Giustizia: anatomia di un premier, a futura memoria di Andrea Pugiotto (Ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara) Il Manifesto, 11 marzo 2015 Chiudo l'ultimo numero de L'Espresso, dopo aver letto la chilometrica intervista al futuro Sindaco d'Italia ("Per il Governo io ho in testa il modello di una Giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del Sindaco"). E riprendo in mano il romanzo che mi tiene compagnia in questi giorni. Eccone alcuni brani. Il nostro politico "non è un uomo eticamente irreprensibile, né ha motivo per esserlo"; nella sua indole convivono virtù e difetti, "ma le prime come i secondi hanno per lui identica natura e sostanza". Elenco di virtù: "l'intelligenza innata, il coraggio, la serenità, il carisma, l'astuzia, la resistenza, l'istinto sano, la capacità di conciliare l'inconciliabile". Elenco di difetti: "l'impulsività, la costante inquietudine, la mancanza di scrupoli, il talento per l'inganno, la volgarità o la mancanza di raffinatezza nelle idee e nei gusti". Su tutto, "l'ambizione, che per un politico non è una qualità - una virtù o un difetto - bensì una semplice premessa". Proseguo nella lettura. "Una volta nominato presidente cominciò a sferrare una serie di colpi a effetto con tale rapidità e sicurezza in se stesso che nessuno trovò motivi validi, risorse o coraggio per frenarlo". Era questo il suo modo di procedere: "prendeva una decisione inaspettata e, quando il Paese stava ancora cercando di assimilarla, ne prendeva un'altra ancor più inaspettata, e poi un'altra, e così via; improvvisava costantemente; imponeva un'accelerazione agli eventi, ma si lasciava anche trascinare dagli eventi; non dava il tempo di reagire, né di ordire qualcosa contro di lui, né di avvertire la discrepanza tra ciò che faceva e ciò che diceva, neppure il tempo di stupirsi: l'unica cosa che potevano fare i suoi avversari era restare in sospeso, tentare di capire quello che faceva e cercare di non perdere il passo". Il politico puro deve sapere, fare, saper fare e - soprattutto - far sapere: "se in televisione fu quasi sempre imbattibile, perché dominava quel mezzo meglio di qualsiasi altro politico, nel faccia a faccia lo era anche di più". Da lui "tutti ascoltavano quello che avevano bisogno di ascoltare e tutti uscivano da quegli incontri irretiti dalla sua bonomia, serietà e ricettività, dalle sue eccellenti intenzioni e dalla volontà di tramutarle in fatti concreti". Dissimulando, "ingannava il prossimo con tale sincerità che neppure lui si rendeva conto di ingannare". Scatta così un accumulo narcisistico che si autoalimenta: "esultante, navigava sulla cresta dell'onda dello tsunami dei suoi successi", lanciandosi in "imprese epiche capaci di spronare la sua immaginazione e centuplicare il suo talento come nel primo anno di presidenza, gesti di coraggio che esigevano stratagemmi giuridici, numeri di magia mai visti, falsi duelli contro falsi nemici, incontri segreti, scenari da paladino solo con il suo scudiero di fronte al pericolo". E poiché "i suoi trionfi gli avevano conferito un'assoluta fiducia in se stesso", pensò che era ora di prendere la decisione più azzardata: "elaborare una nuova Legge fondamentale, che si aggiungesse alle altre, modificandole in apparenza anche se nel concreto le derogava o autorizzava a derogarle", il che avrebbe permesso di trasformare l'ordinamento costituzionale "rispettandone i procedimenti giuridici". Era "un'intuizione brillante, che però doveva essere approvata" dalle Camere, "in un inaudito processo di immolazione collettiva". La sua messa in pratica fu vertiginosa: "dopo giorni consecutivi di dibattiti e superando vari momenti nei quali tutto sembrava dover andare all'aria", il Parlamento approvò la riforma, e "le telecamere ripresero il momento, per poi trasmetterlo innumerevoli volte". "Fu un tocco di magia spettacolare, e il maggior successo della sua vita. Pochi giorni dopo, senza concedersi un istante di tregua per non dare agli avversari il tempo di riprendersi dallo stupore, indiceva un referendum sulla legge appena approvata", vincendolo alla grande. Giunto a quel punto, "tutto era ormai predisposto per indire le elezioni e vincerle capitalizzando il successo delle sue riforme. Infatti le convocò e le vinse, e già che c'era eliminò gli ultimi rivali". Il successo elettorale fu tale che "forse pensò che a vincere era stato lui", non il suo partito, il quale "senza di lui non sarebbe stato quello che era". Cominciò a pensare anche altre cose: "forse pensava che il partito era lui, che il governo era lui, che la democrazia era lui. Forse pensava che avrebbe governato per decenni": "in fin dei conti, pensava, un vero statista non governa per una parte, ma per tutti". Chiudo il libro. È un romanzo su un evento ormai lontano della storia parlamentare spagnola (Javier Cercas, "Anatomia di un istante", Guanda, 2012, pp. 334-335 e 360-372). Eppure mi ritrovo tra le mani pagine molto attuali e molto italiane, che descrivono - con rara precisione - una traiettoria possibile se non probabile, verosimile se non vera. Una lettura da condividere, a futura memoria. Giustizia: il rapporto patologico tra media e pubblici ministeri di Rinaldo Romanelli (Componente Giunta Unione Camere Penali) Il Garantista, 11 marzo 2015 Sul "Foglio" di ieri Luciano Violante ha posto il tema dei rapporti tra giustizia ed informazione suggerendo in tono scherzoso "ma non troppo", che la vera separazione delle carriere andrebbe fatta tra giornalisti e magistrati, piuttosto che tra giudici e pubblici ministeri. "L'interscambio tra notizie e pubblicità" determina la "costruzione di facili eroismi" e "costituisce una patologia diffusa". Difficile non condividere di primo acchito l'osservazione che però, ad una più attenta analisi appare tralasciare un aspetto fondamentale della questione, con l'effetto di nascondere i veri contorni del problema. Il rapporto patologico e diffuso non intercorre, infatti, genericamente tra la magistratura e il mondo dell'informazione, bensì tra pubblici ministeri e appunto, media. Gli eroi creati dal circuito mediatico sono sempre e solo valorosi pubblici ministeri; provi chi non è addetto ai lavori a fare un esercizio mnemonico ed a ricordare il nome di un magistrato che non appartenga all'ufficio del pubblico ministero. Credo di non sbagliare se dico che l'esperimento non ha dato alcun risultato. Eppure tutti certamente conoscono i nomi dei pm di "mani pulite", del procuratore nazionale antimafia, di quel procuratore che ha avviato la "sfortunata" azione penale nel processo "Eternit", di quello che ha indagato un discendente della Casa Savoia (prosciolto ed al quale poi abbiamo pagato i danni per ingiusta detenzione), del procuratore capo di Milano o di Roma, o magari di molti importanti politici che sono stati chiamati a questo ruolo proprio in ragione della notorietà che hanno ottenuto per aver guidato una procura di rilievo, o per aver condotto un'indagine che ha avuto un grande risalto mediatico (e magari un modesto, o nullo esito processuale). L'unico momento in cui il nome e il cognome di un giudice assurgono agli onori della cronaca è quello in cui il circo mediatico gli si scatena contro perché è stata pronunciata una sentenza di assoluzione in un caso in cui il colpevole andava trovato e condannato ad ogni costo. Quando il giudice fa il proprio mestiere ovvero - all'esito di un processo che, sarebbe bene ricordarlo sempre, ha la funzione di verificare la fondatezza della pretesa punitiva dello Stato nei confronti di un cittadino che può essere giudicato colpevole solo ove la prova abbia superato ogni ragionevole dubbio - assolve o dichiara la prescrizione (magari, com'è accaduto di recente, in relazione ad un fatto che era prescritto prima ancora che il procedimento fosse iscritto nel registro delle notizie di reato), allora diventa noto, ovviamente con una connotazione negativa. Si creano così quelle curiose prassi dettate dalla necessità per cui, subito dopo la pronuncia del dispositivo, senza attendere i tempi della motivazione (che a volte sono lunghi, soprattutto nei processi complessi) viene emessa dalla Corte una nota esplicativa quasi a scusarsi nei confronti dell'opinione pubblica per non aver validato l'ipotesi accusatoria dell'eroico pubblico ministero di turno. Dobbiamo allora prendere atto che non esiste un rapporto generalizzato di scambio tra magistrati e informazione ed anzi, un parte della magistratura, quella giudicante, subisce questo rapporto e vede di conseguenza condizionata la propria indipendenza. Ed allora, se è vero che, come suggerito da Violante, la giustizia avrebbe certamente a giovarsi di una separazione delle carriere "tra alcuni giornalisti e alcuni magistrati" (si legga alcuni pm), certamente questo non ci consegnerebbe un giudice "terzo e imparziale" come vuole l'art. 111 della Costituzione in seguito alla modifica del 1999 fortemente voluta ed infine ottenuta dall'Unione delle camere penali italiane. Il punto fondamentale è e resta il rapporto tra l'esercizio della giurisdizione e la funzione della pubblica accusa. È qui che alligna lo squilibrio costituzionale, funzionale e di potere, sia all'interno della magistratura, che nei confronti degli altri poteri dello Stato. Ciò che, pur nella sua evidenza, ancora non si vuole comprendere ed ammettere a quindici anni dalla modifica dell'art. 111 della Costituzione, è che la terzietà del giudice, che è ora un principio costituzionale, non si riferisce solo al dibattimento ma ad una posizione ordinamentale. "Terzo" non è solo colui il quale nel processo è indipendente, neutrale o estraneo agli interessi in conflitto, ma è quella figura che ontologicamente e quindi ordinamentalmente è diversa ed autonoma dalle parti. Se il giudice è amministrato dallo stesso organo che amministra una delle parti, ovvero dal Csm, la terzietà della sua figura va irrimediabilmente perduta. Se intraprendiamo un percorso in discesa, dalle considerazioni che si muovono sul piano alto dei principi costituzionali, a quello del complesso sistema giuridico-fattuale che governa l'ordine giudiziario, la gravità del contesto appare poi subito evidente. La composizione del Csm prevede che la componente togata (che pesa per due terzi sul numero dei seggi) sia formata da due magistrati della Corte di Cassazione, quattro dell'ufficio del pubblico ministero e dieci giudici. L'evidente prevalenza della componente giudicante avrebbe la funzione, appunto, di evitare rilevanti condizionamenti da parte di magistrati dell'accusa. Il sistema delle correnti interne alla magistratura associata è quello però che controlla e determina l'elezione di tutti i togati che compongono il Csm ed è, quindi, con tutta evidenza anche quello che ne condiziona l'esercizio delle funzioni. Nel 2003 era stato modificato il meccanismo elettorale con lo scopo di arginare il potere delle correnti che altera fortemente gli equilibri all'interno dell'organo di governo della magistratura. L'operazione è tanto riuscita che all'ultima elezione i sedici membri togati eletti sono così ripartiti: 7 rappresentanti di "Area" il cartello formato da Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, 5 esponenti di Unità per la Costituzione e 4 membri di Magistratura indipendente. Nessun magistrato indipendente non iscritto a correnti è stato eletto. Chi comanda al Csm sono, dunque, le correnti della magistratura, all'interno delle quali l'equilibrio dei poteri è sovente sbilanciato in favore dei magistrati dell'ufficio del pubblico ministero (malgrado numericamente siano nettamente inferiori considerando anche i giudici che si occupano di civile). Il giudice "terzo e imparziale" è amministrato da questo organo che deciderà dei suoi avanzamenti di carriera, dell'affidamento o meno di incarichi direttivi ed anche dei suoi eventuali procedimenti disciplinari. Ogni considerazione sull'effettiva indipendenza e sulla non condizionabilità del giudice appare superflua. Quando il giudice si appresta ad assumere un provvedimento in una questione importante, che magari ha avuto una rilevante eco mediatica, sa che la sua decisione potrebbe condizionare un domani la propria carriera o l'esito di un procedimento disciplinare, perché potrebbe non essere gradita ad un importante pubblico ministero che controlla, o ha un peso rilevante in qualche corrente. Bisogna prendere atto che il giudice nel nostro sistema non è libero da condizionamenti, sia interni ai meccanismi di governo della magistratura, che esterni determinati dal patologico rapporto di reciproco scambio e interesse tra le Procure e i mezzi di informazione. Una riforma per legge ordinaria del Csm che argini il potere delle correnti non è più rinviabile e la riforma costituzionale (o meno) che preveda finalmente la separazione delle carriere con due organi di governo autonomi deve essere messa in agenda senza tentennamenti quale ineludibile conseguenza della modifica dell'art. 111 Costituzione. L'indipendenza nell'esercizio della giurisdizione più che una semplice garanzia per il cittadino è una precondizione per il corretto funzionamento del sistema e rappresenta un necessario riequilibrio dei poteri dello Stato a tutto vantaggio della giurisdizione. Giustizia: la perenne ansia forcaiola è sparsa come oppio, per alleviare le pene della crisi di Errico Novi Il Garantista, 11 marzo 2015 Pene più alte anche per il peculato, oggi tocca a tangenti ai giudici, concussione e falso in bilancio. C'è mai stato un patto del Nazareno sulla giustizia? Forse no. È assai probabile però che, con l'addio all'intesa Renzi-Berlusconi sulle riforme istituzionali, arriveranno norme ancora più restrittive sul fronte corruzione. È cambiato il clima e il governo lo sa,. Lo sa pure il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il quale finora si è sforzato di tenere la barra dritta. Ha attutito i colpi delle impennate renziane anti-giudici, quelle dei giudici che non volevano la responsabilità civile. Ma adesso nulla pare poter opporre all'ondata giustizialista di ritorno. Una tendenza che produce due effetti. Il primo sulla prescrizione, che alla Camera diventa infinita per reati come la corruzione propria. Il secondo al Senato, sul pacchetto anticorruzione, infiocchettato nel ddl Grasso, e in particolare sul falso in bilancio. Su queste due specifiche voci, il ministro Orlando deve assecondare la corrente. E la corrente spinge verso norme più restrittive, più in accordo con la perenne ansia forcaiola sparsa come oppio per alleviare le pene della crisi. "L'emendamento sul falso in bilancio? Ci stiamo lavorando, siamo in dirittura d'arrivo, tra poche ore lo presenteremo", annuncia dunque il guardasigilli all'agenzia Ansa. Seppure al tardo pomeriggio di ieri il testo non risultasse ancora formalmente depositato, ci sono ormai pochissimi dubbi sul contenuto. Due novità sostanziali, per il reato ex articolo 2621 del codice civile: sarà un reato di pericolo e dunque sempre procedibile d'ufficio; e saranno cancellate le soglie di non punibilità attualmente previste. Un problema soprattutto per le piccole imprese, quelle che possono trovarsi a dare "false comunicazioni sociali" più per errore che per dolo. In teoria il rischio di infierire su salumieri e artigiani dovrebbe essere scongiurato da alcuni passaggi del testo, in particolare da quello in cui si specifica che la "falsa comunicazione" deve essere indicata "in modo concretamente idoneo a indurre in inganno". Ma l'alea resta: un'indagine può comunque essere costruita proprio sul dubbio che l'intento ingannevole possa esserci. Qui Orlando prova a limitare i danni. Intanto per le società non quotate la pena per falso in bilancio andrà da un anno a 5 anni di carcere, e in questo modo non sarà possibile usare strumenti come le intercettazioni. Con il massimo sotto i 6 anni, poi, sarà possibile per il giudice archiviare il reato per particolare tenuità del fatto. È la novità prevista dalla legge delega che il governo si appresta a varare, dopo aver acquisito i pareri delle commissioni parlamentari. Basterà a proteggere i "piccoli"? I dubbi restano. E comunque, tutte queste "premure" del ministro Orlando nei confronti delle imprese di ridotte dimensioni dovranno fare i conti con i giustizialisti del Pd: in commissione al Senato, Casson e Lumia. Proprio Lumia rivendica con soddisfazione l'altro tassello approvato ieri nella seduta della commissione Giustizia di Palazzo Madama: il pur lieve innalzamento delle pene per peculato. Reato punito finora da quattro a 10 anni di carcere. Con l'emendamento Lumia, riformulato dal relatore Nino D'Ascola dell'Ncd, si passa a 6 anni di minima e 10 e mezzo di massima. Intercettazioni sempre possibili, dunque, archiviazione per tenuità impossibile anche per i peculati irrisori. "Sono riformulazioni necessarie per assicurare l'organicità del sistema", come ricorda il viceministro della Giustizia Enrico Costa. Il quale ha vissuto giorni tesi con Orlando: i due a un certo punto hanno interrotto ogni tipo di dialettica, dopo il blitz alla Camera sulla prescrizione. "Andiamo avanti per gradi con l'inasprimento", è invece la compiaciuta chiosa di Lumia, "ora tocca a corruzione in atti giudiziari e concussione per induzione". Oggi si lavora fino alle 11 di sera, arriverà pure l'emendamento sul falso in bilancio. "Ci sono le condizioni per presentarlo in commissione al Senato", assicura il guardasigilli. Tutti questi inasprimenti (il massimo per il falso in bilancio delle società quotate arriverà a 8 anni, il minimo a 3) vogliono dire anche tempi di prescrizione più lunghi. E con il meccanismo micidiale architettato a Montecitorio, un processo per peculato durerà 19 anni, senza considerare eventuali sospensioni per perizie e rogatorie. Ma non c'è niente da fare, su questo fronte Orlando deve assecondare la corrente. Chissà, se il patto del Nazareno fosse davvero esistito, ci sarebbe stata qualche "rapida" in meno. Giustizia: l'ex pm Ingroia; cittadini impotenti davanti ai magistrati per colpa del Csm di Daniel Rustici Il Garantista, 11 marzo 2015 "Il problema non è la responsabilità civile, ma il Consiglio Superiore della Magistratura: dovrebbe intervenire più spesso per punire i giudici ma non lo fa" Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell'esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e "perdonista" nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori". Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un'intervista al nostro giornale ha detto che bissona difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che "in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio". Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini "impotenti" davanti al potere della magistratura. Detto da un'ex toga... "Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell'esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all'interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell'appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito". Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici? "La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all'imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e "perdonista" nei confronti di chi commette gravi errori". Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm, non è troppo facile? "Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perché il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?". Perché? "La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza". Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. E una scelta che rivendica? "Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent'anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell'orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa". Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare? "Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell'intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio". Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi? "Credo sia arrivata l'ora di mettere in discussione l'esistenza del processo d'appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l'innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l'abuso di questo strumento". A proposito di abusi, cosa pensa dell'uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici? "In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio". Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d'innocenza. "Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d'innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa frequenza". Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario? "Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli". Cosa significa per lei la parola "garantismo"? "Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato". Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd? "Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l'equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi". Giustizia: caso Marcello Lonzi, il processo dopo 12 anni dalla morte in carcere di Damiano Aliprandi Il Garantista, 11 marzo 2015 Venerdì prossimo ci sarà l'udienza conclusiva sulla vicenda di Marcello Lonzi, un detenuto morto quando era in custodia cautelare. Ufficialmente sarebbe morto naturalmente, ma la realtà è un'altra e Maria Ciuffi - la madre di Marcello vuole andare fino in fondo. Una terribile morte susseguita da un tortuoso iter giudiziario alternato con archiviazioni e riaperture delle indagini. L'estate dell'anno scorso, dopo undici anni di battaglie, archiviazioni e denunce, il giudice delle indagini preliminari Beatrice Dani ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e con un provvedimento di cinque pagine, depositato in cancelleria, ha disposto che vengano svolti nuovi accertamenti fino ad arrivare, a breve, al 13 marzo 2015 dove si terrà l'udienza conclusiva con la madre, Maria Ciuffi, che continua a ripetere: "Non si può morire quando si è in custodia dello Stato". Marcello Lonzi ufficialmente è morto di infarto nel carcere Le Sughere di Livorno, ma con otto costole rotte, due buchi in testa e un polso fratturato. Aveva 30 anni, era l'11 luglio del 2003. Era finito in carcere per tentato furto. Aveva quasi finito di scontare la sua pena, e gli mancavano tre mesi alla scarcerazione. Eppure, quella libertà, lui non la ritrovò. Morì lì, e la madre Maria lo scoprì solo il giorno dopo. Ci sono fotografie che suggeriscono un pestaggio in carcere, ma tre diverse procure, nel corso degli anni, hanno archiviato il caso, smentendo la morte violenta. Per il medico legale, Marcello è morto per cause naturali, un infarto. Ed effettivamente anche il perito nominato dalla famiglia è dello stesso parere: ma cosa accadde, prima, nessuno lo sa. Sul corpo di Marcello vennero dapprima rinvenute "un'unica frattura costale e tre lesioni occipitali, ma senza nessuna incidenza". Poi, successivamente, un nuovo esame autoptico confutò quanto precedentemente detto: le costole rotte erano sette, e lo sterno fratturato. Per il consulente medico si trattò di conseguenze di un massaggio cardiaco. Eppure c'è ancora qualcosa che non torna: altre lesioni, tracce di vernice blu nella testa ferita, polso fratturato, mandibola rotta. Inizialmente, un testimone, disse alla madre che il figlio era caduto dal letto. Poi, un altro, un ex detenuto di Le Sughere, intervistato ai microfoni di Linea Gialla, spiegò l'esistenza delle "celle lisce", stanze in cui i carcerati vengono massacrati di botte. La battaglia condotta dalla madre di Marcello Lonzi sembra infinita. La prima archiviazione è per morte naturale. Ma viene eseguita l'autopsia prima che la madre venga avvertita del decesso e, quindi, senza che faccia in tempo a nominare un perito dì parte. La madre di Marcello presenta allora una denuncia che porta il pm Roberto Pennisi ad aprire un fascicolo per omicidio contro ignoti. A distanza di un anno, nel luglio 2004, lo stesso pm avanza una richiesta di archiviazione del procedimento per omicidio poiché, sostiene, Marcello è effettivamente morto per un infarto dovuto a cause naturali. Ma la vicenda è tutt'altro che chiusa; il gip di Livorno respinge in un primo momento la richiesta dì archiviazione, a seguito anche della richiesta della madre di Marcello Lonzi corredata da alcune fotografie del cadavere del ragazzo che mostrano segni di percosse, e fissa l'udienza preliminare per discutere il caso. Anche quell'udienza porterà a un niente di fatto per i familiari di Marcello dato che il gip accoglierà la richiesta dì archiviazione presentata del pubblico ministero. Il caso viene quindi archiviato. La vicenda continua a destare sospetti ed emergono nuovi indizi; ci sarebbe un referto medico falso e senza firma, stilato poco dopo l'ingresso in carcere di Marcello, nel quale al ragazzo viene effettuata una radiografia poiché lamenta dolori al torace dovuti, a quanto dice, a percosse subite dalle guardie. Nel referto il medico scrive "non fratture" e non si firma. La madre di Marcello non smette di pensare che ci sia un'altra verità e continua a portare avanti la sua battaglia con tutte le armi che ha a disposizione; al punto che, nel 2006, viene riaperto il caso a seguito di una sua nuova denuncia. Sembrerebbe l'inizio di un nuovo corso, una svolta nella torbida storia del ragazzo morto in carcere; ma così non è: ancora una volta, con non poca sorpresa, il caso viene archiviato nel maggio del 2010. Ma Maria Ciuffi non si ferma e presenta una denuncia alla Corte Europea, che non ha buon fine. Fino però ad arrivare ai giorni nostri con la richiesta di archiviazione respinta dal giudice delle indagini preliminari e l'udienza definitiva che si terrà venerdì. Giustizia: processo Ruby; confermata dalla Cassazione l'assoluzione per Silvio Berlusconi Corriere della Sera, 11 marzo 2015 La sentenza, arrivata dopo circa 10 ore di camera di consiglio, conferma quella di assoluzione della Corte di appello di Milano del 18 luglio scorso. Si chiude il processo Ruby. La sesta sezione penale della Corte di cassazione ha confermato l'assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. L'ex premier era imputato di concussione per induzione e prostituzione minorile. Condannato in primo grado a 7 anni, era stato assolto in appello. Tra circa un mese si conosceranno le motivazioni della decisione dei supremi giudici. "Tanta felicità" ha espresso Berlusconi da Arcore, dicendosi pronto a tornare in campo. La Cassazione ha quindi rigettato il ricorso del procuratore generale di Milano Pietro De Petri e anche il ricorso presentato dal procuratore generale Eduardo Scardaccione. Martedì nel corso dell'udienza il pg della Cassazione aveva chiesto l'annullamento dell'assoluzione sostenendo che "l'episodio nel quale Silvio Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro". Ma il difensore di Berlusconi, Franco Coppi, aveva replicato: "La sentenza di assoluzione ammette che ad Arcore si sono svolte cene e prostituzione a pagamento, cosa che la difesa non contesta, ma nella sentenza non si trova la prova di alcuna minaccia implicita o esplicita rivolta a Ostuni", il capo di gabinetto che Berlusconi chiamò per chiedere l'affidamento di Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti. La sentenza, arrivata dopo circa 10 ore di camera di consiglio, è stata pronunciata dal presidente del collegio Nicola Milo e costituisce il superamento di un ultimo scoglio per l'ex presidente del Consiglio verso la piena agibilità politica, anche se l'ex Cavaliere resta fra gli indagati dell'inchiesta "Ruby ter" in corso a Milano per presunta corruzione di testimoni. Il Ruby ter Superato indenne lo scoglio della Cassazione, è proprio dal Ruby ter che potrebbero venire i nuovi guai per Berlusconi: stanno infatti emergendo nelle ultime settimane elementi che incrinerebbero il fronte delle ragazze che, secondo l'accusa, sarebbero state retribuite per testimoniare il falso nei processi. I pm milanesi, dopo la missiva dell'ex showgirl dominicana Marysthell Polanco che si è fatta avanti per raccontare dettagli sul caso Ruby, hanno decisa di ascoltarla a verbale. Oltre a Polanco è possibile che anche la sua amica di sempre Aris Espinosa, anche lei presente a molte delle serate a Villa San Martino, possa avere l'intenzione di collaborare con i pm. Nel frattempo, gli investigatori stanno ricavando elementi utili dalle chat trovate sui telefoni sequestrati alle "olgettine", che per evitare il clamore mediatico hanno intanto lasciato il residence di via Olgettina per trasferirsi nella Torre Velasca, vista Duomo. Complessivamente, sono 45 gli indagati, a vario titolo, per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza, tra cui almeno 21 ragazze. I fatti al centro del processo Nel luglio scorso l'Appello aveva ribaltato la sentenza di primo grado assolvendo Berlusconi dall'imputazione di concussione per costrizione "perché il fatto non sussiste" e da quella di prostituzione minorile "perché il fatto non costituisce reato". Nel giugno 2013 invece il tribunale lo aveva condannato a sette anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici con l'accusa di aver fatto pressioni sulla questura di Milano la notte del 27 maggio 2010, quando era premier, nel tentativo di far rilasciare Karima el Mahroug, detta Ruby, e di occultare la sua presunta relazione con la ragazza, all'epoca minorenne. La Corte d'appello, nelle sue motivazioni, sancì invece che quelle sulla questura furono sì pressioni indebite ma che non avrebbero potuto essere qualificate come concussione e che non era stato dimostrato che Berlusconi fosse consapevole della minore età della ragazza. Le reazioni "È un'ottima notizia che risarcisce solo in minima parte tutto quello che ha subito Berlusconi e con lui tutti i moderati italiani in questi anni": così Giovanni Toti, consigliere politico di Forza Italia, commenta la sentenza. "Assolto. E ancora assolto. Ma chi lo risarcisce della sofferenza e dei danni politici di questi anni? #aspettandolacorteeuropea", scrive su Twitter la senatrice Anna Maria Bernini, vicepresidente vicario di Forza Italia a Palazzo Madama. "La Cassazione ha confermato che il processo Ruby non stava in piedi da nessun punto di vista" dice Fabrizio Cicchitto di Ncd. "È una sentenza che chiude qualsiasi polemica" secondo Franco Coppi, avvocato di Silvio Berlusconi. Mentre Stefania Prestigiacomo (Fi) parla di "processo farsa, il capogruppo di Fi Renato Brunetta parla di "gioia infinita per decisione Cassazione". E su Twitter scrive: "Berlusconi in campo più forte di prima, con un grande partito alle spalle. Oggi Italia è Paese migliore". "Felice" per l'assoluzione anche Nunzia De Girolamo (Ncd). E c'è chi, come Laura Ravetto, lo ricandida già a "leader di centrodestra moderato e riformista". Giustizia: il processo Ruby, gli indizi e il (falso) mito della pistola fumante di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 marzo 2015 Anni di fumettistica retorica sulla "pistola fumante" hanno (dis)educato alla bizzarra idea che le uniche prove spendibili nei processi, e "legittimate" a fondare una assoluzione o una condanna agli occhi dell'opinione pubblica, siano ormai soltanto o la foto dell'imputato dall'altra parte del mondo nell'istante esatto di un reato altrui, o la sua confessione dal notaio. E invece nei palazzi di giustizia tutti i giorni pesanti condanne o clamorose assoluzioni si basano su processi indiziari, nei quali cioè il ragionamento di una prova logica, che collega dati di fatto acquisiti in maniera certa, può finire per essere persino più difficile da smontare di una prova del Dna o più demolitoria di qualunque spettacolare contro alibi. E dopo la sentenza a mezzanotte di ieri in Cassazione dopo quasi 9 ore di camera di consiglio, ci vorrebbe un Jannacci giudiziario per spiegarlo a "quelli che". "Quelli che" nel marzo 2013 c'era da invadere il Tribunale di Milano alla testa di 100 parlamentari pdl capeggiati dall'ex ministro della Giustizia (oggi dell'Interno). "Quelli che" nel febbraio 2011 c'era da far votare solennemente in Parlamento a 315 deputati che al presidente del Consiglio poteva legittimamente risultare che Ruby fosse la nipote di Mubarak. "Quelli che" nel maggio 2013 c'era da invocare a gran voce il trasferimento del processo a Brescia per "legittimo sospetto" sulla non imparzialità dei giudici milanesi, pretesa ridicolizzata dalla Cassazione. "Quelli che" adesso i pm dovrebbero ripagare i milioni di euro delle intercettazioni, in realtà costate 26.000 euro, quando l'intera inchiesta ne è costata 65.000 (compresi noleggi e interpreti). Ma anche "quelli che", tra le fila di molti magistrati milanesi dopo l'assoluzione in Appello, nell'estate 2014 su alcuni giornali si erano riparati dietro l'anonimato di virgolette non smentite per accusare la giudice della sgradita sentenza di aver assaggiato il frutto avvelenato di uno scambio politico in salsa renziana/berlusconiana. Da questo punto di vista l'udienza-fiume in Cassazione suona la campana per chi da un processo pretenderebbe la risposta più conforme alle aspettative politico-sociali, o più adesiva al livello di gradimento ritenuto socialmente accettabile per le decisioni giudiziarie di una certa stagione. Ma suona anche per chi a lungo ha voluto contrabbandare per processo al peccato, per scrutinio di scelte sessuali, e per volontà di degradazione morale degli imputati quello che invece era il fisiologico meccanismo del dibattimento: procedura alla quale ora Berlusconi deve la sua assoluzione per motivi giuridici pur a fronte di fatti storici accertati dai tre gradi di giudizio (l'"abuso della propria qualifica per scopi personali" nella telefonata in Questura), e ieri ammessi persino dai difensori ("Nemmeno noi contestiamo che ad Arcore avvenissero fatti di prostituzione con compensi"; e se l'affido di Ruby in Questura "fu regolare, che poi i poliziotti fossero contenti di aver fatto un favore a Berlusconi, questo ve lo concediamo"). Proprio l'indugiare sugli indici di inconsapevolezza o meno della minore età di Ruby, sulle connotazioni sessuali delle serate o sulle sfumature giuridiche della telefonata notturna del premier alla Questura, non era dunque fissazione di pm e giudici "guardoni", ma accertamento istruttorio inevitabile, fondamentale proprio come discutere di balistica in un processo per omicidio. Dove, spesso, neppure la pistola è mai davvero fumante. Giustizia: il Cavaliere in lacrime "è la fine di un incubo… ora via la Legge Severino" di Carmelo Lopapa La Repubblica, 11 marzo 2015 "È finita come doveva, un processo che non doveva mai cominciare". Le lacrime bagnano i suoi occhi, c'è Ghedini dall'altro capo del telefono. Nel salotto di Villa San Martino capiscono subito. "Assolto, mi hanno assolto", dice quasi sottovoce e si commuove, Silvio Berlusconi, è quasi mezzanotte. Al suo fianco Francesca Pascale si lancia al collo, gli teneva la mano da ore. Poi Marina, Piersilvio. Ci sono anche i due figli maggiori, come sempre, nelle ore più delicate. E così Maria Rosaria Rossi, la fedelissima ombra. "È la fine di un incubo, è la fine di un incubo" ripete l'ex Cavaliere come se non credesse alla notizia. "Ma quanto tempo perso per riconoscere la mia innocenza, tutta una montatura, la mia storia sarebbe andata diversamente". Rammarico per "il processo più dannoso: hanno tentato in tutti i modi di infangarmi". Ora dopo ora sembrava un tunnel sempre più buio. Quei giudici chiusi per cinque, sei, sette ore. I pensieri più cupi si impossessano del fortino di Arcore. Le telefonate si fanno sempre più rade. "Vedrete, vogliono farmi pagare il ritorno alla vita politica attiva" sono le confessioni amare ai pochi fedelissimi sentiti in serata. Non si spiegherebbe diversamente tutto quel tempo chiusi per decidere su un'assoluzione. E invece lo sprazzo di luce nella notte. La telefonata dell'avvocato. Sarà solo la prima, nell'arco di un'ora ne riceve quasi un centinaio - racconta chi è a Villa San Martino - ai cellulari piovano foto di brindisi e festeggiamenti di dirigenti e simpatizzanti in giro per l'Italia. Giovanni Toti chiama da Bruxelles e quasi urla al telefono. "Evvai, ci siano, ci siamo.... Ora cambia tutto, Silvio!". E ora sì, che il leader di Forza Italia può rimettere la testa su un partito allo sfascio, che proprio ieri mattina è andato ancora più alla deriva, documenti di dissenso, minacce di scissione, gruppi autonomi. "Da questo momento tenetevi pronti, sarà una nuova discesa in campo" dice a tutti al telefono il capo. La campagna per le regionali sarà a tamburo battente. Lì si gioca tutto. Ma resta ancora un macigno. La legge Severino che ne impedisce il ritorno in partita come vorrebbe lui, da candidato, da eleggibile. "Quella legge andrà cambiata, adesso appare ancora più assurda" è uno degli sfoghi nella notte. Ma per quella ci sarà tempo. Tra i fedelissimi è un tripudio. Giovanni Toti recupera il self control dopo l'entusiasmo: "Ovviamente bene, non ci aspettavamo nulla di diverso visto che questo processo non doveva essere neppure iniziato, è proseguito a dispetto di ogni buon senso, è stato trascinato con dei tempi assolutamente inconsueti per la giustizia italiana fino in cassazione spendendo milioni di euro dei contribuenti per un'indagine priva di senso. Chi risarcirà la democrazia italiana?" Daniela Santanché esulta in diretta tv a Ballarò, "la notizia più bella, l'esito più giusto". E poi tutti Maria Stella Gelmini: "È una gran bella notizia, la vivo con sollievo questa è stata una giornata durissima in cui c'era questa spada di Damocle sulla testa. Provo un gran sollievo per il presidente dal punto di vista politico oggi Berlusconi ha dimostrato di avere il controllo dei gruppi parlamentari, anche se nel merito c'erano posizioni diverse, questa notizia straordinaria ci dà la possibilità di andare avanti con Berlusconi leader perché il presidente rappresenta un punto di riferimento per tutti noi". Le cose non sono affatto rose e fiori, dentro il partito, ancora meno dentro i gruppi parlamentari. Ma non è questo il momento per la resa dei conti. "Sicuramente la legge Severino non ci ha mai convinti ma adesso è presto per fare una valutazione, la cosa importante è il sollievo e la rinnovata fiducia nella giustizia - continua la Gelmini - Per una volta questa sentenza ci dà fiducia nella giustizia e nel futuro...siamo sempre stati certi dell'innocenza, questo è un fatto importante anche per i rapporti tra politica e magistratura. Mi auguro che da oggi ci sia un clima più sereno tra politica e giustizia". Il tema del risarcimento inizia a essere battente tra i parlamentari, sarà il refrain da oggi. "Assolto. E ancora assolto. Ma chi lo risarcisce della sofferenza e dei danni politici di questi anni? #aspettandolacorteeuropea" twitta Anna Maria Bernini nella notte. Il Ruby ter resta sullo sfondo, almeno per una notte. Ad Arcore e Roma c'è solo voglia di festeggiare dentro Forza Italia. Sicilia: ecco le cooperative sociali che creano utili dando lavoro ai detenuti di Rosa Maria Di Natale wisesociety.it, 11 marzo 2015 Le siciliane "L'Arcolaio" e "Sprigioniamo Sapori" che vantano bilanci in attivo, creano occupazione vendendo prodotti della tradizione culinaria locale. Resistono alla crisi e sopravvivono ai tagli dei finanziamenti pubblici. Sono siciliane doc e una volta tanto sono da esempio per l'impresa del Nord: sono le coop "L'Arcolaio" di Siracusa e "Sprigioniamo sapori" di Ragusa, le uniche cooperative sociali siciliane che impiegano anche detenuti e che, per molto tempo, si sono occupate con successo del servizio mense nelle carceri grazie all'aiuto della Cassa delle ammende. Tanto da diventare, nel corso di pochi anni, imprese autonome a tutti gli effetti con dipendenti e collaboratori. I loro prodotti sono sugli scaffali di botteghe biologiche o raffinati negozi di specialità regionali. L'Arcolaio produce con il marchio "Dolci evasioni" nato nel 2005, le paste di mandorla con la celebre "pizzuta" di Avola, i panetti per la mandorlata, i biscottini aromatizzati con agrumi veri. "Sprigioniamo sapori", invece, è divenuto un marchio nel 2013 ed è figlio del consorzio "La Città solidale", produce torroni artigianali al miele degli iblei e pistacchi. Delizie di nicchia, vendute molto anche fuori dalla Sicilia. E ora che il fondo non potrà più sostenere i servizi di mensa in gestione a cooperative di detenuti (delle mense carcerarie italiane, già da gennaio, è tornata ad occuparsi l'amministrazione penitenziaria), le due coop continuano senza sofferenza il loro lavoro. I numeri delle loro imprese parlano chiaro. Per "Dolci evasioni" lavorano sei detenuti e sette civili, per un fatturato di oltre 500 mila euro. La ricetta? Essere coerenti sino in fondo con la mission sociale e credere a quell' "economia del dono" che ancora molti fanno fatica a comprendere. Giovanni Romano, presidente de "L'Arcolaio", fa riferimento a tre passaggi indispensabili: "In primo luogo, cercare di trovare nel proprio lavoro delle "coerenze di valori". Per esempio abbiamo scelto di lavorare con Banca Etica, i nostri imballaggi e il packaging sono fabbricati da un'altra coop sociale siciliana - racconta a wisesociety.it - le materie prime arrivano dal biologico della nostra terra o dal commercio equo e solidale, come ad esempio lo zucchero. E questo ci ripaga. Abbiamo anche scelto di ridurre a zero l'impatto ambientale chiedendo di poter usufruire dei forni a pellet e del fotovoltaico: risparmieremo molto e saremo, appunto, coerenti con tutto il resto". Romano aggiunge che la costruzione di reti reali ha i suoi vantaggi: "È il secondo motivo del nostro successo. Col tempo abbiamo avviato una rete di relazioni attorno a noi, sviluppando una specie di asse di economia di relazione e del dono. Così partecipiamo a molte manifestazioni e i nostri prodotti ricevono simpatia e consenso. Ecco, questi non sono rapporti a fondo perduto, il brand circola a livello nazionale e molto bene". E il terzo punto? "Curare il rapporto con il territorio, anche se per il 90% vendiamo fuori dalla Sicilia. Ma è importante che il carcere venga vissuto come facente parte del territorio. Offriamo la nostra cucina, il nostro cous cous e gli arancini, e poi lavoriamo con Libera, l'associazione contro le mafie. I detenuti cucinano e servono i piatti. Si sentono e sono nuovamente accettati. E lavorano meglio". "Sprigioniamo sapori" di Ragusa ha invece attivato un progetto di polo alimentare con due detenuti in bassa stagione, e che in alta stagione diventano cinque, più due pasticceri e due cuochi esterni. Con un progetto di giardinaggio, inoltre, formeranno 8 detenuti per 8 mesi, per poi avviare subito dopo una nuova coop. Fatturato: 80 mila euro per il catering, ed altre 80 mila per attività collaterali. "La nostra economia punta sulla redistribuzione del reddito e del lavoro. La caratteristica delle coop sociali è quella di ridurre al minimo, se non quasi a zero, il profitto personale dell'imprenditore. Nella coop non esistono imprenditori ma soci lavoratori che si distribuiscono il reddito", commenta Aurelio Guccione, presidente del Consorzio ragusano. Che aggiunge: "È il modello della cooperazione sociale in sé che produce buoni risultati. Non è un caso se non abbiamo licenziato quando molte aziende hanno fatto ricorso ad ammortizzatori. Si lavora, si producono beni e servizi traendone un ricavo, un benessere per soci lavoratori". E anche Guccione crede alla rete. "Vuole un esempio concreto? Nel 2014 abbiamo fornito noi i pasti alla Caritas e dunque due mondi dello svantaggio, carcerati e senzatetto, producevano benessere comune. Le imprese del profit dovrebbero comprendere questo. E so che molte si stanno attrezzando". Friuli Venezia Giulia: audizione del Garante delle persone private della libertà personale Agenparl, 11 marzo 2015 Dati e situazione nelle carceri del Friuli Venezia Giulia sono stati presentati in IIIª Commissione - presidente Franco Rotelli (Pd) - nell'audizione del Garante regionale dei diritti della persona, con funzioni di garanzia delle persone private della libertà personale, Pino Roveredo, sulla scorta delle visite, compiute una o due volte al mese dal momento della sua nomina, nei vari istituti di pena. Sopralluoghi di cui ha riferito a partire dal carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, dove dei circa 200 detenuti il 30% sconta l'ergastolo ostativo nella certezza di una pena senza fine e dove sono presenti persone trasferite anche da oltre 800 chilometri di distanza con evidenti problemi per le visite dei congiunti. Per tutti si pone il problema di poter svolgere una attività lavorativa che - è dimostrato dai dati registrati in altre esperienze - riduce i numeri di chi torna a delinquere. Un forno per la lavorazione del pane era attivo nel carcere di Trieste, 180 detenuti, compresa l'unica sezione femminile del Friuli Venezia Giulia; poi venne chiuso per una protesta del Consorzio dei panettieri che temevano la concorrenza; i macchinari sono nuovi e inutilizzati. A Udine i detenuti sono 200, mentre pochissimi sono gli ospiti del carcere di Gorizia perché in fase di ristrutturazione; nell'insieme situazioni di vivibilità abbastanza simili in questi capoluoghi, mentre "la nostra vergogna - ha detto Roveredo - è il carcere di Pordenone, che continuerà a esistere perché il progetto del carcere di San Vito è bloccato". A Pordenone c'è il reparto protetti (autori di atti di violenze sessuali e altri reati): queste persone, prive di sostegno psicologico (a operare c'è una sola psicologa) escono così come sono entrate; questa è una delle mancanze, oltre alla invivibilità dell'edificio che ospita un centinaio di detenuti: qui - ha sottolineato il Garante - il sovraffollamento costa più che altrove per gli spazi davvero ristretti e la carenza delle strutture. Ci eravamo posti l'obiettivo di occuparci anche delle vittime di reato, che soffrono il trauma sul piano sia fisico che psicologico - ha spiegato Roveredo raccontando di essere riuscito, su una decina di casi affrontati, a far incontrare cinque vittime con gli autori del reato. Altre informazioni fornite alla Commissione riguardano i casi che hanno ottenuto lo stato alternativo alla detenzione, la situazione sanitaria, l'incompatibilità al carcere che riguarda molte persone e che andrebbe affrontata diversamente. Per il Garante è ottimo il rapporto sviluppatosi con i magistrati di sorveglianza, non manca la disponibilità alla creazione di lavori utili per consentire ai detenuti di essere collocati nel mercato del lavoro una volta usciti: ci sono contatti con Confartigianato in tal senso - ha detto annunciando un convegno il 14 aprile prossimo a Trieste con i Garanti e al quale si auspica la presenza del ministro di Grazia e Giustizia. Da parte dei consiglieri diverse domande di approfondimento: Rotelli in merito alle misure alternative e alle possibilità di lavoro al termine della pena; Bagatin (Pd) sul carcere di Pordenone e sulle possibilità di promuovere lavori utili come cucinare per gli stessi detenuti; Codega (Pd) sul carcere di Tolmezzo, sulla vicenda della panetteria interna a Trieste e sull'importanza di un sostegno da parte delle istituzioni, perché al di là di produrre e vendere, l'importante è far imparare un mestiere. Per Novelli (Fi) alla figura del Garante per le persone private della libertà si dovrebbe affiancare anche quella del Garante delle vittime di reati, perché spesso senza risarcimenti e abbandonate a se stesse; chiarimenti chiesti anche in merito ai tempi di detenzione e come sono suddivisi i detenuti all'interno delle carceri. E infine, anche da Pustetto (Sel) la questione del sovraffollamento, delle condizioni obsolete delle carceri, del lavoro che riduce le possibilità di delinquere nuovamente, la possibilità di affrontare le problematiche con una programmazione diversa da quella statale. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): internato suicida nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario Comunicato Sappe, 11 marzo 2015 "Nella tarda serata di ieri, 10 marzo, un internato prosciolto dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nonostante l'immediato intervento del personale di Polizia Penitenziaria, contestualmente a quello sanitario, non è stato possibile salvarlo e all'arrivo del 118, pochi minuti dopo, i medici altro non hanno potuto fare che constatarne il decesso. Si tratta di internato italiano, della provincia di Catania, che con molta probabilità sarebbe stato inserito in una delle case di cura battezzate come Rems". Ne da notizia Donato Capece, segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. Sul tema della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, il Sappe rileva come sia "assurdo che si sia perso così tanto tempo e vi siano ancora tante incertezze sul dove e come saranno successivamente custoditi i malati di mente che sono oggi detenuti nelle varie strutture. E l'Amministrazione Penitenziaria è colpevolmente silente su questo tema e si guarda bene dall'informare i Sindacati anche sul futuro lavorativo dei poliziotti impegnati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Lo avevamo previsto: troppo semplice dire chiudiamo gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. E poi? Quel che serve sono strutture di reclusione con una progettualità tale da garantire l'assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno risentito nel tempo dei molti tagli ai loro bilanci. Ma colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria, confermata dall'incapacità di superare davvero gli Opg. Se i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnavano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si fossero fatti carico del loro ruolo istituzionale, avrebbero per tempo messo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni in cui versano gli Opg sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell'Amministrazione penitenziaria". Il leader del Sappe evidenzia infine "la professionalità, la competenza e l'umanità che ogni giorno contraddistingue l'operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti gli internati e i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". Avellino: detenuto di 45 anni muore sotto la doccia, la Procura sequestra il corpo www.ottopagine.it, 11 marzo 2015 "La probabile causa è un arresto cardiaco, ma bisogna in ogni caso capire meglio, prima di potere esprimere una valutazione complessiva." È quanto afferma il medico legale Oto Macchione, che per il momento ha effettuato solo un esame esterno, sul corpo del detenuto napoletano di 45 anni morto in cella nel carcere arianese a causa di un malore nella serata di lunedì. L'uomo si stava recando in bagno, quando improvvisamente si è accasciato al suolo, senza più rialzarsi. A nulla è valso ogni tentativo di soccorso, da parte dei suoi compagni, degli agenti e dei sanitari del 118 subito accorsi sul posto. Bolzano: un nuovo carcere a "misura di detenuto", 200 aziende disposte a collaborare Alto Adige, 11 marzo 2015 Con la ricerca "Lavoro dentro per essere libero fuori", le indicazioni della Caritas per la vecchia e la futura struttura. La Caritas si impegna a rendere il carcere bolzanino più vivibile. E lo fa con la ricerca "Lavoro dentro per essere liberi fuori" che mette in luce il ruolo fondamentale del lavoro: strumento di integrazione sociale ma anche mezzo per tenere gli ex detenuti fuori da guai. L'iniziativa presentata a Bolzano è finanziata dal Fondo Sociale Europeo e coordinata dalla Caritas Alto Adige e vuole essere una guida per la realizzazione della nuova struttura penitenziaria. La ricerca evidenzia i diritti dei detenuti e punta a trovare delle soluzioni architettoniche capaci di soddisfare i bisogni dell'individuo e a collegare la struttura penitenziaria con la comunità. Come primo passo è stata chiesta la disponibilità per un'eventuale collaborazione con il carcere a varie aziende altoatesine. Su 465 aziende intervistate, 200 hanno risposto positivamente. Dopo la chiusura del bando di appalto, Caritas auspica che nella fase di realizzazione e gestione del nuovo penitenziario vengano prese in considerazioni le indicazioni della ricerca. "La dignità umana non può mai essere compressa o diminuita, un carcere che la rispetti e che sia davvero un luogo di educazione (non solo per chi vi è rinchiuso), rappresenta una garanzia per la sicurezza e soprattutto un'occasione di crescita civile per tutta la città" sottolineano i due direttori della Caritas Paolo Valente e Heiner Schweigkofler. Caritas: 200 aziende pronte a collaborare con nuovo carcere Dare un contributo affinché il nuovo carcere di Bolzano possa non solo adempiere i suoi compiti istituzionali nel migliore dei modi ma rispondere anche ai bisogni della comunità di cui diverrà parte integrante: con questo scopo è stato presentato a Bolzano il progetto "Lavoro dentro per essere liberi fuori", finanziato dal Fse e coordinato dalla Caritas Alto Adige. La ricerca individua i diritti dei detenuti prospettando soluzioni architettoniche che possano porre al centro della progettazione carceraria l'individuo, i suoi bisogni e il collegamento organico della struttura penitenziaria con il tessuto urbano circostante. Essendo il lavoro uno degli strumenti principali per la reintegrazione sociale e l'abbattimento della recidiva, sono state sondate le aziende altoatesine circa un'eventuale disponibilità a collaborare con il carcere. Su 465 aziende intervistate, ben 200 hanno mostrato interesse. "La dignità umana non può mai essere compressa o diminuita, un carcere che la rispetti e che sia davvero un luogo di educazione (non solo per chi vi è rinchiuso), rappresenta una garanzia per la sicurezza e soprattutto un'occasione di crescita civile per tutta la città", hanno commentato i direttori della Caritas, Heiner Schweigkofler e Paolo Valente. Verona: lavoro di pubblica utilità, i detenuti sistemeranno i sanpietrini delle strade Corriere di Verona, 11 marzo 2015 Firmato il protocollo: cinque carcerati impiegati (e non retribuiti) in servizi di pubblica utilità. Impegnati a risistemare i sanpietrini del centro città. Dalle prossime settimane, cinque detenuti del carcere di Montorio, avranno l'opportunità di uscire dalla loro cella per svolgere un lavoro (non retribuito) a servizio della collettività. È questo l'obiettivo del protocollo firmato ieri mattina dal Comune di Verona insieme alla direzione della casa circondariale, al Tribunale di Sorveglianza, al Coordinamento Progetto Esodo e al Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale. "Un ulteriore passo avanti finalizzato a garantire, a quanti hanno trasgredito alle regole della convivenza sociale, la possibilità di un concreto reintegro - ha commentato l'assessore al Decentramento, Antonio Lella. Era da mesi che ne discutevo con il Garante, perché i cittadini veronesi sono assolutamente favorevoli a iniziative di questo genere". Entro fine mese il progetto prenderà ufficialmente il via. 1 cinque detenuti, selezionati dalla direzione del carcere sulla base di percorsi formativi svolti nel periodo di detenzione e del loro curriculum lavorativo, saranno impegnati nelle vie del centro città con la supervisione e il controllo della struttura o del servizio comunale che beneficerà dell'intervento. "Svolgeranno i turni dei nostri dipendenti e saranno seguili dai nostri tecnici" ha puntualizzato l'assessore. "E con l'arrivo della bella stagione, stiamo già ipotizzando nuovi impieghi", ha spiegato il Garante, Margherita Forestan. Si ipotizza di impiegare i detenuti anche per la pulizia dei cartelli stradali o per la sistemazione dell'arredo urbano e delle aree verdi. Gli operatori del Progetto Esodo li seguiranno passo dopo passo nel loro percorso di reinserimento. "Sicuramente questo progetto offre loro la possibilità di reinserirsi un po' più rapidamente rispetto al solito - ha proseguito la Forestan. E di ripagare la collettività degli errori commessi". Usciranno dal carcere la mattina e vi faranno ritorno nel primo pomeriggio, in base a quanto stabilito dal Tribunale di Sorveglianza e dalla direzione della casa circondariale. "In questo modo il Comune prosegue e amplia l'attività a favore del mondo del carcere - ha concluso il Garante. Una risposta delle istituzioni veronesi ai richiami del Presidente della Repubblica e del Papa sulle condizioni dei detenuti in Italia". Salerno: niente visite al carcere per i Consiglieri comunali "è vietato dal regolamento" di Marco Rarità Metropolis, 11 marzo 2015 I consiglieri comunali non possono "entrare" in carcere, il direttore della casa circondariale di Fuorni risponde alla proposta di Luciano Provenza: "Niente visite nelle celle, il regolamento non lo permette". È arrivata nella mattinata di ieri la risposta del direttore del carcere di Salerno, Stefano Martone, alla proposta partita dal presidente della sesta commissione consiliare del comune di Salerno riguardante le Politiche Sociali. Partì dal consigliere Luciano Provenza, infatti, la richiesta al direttore Martone di poter conoscere le condizioni dei detenuti del carcere di Fuorni. Tutti i componenti della commissione aderirono alla proposta chiedendo di effettuare una visita all'interno della casa circondariale al fine di individuare le migliori strategie per migliorare le condizioni di vita degli stessi detenuti. "Dopo un'ampia ed approfondita discussione - dichiarò Provenza in una lettera indirizzata a Stefano Martone - dove sono state affrontate le varie tematiche inerenti le condizioni di vita dei detenuti, dall'assistenza sanitaria alla vivibilità delle loro stanze, dalla carenza organica degli agenti di polizia penitenziaria, ormai inadeguata al fabbisogno reale degli stessi, ai tanti altri problemi che affliggono la popolazione carceraria, i componenti tutti della commissione, all'unanimità, hanno proposto di effettuare una visita all'interno del carcere". Provenza chiese al direttore di fissare, al più presto, un incontro ma proprio ieri mattina la stessa commissione consiliare Politiche Sociali ha preso atto della risposta di Stefano Martone. Il direttore della casa circondariale si è detto soddisfatto dell'interesse espresso dai consiglieri del Comune di Salerno e componenti della commissione ma ha ricordato che il regolamento dell'istituto penitenziario non consente la visita dei detenuti nelle celle del carcere, una visita consentita solo ai parlamentari. Genova: Sappe; detenuto tenta il suicidio, da soli a fronteggiare drammi umani www.genovapost.com, 11 marzo 2015 "Ennesima tragedia sfiorata nell'istituto di Marassi, Un detenuto rumeno adoperando le lenzuola in dotazione, ha tentato il suicidio mediante impiccagione. Forse alla base del folle gesto dei problemi di natura psichiatrica. E questo è il secondo caso in una settimana": lo comunica il Sappe tramite una nota. "La Polizia Penitenziaria è sempre più sola a fronteggiare gli eventi critici che in Liguria sono in netto aumento oltre ad essere il primo e forse l'unico avamposto per arginare episodi che sono dei veri drammi umani, episodi ai quali gli agenti cercano di intervenire prontamente affinché venga salvaguardata la sicurezza e l'incolumità dei detenuti. Il carcere - commenta il Sappe - deve essere un luogo di detenzione e di redenzione, i soggetti non compatibili con la detenzione devono essere affidati a strutture convenzionate". "Ma non si può chiedere troppo alla Polizia Penitenziaria senza attuare una seria politica di attenzione per il sistema sicurezza - continua il segretario Lorenzo - oggi si vedono compressi i diritti del poliziotto e basta poco per essere sottoposti a procedimenti disciplinari. In Liguria non vengono più effettuati i corsi di formazione su materie tecniche ed attinenti alla sicurezza ed incolumità del sistema penitenziario, ma soprattutto del poliziotto che opera 24 ore al giorno e per 365 giorni all'anno in continua emergenza. Ora il detenuto al quale gli si è salvata la vita è ricoverato, sotto osservazione, nella struttura interna di Marassi". Fossano (Cn): detenuto condannato a quattro mesi per resistenza e lesioni agli agenti www.targatocn.it, 11 marzo 2015 Calci e sputi contro gli agenti che cercavano di calmarlo. Non voleva che lo trasferissero dal carcere di Cuneo a quello di Fossano, perciò quel giorno aveva perso la testa e aveva ferito lievemente due agenti della polizia penitenziaria. A.A., detenuto nordafricano è stato condannato dal tribunale a quattro mesi e 15 giorni di carcere per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Hanno spiegato gli agenti: "Aveva tirato fuori varie scuse per ritardare il trasferimento, prima mancavano le scarpe, poi non trovava dei documenti. Era piuttosto agitato, ci è venuto addosso e ha iniziato a sputare. Sferrava calci per cercare di colpire me e colleghi, lo abbiamo bloccato, poi lo abbiamo portato in infermeria perché lo visitassero". A.A. era un soggetto "un po' problematico: molto spesso quando si cercava di coinvolgerlo nel lavoro, andava in crisi. A volte diceva di voler commettere gesti insani, una volta si era procurato dei graffi. Non voleva saperne di andare nell'altro carcere, diceva che così non avrebbe potuto ricevere un assegno che stava aspettando". La difesa: "Il detenuto non ce l'aveva con gli agenti, ma non comprendendo il motivo del trasferimento ha pensato che l'unico modo per bloccarlo fosse dare in escandescenze". Pozzuoli (Na): detenute in passerella, sfilata di moda nel carcere femminile Giornale di Napoli, 11 marzo 2015 Il 26 marzo la seconda edizione della manifestazione Iniziati i corsi preparatori di portamento e "bon ton". Venti detenute in passerella con abiti firmati da stilisti d'eccezione. Dopo la positiva esperienza dello scorso anno, si ripete la sfilata di moda nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, con una seconda edizione che si annuncia ancora più spettacolare ed emozionante. L'evento, organizzato dalla P&P Academy, in collaborazione con l'assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Pozzuoli, si terrà nella struttura carceraria di via Pergolesi giovedì 26 alle ore 15. Le detenute, che si alterneranno in passerella con otto modelle dell'Accademia della Moda di Anna Paparone, sfileranno con gli abiti della collezione 2015 dello stilista campano di rilievo internazionale Gianni Molare Spazio anche allo stilista emergente Manuel Artist, che farà indossare alle detenute abiti realizzati in materiale Tnt (tessuto non tessuto), e alle allieve dell'istituto Ipia-Marconi di Giugliano presenti con un flash moda. Le detenute modelle, che si stanno preparando all'evento attraverso un corso di portamento e di "bon ton" all'interno dello stesso carcere, saranno truccate da professionisti del make-up e del parrucco. Ospiti della serata il cantante Felice Romano e lo showman Diego Sanchez. Saranno presenti, tra gli altri, la direttrice della casa circondariale Stella Scialpi, il sindaco Vincenzo Figliolia, l'assessora alle Politiche Sociali del Comune di Pozzuoli Teresa Stellato. La sfilata, che ha esclusivamente finalità sociali, si propone da un lato di offrire alle detenute un momento di svago e di aggregazione, e dall'altro di avvicinarle al mondo della moda. E dopo il primo del 26 marzo, le detenute sfileranno nuovamente il 4 giugno e infine il 28 giugno in occasione dell'evento "È moda" che si si svolgerà sul golfo di Pozzuoli. "Si può cambiare, di questo ne eravamo convinti ieri ed oggi ancora di più -ha commentato Teresa Stellato -pensiamo ad includere chi ha sbagliato lungo il proprio percorso. Per questo insieme a tanti altri progetti presenti all'interno del carcere abbiamo pensato a questo nuovo spiraglio, innovativo, come la moda che può creare tanti sbocchi, dal diventare indossatrice all'impegnarsi in lavori più artigianali come la sartoria". Il carcere femminile di Pozzuoli, infatti, è davvero un esempio per le tante iniziative che vengono messe in campo per favorire il recupero e il reintegro nella società delle donne attraverso corsi e laboratori, dalla cucina alla scrittura, al teatro per finire alla moda. Libri: "Cattivi", Torchio e la prigione dell'esistenza di Paolo Petroni Ansa, 11 marzo 2015 Romanzo forte, nitido, credibile in prima persona di ergastolano. Maurizio Torchio, "Cattivi" (Einaudi, pp. 184, 19 euro). Cattivi, ovvero pessimi soggetti e, assieme, dal latino, prigionieri, è in questa doppia veste, in questo rimando lo spazio dell'esplorazione di Maurizio Torchio, che raccontando la vita all'interno di un carcere, narrata da un ergastolano imprigionato per un rapimento e poi condannato per aver ucciso una guardia in prigione, non è esplicita denunzia della situazione del sistema penitenziario, non è cronaca e sociologia, ma appunto scavo nell'umanità di chi vive quella doppia condizione. Un libro forte, naturalmente, potente per il punto di vista e una sorta di oggettività della scrittura, sorvegliata, attenta, incisiva pur nel presentarsi molto soggettiva, essendo quella dell'io narrante che racconta, si racconta riuscendo sempre credibile nella sua situazione estrema, sospeso in una realtà senza tempo come può essere una cella d'isolamento, e riferisce, senza pentimenti o vere denunce, anche se di alcuni aspetti dei nostri carceri rivela impietosamente sadismi e meccanismi. Alla fine, ma alla fine, il romanzo è anche questo, ma come una conseguenza. La prigione, così vissuta, nello scorrere dei giorni senza veri accadimenti, diventa anche una sorta di seconda pelle, di protezione, di luogo che "mentre dormi, trattiene il fiato per ascoltare il tuo respiro". Ha ventisette anni, ventiquattro passati libero, sette mesi "nel fianco della montagna con la principessa del caffè". Tre mesi poi nuovamente fuori, quindi due anni e due mesi in cella d'isolamento, da cui viene fatto uscire cercando di fargli ricadere addosso un'accusa d'infamia. "Puoi aver fatto qualsiasi cosa, fuori.... le guardie ti puniscono davvero solo se hai toccato uno dei loro". Un romanzo che alle spalle ha uno studio e raccolta di documentazione, che riesce a sciogliere nell'intensità e varietà della narrazione, tra piccole curiosità e momenti di vita, tra fisicità e astrazione dei pensieri. Un romanzo avvincente nella sua apparente immobilità e nella sua intima avventurosità. L'unica cosa che conta, dentro, è avere il rispetto degli altri, che il protagonista si guadagna solo dopo aver ucciso un secondino. Piscio solo dopo che si è suicidato squarciandosi le vene a morsi, un giovane solo quando si taglia la gola per la vergogna di aver parlato nel sonno, rivelando cose compromettenti. I giochi e gli equilibri sono molto particolari: "picchiare il ragazzo ha fatto bene alle guardie e, in fondo, anche a noi. È una forma di rispetto: il ragazzo ha provocato, loro hanno reagito. Vuol dire che esistiamo. Comandante ha fatto massacrare il ragazzo non per cattiveria, e nemmeno per invidia". E Comandante è un po' l'altro protagonista, il direttore del carcere, anche lui essere umano con le sue debolezze, l'amore innanzitutto, e anche lui prigioniero di un ingranaggio. Perché alla fine, come è inevitabile, in questo ossessivo raccontare tutto, in questo analizzare i rapporti, tra rapitore e rapita, tra prigionieri e guardie e così via, si scopre che forse siamo sempre tutti un poco "cattivi", prigionieri in senso esistenziale e psicologico, immersi in una così grande "certezza" eppure in balia di uomini e avvenimenti: quel che ti è permesso oggi, che senti tuo, domani non lo è più. Droghe: Onu, è l'ora della svolta di Grazia Zuffa Il Manifesto, 11 marzo 2015 Nell'aprile 2016 si svolgerà a New York l'Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), ma già questa settimana, alla riunione annuale della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) cominceranno i preparativi. Per comprendere il contesto in cui si svolgerà Ungass 2016, bisogna risalire alla precedente Ungass del 1998. L'Assemblea Generale del 1998 segnò il culmine della retorica della "lotta alla droga": con lo slogan: a drug free world, we can do it e con la Dichiarazione Politica finale che fissava come obiettivi la "eliminazione della coca, del papavero da oppio e della cannabis entro il 2008". La Dichiarazione Politica diede la spinta ad una nuova escalation della war on drugs: si vedano i famigerati Plan Colombia e Plan Dignidad del Cile, che hanno causato la militarizzazione dei territori e lo sfollamento forzato di migliaia e migliaia di contadini dai campi avvelenati dalle fumigazioni. Inoltre, dalla fine degli anni novanta al 2006, esplode l'incarcerazione per reati di droga in Usa, la gran parte per semplice possesso. Nel 2009, alla Cnd che aveva il compito di valutare i risultati della strategia uscita da New York dieci anni prima, la Dichiarazione Politica, lungi dal prendere atto di aver fallito l'obiettivo di "eliminare le droghe", usò l'escamotage di rinnovarlo fino al 2019. Ancora nella stessa Dichiarazione, il termine "riduzione del danno" fu censurato e sostituito dall'ambiguo termine "servizi di supporto": tanto che sedici stati membri (per lo più europei, ma non solo) firmarono una dichiarazione a margine chiarendo che i "servizi di supporto" erano da tradursi in "misure di riduzione del danno". Questa semplice postilla segnava però un punto di svolta, decretando la fine dell'unanimismo. Dalla seconda decade del 2000, si assiste ad una forte accelerazione nella riforma della politica delle droghe. Il regime internazionale è contestato apertamente nei paesi che più ne sopportano il peso: tanto che nel 2012, la risoluzione finale della Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che raccoglie gli stati sia del Sud che del Nord America, nella riunione annuale di Cartagena, rilasciò una dichiarazione finale critica della war on drugs (vedi in questa rubrica Amira Armenta, 20/6/2012). E l'anno successivo la stessa Oas pubblicò un rapporto (Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025) che invitava a valutare opzioni alternative alla proibizione. Ancora più importante, forme alternative di regolamentazione delle droghe sono già in via di sperimentazione in varie parti del mondo. La Bolivia ha legalizzato l'uso tradizionale della foglia di coca, riconfermando l'adesione alle Convenzioni con questa importante riserva. Negli Usa, quattro stati hanno legalizzato la marijuana a scopo ricreativo: a questi, probabilmente si aggiungerà la California, il più importante fra gli stati, nei prossimi mesi. Ma il cambiamento è anche a livello di amministrazione, se è vero che Obama ha deciso di non far valere la competenza federale e ha lasciato autonomia alle sperimentazioni dei singoli stati. Ancora, nel dicembre 2013, il parlamento uruguayano ha approvato la legalizzazione della cannabis. In Europa, sulla base della decriminalizzazione del consumo personale nella gran parte dei paesi, si diffondono a macchia d'olio i Cannabis Social Club, dalla Spagna, al Belgio, alla Svizzera e altri. Dunque il cambiamento c'è già, il problema è come si ripercuoterà a livello internazionale. Sarà un dibattito vero, dove finalmente si confronteranno opzioni diverse di politica delle droghe? Oppure prevarrà il conservatorismo degli stati che neppure vogliono sentire le parole "cambiamento" e "confronto"? Siria: nel campo profughi di Zaatari, a quattro anni dall'inizio della guerra civile di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 11 marzo 2015 Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po' stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. "Voglio fare il soldato". Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà. Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d'acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi. Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Daràa, in Siria, l'11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all'ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d'affitto - l'80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle "host communities" - o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l'esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte. Gli ultimi arrivati - pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo - finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare ("il Paese ha già troppi disoccupati" spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro. "Io non voglio restare" assicura Muhammad, 34 anni, che s'è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. "Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra". Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. "Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie". Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante. Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall'organizzazione internazionale non governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall'altra quelli per le donne. Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. "In Siria avevano il bagno in casa, l'acqua corrente, la tv satellitare, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo" spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al campo. "Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l'acqua ai container. Ora costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna". Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrutture. Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le "abitazioni" messe a disposizione dall'Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull'Isis. Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattate perché "quando c'è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta", avverte la responsabile dell'oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l'ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L'ordine è non stare in giro troppo, da sola. "Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono" dice la preside di una delle sei scuole gestite dall'Unicef con i fondi dell'Unione europea. Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi, la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l'insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettenti. "Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato".Vuoi continuare? "Akeed…Tabàan, certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica. Ma l'università costa, ci sono pochissime borse di studio". Ti manca la Siria? "Là c'era il verde, qua è solo deserto". I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent'anni in tre, "in Siria ci andavamo, ma qui...". Si arrabattano a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d'oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall'entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all'aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d'affari da 10 milioni al mese. C'è pure la "boutique" di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, "ma fuori lo paghi 15". Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di Sòad che prende 7 dinari per taglio e meche. Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni. Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l'imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, "ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzano". Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittimi. Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. "Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria". Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? "No, sarebbe un tradimento. Lo amavo". Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. "Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui" sussurra. Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: "Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci". Perché non può? "Ha quasi 15 anni". Pakistan: revocata moratoria sulla pena di morte, da Natale eseguite già 24 condanne Aki, 11 marzo 2015 Il Pakistan avrebbe deciso la revoca totale della moratoria sulle condanne a morte in vigore da sette anni. Il Pakistan, scrive il sito web della Bbc, sta per riprendere le esecuzioni in tutti i casi di condanna previsti dal codice penale. Nei mesi scorsi il governo di Islamabad aveva deciso la revoca della moratoria sulle condanne a morte per reati di terrorismo dopo il sanguinoso attacco di dicembre alla scuola di Peshawar in cui sono rimaste uccise 150 persone, per la maggior parte bambini. Secondo funzionari citati dalla Bbc, ora tutti i detenuti che hanno esaurito i possibili ricorsi per una commutazione della pena rischiano che venga eseguita la condanna loro comminata. Oltre ottomila persone, si legge sul sito web della Bbc, sono rinchiuse nel braccio della morte di diverse prigioni del Pakistan. Dall'attacco dello scorso dicembre nel Paese sono state eseguite per impiccagione 24 condanne a morte, secondo dati ufficiali diffusi oggi dall'agenzia di stampa pakistana App. Il gruppo Justice Project Pakistan, tramite il direttore Sarah Belal, ha denunciato una decisione "irresponsabile" in un Paese in cui si assiste spesso a "processi ingiusti". Da Natale eseguite 24 condanne a morte Il Pakistan ha messo a morte per impiccagione da Natale, quando è stata sospesa la moratoria per la pena capitale riguardante gli atti di terrorismo, a domenica scorsa, 24 "criminali" mentre le forze dell'ordine hanno proceduto all'arresto di 25.896 persone. Lo riferisce oggi l'agenzia di stampa pachistana App. Questo mentre nelle ultime ore circolano sempre più insistenti voci ad Islamabad, attribuite a portavoce del ministero dell'Interno, secondo cui il governo pachistano ha deciso la revoca totale della moratoria sulle condanne a morte in vigore dal 2008. In un rapporto presentato al premier Nawaz Sharif si fa il punto sui risultati ottenuti da quando è entrato in funzione il Piano di azione nazionale (Pan) mirante negli auspici delle autorità pachistane a liberare il Paese dell'estremismo e del terrorismo. Le condanne a morte sono state eseguite nelle province di Punjab (14), Sindh (7), Khyber Pkhtunkhwa (1) e nel Kashmir amministrato dal Pakistan (2). Se la sospensione totale della moratoria fosse confermata, molti degli 8.000 detenuti attualmente nel ‘braccio della mortè di molte prigioni potrebbero essere messi a morte avendo esaurito negativamente i possibili ricorsi per una commutazione della pena. Russia: Consiglio per diritti umani; presunto killer di Nemtsov ha confessato sotto tortura Askanews, 11 marzo 2015 L'ex poliziotto ceceno che ha ammesso di aver partecipato all'omicidio dell'attivista dell'opposizione russa Boris Nemtsov "ha probabilmente confessato sotto tortura". Lo ha dichiarato un componente del Consiglio per i diritti umani presso il Cremlino. "Ci sono ragioni che ci inducono a credere che Zaur Dadayev abbia confessato sotto tortura", ha dichiarato Andrei Babushkin, che ha aggiunto di aver visto "numerose ferite" sul corpo del principale sospetto nell'omicidio durante una visita alla sua cella in carcere. Dadayev smentisce di aver confessato delitto Zaur Dadayev, uno dei cinque sospetti per l'omicidio di Boris Nemtsov, ha smentito di aver confessato il delitto: lo scrive il tabloid Moskovski Komsomolets riferendo di una visita, nel carcere Lefortovo di Mosca, a lui e ai suoi cugini Anzor e Shagid Gubashev (anche loro indagati) da parte della commissione pubblica di controllo dei diritti umani dei detenuti, di cui fa parte un giornalista del quotidiano. Anzor non ha parlato, mentre Shagid racconta che chi lo ha catturato lo ha picchiato e intimato di dichiararsi colpevole. Arabia Saudita: condannato a 10 anni di carcere fondatore di Ong per i diritti umani Aki, 11 marzo 2015 Un tribunale penale speciale di Riad, in Arabia Saudita, ha condannato a 10 anni di carcere il fondatore di un'Ong per i diritti umani, Mohammad al-Bajadi. Lo ha riferito in una nota il Centro per i Diritti Umani del Golfo, un'organizzazione che ha sede a Beirut e Copenaghen, precisando che il tribunale che ha emesso la sentenza ha giurisdizione su casi di "terrorismo". Bajadi è il fondatore dell'Associazione per i Diritti Politici e Civili (Acpra). "Il tribunale ha ordinato (ad al-Bajadi, ndr) di scontare cinque anni di prigione e la sospensione del resto della pena", si legge nel comunicato, nel quale è sottolineato che l'attivista è stato processato "senza preavviso né ha potuto consultarsi con i suoi avvocati". Bajadi è stato processato per vari reati, tra i quali l'aver acquistato libri vietati, organizzato una protesta con i familiari di alcuni detenuti e pubblicato materiale in grado di "compromettere l'ordine pubblico". Bahrain: gas lacrimogeni per sedare rivolta carceraria, feriti alcuni detenuti Nova, 11 marzo 2015 Le forze di sicurezza del Bahrein hanno fatto ricorso ai gas lacrimogeni per sedare i disordini scoppiati in una prigione durante le visite dei familiari, ferendo alcuni detenuti. Nader al-Salatna, presidente ad interim dell'Associazione per i diritti umani del Barhein, ha detto che i disordini nel carcere sono nati quando alcune guardie di sicurezza hanno attaccato i familiari che cercavano di visitare i loro parenti detenuti presso la struttura, che si trova a sud della capitale Manama. "Durante gli scontri tra i detenuti e le forze di polizia sono stati utilizzati proiettili di gomma e candelotti lacrimogeni", ha riferito Salatna. Brasile: nuova legge punisce il femminicidio come reato grave, in cella per 30 anni Corriere della Sera, 11 marzo 2015 Pene più severe in Brasile per il femminicidio: la presidente Dilma Rousseff ha firmato ieri una legge che inserisce questo reato nella lista dei "crimes hediondos" (reati odiosi, come lo stupro) punibili con condanne dai 12 ai 30 anni di carcere. La normativa, approvata la scorsa settimana dalla Camera dei deputati verde-oro e a dicembre dal Senato, stabilisce che la pena può aggravarsi ulteriormente se la donna vittima è incinta, ha meno di 14 anni, più di 60 anni o è disabile. Al momento della firma, la Rousseff ha osservato che nel Paese vengono assassinate in media 15 donne al giorno. Secondo il Centro Brasiliano di studi latinoamericani il Brasile è il settimo Paese al mondo per casi di femminicidio (dato 2012). Secondo uno studio dell'Istituto di ricerca economica applicata (Ipea), le donne più colpite in Brasile sarebbero quelle di colore(61%). Siria: 95 detenuti evadono da un carcere del gruppo Stato islamico nel nord del Paese Reuters, 11 marzo 2015 Circa 95 detenuti sono scappati da una prigione controllata dal gruppo Stato islamico nel nord della Siria. Tra i prigionieri scappati ci sono anche circa 30 miliziani curdi. L'evasione, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, è avvenuta nel carcere di al Bab, a trenta chilometri dal confine tra Siria e Turchia.