Consiglio Superiore della Magistratura, di impostare l'operazione della revisione delle piante organiche, da tempo attesa ed auspicata da molti uffici giudiziari a seguito della nuova geografia giudiziaria". Giustizia: De Cristofaro (Sel); il 41-bis? Una Guantánamo italiana, 700 casi di tortura di Daniel Rustici Il Garantista, 15 marzo 2015 Lo chiamano 41-bis o carcere duro. Ti tengono lì, chiuso e isolato, finché non confessi. E il diritto? Roba vecchia. In Italia ci sono 700 detenuti al 41-bis. Sapete che vuol dire 41-bis? Carcere duro, un po' come Guantánamo. Il detenuto al 41-bis vive isolato in una cella e trascorre 1 sola ora al giorno insieme ad un altro detenuto, il cosiddetto "detenuto di compagnia"; può incontrare i familiari un'ora al mese parlando da dietro il divisorio; può avere un contatto fisico di soli 10 minuti al mese con figli e nipoti se hanno meno di 12 anni. Non può appendere foto nella cella, deve sottostare a un rigido regime nella richiesta di libri all'amministrazione penitenziaria. Peppe De Cristofaro, senatore di Sel denuncia: "Se il non detto è che il regime duro viene usato per indurre al pentimento non va bene, si tratta di tortura. Raffaele Cutolo è un vero criminale, ma il fatto che un detenuto viva da 34 anni in isolamento è un caso unico in Europa". Se il non detto è che il regime duro viene usato per indurre al pentimento non va bene, si tratta di tortura. Raffaele Cutolo è un vero criminale ma il fatto che un detenuto viva da 34 anni in isolamento è un caso unico in Europa". A parlare così è il parlamentare di Sinistra Ecologia e Libertà Giuseppe De Cristofaro, membro della Commissione Antimafia e di quella per i Diritti Umani. Parole durissime che squarciano il silenzio su un regime carcerario che, se si può definire di tortura, almeno numericamente ha poco da invidiare al famigerato campo di prigionia americano di Guantánamo. Ottocento i terroristi e presunti terroristi che gli Stati Uniti tenevano chiusi a Guantánamo nel pieno del suo funzionamento, settecento gli italiani che si trovano a scontare la pena del carcere duro. De Cristofaro, accostando il 41-bis al termine "tortura" ha rotto un tabù del mondo di una certa anti-mafia... "Non è la prima volta che parlo in questi termini della questione. È arrivato il momento di interrogarci sull'efficacia del 41-bis. Con la commissione per il rispetto dei diritti umani stiamo facendo un'indagine conoscitiva al riguardo e ho visitato diverse carceri che applicano il carcere duro. L'idea che mi sono fatto è che questo strumento spesso risulti fallace sia dal punto di vista dell'incomunicabilità con l'esterno, il fine per cui è previsto, sia dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. C'è poi un non detto, ovvero che la carcerazione dura spesso è utilizzata per istigare al pentimento: questo è inaccettabile". Portare al pentimento è anche il fine, abbastanza dichiarato, dell'ergastolo ostativo. "Sì, infatti anche sull'ergastolo ostativo ho una posizione molto critica. La considero una sorta di pena di morte bianca". Le sue posizioni immagino che siano abbastanza isolate nel commissione anti-mafia. "Sì, ma non solo in Commissione: lo sono proprio nella società. Quando si parla di questi temi spesso si preferisce parlare alla pancia della gente invece che alla testa. Sia chiaro, io non sono per nulla indulgente con chi fa parte della criminalità organizzata. La mia esperienza politica passa anche dalle associazioni anti-camorra di Napoli, non c'è nulla di più distante da me che la galassia mafiosa ma il tasso di democraticità di un Paese si misura soprattutto da come tratta le persone che hanno commesso i reati più gravi ed efferati". L'obiezione che qualcuno fa a chi mette in discussione il 41-bis è che anche la mafia spinge per la sua abolizione. "Mi sembra un'obiezione non fondata. Lo strumento era nato come misura temporanea, emergenziale non come costituente della lotta alla mafia. La repressione ai clan non si può fare ignorando i diritti umani". Propende quindi per un'abolizione del carcere duro? "Parlerei piuttosto di una rimodulazione. Credo che vadano separati i casi in cui effettivamente c'è la necessità di impedire contatti esterni con quelli in cui si usa il 41-bis per altri fini. In ogni caso, anche quando c'è effettivamente la necessità di ostacolare possibili comunicazioni con chi sta fuori dal carcere non capisco la necessità di tenere inalterate le norme che, ad esempio, impediscono ai detenuti in questo regime di accedere liberamente alla lettura dei libri che desiderano o di poter stare con il proprio bambino solo per 10 minuti". Eccessivo parlare della detenzione al carcere duro come la Guantánamo italiana? "Mi sembra un paragone un po' forte, è vero però che spesso la dignità dei detenuti al 41-bis viene calpestata non essendo riconosciuti alcuni tra i diritti umani più elementari". De Cristofaro (Sel): 41bis è tortura se usato per pentimento (Ansa) Sono quasi 700 i detenuti in Italia al 41 bis, ovvero in regime di carcere duro, e il loro numero negli ultimi anni è in aumento. Si tratta di una decina donne, il resto sono uomini. Due sono terroristi, tutti gli altri sono membri della ‘ndrangheta, della camorra, della Sacra Corona Unita, delle mafie. Il quadro sul regime del 41 bis e sulla sua applicazione in Italia arriva da Giuseppe De Cristofaro, vicepresidente del gruppo misto-Sinistra ecologia e libertà che, oltre a far parte della Commissione parlamentare Antimafia, è vicepresidente della Commissione Affari Esteri e membro della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani. "Mentre in Commissione diritti umani guardiamo prevalentemente il diritto umano del detenuto - spiega senatore parlando con l'Ansa - in Commissione Antimafia ci soffermiamo sull'efficacia del carcere duro. Quando il 41 bis nel 1992, dopo l'omicidio di Giovanni Falcone, fu istituito - prosegue De Cristofaro - si disse che era una misura transitoria ma così non è stato. La domanda che mi pongo è: può uno stato democratico usare un regime particolarmente duro di carcere non per evitare che il detenuto comunichi con l'esterno, perché se si fa questo è giustissimo, ma per farlo pentire? Secondo me non lo può fare". Il detenuto in 41 bis vive isolato in una cella e trascorre 1 ora al giorno insieme ad un altro detenuto, il cosiddetto "detenuto di compagnia"; può incontrare i familiari un'ora al mese parlando da dietro il divisorio; può avere contatto un fisico di soli 10 minuti al mese con figli e nipoti se hanno meno di 12 anni. Poi ci sono un'altra serie di norme: dal divieto di appendere foto nella cella ad un rigido regime nella richiesta di libri all'amministrazione penitenziaria. "Se il non detto è che il regime duro viene usato per indurre la pentimento - ragiona De Cristofaro - non va bene, si tratta di tortura. Raffaele Cutolo è un vero criminale ma il fatto che un detenuto vive da 34 anni in isolamento è un caso unico in Europa". Associazione Georgofili: noi vittime tortura, non detenuti 41-bis (Ansa) "Basta con questa parola: tortura. La tortura la subiamo noi vittime della mafia, che ogni giorno veniamo vessati da richieste di clemenza per dei farabutti che hanno commesso in questo Paese crimini senza pari". Lo scrive in una nota la presidente dell'associazione fra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, commentando le dichiarazioni di Giuseppe De Cristofaro, vicepresidente del gruppo misto-Sinistra ecologia e libertà. "Questo è l'unico paragone che calza rispetto all'Europa - aggiunge. Gli altri Paesi dell'Unione non hanno soggetti al 41 bis perché non c'è altro Paese al modo che abbia subito sette stragi terroristiche-eversive di stampo politico mafioso in meno di un anno, a causa di collusioni politico mafiose". "I mafiosi a carcere duro non sono tenuti in un regime di isolamento, severo ma necessario, perché si pentano - conclude - ma perché non abbiano contatti con l'esterno in nessun modo che risulti pericoloso per la fuoriuscita di ordini dal carcere. Magari il carcere cosiddetto duro, che duro non è, fosse applicato fino ad ottenere il pentimento dei capi mafia, che sanno benissimo chi promise mari e monti sull'annullamento del 41 bis". Giustizia: Zamparutti (Radicali); il 41-bis è una tortura, in Europa lotterò per abolirlo di Errico Novi Il Garantista, 15 marzo 2015 Al governo non resta che decidere. Deve scegliere il rappresentante italiano al Comitato per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio d'Europa. Si tratta di avere un po' di coraggio e rompere il silenzio sulla condizione delle carceri (non solo quelle italiane), sulla disumanità dell'ergastolo ostativo e persino, udite udite, del 41.bis. Se Renzi e Orlando vogliono puntare a simili obiettivi hanno una carta a disposizione: scegliere Elisabetta Zamparutti. L'esponente radicale, tesoriera di Nessuno tocchi caino, è in lizza con il presidente di Amnesty Italia Antonio Marchesi e il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Candidati eccellenti. Ma con Zamparutti forse ci si prende un rischio in più: la rottura definitiva col populismo giudiziario. Certo che ora in Italia la spinta giustizialista è fortissima. E però ci sono anche segnali chiari di tipo diverso, a cominciare dall'unico messaggio inviato alle Camere dal presidente Napolitano nel corso del suo mandato. L'opinione pubblica italiana è sensibile al tema delle garanzie per i detenuti? "Se c'è un vulnus è nella mancanza di conoscenza. Non c'è alcun tipo di dibattito su questioni come il sovraffollamento dei penitenziari. Il sistema dei media nega ai cittadini una vera informazione. C'è una comunicazione tutta concentrata su fatti che possono sollecitare l'emotività e indurre paure". E come si spezza la catena? "Il primo anello è la politica: il nodo è tutto lì. Alterare la verità rispetto ai problemi della giustizia fa comodo alla politica. Conviene eccome, cavalcare questa tendenza dell'informazione, perché in questo modo si evita di affrontare questioni come il significato della pena". Dei suicidi nelle carceri si parla solo se qualche poliziotto idiota scrive sui social "uno di meno". "La disumanità delle carceri non viene fatta quasi mai conoscere, a parte rarissime eccezioni come quella del Garantista. E tra le forze politiche noi radicali siamo gli unici a porre la centralità della questione giustizia. Si è riusciti a oscurare, di fatto, persino il messaggio di Napolitano". Lei si candida al Comitato per la prevenzione della tortura, che monitora la tutela dei diritti nei vari Stati membri. "La mia candidatura negli ultimi giorni ha ricevuto il sostegno di personalità di grande rilievo come il premio Nobel per la pace Maire-ad Corrigan Maguire, irlandese, e l'ex presidente dell'Assemblea generale dell'Onu Bill Richardson. Ma a decidere, di fatto, sarà il nostro governo". Tra i pochi a schierarsi contro l'ergastolo c'è il Papa. "E non a caso è un Papa assai più isolato rispetto ai suoi predecessori. È un Pontefice che ha il coraggio di interloquire con Marco Pannella, e che in Vaticano ha abolito l'ergastolo, introdotto il reato di tortura. Ha affermato davanti all'Assemblea internazionale dei giuristi che l'ergastolo e le pene più dure, di isolamento, sono pene di morte mascherate. È un dono, da questo punto di vista". Lei al Consiglio d'Europa che priorità si darebbe? "Quelle di Nessuno tocchi caino: l'abolizione dell'ergastolo e il superamento del 41-bis". Il 41.bis? Roba da temerari. "Quelle saranno le mie priorità: da una parte l'ergastolo ostativo, dall'altra il carcere duro, sono forme di isolamento che la nostra legge prevede di interrompere solo in caso di confessione. E quando la sola possibilità di uscire dall'isolamento consiste nel rendere determinate dichiarazioni, si configura precisamente il reato di tortura così come definito nei trattati internazionali". Il 41-bis dunque è tecnicamente una forma di tortura? "È scritto nelle convenzioni. E il mandato specifico del Comitato per la prevenzione della tortura è proprio quello di vigilare sui casi in cui determinati regimi di pena sono legati a un'eventuale confessione". Sa che a San Marino le raccomandazioni del Comitato sono state accolte solo in parte e quasi del tutto disapplicate? "Quando uno Stato membro non recepisce le raccomandazioni il Comitato ricorre alla dichiarazione pubblica. Attiverei sicuramente questo strumento straordinario. Così come mi impegnerei sul problema delle extraordinary rendition, cioè delle carceri segrete in cui alcuni Paesi come Romania, Polonia e Lituania interrogano persone considerate pericolose. Sono casi in cui si degrada dalla democrazia come dovrebbe essere alla democrazia reale, come avveniva con il socialismo reale". A proposito del Papa: come vede il Giubileo dedicato alla misericordia? "Questo è un Papa che mette sopra di tutto l'inclusione dell'umanità, il rispetto della dignità umana: questa decisione sul Giubileo lo conferma. Non è un caso che lui e Marco Pannella vanno d'accordo". Giustizia: riforma della prescrizione… che ci faccio di una assoluzione dopo 25 anni? di Alessandro Pagano (Capogruppo Ncd-Udc in Commissione Giustizia alla Camera) Il Garantista, 15 marzo 2015 E normale che in uno Stato di diritto un uomo venga assolto dopo 25 anni? E dopo tutto questo tempo, cosa se ne fa un innocente dell'assoluzione? Questi sono gli interrogativi che tutti dovremmo porci quando parliamo di prescrizione, e in particolare della proposta di legge in discussione alla Camera. Tutti infatti dovremmo avere a mente che simili calvari condizionano e condizioneranno la vita dei malcapitati e delle imprese che vi si imbattono: le conseguenze sul lavoro, sulla stabilità della famiglia, sul futuro dell'impresa, per non parlare di tutte le spese economiche per portare avanti, fino alla fine, processi così lunghi. L'articolo 111 della Costituzione recita: la legge assicura la ragionevole durata dei processi. Ma di fatto siamo ancora lontani da questo traguardo. A ciò si aggiunga la proposta di legge che ha ricevuto il via libera dalla commissione Giustizia, la quale legittima di fatto la prescrizione eterna. Dal testo esce un combinato delle pene già aumentate nelle precedenti leggi che, insieme alle sospensioni previste, potrebbe portare a un aumento inconcepibile che non ci convince affatto. Alla luce di queste premesse, ben si comprende perché il Nuovo Centrodestra e l'Udc, insieme nel gruppo parlamentare Area popolare, hanno deciso di non dare parere favorevole in commissione Giustizia al mandato dei relatori. Una commissione che è andata oltre gli accordi che c'erano stati all'interno del Governo. L'auspicio adesso è che nei prossimi passaggi parlamentari si possa correggere questo impianto. Sia chiaro, la nostra storia e la nostra battaglia nel contrasto alla corruzione e ai corrotti non si discute. E, infatti, il dibattito in Senato sul ddl anticorruzione lo conferma. Questo non vuol dire che i cittadini debbano rimanere a vita con addosso la spada di Damocle di un processo. La lentezza e l'inefficienza della giustizia non può ricadere su di loro. Piuttosto si devono velocizzare i tempi. Basti pensare che, dall'ultima analisi della Commissione europea pubblicata la scorsa settimana, l'Italia è terzultima per i tempi della giustizia civile, ventiduesima sui ventotto Paesi dell'Unione per percezione di imparzialità dei giudizi, al terzo posto tra gli Stati europei con il maggior numero di cause civili pendenti. Con in media 608 giorni necessari per arrivare ad una sentenza di primo grado in una causa civile o commerciale, l'Italia è il Paese più lento, prima solo di Cipro e Malta. Tra l'altro, per quanto riguarda invece il penale, il nostro è un sistema che tende a correggere i propri errori: il 47% delle sentenze di appello riforma, del tutto o in parte, quella di primo grado. Lentezza-inefficienza-errori giudiziari a cui stiamo ponendo rimedio. Come dimostra lo storico via libera alla responsabilità civile dei giudici. Ricordiamo in merito, sulle misure cautelari, le oltre 22mila sentenze emanate dal 1991 ad oggi per ingiusta detenzione che hanno generato 600 milioni di euro di risarcimenti, i quali sono addirittura aumentati del 41 per cento nel 2014 rispetto all'anno precedente. Questa è solo una delle fotografie del pianeta della giustizia nel nostro Paese. Un pianeta che vogliamo migliorare per dare davvero una giustizia giusta, rapida ed efficiente". Giustizia: Opg; finisce la vergogna degli ex manicomi criminali ma è allarme nelle città di Jenner Meletti La Repubblica, 15 marzo 2015 Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiudono il 31 marzo ma molti dei settecento pazienti ancora non hanno una casa. Alcuni sindaci non li vogliono: "Chi garantisce la sicurezza?" Ha un borsone enorme, il ragazzo che sta entrando nella palazzina della direzione, accompagnato da due carabinieri. Sulla targa in marmo c'è scritto: "Ospedale psichiatrico giudiziario". È un Opg che, come tutti gli altri, dovrà chiudere fra due settimane, il 31 marzo. Ma il ragazzo sta entrando adesso. "Purtroppo - dice subito il direttore, Andrea Pinotti - non è un caso unico. La legge 81 del 30 maggio 2014 ha confermato la chiusura degli Opg per questo fine mese ma il Codice penale non è cambiato. Chi viene prosciolto per incapacità di intendere e di volere viene mandato qui come misura di sicurezza. Solo nell'ultima settimana, cinque nuovi ingressi. E dall'inizio dell'anno ci hanno inviato anche tre ottantenni che hanno ucciso le loro mogli. A quell'età non puoi essere rinchiuso né in un carcere né in un Opg: ma sono arrivati ugualmente". I ministri della Salute e della Giustizia dicono che non ci saranno rinvii dell'ultima ora. Ma non sarà facile trasformare il vecchio "Manicomio criminale" in quelle che sono chiamate Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentive). Venti posti al massimo, una forte assistenza sanitaria e psichiatrica, nessuna "cella" o altra forma di detenzione. Ci sono state proteste di sindaci, soprattutto in Piemonte, che non hanno voluto queste Rems nei loro Comuni. "Cosa possiamo fare - hanno scritto in una lettera 64 psichiatri del dipartimento salute mentale di Bologna - quando non si riesce ad arginare l'aggressività di un paziente? E quando si allontana dalla struttura? Chi ha la custodia? Quando devono intervenire le forze dell'ordine?". "La sicurezza - assicura Vito De Filippo, sottosegretario al ministero della Salute - è affidata alla prefettura, con sorveglianza esterna o altri interventi. Ho dato il sangue, per chiudere gli Opg e togliere questa vergogna. Possiamo dire di esserci riusciti. Quasi tutte le nuove Rems saranno provvisorie perché quelle definitive, finanziate con 172 milioni consegnati alle Regioni, non saranno pronte al 31 marzo. Ma anche quelle provvisorie sanciranno la fine degli Opg. Ci sono ancora problemi in Veneto, Piemonte e Friuli - che non hanno ospedali giudiziari nel loro territorio ma che dovranno riprendersi a casa i loro internati - mentre nel resto del Paese le soluzioni sono pronte. Alcune Rems apriranno già il 20 marzo". Anche in Toscana, però, le nuove strutture non sono pronte. Già ora le fughe non sono rare. L'altro giorno A. M., che strangolò sua madre a Prato, è fuggito mentre veniva trasferito dall'Opg di Montelupo in una comunità. Dopo due giorni è stato ripreso. Non tutti condividono l'ottimismo del sottosegretario De Filippo. "La data del 31 marzo - ha dichiarato Angelo Fioritti, direttore del dipartimento di salute mentale di Bologna a Psicoradio - non verrà rispettata. Le uniche Regioni che potranno aprire subito le Rems sono l'Emilia Romagna e la Basilicata. Le altre hanno solo piani di transizione. E c'è chi, come il Friuli, ha deciso di non recepire la legge nazionale". Altre 8 Rems, comunque, saranno aperte in Lombardia, a Castiglione delle Stiviere. Il ministro alla Salute, Beatrice Lorenzin, non ammette rinvii. "Chi non ha rispettato i tempi si assumerà le proprie responsabilità. Si potrà arrivare al commissariamento". Sono settecento, oggi, gli internati nei sei Opg di Castiglione delle Stiviere (l'unico che ospita anche le donne), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. "Stiamo preparando - dice Vito De Filippo - le schede di ogni ospite. Penso che in poco tempo riusciremo a diminuire il numero a 400". Il censimento comunque non è ancora pronto. Da uno studio di 10 anni fa risulta comunque che "i pazienti in Opg erano in gran parte affetti da disturbi psichiatrici gravi (schizofrenia e altri disturbi psicotici dal 61,2 al 70,1%). Avevano commesso nella maggior parte dei casi reati gravi contro la persona (nel 54% dei casi omicidio o tentato omicidio)". I numeri degli internati sono cambiati - erano 1.282 nel marzo 2001 e 988 nel giugno 2013 - ma l'alta percentuale di omicidi o tentati omicidi, nel momento in cui vengono abolite celle e recinzioni, può destare allarme sociale. A Castiglione delle Stiviere, per esempio, si calcola che i due terzi degli internati abbiano commesso reati gravi contro la persona. Ci sono donne che hanno ucciso il figlio in lavatrice, altri che hanno tentato stragi facendo saltare la casa... "L'importante - dice Mila Ferri, responsabile salute mentale e salute nelle carceri della Regione Emilia Romagna - è lavorare bene nel rapporto fra Rems e territorio. Ci saranno telecamere e la sorveglianza esterna organizzata dalle prefetture. Noi abbiamo deciso di mettere anche guardie giurate". "Chiudere gli Opg - racconta il direttore di Castiglione, Andrea Pinotti - è più che giusto ma servono anche nuove leggi. Prendiamo il caso del vizio parziale di mente: se te lo riconoscono, come nel caso di Adam Kabobo, il picconatore di Milano, prima vai in carcere poi vieni mandato in Opg. Se sei malato, devi venire subito qui. Se non sei malato, devi scontare la pena in carcere". È studiata in tutta Europa, la realtà di Castiglione. "Con la fine degli Opg cesseranno finalmente gli "ergastoli bianchi". Hai una misura di sicurezza di 6 mesi ma poi crei problemi? Resti per altri mesi e altri anni. Finita la pena comminata, devi essere certo di uscire. Altrimenti succede come a G., arrivato dal Sud negli anni 80. È riuscito a lasciare l'Opg l'anno scorso, ma solo per entrare, ormai troppo vecchio, nella casa di riposo qui in paese". Giustizia: i killer stradali fanno mille morti all'anno, le pene restano ridicole di Marco Menduni Secolo XIX, 15 marzo 2015 L'ultima rilevazione è dell'Istat: in Italia ci sono più di 180 mila incidenti stradali all'anno. Il dato è del 2013: 3.385 morti, più di 250 mila feriti. In Liguria gli incidenti con feriti o morti sono addirittura esplosi tra il 2013 e il 2014: 574 contro 127. L'Istituto superiore di Sanità stima che il 30-35 per cento degli incidenti siano determinati dall'alcol o dalla droga, che causano così mille morti all'anno. Ma la legge sull'omicidio stradale, sbandierata a più riprese dal governo, è impantanata nelle commissioni parlamentari. E c'è chi ipotizza un intervento dell'esecutivo con un decreto. Intanto la Cassazione annulla la condanna a 21 anni per Ilir Beti l'imprenditore albanese che imboccò la A26 contromano e la percorse per oltre 20 chilometri: morirono quattro ragazzi francesi, era il 13 agosto 2011. Lo dicono i giudici: con le leggi attuali il "dolo eventuale", quell'aggravante che fa assomigliare una tragedia del genere a un omicidio volontario, non è applicabile. Il bulgaro Krasimir Dimitrov, la sera del 22 giugno 2014 a Ravenna, ubriaco al volante della sua Mercedes, investì e uccise sotto gli occhi dei genitori il piccolo Gionatan Lasorsa. Il bambino non aveva ancora tre anni. Il giudice ha parlato di "condotte odiose e più totale disprezzo per la vittima". Ma al condanna è stata di 2 anni e 9 mesi. Dimitrov è già libero. "Stavolta - tuona Giordano Biserni, presidente dell'Asaps, l'Associazione sostenitori ed amici della polizia stradale - gli stessi magistrati hanno sottolineato l'esigenza di una legge specifica. Oggi non c'è, nonostante la voglia l'85 per cento dei cittadini.". Ma che fine ha fatto la nuova legge sull'"omicidio stradale", più volte sbandierata come in rampa di lancio e sollecitata dal premier Renzi fin dal suo insediamento? È ancora impelegata su un doppio binario: se non morto, molto rallentato. Intanto la Cassazione annulla la condanna a 21 anni per Ilir Beti l'imprenditore albanese che imboccò la A26 contromano e la percorse per oltre 20 chilometri: morirono quattro ragazzi francesi, era il 13 agosto 2011. Lo dicono i giudici: con le leggi attuali il "dolo eventuale", quell'aggravante che fa assomigliare una tragedia del genere a un omicidio volontario, non è applicabile. Il bulgaro Krasimir Dimitrov, la sera del 22 giugno 2014 a Ravenna, ubriaco al volante della sua Mercedes, investì e uccise sotto gli occhi dei genitori il piccolo Gionatan Lasorsa. Il bambino non aveva ancora tre anni. Il giudice ha parlato di "condotte odiose e più totale disprezzo per la vittima". Ma al condanna è stata di 2 anni e 9 mesi. Dimitrov è già libero. "Stavolta - tuona Giordano Biserni, presidente dell'Asaps, l'Associazione sostenitori ed amici della polizia stradale - gli stessi magistrati hanno sottolineato l'esigenza di una legge specifica. Oggi non c'è, nonostante la voglia l'85 per cento dei cittadini.". Ma che fine ha fatto la nuova legge sull'"omicidio stradale", più volte sbandierata come in rampa di lancio e sollecitata dal premier Renzi fin dal suo insediamento? È ancora impelagata su un doppio binario: se non morto, molto rallentato. Il nuovo testo è nelle mani della Commissione giustizia del Senato: quella impegnata, ora, in superlavoro sull'anticorruzione. E il testo? Il problema che ne sono arrivati cinque "e in questi cinque - racconta ora il senatore Luigi Cucca, Pd, relatore del provvedimento - c'era tutto e il contrario di tutto". Solo negli ultimi giorni Cucca ha messo insieme una bozza unica. Ma bisogna ancora iniziare a discutere. "Incontrerò all'inizio della settimana il presidente Nitto Palma per decidere i tempi. Se siamo solleciti, prima dell'estate ce la facciamo. Speriamo". C'erano due strade: considerare l'omicidio stradale un'aggravante o un nuovo reato autonomo. "Nella mia bozza - spiega Cucca al Secolo XIX- è prevista la Seconda opzione, con pene assai più pesanti, ma sarà sempre un reato colposo". Perché c'è la diga del diritto che non si può valicare: nessuno potrà mai supporre che chi si mette alla guida, anche ubriaco o drogato, voglia determinare un disastro o uccidere. Ma c'è un intoppo bis. L'altro binario, che è quello del nuovo codice della strada, si è arenato per motivi di bruta contabilità. Prevedeva, il nuovo codice, interventi sulla viabilità, segnaletica rinnovata, guard rail di ultima generazione. Un'altra commissione, quella Bilancio, ha detto niet: "Non ci sono i soldi, fermatevi". Il senatore Daniele Borioli, Pd, relatore della legge delega alla commissione lavori pubblici di Palazzo Madama, assicura: "Dopo il codice degli appalti, la settimana prossima ripartiamo". Chiarisce: "Il nuovo codice è pronto ad accogliere l'omicidio stradale, ma dovrà prima diventare legge". Si è parlato anche di "ergastolo della patente". "È una dicitura colto efficace dal punto di vista comunicativo, ma rischia di scontrarsi con il principio costituzionale della riabilitazione. Io dico che la patente va sospesa per un congruo periodo di tempo. Ma una cosa è dire a un ragazzo neopatentato che non guiderà mai più, un altro punire un recidivo". E se le difficoltà proseguiranno? "Ho il sentore che il governo potrebbe intervenire con una sua iniziativa". Lettere: un'indagine, un morto, ma è stato tutto per un errore di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") www.huffingtonpost.it, 15 marzo 2015 Ornella Gemini è una donna che non può darsi pace. Suo figlio Niki Aprile Gatti è morto nel 2008 nel carcere di Sollicciano: suicidio secondo gli inquirenti, suicidio simulato secondo lei. Ornella Gemini l'ho conosciuta lo scorso giugno ad Avezzano (ne ho parlato qui) e qualche giorno fa mi ha scritto e mi ha segnalato che nell'udienza preliminare che si è tenuta i primi di marzo (a sette anni e passa dagli arresti preventivi si parla ancora di udienza preliminare!) è emerso che la procura di Firenze che condusse l'operazione Premium su una presunta associazione a delinquere finalizzata alle truffe telematiche - inchiesta da cui scaturì l'arresto di 17 persone, tra le quali suo figlio - non aveva competenza sul caso e che il caso spettava invece alla procura di Arezzo. Un dolore in più per Ornella Gemini: da anni lotta perché emerga la verità sulla morte di suo figlio, ora scopre che il pubblico ministero che aveva ordinato il suo arresto non aveva titolo per farlo... Ma soprattutto scopre "che se quel pm non avesse indagato sul caso Premium (non potendolo fare) Niki non sarebbe stato arrestato e sarebbe ancora vivo". Intervistata da Il Garantista ha detto: "Cosa devo pensare? Che ho perso un figlio che era la mia vita per errore? Sono pronta ad azzerare tutto, fatemi tornare a casa mio figlio, una casa in cui dal 24 giugno 2008 non si vive più". "Se non avesse indagato...non potendolo fare". Leggo e rileggo queste parole. Perché mi fanno pensare che l'errore di base sta proprio qui: nella pratica dell'indagine giudiziaria che sbatte la gente in galera per farla parlare, una pratica che da Mani pulite in poi, ma certo anche da prima, avvolge e controlla ogni momento della nostra vita. Indagine che diventa battaglia personale del bene contro il male dove la vittoria è sempre e soltanto l'arresto preventivo e il carcere. Ha detto bene poche settimane fa il presidente della Repubblica Mattarella all'inaugurazione dei corsi della Scuola superiore della magistratura a Scandicci: "Al magistrato si richiede profonda coscienza del ruolo e dell'etica della professione... un compito né di protagonista assoluto nel processo né di burocratico amministratore di giustizia". E per essere più chiaro Mattarella ha aggiunto: "Vale sempre il monito di Calamandrei: il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell'assuefazione, dell'indifferenza burocratica, dell'irresponsabilità anonima". Un'irresponsabilità anonima che, come appare, ha permesso nel 2008 l'arresto di Niki Aprile Gatti in base a una indagine che gli inquirenti fiorentini non potevano fare. Un errore certo... può capitare... ma che capita proprio per "assuefazione, indifferenza burocratica, irresponsabilità anonima", per quella guerra personale messa in atto da certi pm-sceriffi che si credono padroni e domini della vita degli uomini. "La giustizia - diceva Josè Saramago - non serve a niente se non si pone al servizio dell'uomo. Perché altrimenti ci possono essere leggi ingiuste e una giustizia corrotta". Lettere: gli Ospedali psichiatrici giudiziari chiudono, e dopo? di Fiorenza Sarzanini Io Donna, 15 marzo 2015 La data fissata è il 1° aprile. Quel giorno in Italia dovranno essere chiusi tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari, che ospitano i detenuti con gravi problemi e dunque non possono scontare la pena nelle carceri. La maggior parte sono veri e propri manicomi, strutture fatiscenti dove le condizioni di vita sono spesso disumane. La legge prevede che queste persone vengano trasferite nei Rems, residenze dove si dovrebbe provvedere alla cura, quando è possibile al recupero, comunque all'assistenza. È un'occasione che non si può perdere, come hanno ben spiegato in un documento pubblicato qualche mese fa tre esperti: il neurologo Stefano Ferracuti, lo psichiatra Giuseppe Nicolò, lo psicologo Rinaldo Perini. Perché, dopo aver elencato i punti critici della nuova normativa, ricordano che in gioco c'è "la sicurezza dei pazienti, quella degli operatori e quella dei cittadini". Bisogna avere dunque "molta prudenza, pochi preconcetti e tempi di trattamenti prolungati in condizioni di umanizzazione e di tutela della dignità umana. Tenendo però presente che chi ha commesso delitti è spesso farmacoresistente e non risponde ai comuni trattamenti". I tre professori evidenziano tutti i requisiti necessari a far funzionare le Rems e si soffermano sulla cura degli ambienti, le cure somministrate, il monitoraggio costante sulle condizioni dei pazienti. L'obiettivo deve essere chiaro: "Garantire elevata intensità assistenziale a soggetti che a causa del loro disturbo mentale hanno commesso uno o più delitti". E così tutelare la collettività. Lettere: vite in carcere viste da dentro così la cultura diventa riscatto di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 15 marzo 2015 Luca Argentero, faccia pulita e ironica, è un giovane delinquente. Non sappiamo - e non sapremo sino alla fine - di che misfatto si sia macchiato, ma comprendiamo subito che la galera "è casa sua". Tanto ci è avvezzo che, affezionato alla sua vecchia cella e al suo solito letto, fa di tutto per andarci in occasione dell'ennesimo arresto. Tragico errore. Perché nella vecchia cella, accanto ai soliti compagni di pena, tutto sommato bonaccioni, c'è una new entry: un boss della camorra, con il volto affilato, il tatuaggio rituale e l'istintiva crudeltà di Francesco Montanari. Fra i due carcerati, così diversi da risultare totalmente antitetici, è subito scontro. Da questa situazione di partenza muove "Malavita", il "corto" diretto da Angelo Licata (produzione Rai/Riviera Film) ispirato al racconto "Pure in galera ha da passà à nuttata", vincitore del premio Goliarda Sapienza 2013. Giuseppe Rampello, l'autore del racconto, è un condannato in espiazione di pena. Il premio, dedicato a una grande autrice scomparsa che conobbe il carcere, ideato e animato dalla scrittrice e giornalista Antonella Bolelli Ferrera, raccoglie storie scritte da carcerati, discusse ed elaborate con il concorso di tutor (sarebbe lungo elencarli tutti, si va, per dire, da Carlo Verdone a Erri De Luca, passando per Scurati, Lucarelli, Melandri, Parrella, Buticchi, Moccia), e infine pubblicate, con scadenza annuale, dalle Edizioni Eri. E ora, a partire da "Malavita", arrivano i "corti". L'idea di fondo è che il migliore antidoto all'alienazione della pena sia rappresentato dalla cultura. È un'idea che affonda radici direttamente nella nostra Costituzione, che nell'articolo 27 spiega come alla pena, oltre alle tradizionali funzioni di espiazione per il reato commesso e di monito perché non se ne commettano in futuro, sia soprattutto rimesso il compito di emendare il condannato in vista del suo ritorno alla vita civile. Dovrebbe essere chiaro a tutti - ma quasi mai, purtroppo, lo è - che un carcere concepito come mero strumento di esclusione non è suscettibile in alcun modo di migliorare le persone condannate. Semmai, può solo incattivirle, e, dunque, peggiorarle. Al contrario, un carcere che consenta di sfruttare la pena come occasione di crescita (e di cambiamento) giova a tutti: soprattutto a chi i reati non li commette e, talora, ne è vittima. E la cultura può rappresentare davvero una poderosa fonte di riscatto. Sono idee difficili da digerire, ma per fortuna le vocazioni non mancano, come dimostrano, da un lato, gli autori coinvolti, dall'altro l'adesione, sempre crescente, da parte dei carcerati e il lavorio intenso di chi ha la responsabilità di mandare avanti il sistema penitenziario. Il carcere non è la gehenna dei tempi andati, e nemmeno l'hotel a cinque stelle evocato, anni fa, da un ministro della Giustizia. È, e resta, per sua natura, un luogo di sofferenza, nel quale l'indifferenza può generare tragedie, ma che il concorso di slanci ideali e fattive volontà può trasformare in laboratorio di progresso. Certo: scrivere un bel racconto o prendere una laurea muovendo dall'analfabetismo (accade anche questo, fra le mura dei penitenziari italiani) non garantisce sulla riuscita del progetto di cambiamento. Ma può rappresentare un punto di partenza opportuno e necessario. Il resto del lavoro tocca farlo a noi, alla società: esperimenti come il premio Goliarda Sapienza possono rivelarsi preziose occasioni. Quanto al "corto" "Malavita" è, senza mezzi termini, un gioiellino. La storia scritta da Rampello è brillante e ben sceneggiata, è così la "confezione". Tutto si svolge nell'antico, ormai dismesso carcere delle "Nuove" di Torino. Chi non ha mai varcato la soglia di una prigione si renderà conto di che cosa significa vivere in quegli spazi. Di quale paradossale e inestimabile valore possa avere il possesso di un letto dal quale penetra la luce del mondo esterno, il profumo della rugiada, il canto di un uccello. Immagini che spiegano molto più di qualunque dotto dibattito sul nesso pena/redenzione: che la RAI abbia deciso di produrre questa storia fa onore alla mission del servizio pubblico. Grandi sentimenti in piccole azioni: il "corto" è un formato difficile da maneggiare, un po' come accade per il racconto, si deve lavorare su tempi brevi, emozioni bruciate in rapida sequenza. In questo caso gli autori ci sono riusciti benissimo, aiutati da interpreti in stato di grazia: accanto ai protagonisti - bravissimi, ispirati - merita una menzione la maschera dolente di Hedy Krissane, che impersona un detenuto extracomunitario complice, suo malgrado, del feroce Montanari. Toscana: suicidi in carcere e autolesionismi, allarme degli psicologi "è un'emergenza" www.gonews.it, 15 marzo 2015 La Toscana è la regione con il numero più alto di fenomeni di autolesionismo in carcere (1047 episodi) e di tentati suicidi sventati dagli agenti (112). I suicidi nel 2014 in Italia sono stati 43, già 7 fino a marzo 2015, 10 quelli degli agenti di custodia. In 10 anni i detenuti suicidatisi in Italia sono saliti a 823, e oltre 100 sono stati i suicidi tra il personale di polizia penitenziaria. In Toscana sono 18 gli istituti penitenziari per una capienza regolamentare di 3437 persone. I detenuti, al 28 febbraio 2015 sono 3278 di cui 119 donne e 1535 stranieri. In Toscana ci sono 415 detenuti in attesa di primo giudizio 271 condannati non definitivi e appellanti 271 e 148 ricorrenti. I condannati definitivi sono 2297, 113 gli internati. È questa la fotografia emersa dal convegno Il ruolo dello psicologo in carcere: quale futuro?, promossa dal Gruppo di Lavoro di Psicologia Penitenziaria dell'Ordine degli Psicologi della Toscana, istituito nel 2014 per rispondere ad alcune problematiche che colpiscono i professionisti operanti nel contesto inframurario nonché i detenuti e in corso fino a domenica 15 marzo. Una realtà che spesso finisce per mettere a repentaglio il benessere delle persone che vivono in questo contesto. Un tema sempre più attuale visti i numerosi casi di suicidi e violenza nelle carceri che la cronaca contemporanea ci consegna. In Italia ci sono 450 psicologi che lavorano nelle carceri, fanno sostegno, interazione fra i detenuti, diagnosi, esperti ex art. 80 e psicologi delle Asl che lavorano negli istituti penitenziari. "Gli episodi di suicidio dall'inizio di quest'anno - spiega il presidente dell'Ordine degli psicologi della Toscana Lauro Mengheri - finiscono per sollecitare la necessità di parlare dell'assistenza psicologica ai detenuti, agli agenti e a tutti quanti operano nelle carceri. I suicidi sono la più drammatica espressione di un'emergenza di cui sono complici il sovraffollamento delle carceri, l'uso indiscriminato della soluzione detentiva per affrontare problemi di natura sociale e psichica, la presenza massiccia di persone in attesa di giudizio che si trovano a vivere una condizione in cui sono totalmente assenti stimoli alla crescita personale e requisiti essenziali di vivibilità". La situazione del sovraffollamento Arezzo (capienza 101) ci sono 25 detenuti, ad Empoli (capienza 18) i detenuti sono 14, a Firenze (Mario Gozzini 90 di capienza) e 97 detenuti, Firenze (Sollicciano 494 di capienza) 686 detenuti, Opg Montelupo Fiorentino (capienza 175) 118 detenuti, Grosseto (capienza 15) detenuti 25, Massa Marittima (capienza 48) detenuti 43, Livorno (capienza 385) detenuti 115, Livorno Gorgona (capienza 87) detenuti 61, Porto Azzurro (capienza 363) detenuti 266, Lucca (capienza 91) detenuti 110, Massa (capienza 2014) detenuti 191, Pisa (capienza 216) detenuti 251, Volterra (capienza 187) detenuti 143, Prato (capienza 613) detenuti 603, Pistoia (capienza 57) detenuti 83, San Gimignano (capienza 235) detenuti 375, Siena (capienza 58) detenuti 72. "È opportuno che chi lavora in determinati ambiti sia formato per lavorare, come nel caso della psicologia penitenziaria - aggiunge Mengheri - il futuro è nell'interazione fra i singoli enti e quindi negli accordi inter-istituzionali, anche con il garante per i detenuti". "A fronte di tanti datori di lavoro e obiettivi professionali, ancora oggi lo psicologo in carcere non raggiunge una visibilità istituzionale ufficialmente riconosciuta: il singolo lavoratore si trova esposto a una composita realtà lavorativa, all'interno della quale pochi professionisti riescono a raggiungere una stabilità contrattuale lavorativa" - ha concluso Enzo Benelli coordinatore del gruppo di lavoro Psicologia penitenziaria Opt. Ascoli Piceno: detenuto ucciso in carcere, l'omicida ascoltato dal Pm Corriere Adriatico, 15 marzo 2015 "Non è vero che l'ho colpito tante volte, gli ho dato solo una manata e poi lui è caduto battendo su uno sgabello". Così si è difeso Mohamed Ben Alì, il tunisino di 24 anni accusato di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte di Achille Mestichelli, il 53enne ascolano deceduto il 18 febbraio scorso all'ospedale Torrette, dove era stato ricoverato il 13 a seguito di lesioni riportate nel carcere di Ascoli, dove l'uomo era detenuto e dove avrebbe avuto una lite proprio con il tunisino. Alì è stato interrogato in carcere dal sostituto procuratore Umberto Monti che gli ha più volte contestato il fatto che i risultati dell'autopsia non collimano con la versione di una manata al volto che avrebbe causato la caduta. Monti contesta a Ben Alì l'omicidio preterintenzionale perché "per futili motivi, derivanti dal tono di voce troppo alto, aggrediva il detenuto Achille Mestichelli scagliandosi violentemente contro di lui e colpendolo ripetutamente al capo, al tronco e in altre parti del corpo cagionando allo stesso lesioni personali gravissime (trauma cranico encefalico fratturativo con ematoma epidurale e focolai contusivi multipli, fratture costali multiple) che determinavano la morte del Mestichelli". Santa Maria C. V. (Ce): detenuto muore in carcere, indagine archiviata per dieci medici Il Mattino, 15 marzo 2015 È stata archiviata l'indagine a carico di dieci medici per la morte del detenuto Pasquale Rammairone, 70enne di Aversa, in carcere per ricettazione di auto, deceduto all'ospedale Melorio di Santa Maria Capua Vetere nel giugno del 2014. L'uomo era stato trasferito dal carcere di Santa Maria per una grave malattia il 24 giugno di un anno, dopo quattro giorni era morto. Aveva chiesto al giudice del tribunale di Sorveglianza di essere curato a casa, ma il magistrato aveva firmato il parere negativo all'istanza del legale Giovanni Cantelli. L'indagine aperta sui camici bianchi della struttura carceraria e dell'ospedale Melorio è durata appena un anno. Una relazione sullo stato di salute di Rammairone era stata depositata in procura dove il pm ha chiesto e ottenuto l'archiviazione per tutti gli indagati. Firenze: al carcere di Sollicciano un detenuto dà fuoco alla cella, un altro tenta il suicidio www.firenzetoday.it, 15 marzo 2015 I fatti sono avvenuti durante la mattinata. Lo rende noto un sindacalista della polizia penitenziaria: "Grave insufficienza di strumenti per la sicurezza e la prevenzione". Nel carcere fiorentino di Sollicciano le condizioni, tra sovraffollamento, strutture fatiscenti e carenza di personale di polizia penitenziaria, sono sempre al limite della tensione e della vivibilità, come dimostrano i fatti odierni. Un detenuto, a quanto pare esasperato dopo settimane di inutili tentativi di richiesta di colloquio con la direttrice, ha dato fuoco ad una cella. Un altro ha tentato di uccidersi impiccandosi. I fatti sarebbero accaduti nell'infermeria del penitenziario. Un detenuto, secondo quanto riferito da Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp, l'Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, ha dato fuoco a materiale infiammabile, appiccando di fatto il fuoco alla cella. Le fiamme sono state domate, ma sono rimasti intossicati quattro agenti penitenziari e un altro detenuto. Come premesso, secondo quanto riferisce il sindacalista, il detenuto avrebbe compiuto tale gesto per l'impossibilità di avere un colloquio con la direttrice del carcere, la dott.ssa Giampiccolo. "Lo ha fatto per protesta contro il fatto che, a suo dire - spiega Beneduci -, da due mesi chiede un colloquio con la direttrice senza ottenerlo". Il sindacalista rende noto che sempre oggi un altro detenuto avrebbe tentato di impiccarsi all'interno della propria cella con una corda rudimentale. "Questi episodi - commenta il sindacalista, dimostrano chiaramente la grave condizione di insufficienza degli strumenti e dei presidi di sicurezza e prevenzione degli infortuni all'interno di Sollicciano". Radicali: non ci sorprende la continua emergenza Sulla notizia diffusa dall'Osapp sull'incendio appiccato nel carcere fiorentino di Sollicciano e il tentato suicidio sventato dalla polizia penitenziaria, sono intervenuti Maurizio Buzzegoli e Massimo Lensi, rispettivamente segretario e presidente dell'Associazione per l'iniziativa radicale "Andrea Tamburi": "Non ci sorprende la quotidianità emergenziale dell'istituto di Sollicciano: la tortura inflitta nelle carceri genera una violenza che mette costantemente a repentaglio la vita dei detenuti e degli operatori penitenziari". I due esponenti radicali ricordano la necessità di un provvedimento di amnistia e l'inefficienza delle leggi messe in campo dal governo Renzi: "Gli eventi di oggi sono solo alcuni dei risultati del Parlamento per aver ignorato il messaggio alle Camere del Presidente emerito Napolitano: i tentativi messi in campo dal Governo Renzi per arginare il problema sono palesemente fallimentari. Solo i provvedimenti di amnistia e indulto sono in grado di ripristinare la Giustizia e lo Stato di Diritto nel Paes". Infine Lensi e Buzzegoli ricordano una verifica importante per la Giustizia italiana: "Nel mese di giugno la Cedu valuterà se le politiche del Governo italiano sono andate nella direzione di abbattere quei trattamenti inumani e degradanti a causa dei quali siamo sotto osservazione: sicuramente gli eventi come quelli di oggi non sono rassicuranti per il Paese" Firenze: sul futuro dell'Opg di Montelupo la direttrice Tuoni attacca il sindaco Masetti di Ylenia Cecchetti La Nazione, 15 marzo 2015 Botta e risposta al veleno. Il futuro della villa medicea, che ospiterà ancora per poco l'Opg di Montelupo, divide. Restituire l'Ambrogiana ai cittadini o farne un carcere a custodia attenuata? L'intenzione del sindaco Paolo Masetti sembra chiara: "Difendere gli interessi della comunità nella consapevolezza che la presenza di una struttura carceraria sia incompatibile con il recupero di un pezzo importante di città". Non la pensano così i dipendenti della struttura e la direttrice Antonella Tuoni che a due settimane dalla chiusura rompe il silenzio: "Mi sarebbe piaciuto che lo stesso interesse che ora il sindaco mostra di avere per le mura della villa, lo avesse avuto per gli internati attivando la convenzione siglata dall'associazione nazionale comuni italiani e l'amministrazione penitenziaria, a cui tanti suoi colleghi toscani hanno aderito e che prevede l'impiego delle persone recluse in lavori di pubblica utilità". "Mi sorprende - aggiunge dura la Tuoni - che Masetti imputi all'amministrazione penitenziaria una spesa pubblica inopportuna. I 7 milioni e mezzo investiti dal 2007 a oggi nella porzione di villa destinata a penitenziario sono stati opportuni per rendere vivibile la struttura nell'interesse dei detenuti ma anche dei lavoratori. E nella ragionata prospettiva di riconvertirla in istituto a custodia attenuata". Ipotesi che per il sindaco non si concretizzerà. "Additare l'amministrazione cui appartengo, come unica colpevole della condizione in cui versa la parte nobile della villa e che ne ha decretato l'esclusione dal patrimonio mondiale dell'umanità - reagisce la direttrice - significa collocare il carcere al di fuori della collettività anziché tra gli obbiettivi principali delle politiche del territorio". Già durante il seminario "Opg, addio per sempre" organizzato dal garante toscano dei detenuti Franco Corleone a Firenze una decina di giorni fa, la Tuoni aveva reso pubblica la propria posizione: "Smettendo i panni del direttore, la struttura ha una grande potenzialità. Un peccato non coglierla. Se nell'immaginario collettivo il carcere è tetro, sporco, scomodo, dove nelle celle si soffoca d'estate e si rabbrividisce d'inverno, è questa l'occasione giusta per migliorarsi, nonostante si tratti pur sempre di un luogo del dolore". Sarà lungo, imponente e costoso il restauro dell'Ambrogiana. "Un carcere a custodia attenuata potrebbe ospitare fino 160 detenuti in semilibertà o senza fissa dimora - aveva spiegato Corleone - Avere un presidio dell'amministrazione penitenziaria potrebbe aiutare i lavori di inizio. Sarebbe significativo e utile regalare ai semiliberi la gioia di contribuire all'abbattimento del muro che circonda la villa". Nello stesso spazio, invece, potrebbe sorgere un museo della storia dei manicomi giudiziari. Un centro convegni. Un resort. Prima però è necessario che la Toscana si faccia carico dei suoi 50 internati. Per ora, tutto quello che sappiamo è che a Careggi è stata individuata una struttura transitoria; e altre (per i dimissibili, senza sorveglianza perimetrale) sorgeranno tra Aulla, Firenze e Volterra. Pavia: insulti al detenuto suicida, nei guai due agenti in servizio al carcere di Vigevano di Maria Fiore La Provincia Pavese, 15 marzo 2015 Sospesi dopo i commenti scritti su Facebook. Ieri i provvedimenti sono stati annullati. Il sindacato: ma chi sbaglia deve pagare. Dopo l'indignazione e le polemiche erano arrivati anche i provvedimenti. Ma dopo la durissima presa di posizione di alcune sigle sindacali, tra cui l'Osapp, è stata revocata la sospensione per i 16 agenti di polizia penitenziaria finiti nei guai per i commenti choc comparsi su un gruppo Facebook dedicati al suicidio di un detenuto nel carcere di Opera. Restano in piedi, però, i procedimenti disciplinari. Tra i destinatari dei provvedimenti, anche due agenti della polizia penitenziaria del carcere di Vigevano, che qualche giorno fa erano stati sospesi dal servizio. Una guardia si sarebbe limitata a mettere un "Mi piace" ad alcuni commenti censurati dal ministero della Giustizia e dal Dap, il Dipartimento della polizia penitenziaria, mentre il collega era finito nei guai per avere scritto alcune frasi ritenute offensive. Tutti i commenti sono stati rimossi dal gruppo Facebook ma fino a pochi giorni fa erano visibili agli altri utenti ed erano finiti anche all'attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Diverse sigle sindacali hanno criticato i commenti, ma l'Osapp Pavia (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria) ha contestato anche i provvedimenti di sospensione, "che sono stati presi - dice Salvatore Giaconia, della segreteria regionale - senza che fosse garantito agli agenti un contraddittorio". Il caso esplode il 15 febbraio, quando l'Alsippe, l'Alleanza sindacale polizia penitenziaria, pubblica un link sulla propria pagina Facebook. Nell'articolo di rimando si parla del suicidio di un detenuto nel carcere di Opera a Milano. Ioan Gabriel Barbuta, un romeno di 39 anni, condannato all'ergastolo per omicidio, si è impiccato nella sua cella. La notizia scatena i commenti. Il primo appartiene a un uomo che si qualifica come "ispettore": "Ottimo, speriamo abbia sofferto". Qualche minuto dopo arriva il secondo commento: "Uno in meno". E ancora: "A me dispiace per i colleghi che si suicidano, non per soggetti come questo" e "Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone". Immediata la reazione, non solo in rete. Luigi Pagano, vice capo del Dap, annuncia verifiche per risalire all'identità degli autori dei commenti. E partono anche i primi provvedimenti. Ieri sera revocati. "Plaudiamo all'iniziativa del capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo - commenta l'Osapp. La revoca dei provvedimenti di sospensione cautelare è positiva. Resta inteso che le responsabilità vanno accertate e sanzionate, ma con un iter appropriato, non con un processo sommario". Cremona: Sinappe e Fp-Cgil; ok relazioni con istituzioni locali, volontariato e cooperative www.welfarenetwork.it, 15 marzo 2015 Positivo che la direzione del carcere ha riallacciato tutta una serie di relazioni con le istituzioni locali, associazioni di volontariato e cooperative no profit. Segreterie provinciali Fp-Cgil e Sinappe, pur rilevando che la situazione generale dell'istituto penitenziario cremonese è difficile (così come lo è, del resto, in generale e in Lombardia), intendono prendere le distanze dalle considerazioni espresse da un'altra sigla sindacale (Sappe) che chiede, in particolare, un'altra ispezione ministeriale. Da tempo, infatti, gli organi superiori sono ben consapevoli della situazione locale, visto che si sono succedute due ispezioni ministeriali negli ultimi tre anni (di cui una nel 2014) e due dal provveditorato regionale (di cui una lo scorso agosto). Chiediamo invece che gli Uffici Superiori, anziché inviare ulteriori (e costose per i contribuenti!) ispezioni, attuino le decisioni già assunte, al fine di migliorare le condizioni sia dei detenuti sia del personale. È oggi infatti importante ed urgente agire per rasserenare il clima lavorativo generato nel tempo anche da gestioni talvolta confuse. Occorre dare stabilità, anche direttiva. A coloro che invocano ispezioni, vogliamo ricordare che il Direttore titolare è assente dal mese di agosto 2014 e che a metà settembre è stata nominata, quale direttore reggente, la Dr.ssa Maria Gabriella Lusi che si è trovata a dover gestire, oltre al suo, anche un istituto da risollevare (quello di Cremona). Il Sinappe, già con il sit-in del 2 settembre 2014, manifestò la richiesta di rimozione del Direttore titolare evidenziando le criticità già presenti e a conoscenza degli Organi Superiori ed Ispettivi. Pertanto aspettiamo che le decisioni dipartimentali riguardo le ispezioni già effettuate e le decisioni assunte abbiano seguito senza indugio. È proprio, a nostro avviso, l'assenza di decisione la causa dell'attuale situazione, ambigua e confusa. E pensiamo anche che abbia lasciato spazio ad interpretazioni discutibili e alla recenti dichiarazioni stampa, personalistiche e non rispondenti alla realtà. Sono oggi, infatti, riprese le relazioni sindacali e si sta finalmente discutendo, tutti insieme, su come migliorare l'organizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, nel rispetto dei diritti dei lavoratori e degli obblighi normativi. Apprendiamo inoltre, con piacere, che la Dr.ssa Lusi ha riallacciato tutta una serie di relazioni con le istituzioni locali ed il territorio, associazioni di volontariato e cooperative no profit. Noi valutiamo i fatti e questi sembrano andare nella giusta direzione. L'auspicio, dunque, è che, pur nelle difficoltà e nella complessità, a breve si concluda positivamente la trattativa sul PIL con l'accordo di tutte le sigle sindacali. Agli organi superiori chiediamo invece la massima disponibilità, in termini d'investimento, per colmare i vuoti e le carenze strutturali, in primis quelle legate alla sicurezza dell'istituto. Infine, come Fp-Cgil, vogliamo rimarcare la situazione afferente al personale civile. Spesso ci si dimentica di questi operatori, invece importantissimi per l'andamento generale dell'Istituto, ma è doveroso ricordare ancora una volta sia la carenza organica sia la mancata corresponsione dei fondi di produttività degli anni 2013 e 2014. A breve, subito dopo le elezioni delle Rsu, chiederemo un incontro alla Direttrice per affrontare i problemi dei dipendenti del Comparto Ministero. Vincenzo Martucci, Vice Segretario regionale Sinappe Maria Teresa Perin, Segretaria provinciale Fp-Cgil Napoli: l'Opg di Secondegliano non chiuderà a fine marzo, cantiere Rems neppure aperto di Stella Cervasio La Repubblica, 15 marzo 2015 A Secondigliano una delegazione guidata dal consigliere del Pd Amato. Gli 89 internati non usciranno. Per la Rems prevista dalla legge a Calvi Risorta, per Napoli e Caserta, il cantiere non è stato neppure aperto. Il conto alla rovescia per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari - le carceri-manicomio sopravvissute alla chiusura dei presidi psichiatrici - terminerà tra 17 giorni. Ma l'Opg di Napoli, Secondigliano ex Sant'Eframo, contrariamente a quanto stabilito dalla legge, non chiuderà. L'ha accertato un'ispezione non annunciata di una delegazione guidata dal consigliere regionale Pd Antonio Amato, con i ricercatori Dario Stefano dell'Aquila e Antonio Esposito autori del saggio del 2013 "Cronache da un manicomio criminale". Non usciranno gli internati di Secondigliano, che sono 89, di cui 52 campani, nella struttura che ha un bacino di utenza che comprende Lazio, Abruzzo e Molise, e che in Campania è una delle due funzionanti - l'altra è Aversa. Ma intanto, rileva l'ispezione "continuano gli ingressi in Opg anche per crimini bagatellari (comportamenti illeciti ma di poco conto)". Non più di 10 internati risulterebbero non dimissibili. "Il responsabile sanitario dell'Opg, Michele Pennino nonostante le rassicurazioni sulle procedure di dimissioni avviate da tempo dall'Asl Napoli 1 - dichiara Amato - non ha potuto dare una risposta su cosa avverrà dal prossimo aprile". Chiudere senza avere un'alternativa sarebbe la sola via possibile, ma naturalmente non è percorribile per una "riforma" all'italiana che non ha previsto neppure linee guida per la sua applicazione. "Le Rems, Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza - prosegue il consigliere regionale - non sono ancora pronte: a Calvi Risorta, destinata a Napoli e Caserta, nemmeno si è aperto il cantiere per i lavori. Si parla di Rems provvisorie, addirittura gestite dal privato sociale". I nuovi ingressi non si interrompono: nell'ultimo anno a Secondigliano se ne sono registrati 122 nuovi, 18 solo nel 2015. Tso visti come ultima spiaggia e concessi con troppa facilità fanno includere tra i detenuti-malati soggetti probabilmente da rivalutare, come clochard colpevoli di furti in supermercati o persone coinvolte in liti condominiali. Individui come questi, considerati "non altrimenti classificabili", sono finiti dietro le sbarre con l'aggravio del marchio di patologia mentale. Cassino (Rm): Ass. "Tutto un altro genere", progetto in carcere contro violenza su donne Sole 24 Ore, 15 marzo 2015 Via al progetto di prevenzione della violenza di genere nella Casa circondariale di Cassino: storie e scrittura per i detenuti semplici, teatro per i sex offenders. Via da oggi a un ciclo di sei incontri con scrittrici e scrittori, giornalisti e artisti chiamati a testimoniare il valore della parola per aprire mondi e scardinare stereotipi, ma anche a fornire spunti per una riflessione a tutto tondo su relazioni e sentimenti che proseguirà fino a dicembre. Si intitola "Parole che aprono i tuoi occhi al mondo" il progetto dell'Associazione "Tutto un altro genere", sostenuto con i fondi dell'Otto per mille della Chiesa Valdese (Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste). L'obiettivo è duplice: promuovere in carcere - dove la relazione con il femminile è preclusa e spesso mistificata - una narrazione maschile della violenza di genere e spostare l'attenzione dalle donne agli uomini, in linea con l'ottica più recente delle Nazioni Unite e con l'ultima campagna di sensibilizzazione HeForShe. Un richiamo agli uomini non violenti, perché prendano pubblicamente le distanze dalla violenza contro le donne e dalla cultura che la alimenta, e ancor di più a quelli violenti, che hanno commesso reati sessuali. Il progetto si svolgerà con il sostegno e in costante collaborazione con la direzione e con tutta l'area educativa dell'istituto. Il laboratorio di scrittura, indirizzato ai detenuti ospitati nelle sezioni comuni, ricorrerà invece alla letteratura e alla scrittura per riflettere direttamente sulla violenza di genere. Nel ciclo di incontri con professioniste e professionisti della parola ci saranno Stefano Brugnolo, docente di Teoria della letteratura all'Università di Pisa, Gabriele Aprea, scrittore umoristico, Adamo D'Agostino, illustratore della Walt Disney e sceneggiatore, Gaja Cenciarelli, scrittrice e traduttrice, Vittorio Macioce, caporedattore del Giornale e ideatore del Festival delle Storie, e Loredana Lipperini, scrittrice e giornalista. A metà progetto i detenuti incontreranno anche le operatrici del Centro antiviolenza Risorsa donna di Sora (Frosinone). Il laboratorio fa tesoro del progetto di narrazione collettiva e reading teatrale "Pugni nello stomaco - La violenza sulle donne raccontata dagli uomini", nato nel 2012 da un'idea di Manuela Perrone, giornalista e fondatrice dell'Associazione Tutto un altro genere, e di Vincenzo Schirru, attore e vicepresidente dell'Associazione. L'iniziativa dimostra l'utilità di incoraggiare e diffondere una narrazione maschile sull'argomento, che spinga gli uomini all'autocoscienza per esplicitare le ambivalenze e gli stereotipi che possono inquinare la loro relazione con le donne. Un obiettivo ancora più prezioso per un target peculiare come quello dei detenuti, costretti a vivere in un ambiente esclusivamente maschile e per di più sovraffollato e fortemente promiscuo, in cui la relazione con il femminile è negata, spesso calpestata e mistificata. Il laboratorio si concluderà con la messa in scena da parte di attori professionisti dei testi scritti dai partecipanti al laboratorio, per permettere ai detenuti di ottenere un riconoscimento formale e artistico del lavoro svolto e delle competenze raggiunte. Questionari appositamente predisposti saranno somministrati all'inizio e al termine a tutti i partecipanti, agli agenti penitenziari, agli educatori e alla direzione della casa circondariale, per una prima valutazione delle aspettative e degli effetti. Simona Perrone, psicologa in formazione psicoanalitica, seguirà l'intero progetto. Dopo sei mesi verranno ricontattati i soli partecipanti e sarà loro somministrato un nuovo questionario per valutare il percorso di vita che hanno intrapreso e le possibili ricadute del nostro intervento. L'indagine si ripeterà di nuovo dopo altri sei mesi, dunque trascorso un anno dalla fine dei laboratori, e tutti i dati raccolti saranno analizzati e confrontati tra loro per validare l'esperienza vissuta e analizzare i risultati. I testi prodotti dai detenuti saranno infine pubblicati in un volume nel quale sarà analizzata e descritta l'esperienza svolta, anche attraverso le fotografie dei momenti cruciali di entrambi i laboratori. Al volume sarà garantita la più ampia diffusione possibile. Teramo: 80 detenuti in sciopero fame contro limitazione dei pacchi con generi alimentari Il Centro, 15 marzo 2015 Detenuti in sciopero della fame, per protestare contro la decisione di limitare la ricezione via posta di pacchi con generi alimentari. Si tratta di un'ottantina di detenuti che protestano in maniera silenziosa. Finora non si registrano malori, i carcerati vengono tenuti sotto controllo sanitario. "È un provvedimento restrittivo", spiega il direttore del carcere, Stefano Liberatore, "necessario per ristabilire l'ordine: l'invio senza regole di pacchi crea problemi per la sicurezza e per l'igiene. Tramite il pacco possono entrare cose non consentite o non esplorabili. L'obiettivo è dunque evitare situazioni che possono compromettere ordine e sicurezza". Il direttore ieri, parlando ai detenuti, ha annunciato che si cercheranno di contemperare le esigenze dell'istituto con quelle della popolazione carceraria. Gli aggiustamenti saranno adottati a breve, dopo una riunione col comandante e i responsabili del reparto detentivo. Le nuove regole colpiscono soprattutto chi ha parenti lontani, nel profondo Sud, che non fanno loro visita frequentemente e quindi non portano di persona i generi di conforto. Sulla protesta intervengono Maurizio Acerbo (Rifondazione) e Vincenzo Di Nanna (Amnistia, giustizia, libertà): "La decisione del direttore del carcere di Castrogno di vietare o limitare in maniera inaccettabile la consegna dei cibi inviati ai detenuti della sezione di alta sicurezza da parte dei familiari, ha suscitato una comprensibile azione di contestazione non violenta. Se le esigenze a base della contestata decisione sono di natura meramente igienica e organizzativa, andrebbe allora verificata la possibilità di risolvere ogni questione in tempi brevi". L'invito, ai rappresentanti istituzionali, dalla Regione al parlamento, è a occuparsi della vicenda e a recarsi quindi nel carcere di Castrogno per incontrare i detenuti, personale e direttore. Digiuno di protesta a Castrogno, l'On. Melilla interroga il ministro Il deputato chiede al Guardasigilli di verificare dopo la decisione del direttore di limitare i pasti esterni dei famigliari. Finisce sul tavolo del ministro della Giustizia la vicenda degli 80 detenuti del carcere di Castrogno in sciopero della fame per protestare contro le limitazioni imposte dal direttore sul cibo proveniente dai famigliari e per le gravi carenze strutturali con sovraffollamento del penitenziario teramano. Dopo la denuncia di Maurizio Acerbo di Rifondazione Comunista e di Vincenzo Di Nanna di Amnistia, Giustizia e Libertà, adesso il deputato di Sinistra ecologia e libertà, Gianni Melilla, ha presentato una interrogazione. Il deputato abruzzese sottolineando come "gli obiettivi dei detenuti contro la contestata decisione del direttore sono di natura esclusivamente igienica e organizzativa", chiede di "rapidamente verificare la possibilità di risolvere ogni questione nel rispetto delle leggi e dei diritti dei detenuti che vanno sempre e comunque garantiti". Al ministro Melilla chiede "se non intenda assumere rapidamente iniziative volte a superare questa situazione di grave disagio per i detenuti del carcere di Teramo accertando ogni responsabilità rispetto a questo sciopero della fame dei detenuti e affrontando il problema del sovraffollamento, delle carenze di organico del personale penitenziario e dei trattamenti generali riservati ai detenuti". Vasto (Ch): una Casa Lavoro senza... lavoro!? i Sindacati dichiarano lo stato di agitazione www.histonium.net, 15 marzo 2015 Si mobilitano i sindacati della Polizia Penitenziaria in servizio alla casa circondariale di Torre Sinello. Nuova proclamazione dello stato di agitazione da parte delle organizzazioni sindacali di riferimento del personale di Polizia Penitenziaria in servizio alla casa circondariale di Torre Sinello di Vasto. Alla base della mobilitazione questioni irrisolte e nuove situazioni che rendono ancora più problematica la realtà dei lavoratori. Punto nodale l'orientamento dell'Amministrazione Penitenziaria che intenderebbe aprire a Vasto un nuovo reparto per ospitare poco più di una trentina di detenuti. "Da quanto ci è dato sapere alla prossima apertura del reparto - si legge in una nota delle sigle sindacali Sappe, Osapp, Ugl, Cgil, Cisl, Uil, Sinappe e Cnpp - non seguirà un adeguato incremento di personale e ciò pregiudicherebbe ulteriormente le condizioni di lavoro dei colleghi con conseguenti riflessi sui diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto alle ferie e ai riposi settimanali: c'è parte del personale che ancora deve fruire delle ferie dell'anno 2011. Non sono trascorsi 2 anni da quando, per decisione dell'Amministrazione Penitenziaria, fu trasformato l'Istituto di Vasto in Casa Lavoro facendo ricadere sui colleghi le conseguenze che ne scaturirono e di cui ancora oggi si discute perché mai risolte. Seguirono a suo tempo una serie di promesse ed impegni per la realizzazione del laboratorio di sartoria. Tali impegni sono tutt'ora disattesi: in pratica da 2 anni la Casa Lavoro è senza lavoro! Ora diciamo basta perché siamo stufi di subire decisioni che poi gravano sulle nostre condizioni di lavoro e comprimono i nostri diritti. Per questi motivi - è la conclusione della nota dei sindacati di Polizia Penitenziaria - dichiariamo lo stato di agitazione, non escludendo altre iniziative di protesta più eclatanti qualora l'Amministrazione Penitenziaria si sottrarrà al confronto quale atto dovuto e non semplice concessione, che investe le prerogative delle parti sociali in un contesto dove la garanzia dei diritti è obiettivo comune e non un aspetto secondario come si vorrebbe far intendere". Ferrara: anarchici in piazza in solidarietà ai detenuti contro provvedimenti disciplinari www.estense.com, 15 marzo 2015 I manifestanti hanno protestato contro i provvedimenti disciplinari in via Arginone: "Sorvegliare è punire. Ribellarsi è vivere". "Sorvegliare è punire. Ribellarsi è vivere", lo striscione addossato alla colubrina in piazza Castello è stato posto dal gruppo in solidarietà degli anarchici incarcerati presso la casa circondariale di via Arginone. Nel pomeriggio di sabato 14 marzo ha infatti avuto luogo la manifestazione organizzata da gruppi appartenenti all'universo politico antagonista, uniti nella solidarietà e nella denuncia delle condizioni definite repressive, vessatorie ed inumane. Per la prima volta una dimostrazione di solidarietà dei gruppi anarchici trova spazio nel pieno centro della città, abbandonando per l'occasione il piazzale antistante il carcere di via Arginone. Il gruppo di anarchici in custodia nel carcere di Ferrara si è fatto ultimamente piuttosto numeroso, l'arrivo di Francesco Porcu e Gianluca Iacovacci da Alessandria ha portato il numero degli anarchici detenuti nella sezione di alta sicurezza a nove. Da due settimane a questa parte la tensione nel carcere di via Arginone è però decisamente aumentata. Uno degli anarchici è stato posto per due settimane in isolamento punitivo ed ha perso il beneficio della liberazione anticipata di 45 giorni per una baruffa con uno degli agenti della polizia penitenziaria. Per i tre giorni successivi gli altri anarchici detenuti hanno avviato una curiosa campagna di solidarietà: la battitura delle sbarre. L'accusa di "disordini e sommossa" ai sensi dell'articolo 77 del regolamento di esecuzione penitenziaria ha in seguito colpito altri sei degli anarchici detenuti, sanzionati con quindici giorni di esclusione dalle attività in comune (ora d'aria, socialità, palestra e campo sportivo). La mobilitazione è stata organizzata proprio quando le notizie dal carcere hanno raggiunto il mondo "fuori le sbarre". Gli organizzatori, che non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione ed hanno tenuto nei confronti della stampa un atteggiamento piuttosto ostile, hanno tuttavia regolarmente informato le autorità, che hanno autorizzato la manifestazione pomeridiana. Caltanissetta: rissa in carcere a San Cataldo cinque anni fa, venti detenuti a giudizio di Vincenzo Falci Giornale di Sicilia, 15 marzo 2015 È per una mega rissa in carcere che sono chiamati sul banco degli imputati. Un nutrito drappello di detenuti - alcuni di loro adesso non lo sono più - venuto alle mani dando vita ad un furibonda zuffa. Esplosa, violenta, nel chiuso di un penitenziario. In particolare nella casa di reclusione sancataldese. È lì che poco meno di cinque anni addietro è scoppiata la furiosa bagarre che avrebbe contrapposto un paio di gruppi. Non gang, ma "squadre" che si creano tra detenuti stessi per quei meccanismi che s'innescano in carcere. Nella vita in comune tra quattro mura. E quali siano state le ragioni di quella furibonda lite, a tutt'oggi rappresenta uno dei lati oscuri della vicenda finita poi al centro di un dossier della procura che ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio dei venti. Napoli: detenuti a lezione di cucina… per stupire il Pontefice a tavola di Maria Chiara Aulisio Il Mattino, 15 marzo 2015 Lo hanno intitolato il "Giardino di Francesco", una piccola zolla di terra piena di fiori colorati all'ingresso della chiesa del carcere. È l'omaggio che i detenuti offriranno a Papa Francesco in segno di ringraziamento per aver scelto di pranzare con loro. Un messaggio di pace e di speranza affidato alle parole dì don Franco Esposito, il cappellano di Poggioreale, anima e motore di un evento destinato a lasciare un solco profondo nella vita di uno dei penitenziari più affollati d'Italia. Un giardino per il Papa? "Ci lavorano da settimane, adesso hanno finito e il risultato è fantastico". Chi ha avuto l'idea? "Loro, i detenuti. Prima hanno pensato al giardino poi alla statua". Quale statua? "Quella di San Francesco che hanno installato al centro del giardino con una lapide sulla quale spunta il volto di Bergoglio". Il volto del Papa? "Certo. Un'immagine in ferro battuto disegnata e realizzata da loro con una passione che poche volte ho visto tra quelle mura. Potenza dell'amore e dalla gratitudine". Gratitudine? "Tanta, tantissima. I detenuti sanno bene che è stato proprio il Papa a chiedere di pranzare con loro, non era previsto. Lo ha deciso cambiando il programma, d'altronde Gesù amava mangiare con i peccatori. Hanno voluto ringraziarlo mettendosi al lavoro". A proposito del pranzo, che cosa si mangia? "Quello che i carcerati prepareranno. Anche questo per volere del Pontefice. Inizialmente si era pensato a un servizio di catering esterno ma il Papa non ha voluto". Quindi? "Per non fare brutte figure i carcerati hanno deciso di fare un corso di cucina, vi assicuro che sono diventati molto bravi". Veniamo al menu. "Semplice ma gustoso; pasta al forno, fettina di carne con contorno di broccoli, niente frutta ma sfogliatelle e babà di cui pare che il Papa sia molto goloso. Per festeggiare l'evento anche mezzo bicchiere divino a testa". Chi siederà a tavola con il Pontefice? "Novanta detenuti di Poggioreale, quindici di Secondigliano, cinque dell'Opg e quattro di Nisida. Alla stessa tavola, ma non accanto al Papa, ci saranno anche i direttori dei tre istituti penitenziari, il presidente del tribunale di sorveglianza, il provveditore dell'amministrazione regionale e la Garante dei diritti dei detenuti". A chi toccherà servire a tavola? "A far da camerieri saranno i volontari della pastorale carceraria della diocesi che ogni giorno frequentano il penitenziario. Piccola curiosità: le tovaglie sono state cucite a mano dalle detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere". Con quale criterio avete scelto i detenuti? "Non è stato facile. Alla fine abbiamo privilegiato quelli che abitualmente partecipano ai gruppi di catechesi organizzati nei vari padiglioni, tra questi poi è stato fatto un sorteggio. A tavolaci saranno anche due trans e alcuni ammalati di aids". E gli altri? "Dovranno accontentarsi di vederlo al suo arrivo. Ad accoglierlo in cortile ce ne saranno 250, un saluto e poi di nuovo in cella, purtroppo non si poteva fare diversamente". Droghe: "Legalizziamo la cannabis", pronta la legge bipartisan La Repubblica, 15 marzo 2015 Sessanta parlamentari aderiscono all'intergruppo proposto da Della Vedova. Un intergruppo che, prima ancora di iniziare i lavori, ha già riunito sessanta parlamentari. E che si prefigge l'obiettivo di predisporre e fare approvare una legge per rendere la cannabis legale. L'iniziativa è di Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, senatore del gruppo misto e soprattutto radicale d'origine. Sulla base di un movimento d'opinione che ha unito da Umberto Veronesi a Roberto Saviano, decolla un organismo parlamentare trasversale: ad aderirvi deputati del Pd di fede strettamente renziana (Roberto Giachetti) e non (Pippo Civati), grillini e fuoriusciti da M5S, persino un nome di spicco di Forza Italia come l'ex ministro della Difesa Antonio Martino. L'intergruppo avvia la sua attività anche sullo slancio dell'esplicito suggerimento contenuto nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia: "Davanti all'oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo, spetterà al legislatore valutare se sia opportuna una depenalizzazione della materia". La Dna ha invitato il Parlamento a "bilanciare i contrapposti interessi". Se, da un lato, "bisogna riconoscere il diritto alla salute dei cittadini", dall'altro occorre tenere conto delle "ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse delle forze dell'ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali e, infine, di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite". D'altronde, c'è un dato, fornito dalla stessa Dna, che fa riflettere: il mercato illegale oggi vende fra 1,5 e 3 milioni di chilogrammi l'anno di cannabis, "quantità che soddisfa una domanda di mercato di dimensioni gigantesche". Un volume che consentirebbe a ciascun cittadino italiano (compresi vecchi e bambini) un consumo di circa 25-50 grammi a testa, pari a circa 100-200 dosi. "Il problema - dice Della Vedova - non è più dichiararsi favorevole o contrario alla legalizzazione, piuttosto è regolare un mercato che è già libero. Occorre disciplinare, limitare e penalizzare l'uso delle droghe leggere, sul modello di quanto si fa per alcol e tabacco. Perché la repressione, finora, ha avuto costi altissimi. E non è servita a contenere i consumi di hashish e marijuana". Droghe: le mani sulla marijuana legale, l'ultimo colpo grosso dei giganti della sigaretta di Maurizio Ricci La Repubblica, 15 marzo 2015 Stati Uniti. Dopo la liberalizzazione della "erba" in Colorado e Oregon, Philip Morris, Reynolds & co si gettano sul nuovo mercato: in ballo ci sono 36 miliardi di dollari l'anno. Oppure, magari, La Grande Canna. I padroni dell'erba. O comunque si decida di chiamare l'incrocio fra quelli che, nell'economia americana, sono l'industria storicamente più redditizia e il settore, oggi, in crescita più vertiginosa. Negli Usa, è già "Big Pot": il negato, ma, per molti, inevitabile matrimonio fra Big Tobacco e il "cannabusiness", nome ormai ufficiale della marijuana legalizzata. Insomma, quando rollarsi una Marlboro assumerà un significato tutto nuovo. Nel corso del 2014, il giro d'affari della marijuana legale è passato da zero a 2,4 miliardi di dollari, nonostante sia possibile fumarla liberamente solo in due Stati (il Colorado e l'Oregon) e utilizzarla a fini medicinali in un'altra dozzina come New York e California. Praticamente, lo stesso fatturato faticosamente raggiunto dalle sigarette elettroniche. Ora gli Stati che consentono un uso ricreativo della marijuana (cioè fumare uno spinello) sono diventati cinque: si sono aggiunti Washington, Alaska e il distretto di Columbia, cioè Washington, intesa come la capitale. Del resto, la legalizzazione della marijuana ha un consenso di massa: il 70 per cento degli americani nati dopo il 1980 è favorevole. Ma lo è anche più della metà dei loro genitori: i baby boomers, la generazione della scoperta di massa della marijuana. E finanche un buon terzo dei nonni: i nati fra il 1928 e il 1945, che la marijuana l'hanno vista da adulti. Un numero consistente non si limita a parlarne. Più di 19 milioni di americani con un'età superiore a 12 anni hanno dichiarato, nel 2012, di essersi fatti una canna, probabilmente, al contrario di Bill Clinton, inalando a pieni polmoni. Quasi otto milioni lo fa tutti i giorni. Un mercato assai appetibile: gli esperti hanno già calcolato che, se la marijuana diventasse legale in tutti i 50 Stati del paese, il giro d'affari sarebbe subito di oltre 36 miliardi di dollari l'anno. Per dire: quasi quanto il cibo organico. Chi si prenderà questo mercato? Il settore è, attualmente, un ribollìo di iniziative più o meno avventurose di piccole aziende. Ma Leonid Bershidsky, opinionista di Bloomberg , non ha dubbi. Chi è nella posizione perfetta per catturare questi milioni di consumatori è Big Tobacco. I giganti della sigaretta, elenca Bershidsky hanno già in piedi i sistemi di distribuzione (la marijuana a scopi medicinali viene già venduta attraverso i tabaccai), le macchinette automatiche, le fabbriche per fabbricare gli spinelli e anche i vaporizzatori per inalarli, come con le sigarette elettroniche, i laboratori di ricerca e, naturalmente, una enorme massa d'urto finanziaria. Chi pensa che Big Tobacco sia stato fiaccato dalla gragnola di divieti di fumo che gli sono piovuti addosso, infatti, si sbaglia. Tuttora, Philip Morris (Marlboro) fattura oltre 135 miliardi di dollari l'anno, Reynolds (Camel, Winston) 73 miliardi, Lorillard (Kent, Newport) 40 miliardi. Divieti o no, nel 2004 i fumatori, negli Usa, erano il 21 per cento della popolazione. Nel 2011, erano poco di meno: il 19 per cento. E Big Tobacco resta una gallina dalle uova d'oro. Dal 2005 ad oggi, le azioni delle aziende di Big Tobacco sono cresciute di quasi il 200 per cento. Quelle dell'hi-tech, per fare un confronto, nonostante il boom dei computer, di Internet e degli smartphone, di meno del 100 per cento. Big Maria, allora? All'ipotesi di sbarcare sul terreno della marijuana aziende come la Philip Morris, come rivelato da varie inchieste giornalistiche, ci avevano pensato seriamente a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70, ma qualsiasi progetto fu abbandonato negli anni ‘80. Riprenderlo oggi non è così semplice. I giganti del tabacco sono già abbastanza assediati da norme e divieti ed è difficile che abbiano voglia di coltivare nuove polemiche. Soprattutto, l'ostacolo, negli Usa, è politico. I bastioni di difesa di Big Tobacco sono gli Stati in cui le aziende sono una forza economica e un serbatoio di occupazione: dove si coltiva il tabacco e si producono sigarette. La controprova è che sono anche gli Stati un cui i divieti di fumo sono più radi e meno pervasivi. Di fatto, la cintura di Stati del Sud, a est del Rio Grande. Dal Texas alla Georgia, alla Carolina del Sud, su fino a Kentucky, Tennessee, Virginia. Il problema è che questi sono anche gli Stati tradizionalmente conservatori, in cui lo spinello può ancora portare in prigione. Insomma, dicono gli esperti, Big Tobacco non metterà i piedi nel piatto della marijuana fino a quando non avrà una copertura federale. Fino a quando, cioè, lo spinello non sarà legale anche agli occhi della Dea, l'agenzia antidroga federale che, sulla base della legislazione attuale, potrebbe in teoria bloccare l'uso della marijuana anche dove un referendum lo ha reso possibile. La novità è che qualcosa si sta muovendo. Per la prima volta, il Senato di Washington discuterà pubblicamente e ufficialmente della marijuana. Tre senatori hanno, infatti, presentato nei giorni scorsi, un progetto di legge che impedirebbe alle autorità federali di interferire nelle decisioni prese dagli Stati sull'uso o meno della marijuana. È un classico tema libertario e, infatti, i presentatori sono due democratici e un repubblicano come Rand Paul, possibile candidato alle prossime presidenziali, da sempre sostenitore dei diritti degli Stati contro le ingerenze federali. Fra le righe, il progetto di legge fa, però, qualcosa di più: riconosce per la prima volta, a livello federale, il valore medicinale della marijuana, il grimaldello che, a livello statale, sta portando alla sua progressiva liberalizzazione. E la presenza di Rand Paul spinge a fare due più due. Il potenziale candidato alle presidenziali è da sempre un sostenitore dei diritti degli Stati, ma rappresenta anche al Senato il Kentucky: Stato di piantagioni di tabacco e di fabbriche di sigarette, dove Big Tobacco è un nome che conta. Macedonia: richiedenti asilo in fuga dalla guerra detenuti per mesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 marzo 2015 Centinaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti di ogni età sono rinchiusi, in condizioni inumane e degradanti, nel centro di accoglienza per stranieri "Gazi Baba" della capitale macedone Skopje. Il centro, che ha una capacità ufficiale massima di 150 persone, ne ospita più del doppio. Molte persone sono costrette a dormire sul pavimento. Oltre al sovraffollamento, i servizi igienico-sanitari sono inadeguati e il cibo insufficiente. La maggior parte dei detenuti, perché di questo di fatto si tratta, è costituita da nuclei familiari fuggiti dalla Siria, compresi bambini, donne in gravidanza e neo-mamme coi loro piccoli. Altri arrivano da aree di crisi differenti, come Afghanistan, Pakistan e Somalia. Vengono tenuti a "Gazi Baba" anche per sei mesi, allo scopo di accertarne l'identità e soprattutto di coinvolgerli come testimoni nei processi contro i trafficanti. Il diritto internazionale stabilisce che il ricorso automatico alla detenzione dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati è illegale e che i minorenni - soprattutto se non accompagnati - non dovrebbero mai essere detenuti per questioni legate all'immigrazione. Lo scorso ottobre il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha visitato il centro "Gazi Baba". Le sue conclusioni non sono state rese ancora pubbliche perché - così stabilisce la procedura - manca il consenso del governo della Macedonia. Il 18 dicembre l'Ufficio del difensore civico della Macedonia ha espresso preoccupazione per le condizioni del centro ricordando che la detenzione dei minori è vietata e che, in attesa della scarcerazione, questi ultimi avrebbero dovuto ricevere una specifica assistenza medica e psicologica. Quest'anno, a gennaio, una delegazione di Amnesty International in visita in Macedonia ha chiesto di poter avere accesso al centro "Gazi Baba" ma ha ottenuto un rifiuto. Le è stato invece proposto di visitare il centro per rifugiati di Vizbegovo, dove c'è spazio per 150 persone ma gli ospiti sono solo una trentina. Maldive: ex presidente condannato a 13 anni di carcere per aver fatto arrestare giudice Adnkronos, 15 marzo 2015 L'ex presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, è stato condannato a 13 anni di carcere per aver ordinato, quando era in carica, l'arresto illegale di un giudice per corruzione. L'ex capo di Stato, arrestato lo scorso 22 febbraio, è stato riconosciuto colpevole in base alle leggi anti-terrorismo e colpevole di aver rilasciato false dichiarazioni. L'arresto del giudice Abdulla Mohamed, nel gennaio 2012, provocò settimane di proteste e tensioni che portarono alle dimissioni di Nasheed, che nel 2008 era diventato il primo capo di Stato democraticamente eletto nelle Maldive. Nel 2013 Nasheed si presentò di nuovo alle presidenziali alla guida del Partito democratico delle Maldive, ma fu sconfitto da Abdulla Yameen, attuale capo di Stato.