Giustizia: gli Stati generali del carcere dal 19 maggio, la svolta di Orlando di Errico Novi Il Garantista, 8 maggio 2015 "Mai più ci sarà l'uso improprio della galera per fenomeni come la droga". Il via a Bollate. Adesso c'è una data, ed è molto vicina: il 19 maggio saranno presentati gli Stati generali del carcere. O, come preferisce chiamarli il ministro della Giustizia Andrea Orlando, "dell'esecuzione della pena". Un evento annunciato da tempo. Che ora ha una collocazione certa: si parte tra dieci giorni dal penitenziario di Bollate. Lì il comitato scientifico presieduto da Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale della Sapienza, darà il via ai tavoli di lavoro, a cui parteciperanno innanzitutto i detenuti. Il guardasigilli dà l'annuncio in una giornata molto particolare, per chi lavora - e vive - nel sistema penitenziario. Ne parla a un convegno del Cnr, dopo aver fatto il punto della situazione alla cerimonia per il 198esimo anniversario della Polizia penitenziaria. Ed è in questa prima occasione che Orlando prefigura uno dei punti chiave che caratterizzeranno gli Stati generali. Ovvero l'idea di "ripensare l'esecuzione penale". E farlo, soprattutto, con un occhio attento agli errori commessi in passato nel perseguire alcuni reati. In particolare quelli connessi alla droga o alla disperata odissea dei migranti: "Il carcere è stato spesso utilizzato per dare risposte a fenomeni sociali come la tossicodipendenza o l'immigrazione, senza che ciò abbia prodotto un reale effetto sulla sicurezza dei cittadini, provocando invece un esponenziale aumento del numero dei detenuti e delle difficoltà di gestione", ammette il guardasigilli. "Credo di poter dire che l'inversione di questa tendenza politica ha una portata storica". Ecco, invertire la tendenza. Un concetto che per il ministro della Giustizia è già stato in gran parte tradotto in dati di fatto. E questo grazie alle "misure alternative", la cui fruizione "continua a crescere". Nello specifico: "Oggi i soggetti ammessi sono 32mila, erano 21mila ai tempi della sentenza Torreggiani". Un esito, secondo Orlando, prodotto dagli ultimi provvedimenti adottati in materia. Ed è questa specifica valutazione che ancora divide il ministro della Giustizia da chi, a cominciare dai radicali, è quotidianamente impegnato nella battaglia per un sistema penitenziario dignitoso, e attribuisce i meriti, piuttosto, alla sentenza della Consulta sulle droghe leggere. Eppure le parole che ieri Orlando ha pronunciato confermano un certo suo avvicinamento proprio alle posizioni del movimento di Pannella. Il riferimento all'uso improprio del carcere pare preludere a uno dei punti chiave degli Stati generali. Ovvero un ulteriore rafforzamento delle misure alternative per l'esecuzione della pena proprio per reati come quelli legati alla droga. Il prodotto dei "tavoli di lavoro" presieduti dal professor Giostra sarà tradotto nei decreti della delega per la riforma dell'ordinamento penitenziario. Una legge che per ora naviga sotto traccia, in Parlamento, ma che dopo gli Stati generali dovrà prendere forma. Nello stesso provvedimento, assicura poi Orlando, troverà posto anche l'assegnazione di maggiori risorse alla Polizia penitenziaria. Stanziamenti che il ministro e il capo del Dap, Santi Consolo, confermano al pari dell'assunzione di 376 allievi agenti entro la fine mese. Una notizia accolta dal Sindacato autonomo Sappe con comprensibile sollievo. Giustizia: cosa ci manca per assicurare tutti i diritti a chi sta in cella di Rita Bernardini (Segretaria di Radicali Italiani) Il Garantista, 8 maggio 2015 Dopo la sentenza Torreggiani, la Corte di Strasburgo ci ha chiesto di fare passi avanti. ecco cosa manca. Riportiamo il documento inviato dai Radicali italiani al Comitato dei ministri dei Consiglio d'Europa riguardo all'incompiuta attuazione da parte dello Stato italiano delle prescrizione imposte dalla Corte europea in seguito alla sentenza Torreggiani sul sovraffollamento delle carceri. Tali informazioni sono messe a disposizione in virtù dell'articolo 9 comma 2 del Regolamento del Comitato dei Ministri per la sorveglianza dell'esecuzione delle sentenze e dei termini di conciliazione amichevoli. Come noto con la sentenza resa dalla Corte europea dei Diritti dell'uomo nel caso Torreggiani, i giudici di Strasburgo, con la procedura della sentenza pilota, hanno accertato il carattere strutturale della violazione dell'articolo 3 della Convenzione da parte dello Stato Italiano a causa dello strutturale sovraffollamento carcerario e perciò hanno impartito una serie di raccomandazioni ed ordini che si possono sintetizzare così. Primo: adottare misure legislative volte a ridurre il sovraffollamento strutturale e perciò a rispettare il precetto di cui all'articolo 3 della Convenzione europea. Secondo: istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei a prevenire i trattamenti inumani e degradanti e ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, e ciò conformemente ai principi della Convenzione come stabiliti nella giurisprudenza della Corte. Codesto Comitato, chiamato a sorvegliare l'esecuzione delle sentenza della Corte Edu da parte degli Stati aderenti alla Cedu, nel corso del mese di maggio del 2014, decorso l'anno di tempo (dal momento in cui la sentenza è divenuta definitiva) concesso dalla Corte al fine di apprestare i rimedi voluti dai giudici di Strasburgo, ha preso atto degli interventi legislativi adottati dallo Stato Italiano per far fronte alle censure della Corte e ha rinviato di un ulteriore anno la propria valutazione definitiva, al fine di verificare l'effettività dei rimedi e più in generale l'impatto che la nuova normativa ha avuto per la risoluzione dei problemi accertati. Per il tramite delle presenti note, il Movimento Politico Radicali Italiani intende evidenziare quanto segue. Sovraffollamento e rispetto della Convenzione europea Lo Stato Italiano lo scorso anno ha presentato a Codesto Comitato una serie di provvedimenti legislativi, adottati o in via di adozione, finalizzati a ridurre il numero delle persone detenute. Sul punto v'è da evidenziare che se per un verso è vero che il numero complessivo della popolazione detenuta è diminuito nel corso dell'ultimo anno, per altro verso è altresì vero che il sovraffollamento carcerario persiste a tutt'oggi, attesa la capienza complessiva degli Istituti presenti sul territorio nazionale, come attestato dai dati forniti dal Ministero della Giustizia. In particolare si evidenzia come per ben 58 Istituti penitenziari si registri ad oggi ancora un sovraffollamento strutturale tra il 130% e il 200% rispetto alla capienza regolamentare degli Istituti. Il dato che precede, tra l'altro, evidenzia come sia a tutt'oggi l'intero sistema carcerario ad essere strutturalmente inadeguato a sostenere il numero della popolazione penitenziaria, residuando sacche di sovraffollamento complessivamente coinvolgenti migliaia di detenuti. I meriti? Sono della Consulta più che del governo Ad onore del vero occorre evidenziare come il più incisivo effetto, in termini di calo della popolazione penitenziaria, sia dovuto non all'azione di Governo e legislativa dello Stato Italiano, bensì alla dichiarazione di incostituzionalità dell'articolo 73 della legge 309 del 1990 (la cosiddetta legge Fini-Giovanardi) in materia di sostanze stupefacenti, da parte della Corte Costituzionale italiana. Difatti il sistema precedente, dichiarato incostituzionale, equiparava - quanto alle pene edittali relative al traffico e/o alla cessione - le droghe pesanti (per esempio eroina e cocaina) a quelle leggere (hashish e marijuana) assegnando per la cessione di tutte le sostanze stupefacenti le stesse pene edittali minime e massime che andavano dai 6 ai 20 anni di reclusione. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale numero 32 del 25.02.2014, le pene riguardanti i reati legati alle sostanze stupefacenti leggere sono passate a minimi e massimi edittali racchiusi fra i 2 e i 6 anni. Per effetto, poi, di altre decisioni della Suprema Corte di Cassazione che hanno imposto la rideterminazione della pena per le condanne relative alla cessione di sostanze stupefacenti leggere si è avuto, secondo i dati forniti dal Dap per il 2014, il più ingente calo della popolazione detenuta dall'emanazione dell'indulto del 2006: 8.913 detenuti in meno. V'è infine da evidenziare come al calo degli indici di sovraffollamento non corrisponda affatto il rispetto del precetto di cui all'articolo 3 della Cedu. La Corte Edu, quanto all'osservanza del precetto di cui all'articolo 3 Cedu, ha più volte evidenziato il necessario rispetto di un requisito minimo consistente nella disponibilità in cella, per la persona privata della libertà, di almeno 3 mq al netto dello spazio occupato dal mobilio (letti, tavolini, ecc.). La Corte ha chiarito che al di sotto di questo spazio minimo vitale v'è sempre la violazione dell'art. 3 Cedu, senza che vi sia la necessità di andare ad indagare altri parametri. La Corte ha però specificato che qualora lo spazio vitale garantito in detenzione sia superiore ai 3 mq - soprattutto per i casi in cui questo spazio sia comunque inferiore ai 7 mq individuati dal Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani e degradanti come superficie minima da garantire ad ogni persona ristretta - è necessario andare ad indagare altri fattori quali l'aria a disposizione, la luce, le condizioni igieniche della cella, le condizioni di igiene garantite al detenuto, ecc. Ebbene, nonostante le carceri italiane non garantiscano affatto condizioni igieniche sanitarie decenti e più in generale condizioni di vivibilità appena degne per un essere umano, lo Stato Italiano sul punto è stato totalmente inerte. La circostanza appare assai grave in considerazione del fatto che lo Stato Italiano pur con la popolazione attuale complessivamente detenuta, non può garantire e non garantisce affatto almeno 7 mq per detenuto, cosicché assumono un particolare rilievo gli altri parametri individuati dalla Corte Edu che vengono però semplicemente ignorati dallo Stato Italiano, con l'effetto di determinare la persistente strutturale violazione dell'articolo 3 Cedu attraverso l'esecuzione di pene e misure cautelari tecnicamente "illegali". Un riscontro di quanto sopra evidenziato lo si desume dai dati sui suicidi in carcere che, in percentuale alla popolazione detenuta sono addirittura aumentati, se è vero, com'è vero, che nel 2013 sono stati 49, 44 nel 2014 e 15 nei primi 4 mesi del 2015. Riportando questi dati in termini percentuali rispetto al numero complessivo della popolazione penitenziaria si ricava un aumento dei suicidi (in carcere il numero dei suicidi è, in proporzione, venti volte superiore ai suicidi di soggetti liberi): nel 2013, 49 suicidi su una presenza media di 65.070 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.328 detenuti; nel 2014, 44 suicidi su una presenza media di 57.029 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.296 detenuti; nel 2015, 15 suicidi nei primi 4 mesi (45 nell'anno se si mantiene il macabro trend) su una presenza media di 53.998 detenuti equivalgono ad 1 suicidio ogni 1.199 detenuti. Probabilmente se il Legislatore Italiano avesse seriamente dato seguito alla sentenza Torreggiani, oltreché al messaggio formale alle Camere indirizzato l'8 ottobre 2013, ai sensi dell'articolo 87 della Costituzione, dall'allora Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano, ad oggi la situazione sarebbe molto diversa. In ordine ai rimedi preventivi Lo Stato Italiano per far fronte alle censure sul punto della Corte Edu ha introdotto l'articolo 35 bis dell'ordinamento penitenziario, titolato "Reclamo giurisdizionale". La censura della Corte nasceva proprio dalla constatazione dell'assenza nell'ordinamento italiano di uno strumento che permettesse al detenuto di denunciare le condizioni inumane e degradanti vissute nell'attualità nel corso della detenzione. Occorre ricordare che lo Stato Italiano nell'ambito dell'istruttoria del caso Torreggiani, con memorie ad hoc, aveva garantito alla Corte l'esistenza nel sistema di un rimedio interno che, a giudizio dello Stato Italiano, permetteva già al detenuto di denunciare le condizioni inumane e degradanti vissute nell'attualità nel corso della detenzione. Tale rimedio era, secondo lo Stato Italiano, da individuarsi nell'articolo 35 dell'ordinamento penitenziario, titolato diritto al reclamo. La Corte, con la sentenza Torreggiani, non accettò la prospettazione del Governo sulla base della constatata ineffettività del rimedio, incapace di porre termine ad una detenzione in atto inumana e degradante, attesa la mancata esecuzione da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria degli ordini impartiti dall'Autorità Giudiziaria competente (magistrato di sorveglianza) ad esaminare il reclamo. Sennonché, occorre evidenziare la circostanza per la quale l'ineffettività del precedente rimedio dipendeva non già dalla volontà del Dap di non eseguire gli ordini impartiti dal magistrato di sorveglianza volti a far cessare la detenzione inumana e degradante, bensì dalla impossibilità, in fatto, atteso il sovraffollamento strutturale, di garantire una detenzione rispettosa del precetto di cui all'articolo 3 Cedu. In altri termini appare evidente come l'effettività del rimedio giurisdizionale dipende dalla possibilità materiale che il sistema penitenziario, amministrato dal Dap, ha di dare risposte positive rispetto all'ordine impartito dal magistrato". Per tutto quanto già evidenziato nel paragrafo che precede e relativo al persistente dato di sovraffollamento strutturale e alla strutturale incapacità del sistema penitenziario italiano di garantire l'esecuzione di pene e misure cautelari in carcere in linea con il dettato di cui all'articolo 3 Cedu, anche il rimedio introdotto con l'articolo 35 bis dell'ordinamento penitenziario, indipendentemente dal fatto che sia stato qualificato come rimedio giurisdizionale, si caratterizza a tutt'oggi per essere un rimedio incapace di garantire e prevenire trattamenti inumani e degradanti e perciò per essere un rimedio non effettivo. In ordine ai rimedi risarcitori Lo Stato Italiano per far fronte alle censure sul punto della Corte Edu ha introdotto l'articolo 35 ter dell'ordinamento penitenziario, titolato "Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Cedu". La censura della Corte nasceva proprio dalla constatazione dell'assenza nell'ordinamento italiano di uno strumento che permettesse al detenuto di essere risarcito per essere stato e/o essere sottoposto ad una detenzione in violazione dell'articolo 3 Cedu. Anche per tale strumento con la presente si denuncia la incontrovertibile ineffettività del rimedio, in particolar modo per i soggetti detenuti. Secondo il dettato dell'articolo 35 ter dell'Ordinamento Penitenziario, in estrema sintesi: a) la persona sottoposta nell'attualità alla detenzione dovrebbe attivare il rimedio davanti al magistrato di sorveglianza; b) la persona non più in stato di detenzione dovrebbe rivolgersi al Tribunale Civile. Indipendentemente dal merito del provvedimento legislativo - a forte sospetto di incostituzionalità nel momento in cui va a pre-determinare l'entità del risarcimento nella misura di 8 euro al giorno, per tutti ed indipendentemente da una valutazione da compiersi per ciascun caso - ciò che in questa sede va sottolineato è la totale disapplicazione dell'istituto da parte della quasi totalità dei magistrati di sorveglianza. Ad oggi, difatti, i dati forniti dall'Unione delle Camere Penali Italiane (l'organismo rappresentativo a livello nazionale degli avvocati penalisti italiani), elaborati sulla base dei dati localmente forniti dai Presidenti e dai Referenti delle Camere Penali territoriali dislocate su tutto il territorio nazionale, evidenziano il radicale fallimento del nuovo strumento. L'indagine elaborata dall'Ucpi sulle istanze depositate al 27 novembre 2014, è lapidaria: istanze iscritte 18.104, definite 7.351, pendenti 10.753. Delle definite ne sono state dichiarate inammissibili 6.395 (87%) ed accolte solo 87 (1,2%). Ciò in totale spregio delle chiare prescrizioni fornite dalla Corte Edu con la sentenza pilota Torreggiani, che aveva intimato allo Stato Italiano di apprestare rimedi risarcitori effettivi, rapidi ed efficaci. Perché il decreto sugli "8 euro" non viene applicato Quanto sopra, in particolar modo il clamoroso dato sulla inammissibilità dell'87% dei ricorsi, è maturato sulla base di un orientamento interpretativo sin da subito sposato dalla grande maggioranza dei magistrati di sorveglianza, che trova la sua origine in un pessimo drafting normativo. Vero è, in ogni caso, che tra più possibili interpretazioni della norma di cui al nuovo articolo 35 ter, la magistratura di sorveglianza, in modo compatto, ha scelto l'interpretazione meno garantista dei diritti dei detenuti e perciò meno in linea con quanto richiesto dalla Corte Edu. Sul punto sono state depositate due interrogazioni parlamentari, una dal Vice Presidente della Camera on. Roberto Giachetti, della maggioranza di Governo, ed un'altra dall'on. Saverio Romano, dell'opposizione. In entrambe le interrogazioni i parlamentari interroganti hanno chiesto al Governo di intervenire con una interpretazione autentica della norma, ma il Governo, rispondendo all'atto parlamentare dell'on. Romano, per mezzo del Vice Ministro della Giustizia Enrico Costa, si è riservato di farlo in seguito. In realtà dalla risposta del Governo si evince quale sia il maggior problema del nuovo istituto, problema espresso formalmente anche dal Conams (Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza) con una nota inviata al Ministro della Giustizia già nel Novembre 2014. Nella nota, i magistrati evidenziano di non essere affatto attrezzati per poter far fronte alle nuove competenze denunciando che "a causa delle incertezze e lacune del testo normativo, dei gravi contrasti giurisprudenziali, della complessità delle istruttorie e della assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli Uffici di sorveglianza preposti, è facile prevedere che sarà molto esiguo il numero dei casi decisi e risolti secondo gli standard prescritti dalla Giustizia europea in termini di effettività, rapidità ed efficacia dei rimedi accordati". Sono parole pesantissime poiché provengono dagli stessi soggetti chiamati nell'ordinamento Italiano ad assicurare gli standard pretesi dalla Corte Edu con la sentenza pilota Torreggiani. Conclusioni Alla luce di tutto quanto sopra, pertanto, appare evidente come lo sforzo compiuto dallo Stato Italiano per far fronte ai richiami della Corte Edu, e compendiatosi nei provvedimenti legislativi presentati dal Governo lo scorso anno anche a Codesto Comitato - deputato a sorvegliare sulla corretta esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo da parte degli Stati contraenti - sia risultato ad un anno di distanza del tutto inadeguato, incapace di garantire preventivamente il rispetto dell'articolo 3 Cedu, oltreché di garantire un adeguato, effettivo e rapido ristoro dei danni patiti dalle decine di migliaia di detenuti che ingiustamente sono stati sottoposti a pene, misure e trattamenti inumani e degradanti. Tanto si mette a disposizione di Codesto Comitato per le determinazioni che lo stesso vorrà assumere in relazione alle proprie competenze istituzionali. *Documento preparato in collaborazione con Giuseppe Rossodivita, segretario del Comitato radicale per la Giustizia "Piero Calamandrei" Giustizia: "il carcere va abolito"… una proposta estrema ma ragionevole non siamo scemi di Chiara Rizzo Tempi, 8 maggio 2015 Intervista a Luigi Manconi (Pd), che insieme ad altri autori ha scritto un pamphlet per proporre l'eliminazione quasi totale della detenzione: "Funzionano di più le sanzioni economiche". Nel 1998, 5.772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso nuovi reati. Si tratta esattamente del 68,45 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998": questi dati, forniti dall'amministrazione penitenziaria, sono alla base della tesi avanzata da un pamphlet appena pubblicato, Abolire il carcere (ed. Chiarelettere). Autori del libro sono tutti professionisti che conoscono bene la realtà del carcere, come il senatore Luigi Manconi (Pd), fondatore dell'associazione A Buon diritto. Senatore Manconi, il libro inizia con un'interessante citazione di cronaca rosa: "È stata Belén a esprimere le considerazioni più pertinenti a proposito della condanna a tredici anni di carcere di Fabrizio Corona. La donna, a quanto si sa, non viene da severi studi giuridici ma è evidentemente dotata di buon senso". Perché scrivete così? "Perché Belén, in un'intervista al settimanale Oggi del 2014, ha spiegato come mai il suo ex fidanzato Fabrizio Corona fosse finito nei guai: "Lui ha un problema, ha fatto degli errori, ma in realtà l'unico problema che ha sono i soldi. Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta. Lui è in galera perché ha una malattia per i soldi". Le parole di Belén dimostrano che in modo tortuoso, implicito e contraddittorio, la nostra ragionevole proposta corrisponde con il buon senso, che non è il senso comune. L'esistenza della prigione sarebbe un dogma saggio perché scontato, non razionale, frutto di una valutazione in termini di costi e benefici. Una persona, invece, si chiami Belén Rodriguez o Luigi Manconi, se è informata e messa nelle condizioni di riflettere lucidamente, può giungere alle stesse conclusioni". Cioè che il carcere vada abolito? "L'esempio di Belén è significativo perché lei parlava di una persona che conosce "in carne e ossa": è un aspetto importante perché si dovrebbero conoscere in carne e ossa i colpevoli, quando si parla di pene e di carcere. Belén, che si basa sul buon senso e sulla diretta conoscenza, spiega che Corona ne ha fatte di tutti i colori solo perché è affetto da una sorta di patologia, una plutopatologia, la chiamerei io. Se allora si volesse ragionare razionalmente tra la violazione della norma e la pena da scontare, si capirebbe che bisognerebbe sottoporre Fabrizio Corona a sanzioni che lo tocchino nel portafogli, per colpirlo veramente. Al carcere è preferibile una sanzione, magari estremamente elevata, che lo costringa a lavorare di più anche nel futuro. In questo piccolo episodio di cronaca mondana e cronaca nera c'è una lezione interessante". La storia del carcere, scrivete, come modalità punitiva è "relativamente recente". Prima si usavano le multe, la legge del taglione, la condanna a morte. "La legge del taglione è a suo modo garantista". Come garantista? "Garantista. Quando si dice occhio per occhio, cosa si intende? Solo un occhio per ogni occhio che è stato tolto. È cioè una legge limitativa della pena: fino alla legge del taglione, se qualcuno cavava un occhio, veniva ucciso. La legge del taglione ha introdotto un principio alla base del diritto penale moderno, la proporzionalità della pena. Comunque sicuramente il carcere costituì un fattore di umanizzazione e ha sostituito la pena di morte. Fu un passo avanti, ma per questo abbiamo in mano una carta in più nel nostro ragionamento a favore dell'abolizione del carcere. Si tratta di un progresso, ma come tale è superabile. All'epoca di Beccaria il carcere venne considerato adeguato, ora ha fatto il suo tempo". Sostenete che persino un boss come Bernardo Provenzano, come segnalato dai medici dell'Ospedale San Paolo di Milano, è oggi incompatibile con il carcere. Ma il carcere duro a vita almeno nei casi di chi ha commesso e commissionato decine di omicidi non è necessario? "Penso di dover dare due risposte molto distinte. La prima risposta è che il carcere duro è un concetto privo di senso. Il 41 bis e il carcere di alta sicurezza non sono due regimi che dovrebbero esprimere l'asprezza della pena o la massima afflizione del condannato. Hanno un solo scopo: impedire e interrompere le relazioni tra il reo carcerato e l'organizzazione criminale. Tutte le privazioni discendono da questo unico scopo. Non è che il nostro ordinamento prevede da una parte un carcere che fa male "5" e un altro, quello duro, che fa male "50", cioè di più". E la seconda risposta? "Riguarda il caso specifico di Provenzano. Ritengo che Provenzano non debba uscire dal regime di 41 bis, ma dal carcere. Infatti il nostro regime prevede una compatibilità tra il carcere e le condizioni di salute. Provenzano è stato giudicato da tre procure diverse come impossibilitato persino a partecipare ad un'udienza, perché incapace di intendere e di volere. E il nostro ordinamento prevede che chi è incapace di intendere e di volere non può stare in carcere. Una delle implicazioni dell'incapacità di intendere è l'essere incapace di nuocere consapevolmente all'altro: quindi non potrebbe più fare attività criminale". Al di là del caso specifico, volete abolire il carcere anche per i mafiosi? "No. Ma secondo l'amministrazione penitenziaria, la percentuale di detenuti socialmente pericolosi è tra l'8 e il 10 per cento. Parliamo al massimo di 5.500 persone su circa 55 mila persone oggi detenute. Ci accontenteremmo di liberare dal carcere gli altri 49.500 detenuti. Siamo consapevoli di avanzare una proposta molto radicale, ma non siamo mica scemi: non stiamo dicendo di liberare Riina, ma di partire dal "detenuto massa". Chi è? "Nella massa, il 25-30 per cento dei detenuti sono o tossicomani o persone legate al mercato della droga: il tossicomane ovviamente dovrebbe stare ovunque eccetto che in carcere. Per circa 12 mila persone le misure dovrebbero essere allora le comunità di recupero o i domiciliari. Per le persone legate ai piccoli e medi traffici di droga, un'altra decina di migliaia di persone, il sistema sanzionatorio è abnorme e prevede pene eccessivamente alte, che potrebbero essere ridotte. Sempre nella "massa" c'è un'altra grossa fetta di persone detenute, tra il 20 e il 30 per cento, che sta in carcere per un illecito amministrativo. Si tratta ad esempio di persone arrestate perché clandestine, quelle per intenderci che arrivano sui barconi e non hanno i documenti. Oppure, dato che non hanno i documenti, commettono piccoli furti. Anche per queste persone si può prevedere una depenalizzazione. Il punto è che il carcere oggi è un'agenzia di stratificazione sociale". Cioè? "È un sistema che accoglie e riproduce le diseguaglianze economiche. Il carcere ha assunto il ruolo di "surrogato", svolgendo le funzioni di cura o di assistenza che il welfare oggi non svolge o svolge male. Così in carcere cresce il numero di coloro che sono alcolisti, malati di mente, senza fissa dimora o colpiti dalla crisi. È in modo assai considerevole la "prigione dei poveri". È su quest'aspetto che col nostro libro chiediamo di intervenire". Volete anche depenalizzare la maggior parte dei 35 mila reati previsti dal codice penale. Pensate che queste proposte potranno mai diventare legge? "Rispondo con un numero. In Francia finisce in carcere il 24 per cento dei condannati. Gli altri sono sottoposti solo a sanzioni. Non stiamo quindi parlando di una proposta utopica. Serve una volontà politica e devo ammettere che ultimamente si è cautamente manifestata. Il ministro Andrea Orlando ha una volontà riformatrice solida. Esattamente una settimana fa si è impegnato a eliminare il problema dei bambini in carcere sotto i 3 anni. È un passo avanti: ora lo aspettiamo al varco". Giustizia: custodia cautelare, oggi in vigore le novità, meno frequente il ricorso al carcere di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2015 Entrano in vigore oggi le nuove norme sulla custodia cautelare della legge 47/2015, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 94 del 23 aprile scorso. Pur non essendo una vera e propria riforma - ma un intervento sul libro IV del codice di procedura penale oltre a un lieve ritocco alla legge penitenziaria 354 del 1975 - l'impatto sulla gestione della detenzione preventiva sarà verosimilmente importante. Soprattutto nella fase di adozione delle misure, dove il giudice da oggi dovrà valutare autonomamente - senza più poter riprodurre pedissequamente le richieste del pm - il pericolo di fuga, che non potrà più essere apprezzato solo sulla sola base della gravità del reato per cui si procede. Se questo è il tema portante della revisione - tanto da fare ingresso anche nelle inchieste sulla criminalità mafiosa, dove non c'è più l'automatismo del carcere - non meno importante è il tema della "lieve entità del fatto" - un'armonizzazione con il decreto legislativo sulla improcedibilità delle condotte poco lesive - che fa venir meno anche la misura attenuata dei domiciliari. Più difficile il ricorso al carcere diventa anche nelle ipotesi in cui si sospetta che un indagato possa commettere gravi delitti "con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata": qui il pericolo dovrà essere non più solo "concreto" ma anche "attuale", e il giudice dovrà adeguatamente motivare la sua prognosi. La regola di giudizio per la detenzione preventiva è fissata dal comma 3 del nuovo articolo 275 del codice: "La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate". Debutta inoltre una disciplina più rigida sulla durata e sulla decadenza delle misure interdittive, che spirano dopo due mesi e possono essere rinnovate solo per effettive esigenze probatorie. Se impugnate al Riesame, le ordinanze perdono efficacia anche solo per violazione dei termini tassativi di trasmissione degli atti (5 giorni) da parte dell'autorità procedente. L'eventuale rinnovazione, in questi casi, diventa molto difficile perché fondata solo su "eccezionali esigenze cautelari". Termini perentori, inoltre, per il deposito della motivazione del Riesame: 30 giorni ordinari per l'arrivo in cancelleria, massimo 45 se il numero degli imputati o la gravità dei reati può giustificare il ritardo. Quanto alla legge penitenziaria, l'intervento consente da oggi la visita non solo al capezzale dei congiunti strettissimi in pericolo imminente di vita, ma anche il diritto alla visita al domicilio del figlio, coniuge o convivente "affetto da handicap in situazione di gravità". Giustizia: Massime Cassazione; stranieri e riconoscimento della protezione internazionale Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2015 Ordine pubblico - Stranieri - Obbligo di informare lo straniero circa le procedure da seguire per ottenere il riconoscimento della protezione internazionale - Sussistenza - Fondamento - Violazione - Conseguenze. Qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire loro informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l'accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, altresì, il giudice statuire sulla dedotta illegittimità del primo cagionata da siffatta omessa informazione. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 25 marzo 2015 n. 5926 Stranieri - Diniego di riconoscimento di protezione internazionale - Appello - Forma - Atto di citazione - Verifica della tempestività del gravame - Modalità. L'appello, proposto ex articolo 702 quater cod. proc. civ., avverso la decisione del tribunale di rigetto della domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale, deve essere introdotto con citazione e non con ricorso, sicché la tempestività del gravame va verificata calcolandone il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell'atto introduttivo alla parte appellata. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, sentenza 15 dicembre 2014 n. 26326 Stranieri - Accertamento del diritto ad ottenere protezione internazionale - Lacune probatorie del racconto del richiedente asilo - Rilevanza - Valutazione del giudice - Necessità. In tema di protezione internazionale, ai sensi dell'articolo 3, comma 5, del d.lgs. 17 novembre 2007, n. 251, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell'onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 10 luglio 2014 n. 15782 Stranieri - Immigrazione - Espulsione dello straniero - Proroga del trattenimento in pendenza di domanda di protezione internazionale - Competenza del tribunale e non del giudice di pace - Sussistenza. In tema di immigrazione, spetta al tribunale, in composizione monocratica, e non al giudice di pace, la competenza a provvedere sulla convalida della proroga del trattenimento quando il cittadino straniero abbia presentato domanda di protezione internazionale e sia già sottoposto a trattenimento in forza di una decisione dell'autorità amministrativa, adottata e convalidata prima del deposito della suddetta richiesta. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 13 giugno 2014 n. 13536 Ordine e sicurezza pubblica - Stranieri - Protezione internazionale - Pronuncia di inammissibilità del ricorso ex articolo 702 bis cod. proc. civ. per tardività - Mezzi di impugnazione - Ricorso per cassazione - Ammissibilità - Esclusione - Appello - Configurabilità - Ragioni. La pronuncia del tribunale che dichiara inammissibile, in quanto tardivamente proposto, il ricorso ex articolo 702 bis cod. proc. civ. avverso il rigetto della domanda di protezione internazionale non è impugnabile per cassazione, ma è appellabile ai sensi dell'articolo 702 quater cod. proc. civ. in quanto tale norma ammette l'appello avverso le ordinanze emesse ai sensi dell'articolo 702 ter, sesto comma, cod. proc. civ. che, a sua volta, si riferisce all'ordinanza di cui al quinto comma dello stesso articolo, pronunciata in tutti i casi in cui il giudice "non provvede ai sensi dei commi precedenti" e, dunque, contenente la regola generale nella quale rientra anche la statuizione d'inammissibilità per tardività della domanda. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, sentenza 27 marzo 2014 n. 7258 Stranieri - Espulsione - Possibilità di tortura e trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine - Domanda di protezione internazionale - Fondatezza - Condanna per reato - Cause ostative - Insussistenza. In tema di protezione internazionale, l'espulsione coatta dello straniero costituisce violazione dell'articolo 3 Cedu, relativo al divieto di tortura, ogni qualvolta egli, a causa del pericolo di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti che lo minaccino, non possa restare nello stesso e debba, pertanto, indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare. Ne consegue che sono irrilevanti sia la gravità del reato al quale lo straniero sia stato condannato, sia la circostanza che egli non voglia rivelare il luogo della sua dimora in pendenza del procedimento, non potendo il riconoscimento della protezione internazionale fondarsi sul rispetto di un presunto vincolo fiduciario con lo Stato, né esistendo alcun obbligo di collaborazione o reciprocità a carico del richiedente asilo. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 20 settembre 2013 n. 21667. Giustizia: non è "abuso" se il pubblico ufficiale agisce al di fuori delle proprie funzioni di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2015 Escluso l'abuso d'ufficio per l'assistente amministrativo delle scuole superiori che consente la partecipazione all'esame di idoneità a uno studente che non aveva i titoli per sostenerlo. L'abuso non c'è quando l'incaricato del pubblico servizio o il pubblico ufficiale agiscono al di fuori dell'esercizio delle proprie funzioni anche se il loro svolgimento è stata l'occasione per mettere in atto la condotta censurata. Decidono così i giudici della sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 19105/15, depositata ieri. La vicenda riguarda l'assistente amministrativo presso un liceo scientifico che aveva consentito la partecipazione del nipote agli esami di idoneità per la classe terza nonostante il candidato non fosse in possesso del titolo di promozione per quella precedente. L'uomo aveva istruito la pratica occultando la verità al dirigente scolastico, al responsabile dei servizi amministrativi e alla stessa commissione d'esame. Per i giudici della Cassazione non si può parlare di reato di abuso d'ufficio: la partecipazione agli esami di idoneità in mancanza dei requisiti resta cosa del tutto estranea ai compiti e alle attribuzioni dell'imputato, in quanto riferibile all'esclusiva sfera di competenza del dirigente scolastico. Quindi non c'è nessuna "efficacia causale" tra la condotta messa in atto dall'assistente amministrativo e la partecipazione illecita dello studente. La Cassazione aggiunge, inoltre, che il conseguimento dell'idoneità dipende invece esclusivamente dalla valutazione della commissione esaminatrice. Giustizia: il Csm rassicura "l'autoriforma sarà un successo" di Vincenzo Vitale Il Garantista, 8 maggio 2015 La notizia è che il Consiglio Superiore della magistratura sta provando a varare una nuova regolamentazione per le elezioni, capace di arginare lo strapotere delle correnti, soprattutto in tema di assegnazione di incarichi direttivi. Per questo il vicepresidente Legnini ha fatto intendere al ministro della giustizia Orlando che ci penserà lui ad intervenire in modo autonomo, senza che occorra una legge apposita, come invece sarebbe intenzione del governo fare. Seppure ieri lo stesso Legnini abbia tentato di rassicurare il guardasigilli, e abbia precisato che l'autoriforma del Csm non costituisce un atto conflittuale nei confronti del governo. Mai proposito fu più pernicioso, in realtà, per il semplice motivo che sarebbe come raccomandare la pecora al lupo. Infatti, credere che il Consiglio Superiore sia davvero in grado di autoriformarsi, varando una seria modifica interna tale da arginare il potere delle correnti è pura illusione. Equivarrebbe ad un suicidio che quell'organo non porrà mai in essere, per alcune ragioni che non è difficile individuare. La prima è che solo conformandosi al potere delle correnti della magistratura, alle loro opposizioni ed alle loro concordanze, alle loro alleanze ed alle loro scissioni, il Consiglio riesce a proporsi come lo specchio di tale realtà che insieme lo costituisce e lo trascende: il Consiglio viene visto e vissuto dai magistrati quale luogo di coagulo di quelle realtà nei loro rapporti reciproci ed altrimenti sarebbe impensabile. La seconda ragione è che solo lasciandosi governare dalle logiche correntizie di schietto sapore politico il Consiglio potrà essere in grado di mantenere ed amplificare la soggettività politica che ormai da anni esso di fatto assume e difende. È sotto gli occhi di tutti infatti che il Consiglio Superiore in modo sempre più netto tende ad assumere un ruolo politicamente espansivo, intervenendo di fatto sul governo o sul Parlamento, tutte le volte in cui si tratti di introdurre modifiche anche di piccolo cabotaggio in tutti i settori più delicati della vita sociale: carceri, processo civile o penale, fallimenti, carriere dei magistrati, codice penale, criminalità organizzata, immigrazione e via dicendo. Insomma, il Consiglio ormai da anni partecipa direttamente o indirettamente all'attività del potere esecutivo e di quello legislativo ed è perciò chiaro che mai vorrà abdicare a tale ruolo che conferisce ai magistrati destinati ad applicare le leggi anche il potere di partecipare a confezionarle. Tutto ciò è dovuto all'esistenza delle correnti che duplicano in seno al Consiglio le dinamiche politiche dei partiti, tradotte in altro modo e con due aggravanti. La prima aggravante sta nel considerare come mentre le contrapposizioni dei partiti avvengono di solito alla luce del sole, nel senso che fanno parte viva delle dinamiche politiche quotidiane, sia nel bene che nel male, invece la lotta politica fra le correnti avviene di solito in modo occulto, sotterraneo, senza che l'opinione pubblica possa esserne informata in modo esauriente e completo: eppure, essa è determinante, perché spesso individuare chi debba occupare la poltrona di Procuratore della Repubblica o di Presidente del Tribunale di un certo ufficio delicato o delicatissimo deriva proprio dall'esito di quella lotta. La seconda aggravante invece sta nel fatto che mentre gli esponenti politici debbono sottoporsi periodicamente a quella seccatura delle elezioni, al contrario le correnti della magistratura stanno sempre lì, perché al loro interno i mutamenti sono minimi e rispondono a logiche di spartizione non elettorale, ma di forza. Insomma, i politici debbono farsi esaminare dall'opinione pubblica, i magistrati se ne possono infischiare e questa non è differenza da poco. Se dunque si crede che il Consiglio sia in grado, lasciato a se stesso, di autoorganizzarsi in modo da arginare il potere delle correnti, si vive sulla luna senza avvedersene. Badi perciò il ministro Orlando a non fidarsi di chi non è affidabile, preparando invece un disegno di legge che tuttavia è da scommettere sarà insufficiente. E lo sarà perché, appena se ne parlerà, subito il Consiglio interverrà pesantemente cercando di sovrapporsi sia al ministro che al Parlamento. È facile profezia perciò immaginare che Orlando avrà vita assai difficile in proposito. Ma almeno cerchi di non defilarsi. Giustizia: addio ai vitalizi per i condannati, trovato un compromesso sulla riabilitazione di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 8 maggio 2015 Sembrava un miraggio, una chimera inafferrabile. Invece, dopo mesi di accelerazioni e frenate e un forte scontro sottotraccia fra i partiti e dentro i partiti, il Parlamento ha battuto un colpo contro privilegi che i cittadini giudicano odiosi. Con una delibera votata dai rispettivi uffici di presidenza, Camera e Senato hanno abolito i vitalizi ai parlamentari cessati dall'incarico e condannati in via definitiva per reati "di particolare gravità". Per i Cinque Stelle è un compromesso al ribasso: "Questa porcata se la votano da soli", ha gridato Luigi di Maio abbandonando l'ufficio di presidenza. La ghigliottina scatta per delitti gravi come associazione a delinquere, mafia e terrorismo e per i reati contro la pubblica amministrazione: concussione, corruzione, peculato. Una clausola si riferisce a tutte le condanne definitive superiori a due anni, per i reati la cui pena massima non sia inferiore a sei anni e che, nella legge Severino, rendono un politico incandidabile. Un punto contestato delle nuove norme è l'esclusione dell'abuso d'ufficio e della corruzione per atto d'ufficio, reati che prevedono da sei mesi a tre anni di pena e nei quali spesso incappa chi riveste una funzione pubblica. La cessazione del vitalizio si applica anche a chi ha patteggiato. "Ma solo in caso di sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore della deliberazione", ha chiarito Laura Boldrini. La riunione a Montecitorio è filata via liscia. Forza Italia e M5S sono usciti al momento del voto, Area popolare non ha partecipato. Pd, Scelta civica, Sel, Fratelli d'Italia e Lega hanno votato sì. La decisione di tagliare gli assegni a chi ha tradito l'impegno costituzionale alla disciplina e all'onore ha coinvolto anche parte delle opposizioni. E Laura Boldrini esprime "grande soddisfazione per il segnale inequivocabile di moralizzazione della politica". A Palazzo Madama il via libera è arrivato dopo un braccio di ferro di ore: 8 sì, due no (Gal e M5S) e un astenuto. In Aula, al mattino, l'intervento di Ugo Sposetti scatena l'ira dei Cinque Stelle. Il senatore del Pd sprona i colleghi a non "lisciare il pelo all'antipolitica". Per Sposetti non si cambiano le regole a metà legislatura e non si tocca il "diritto alla sopravvivenza" di chi ha fatto, nella vita, soltanto il politico. "Poveretto!" urla Santangelo. E Barbara Lezzi: "Un'indecenza…". In ufficio di presidenza il numero legale si è raggiunto per un soffio. Mancava una senatrice del Pd, il centrista de Poli (Ap) era presente ma non votante e Barani di Gal, prima di votare no, ha ironizzato sulla scelta: "Un inedito assoluto". Berger (Svp) si è astenuto, il che al Senato equivale al no. Laura Bottici dei Cinque Stelle, dopo aver provato a sabotare la delibera, ha votato contro. Alla fine, anche Pietro Grasso scolpisce su Twitter la sua contentezza: "Senato approva delibera #stopvitalizi: segnale forte, significativo e concreto dalle Istituzioni ai cittadini". Per i grillini è "una farsa", Don Ciotti invece ha chiamato Grasso per complimentarsi. Ma le tensioni non si allentano, prova ne sia la dichiarazione con cui i senatori del Pd si affidano al presidente del Senato "per quanto concerne la costituzionalità e la legittimità del provvedimento". Un modo per prendere distanza da eventuali ricorsi. Lo stop scatterà fra 60 giorni, tempo che consentirà agli uffici di compiere la ricognizione sui nomi. Berlusconi, Dell'Utri, Previti, Forlani, Toni Negri. L'elenco è lungo, ma per sapere chi verrà depennato dall'elenco dei pensionati d'oro bisogna vedere se siano stati riabilitati o meno. E qui sta il punto. Poiché molti costituzionalisti avevano espresso dubbi sulla possibilità di bloccare retroattivamente diritti acquisiti, si è individuata la riabilitazione del condannato come l'unico elemento che toglie la retroattività. Se un ex parlamentare privato del vitalizio viene riabilitato dal giudice dopo aver scontato la pena, può riavere l'assegno. Con buona pace del M5S, che aveva chiesto a Grasso di escludere la riabilitazione come causa di ripristino della pensione. Giustizia: lo stop dei vitalizi ai parlamentari condannati? è soltanto un'altra farsa di Carlo Tecce Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2015 Il compromesso sui vitalizi, osannato dal Partito democratico, fa erroneamente pensare che la pensione ai parlamentari condannati sia abolita per sempre. Non è così. Non vale per tutti, forse vale per pochi. Ma è un risultato insperato, una vittoria seppur parziale, per Laura Boldrini e Pietro Grasso. Soddisfatta l'associazione Libera; non il Movimento Cinque Stelle, che ritiene il provvedimento troppo fiacco e non Forza Italia, che preferiva non toccare la materia. Gli uffici di presidenza di Camera e Senato adottano una delibera che elimina il vitalizio per i pregiudicati per i reati di mafia e terrorismo, contro la pubblica amministrazione con pene superiori ai 2 anni e per i delitti non colposi che prevedono una reclusione di almeno 6 anni. È incluso il patteggiamento, ma non in maniera retroattiva. Questo è quel che resta di un testo più volte dibattuto e poi ammorbidito. Il dissenso dei Cinque Stelle si concentra su quel che manca e quel che s'è aggiunto di fretta. Va considerata con attenzione, appunto, l'esclusione dell'abuso d'ufficio (tipico fra i politici) e la riabilitazione che il condannato può richiedere al Tribunale di Sorveglianza e ottenere tre anni dopo l'estinzione della pena (10 per i reati più gravi). Un caso che s'addice a Silvio Berlusconi. L'ex Cavaliere ha ricevuto in Cassazione 4 anni di reclusione (3 indultati) per frode fiscale, fra un paio di mesi, appena la nuova norma sarà in vigore, gli sarà revocato il vitalizio. Ma nel 2018 ne potrebbe usufruire ancora. E i riabilitati fra i protagonisti di Tangentopoli, fanno notare i Cinque Stelle, rappresentano una folta schiera. Il giovedì che ha plasmato il compromesso sui vitalizio è iniziato con un irrituale intervento a palazzo Madama di Ugo Sposetti, senatore dem nonché ex tesoriere Ds. Sposetti ha chiesto il permesso e s'è esercitato sul tema non previsto all'ordine del giorno: "In altre occasioni ho parlato del mio dissenso da decisioni parlamentari spinte dall'antipolitica e dal populismo imperante grazie a organi di informazione pubblici e, comunque, in vita con risorse pubbliche. Riconfermo questa mattina che lisciare il pelo all'antipolitica non è un mestiere che ho mai amato e che non amo e spero di non amare mai. Non ho mai svolto questa professione. Ritengo che i membri del Consiglio di Presidenza si trovino di fronte ad un diritto inalienabile, un diritto acquisito, un diritto che matura con il versamento dei contributi del lavoratore e dell'azienda, un diritto alla sopravvivenza. Per chi ha fatto solo quel lavoro, scatta un diritto alla sopravvivenza". Di solito preciso con i numeri, li adopera con maestria da gestore del patrimonio comunista, Sposetti dimentica che soltanto col governo di Mario Monti - anno 2011 - il vitalizio è calibrato sui contribuiti versati, prima valeva il sistema retributivo. Lucio Malan di Forza Italia concede a Sposetti un applauso, il sermone rianima a distanza Fabrizio Cicchitto e fa infuriare i Cinque Stelle: "Indecente". L'agglomerato centrista, reduci Ncd e reclute Udc, è in perfetta sintonia con il senatore dem e con i forzisti. Le ragioni di Sposetti vengono esposte che è mattina e c'è ancora tempo per litigare. I Cinque Stelle provano a emendare le delibere pronte a ricevere un sigillo unanime a sinistra (Sel e Pd), esteso a Lega Nord e Fratelli d'Italia: il tentativo fallisce, e allora disertano la Camera e bocciano al Senato. I democratici, che si dissociano da Sposetti per bocca del capogruppo Luigi Zanda, accolgono entusiasti la delibera e ne fanno un proprio titolo di merito perché, argomentano, il Movimento s'è defilato nel momento topico. I Cinque Stelle, furibondi, precisano che non accettano delibere annacquate. Laura Bottici, questore al Senato, sostiene che Grasso e Boldrini hanno aderito al compromesso del partito di Renzi: "Per undici mesi, sono stata l'unica a sostenere il presidente Grasso nel richiedere una vera abolizione e l'approvazione di una delibera, contrastata in questo anche dalla maggioranza predominata dal Pd. Poi la scorsa settimana dopo mesi di battaglie, i presidenti di Senato e Camera hanno giocato al ribasso con il partito di Renzi, partorendo una proposta farsa con molte falle". Cioè un compromesso. Giustizia: a furia di dare Daspo a tutti vieteranno la democrazia di Francesco Petrelli (Segretario dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 8 maggio 2015 Cosa c'entrano gli ultra con la nostra libertà? A volte sfasciano i sedili dello stadio, mettono a repentaglio l'integrità fisica di pacifici tifosi, devastano le aree urbane intorno agli stadi, impegnando a dismisura, ogni domenica e connessi giorni feriali, le forze dell'ordine. Ma non è questo il punto. Dopo gli ultimi fatti di violenza devastatrice dei black bloc, esplosi a Milano a late-re dell'inaugurazione di Expo 2015, si è nuovamente pensato di operare una astuta equiparazione: black bloc uguali a ultras scatenati, con conseguente applicazione delle norme sui tifosi più agitati: divieto di accedere alle "manifestazioni" (Daspo), arresto in flagranza in differita (entro le 48 ore), fino al divieto preventivo di sfilare nel centro della città, proprio come accade per gli eventi sportivi che possono essere preventivamente vietati - come dice il Ministro Alfano - per motivi di sicurezza. A nessuno piace vedere le città devastate, le autovetture in fiamme o la propria filiale di banca fatta a pezzi, neppure da chi ha in cuore di salvare il mondo dalla barbarie dell'Expo, ma il punto è un altro. È necessario seriamente riflettere su di un troppo semplicistico spostamento degli strumenti, messi a disposizione dall'arsenale delle nuove leggi, a fenomeni che appaiono piuttosto diversi. Una manifestazione di cittadini dissenzienti è equiparabile ad una partita di calcio? I diritti politici dei cittadini sono eguali ai diritti di una tifoseria? Quali sono i limiti della sicurezza pubblica con cui bilanciare i diritti politici dei cittadini? Sono gli stessi di una partita in trasferta? Impedire una manifestazione ad un movimento politico è come chiudere una curva? Queste domande potrebbero sembrare oziose, se non fosse che questa deriva "governamentale" con la quale si immagina di poter dominare e risolvere ogni fenomeno criminale (o di disagio o di opposizione politica e sociale) finisce con il dilagare silenziosamente in ogni campo della politica, della giustizia e dell'economia, erodendo progressivamente gli spazi delle nostre libertà fondamentali, le quali inevitabilmente coincidono con gli spazi di altrettante attività umane, politiche ed economiche. Di fronte a questo nuovo fenomeno, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipicamente amministrativi nel contrasto di nuove e pericolose forme di illecito, occorre chiedersi se questi strumenti, non adeguatamente corredati delle necessarie garanzie ed assegnate a singoli soggetti istituzionali sottratti ad ogni reale controllo democratico, e come tali sostanzialmente irresponsabili, non finiscano con il farci pagare nel tempo un costo troppo alto non solo in termini di libertà personali, ma anche di quelle libertà politiche ed economiche che costituiscono il fondamento della nostra stessa democrazia e che trovano nella nostra carta costituzionale la loro radice e la loro tutela. Giustizia: il pentito Vito Galatolo:"007 nelle carceri per parlare con i boss detenuti" di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2015 Il collaboratore di giustizia in aula svela i dettagli del piano per assassinare il pm di Palermo Nino Di Matteo. "Lo chiese Messina Denaro: capimmo che eravamo coperti, che c'era elementi esterni a Cosa nostra". Il boss di Castelvetrano chiese la vita del magistrato in una lettera. Esponenti dei servizi segreti visitavano continuamente i penitenziari per entrare in contatto con i boss mafiosi detenuti in regime di 41 bis. Lo ha raccontato Vito Galatolo, il picciotto dell'Acquasanta che dal novembre scorso ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia. Per la prima volta, il pentito ha infatti deposto al processo sulla Trattativa Stato mafia, collegato in video conferenza con il bunker del carcere Ucciardone di Palermo: in aula ad ascoltare la deposizione c'era il pm Nino Di Matteo (nella foto), il magistrato che, secondo lo stesso Galatolo, Cosa Nostra ha deciso di assassinare nel dicembre del 2012. Il picciotto dell'Acquasanta, però, non ha raccontato solo i dettagli del piano di morte per Di Matteo. "Quando ero detenuto nel carcere di Parma - ha spiegato Galatolo - altri mafiosi detenuti mi raccontavano di continue visite di 007: queste confidenze mi vennero fatte da Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano ed Enzo Aiello, mentre uno che con i servizi ci parlava spesso era Nino Cinà". Il nome di Cristoforo "Fifetto" Cannella è uno di quelli contenuti nel cosiddetto Protocollo Farfalla, ovvero l'elenco di boss mafiosi detenuti che secondo l'intelligence erano pronti a diventare confidenti in cambio di somme di denaro. "Il catanese Aiello - ha proseguito il pentito - invece mi ha raccontato che i Servizi gli offrirono soldi per scagionare Raffaele Lombardo", e cioè l'ex governatore della Sicilia condannato in primo grado a sei anni e otto mesi per concorso esterno a Cosa Nostra il 19 febbraio 2014. Galatolo ha cominciato la sua deposizione davanti alla corte d'Assise di Palermo raccontando i particolari dell'attentato studiato da Cosa Nostra per assassinare Di Matteo: un'esecuzione ordinata da una lettera di Matteo Messina Denaro (che i padrini chiamano tra loro come "il fratellone"), arrivata al boss di San Lorenzo Girolamo Biondino, che nel dicembre del 2012 informa il gotha mafioso di Palermo della richiesta della primula rossa Castelvetrano. "Per l'attentato servivano cinquecentomila euro che Messina Denaro non poteva fornire: io contribuì con 360mila euro, mentre il boss di Palermo centro Alessandro D'Ambrogio e Girolamo Biondino con 70 mila euro a testa: il tritolo arrivava dai calabresi, erano duecento chili, ma cento erano danneggiati dalla salsedine e vennero rispediti indietro". Secondo Galatolo a volere quell'esecuzione non sarebbe stato solo Messina Denaro. "Quando siamo venuti a sapere che l'artificiere da utilizzare nell'attentato al pm Di Matteo non era di Cosa Nostra, ma era esterno, a quel punto abbiamo capito che dietro al piano c'erano soggetti estranei alla mafia, apparati dello Stato, e che eravamo coperti, come nelle stragi del 1992". In prima battuta i boss pensano di assassinare il magistrato piazzando un furgone davanti al Palazzo di giustizia, idea poi abbandonata perché non riuscirono a trovare i locali da utilizzare come appoggio logistico nei dintorni del tribunale. "A quel punto - ha proseguito il pentito - abbiamo contattato Salvatore Cucuzza (e cioè un collaboratore di giustizia che gestiva un ristorante a Roma, oggi deceduto ndr): lui doveva contattare Di Matteo, invitarlo al suo ristorante, dirgli che aveva rivelazioni sulla Trattativa. Noi saremmo stati lì per assassinarlo con i kalashnikov". Anche quel piano B però non andrà in porto. Il motivo? "Tra il novembre del 2013 e il gennaio del 2014 arrestarono me, Alessandro D'Ambrogio, Girolamo Biondino e Vincenzo Graziano: l'ordine però non è mai stato ritirato" ha chiarito il collaboratore. Galatolo appartiene ad una famiglia molto importante nella storia di Cosa Nostra: da fondo Pipitone, la loro residenza nel cuore dell'Acquasanta, sono partiti i commando di morte per Pio La Torre, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed è per questo che ad un certo punto Galatolo riavvolge indietro il nastro del racconto. "A fondo Pipitone c'era un via vai di uomini delle istituzioni: veniva l'ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che secondo mio padre era a libro paga dei Madonia. Veniva Bruno Contrada, ed anche un uomo con i capelli biondicci, con una faccia deturpata, che all'epoca a noi bambini faceva molta paura". Quell'uomo sarebbe Faccia da mostro, l'uomo degli apparati con il tesserino dei servizi in tasca che avrebbe affiancato i killer di Cosa Nostra nelle stragi più delicate degli anni 80 e 90. Da diversi mesi le procure di Catania, Reggio Calabria, Palermo e Caltanissetta sono convinti di aver rintracciato la vera identità di Faccia da mostro: si tratta di Giovanni Aiello, ex poliziotto in pensione con il volto deturpato da un colpo di fucile. Lettere: il compleanno di Pannella dimenticato dai media di Valter Vecellio Il Garantista, 8 maggio 2015 È stata una bella festa, quella del 2 maggio alla sede di via di Torre Argentina 76 a Roma, per festeggiare il compleanno di Marco Pannella; e a ben vedere, è lui che ha fatto il regalo a noi, che siamo andati a fargli gli auguri; c'erano tante persone, militanti e tanti vecchi compagni che non si vedevano da tempo; e tante persone che a Marco vogliono bene, per quello che ha saputo fare, e per quello che è. In quelle tre-quattro ore di festa, Marco ha parlato: a televisioni, a giornalisti, a tutti noi; e ha detto cose non di rito, non formali; commosso, combattivo come sempre, capace di evocare e di dare corpo e sostanza a "visioni" che sa rendere fascinose; "sexy", direbbe qualcuno. Il "ragazzo" Pannella, che pure di cose fatte e vissute le potrebbe raccontare tante, e tante per tanti sconosciute, a chi gli chiede la cosa più bella che ha fatto nella sua vita, risponde che è quella che fa da sempre, e continua a fare: "La battaglia per il diritto alla vita, per la vita del diritto". Ci ricorda che gli auguri migliori che gli si possono fare sono quelli di sottoscrivere quella polizza assicurativa che è la tessera radicale, che può sembrare costosa, ma non lo è, visto che è l'equivalente di un caffè al giorno; e non c'è nessuno, se davvero lo vuole, che non possa rinunciare a un caffè: c'è chi lo ha preso in parola, gli dà fiducia, e sale sull'autobus radicale: Furio Colombo, Corradino Mineo, Gigi D'Alessio, e interrogarsi su come e perché tre persone così diverse, e diversamente prestigiose, con i loro percorsi e il loro "fare" non rinnegato (tutt'altro!) sono giunti a quel punto d'approdo; che è, beninteso, un approdo d'un attimo, che già sono in navigazione, con altri, verso altri lidi, orizzonti. Non ha vuole fare bilanci, Pannella: preferisce parlare delle battaglie di oggi e domani, quelle per il diritto umano alla conoscenza da incardinare in sede Onu; per la giustizia e il diritto, e lancia un appello a tutta la comunità penitenziaria, perché non si ceda allo sconforto, perché siano e diano speranza corpo, letterale e letteralmente. Si rivolge poi direttamente al Papa venuto da quasi la fine del mondo: "Ha indetto l'Anno Santo della misericordia. Un po' poco. A chi si rivolge? Ai misericordiosi? Quelli già lo sono. A chi non lo è? Meglio sarebbe se si adottasse lo spes contra spem: l'essere, l'incarnare speranza, invece che avere speranza. A papa Francesco vada un grosso abbraccio per tutto quello che è e tenta di essere, proprio da questa nostra sede radicale, che essendo antisimoniaca, cioè anticlericale grosso modo perché di questo si tratta, costituisce la testimonianza che da 3-4 decenni abbiamo vissuto ispirandoci appunto ai grandi testi sacri delle religioni". Ecco: Pannella non vuole fare bilanci, ma qualche riconoscimento tuttavia glielo si poteva tributare, in luogo degli scarni trafiletti che sono stati pubblicati; e anche qualche riflessione: magari sul fatto che gli anni che ci siamo lasciati alle spalle non sono solo gli anni del terrorismo rosso e nero, delle varie tangentopoli, della (s)partitocrazia… Sono anche gli anni di grandi riforme che riguardano i diritti civili (che sono anche sociali), dell'evoluzione del costume, del modo più libero e meno oppressivo di concepire la vita e i rapporti con il prossimo; gli anni delle grandi conquiste di rispetto reciproco. Molte di quelle riforme e di quelle conquiste portano il timbro di Pannella. Soprattutto qualche riflessione la si poteva spendere (e ancora lo si può fare, volendolo fare), su quello che Pannella dice rivolto a papa Francesco. Tanti, potrebbero dire qualcosa di utile, opportuno; perfino necessario: i Vito Mancuso, gli Alberto Melloni, i Sandro Magister, i Marco Politi, gli Andrea Riccardi, per fare qualche esempio e qualche nome. Per ora, niente. Ed è un silenzio, come s'usa dire, eloquente, eloquentissimo. Sardegna: Sdr; 561 i detenuti in Alta Sicurezza tra Tempio-Nuchis e Oristano-Massama Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2015 "Il numero dei detenuti in Sardegna è in costante aumento. Non solo. Un terzo del totale delle persone private della libertà - 561 su 1.879 - è in regime di alta sicurezza, senza contare l'ormai prossima apertura del padiglione di Sassari-Bancali dove saranno reclusi 92 cittadini in 41 bis. Una situazione che preoccupa per i numeri e per la tipologia dei cittadini dietro le sbarre richiedendo un maggiore impegno nel recupero e nella riabilitazione". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria relativi al mese di aprile. "Non può lasciare indifferenti - sottolinea - il conclamato sovraffollamento di Tempio-Nuchis dove, a fronte di 167 posti regolamentari, sono presenti 205 detenuti. Né è meno preoccupante la situazione di Oristano-Massama in cui si trovano 256 ristretti per 266 posti. La situazione è al limite anche a Sassari-Bancali con 337 ristretti per 363 posti e Cagliari-Uta in cui ci sono 518 per 567 posti effettivi (659 quelli regolamentari considerando il padiglione del 41 bis non ancora terminato). "I dati del Dap (2.668 posti regolamentari), che comprendono le Colonie Penali sottodimensionate, con 283 detenuti per 753 posti, non evidenziano - viene fatto osservare dalla presidente di Sdr - il fatto che nelle quattro nuove strutture, costruite con celle con due posti letto, è stato introdotta la 3 e, in alcuni casi, anche la quarta branda. Continuando così molto presto si raggiungerà la saturazione di tutti gli spazi rendendo del tutto vana l'edificazione dei nuovi Istituti Penitenziari finalizzati a rendere meno opprimente la permanenza all'interno delle carceri e a promuovere attività trattamentali per il reinserimento sociale dei detenuti". "Il quadro complessivo mostra anche un leggero sovraffollamento a Lanusei (33 posti con 37 detenuti). La situazione è invece stabile a Bad'e Carros (169 per 271) e ottimale ad Alghero (74 presenti per 156). A destare perplessità è anche il numero degli Agenti di Polizia Penitenziaria rispetto ai detenuti. Sono infatti complessivamente circa 1.800, insufficienti per far fronte adeguatamente alle necessità dentro gli Istituti, soprattutto laddove diventano indispensabili le scorte e i piantonamenti. La realtà è capovolta nelle Colonie dove invece gli Agenti sono sufficienti. Le piante organiche dovrebbero quindi essere aggiornate e il Dap dovrebbe indire un nuovo interpello per consentire il ritorno in Sardegna ai Berretti Azzurri che lo desiderano". "Il sistema detentivo nell'isola continua a presentare aspetti problematici, nonostante la buona volontà degli operatori, e grava in modo pesante sulla Magistratura di Sorveglianza che deve far fronte a una serie di incombenze burocratiche derivanti dalle più recenti disposizioni di legge. Il risultato è che spesso la liberazione anticipata viene concessa con notevoli ritardi e ciò - conclude Caligaris - incide negativamente sull'azione risocializzante e sul recupero trattamentale". Padova: detenuto morì in cella, secondo la procura il caso è da archiviare di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 8 maggio 2015 "Errori innegabili dei medici, ma non hanno inciso sul decesso del paziente". Innegabili gli errori di 5 medici in servizio nel carcere Due Palazzi, secondo la procura di Padova. Ma, comunque, tali errori non hanno condizionato la perforazione dell'intestino destinata a innescare una setticemia mortale. Ecco perché il pm Francesco Tonon, titolare dell'inchiesta, ha sollecitato l'archiviazione del procedimento penale avviato a carico dei sanitari per la morte di Francesco Amoruso, originario di Crotone, detenuto nel carcere di Padova, ucciso a 45 anni da una peritonite stercoracea, una perforazione di un tratto dell'intestino con infiammazione del peritoneo, dovuta alla fuoriuscita di feci e batteri. L'uomo - che stava scontando una condanna per rapina, omicidio e reati legati allo spaccio di droga, fine pena il 15 luglio 2023 - aveva cominciato a stare male il 6 marzo 2014: cinque visite nell'arco di 24 ore e dolori sempre più forti curati con Buscopan, un antidolorifico. Troppo tardi. Ricovero il 7 marzo, poi la morte l'indomani. "Non sono emersi elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio nei confronti dei sanitari della casa di reclusione che hanno avuto in cura il paziente..." si legge nella richiesta di archiviazione trasmessa all'ufficio gip, richiamando le conclusioni dei due consulenti tecnici della procura, il dottor Matteo Corradin di Bologna e il professor Massimo Montisci di Padova. Entrambi gli specialisti hanno escluso che gli errori - sia diagnostici (non è stato approfondito il quadro clinico) sia per quanto riguarda l'evoluzione della patologia (non sono stati ordinati esami) - abbiano inciso nella perforazione che ha scatenato l'infezione dovuta a un'ulcerazione dell'intestino in seguito a costipazione cronica. Perforazione che sarebbe avvenuta nelle 24 ore successive al primo sanguinamento. E se Amoruso fosse stato subito trasferito in ospedale? La colonscopia non sarebbe stata eseguita che tra le 12 e le 48 ore successive perché, prima che la situazione precipitasse, c'era un quadro clinico non di emergenza. Alessandria: il professor Davide Petrini è il Garante comunale dei diritti dei detenuti www.alessandrianews.it, 8 maggio 2015 Davide Petrini è stato scelto come Garante dei Diritti delle Persone private della libertà personale al fine di tutelarne i diritti e presterà servizio gratuitamente. Il Consiglio Comunale ha istituito, con un'apposita delibera, la figura del Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale al fine di tutelarne i diritti. A seguito di un bando pubblico di selezione pubblico è stato nominato il professor Davide Petrini. Il garante dovrà promuovere l'esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e l'accesso ai servizi presenti sul territorio per le persone ristrette negli istituti penitenziari del Comune di Alessandria, collaborando con la Direzione nel rappresentare all'esterno le esigenze dell'istituto e nel sostenere iniziative di miglioramento della condizione della detenzione. Tra i suoi compiti anche la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva e di iniziative volte a facilitare ai soggetti in carcere o limitati nell'area della libertà personale la garanzia di prestazioni inerenti il diritto alla salute, all'affettività, alla libertà religiosa, alla qualità della vita, all'istruzione scolastica, alla formazione professionale e al lavoro, nell'ottica del principio del reinserimento sociale. Il garante rimarrà in carica per tutta la durata del mandato del sindaco e presterà incarico gratuito, senza percepire alcuna indennità. "Presentiamo oggi una novità per il nostro territorio. Il Comune si è adeguato ad un percorso partito qualche anno fa, a livello nazionale istituendo al suo interno la figura del garante dei detenuti - ha spiegato l'assessore alle politiche sociali Mauro Cattaneo - Abbiamo aderito con entusiasmo alla proposta fatta dal garante regionale, Bruno Mellano, e ci siamo subito attivati con il percorso amministrativo necessario. La figura di Davide Petrini riassume in sé tutte le caratteristiche che il garante deve avere, con una lunga esperienze di volontariato ed insegnamento all'interno del carcere. La nostra Città ha una rete di associazioni di volontariato che ruotano attorno al carcere che lavorano, talora, in modo frammentario e non sono valorizzate come dovrebbero. Certamente la figura del garante sarà un ottimo collante per queste attività". Nel complesso sono detenuti nelle carceri alessandrine circa 500 detenuti a cui si devono aggiungere un centinaio di persone assistite dagli uffici Uepe". Il professor Davide Petrini è docente di Diritto Penale alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogardro e supplente del corso di Diritto Penale del lavoro alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino dall'anno accademico 1998-1999. Ha prestato attività di docenza nel Master Universitario di II livello per Giuristi di impresa dell'Università di Torino; docente nel Master Universitario di I livello in Criminologia e politica criminale internazionale dell'Università di Torino; in alcuni moduli di insegnamento in Diritto penale presso la Scuola per le professioni legali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino e del Piemonte Orientale, dall'anno 2001-2002. Pisa: "una colonia di ratti che vive dentro al carcere", la denuncia del Sindacato Sappe La Nazione, 8 maggio 2015 Ratti nel carcere di Pisa. Lo denuncia Alessio Vetri, segretario provinciale dell'Osapp-Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. "Ci viene segnalata dai colleghi tutti la seria preoccupazione per le condizioni igienico sanitarie dell'Istituto. In modo particolare la crescente colonia di ratti che invade l'intera area del carcere; gli stessi sono stati avvistati nei cortili passeggi ed in prossimità delle postazioni dei colleghi addetti alla vigilanza esterna, oltre che nell'area immediatamente esterna all'istituto, che soggiace in un completo stato di abbandono con accumulo di materiale di risulta di lavori fatti tempo addietro; dopo due missive inviate al Direttore dell'Istituto prima e successivamente al Provveditore della Regione Toscana ed ai vertici sanitari della struttura pisana, la risposta è stata "che svariati interventi di derattizzazione sono stati effettuati e che la presenza dei ratti è endemica in tutte le città dove vivono principalmente all'interno di anfratti e fognature nel sottosuolo, per cui si può ipotizzare che i ratti provengono dall'esterno e trovando condizioni favorevoli all'interno dell'istituto, vi diventino stanziali; attualmente non è possibile ipotizzare soluzioni realmente efficaci a meno di immaginare radicali interventi all'impianto fognario Continua inoltre Vetri: "Chiediamo interventi con carattere di urgenza che devono divenire sistematici, eliminando quelle situazioni che sicuramente alimentano il decadimento sanitario sopra descritto: ci riferiamo ad un opera di recupero dell'Istituto e dell'area esterna adiacente l'istituto (aree che giacciono in un completo stato di abbandono che di certo non giova all'opera di derattizzazione". Sanremo: Sappe; detenuto lancia secchiate d'acqua ad un poliziotto penitenziario www.sanremonews.it, 8 maggio 2015 "Ma il disappunto - interviene il segretario regionale del Sappe il maggiore sindacato di categoria - è rivolto verso l'assenza di determinazioni da parte dei vertici dell'Amministrazione e della Direzione, che assiste impassibile allo scempio in quell'istituto". "Ne abbiamo viste e subite di tutti i colori, ma essere destinatari anche delle secchiate d'acqua significa che non c'è più rispetto né per lo Stato né per la Polizia Penitenziaria del carcere di Sanremo". Esterna disapprovazione in questo modo la segreteria provinciale di Sanremo nel prendere atto dell'ennesima beffa a danno di chi è preposto alla tutela dello Stato e delle istituzioni, e che, in tal senso opera, in un ambiente estremo come quello penitenziario. "Ma il disappunto - interviene il segretario regionale del Sappe il maggiore sindacato di categoria - è rivolto verso l'assenza di determinazioni da parte dei vertici dell'Amministrazione e della Direzione, che assiste impassibile allo scempio in quell'istituto". La notizia vede coinvolto un poliziotto penitenziario intervenuto per cercare di comprendere le ragioni per cui un detenuto, ristretto in una sezione detentiva "particolare", era visibilmente agitato. Il compito del poliziotto è anche quello di intervenire per salvaguardare l'incolumità ed evitare gesti inconsulti, ma, di tutta risposta, il detenuto, forse infastidito per l'intervento del poliziotto, ha reagito lanciandogli un secchiata d'acqua. "Lascia attoniti ancora una volta - termina il Sappe - la scarsa azione punitiva messa in atto dalla Direzione. Una strategia adottata che non appaga per le sorti della sicurezza dell'istituto. Ciò è sinonimo di legittimazione di un gesto molto offensivo per l'uomo in divisa, che rappresenta lo Stato e che è incaricato al mantenimento dell'ordine e della disciplina interna. In tal senso, appare auspicabile un'ispezione del Ministero in quell'istituto". Torino: con "Voltapagina" del Salone del Libro, autori in quattro carceri del Piemonte www.atnews.it, 8 maggio 2015 Torna Voltapagina, l'iniziativa del Salone Internazionale del Libro nata nel 2007 per portare i grandi autori della narrativa italiana nelle carceri, durante i giorni della festa del libro torinese. Un progetto di impegno sociale, alla sua nona edizione, cresciuto negli anni per apprezzamento e partecipazione di scrittori, penitenziari e pubblico esterno, organizzato in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia. Anche quest'anno saranno quattro gli istituti penali piemontesi coinvolti: la Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo (Via Regione Bronda, 19/bis); la Casa Circondariale Quarto Inferiore di Asti (Strada Quarto Inferiore, 266), la Casa di Reclusione San Michele di Alessandria (Strada Casale, 50/A) e Istituto Penale per i Minorenni Ferrante Aporti di Torino (Via Berruti e Ferrero, 3). Sono sei gli autori che incontreranno i detenuti e il pubblico esterno: Antonio Moresco (carcere di Alessandria), Mauro Corona (Torino), Franco Di Mare (Asti), la scrittrice danese Helle Helle (Torino), Roberto Saviano e l'educatore Paolo Belotti (Saluzzo). Nelle settimane che precedono gli incontri, i detenuti che hanno volontariamente scelto di partecipare a Voltapagina vengono guidati alla lettura e all'approfondimento dei libri da un gruppo di assistenti sociali, educatori e volontari dei penitenziari. Il momento dell'incontro con l'autore sarà così occasione di discussione e dialogo sui temi trattati nell'opera e sull'esperienza della scrittura. Voltapagina è aperto anche al pubblico esterno, che dovrà presentarsi munito di documento d'identità. Verona: "Madri, comunque", Serena Marchi presenta il suo libro nel carcere femminile L'Arena, 8 maggio 2015 Domenica 10 maggio, giornata in cui si festeggerà la festa della mamma in tutta Italia, il libro "Madri, comunque" con l'autrice veronese Serena Marchi e alcune delle protagoniste del testo, accompagnate da Alessia Rotta, responsabile della comunicazione del Partito Democratico, entrerà nell'ala femminile della casa circondariale di Verona. L'iniziativa, condivisa con entusiasmo con la direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli e da Margherita Forestan, garante dei detenuti, è stata fortemente voluta dalla deputata veronese e dall'autrice che presenteranno le trenta storie di maternità alle detenute e al personale femminile della struttura. "Il mio libro raccoglie testimonianze di vita vera", spiega Serena Marchi, "e poterlo presentare a delle donne che si ritrovano rinchiuse in una casa circondariale per me è un ulteriore tassello del mio progetto: la vita umana non è perfetta, non è solo momenti idilliaci e cose belle. Ci sono anche dolore, sacrificio, a volte errori e disperazione che non vengono raccontati con facilità perché non è bene, perché fa paura, perché è scomodo. Nel mio testo racconto storie di madri, comunque, anche se non rientrano nei canoni imposti dalla società. In carcere", conclude Marchi, "incontreremo donne, comunque, anche se hanno commesso reati. Ma non per questo devono rimanere isolate e fuori dalla società. Passare un paio di ore con loro a parlare di madri, di donne, di vita, credo possa essere un'esperienza utile sia a loro sia a me e alle protagoniste del mio libro che mi accompagneranno". "Penso che il ruolo di recupero sociale del carcere debba essere un affare di tutte e tutti", ha commentato Alessia Rotta. "In questo modo le idee circolano come i libri e la società ritrova la sua connettività. Chi è in carcere è stata figlia o madre o nonna, come me, come Serena, come le protagoniste del libro". Teramo: "Dolcezze recluse", le detenute preparano i biscotti per la Festa della mamma Il Centro, 8 maggio 2015 Protagoniste di "Dolcezze recluse", il progetto organizzato dall'associazione "Bon Ton", saranno le mamme detenute nel carcere di Castrogno, che questo pomeriggio prepareranno dolci e biscotti da regalare ai propri figli per la festa della mamma. L'iniziativa, che ha ricevuto il patrocinio del Comune di Teramo, vedrà coinvolta in prima linea anche l'assessore al sociale Valeria Misticoni, che aiuterà nella realizzazione di alcuni biscotti in pasta frolla Anna Di Paolantonio, presidente dell'associazione "Bon Ton". "Durante l'incontro culinario le "dolcezze recluse" prepareranno dei loro dolci particolari. Li faranno con le attrezzature che usano in cella. Ad esempio montano la panna con la bottiglia di plastica. Preparerò dei biscotti insieme a loro per poi omaggiare i bambini, nel giorno della festa della mamma", ha spiegato Di Paolantonio. "È una bellissima iniziativa, a cui abbiamo aderito, organizzata in occasione della festa della mamma per portare un po' di quotidianità e di normalità alle donne che sono all'interno del carcere", ha aggiunto l'assessore. "Abbiamo creato questo spazio dedicato a loro perché vogliamo che si presti attenzione alla situazione delle donne recluse. Per le mamme sarà un'occasione per parlare delle proprie problematiche e per far vedere quel che riescono a realizzare con i pochi strumenti che hanno a disposizione", ha concluso Elisabetta Santolamazza, dirigente del carcere di Castrogno, affiancata dalla sociologa Gabriella Sacchetti. Libri: donne e recluse, uno sguardo sulla differenza di Stefano Anastasia La Nuova Sardegna, 8 maggio 2015 Lo studio di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa Carcere, una realtà a rischio autolesionismo. Autolesionismo e suicidio in carcere, detenzione femminile, modalità e senso della pena detentiva. Il lavoro che qui si presenta ha tre fuochi, tra loro intimamente correlati. Nasce come una ricerca sulla prevenzione dell'autolesionismo e del suicidio in carcere, per un modello di intervento preventivo, di contenimento della sofferenza e di promozione della salute; si sviluppa come un'analisi qualitativa del vissuto della detenzione femminile; restituisce un'immagine nitida e veritiera della realtà della pena detentiva. Un ambiente a rischio. I nessi sono evidenti ed esplicitati dalle autrici. Sulla traccia offerta dalla psicologia di comunità e dai suoi approdi nel campo della salute mentale, il fenomeno del suicidio, e più in generale dell'autolesionismo in carcere, è osservato da una prospettiva ecologica e non psichiatrizzante. In questa chiave, il carcere si presenta come un ambiente a rischio particolarmente delicato perché vi si sommano le precarietà esistenziali dei percorsi individuali della popolazione detenuta - tradizionalmente selezionata in fasce marginali e lontane da quel "benessere psicofisico " in cui consiste la nozione di salute riconosciuta in sede internazionale - e l'azione di una pluralità di fattori di sofferenza e di stress legati alla privazione della libertà e alla sua gestione. Per questo, in un'ottica di prevenzione, lo studio dell'ambiente penitenziario può dirci molto di più delle storie cliniche individuali. La contesa, intorno alla pena detentiva, mi pare questa. È possibile pensare un nuovo universalismo che includa socialmente gli autori di reato in un nuovo patto di libertà e responsabilità, dignità e diritti, o dobbiamo rassegnarci al ritorno di società castali, fondate sull'esclusione o la subalternità di una fetta - quanto grande si vedrà - della cittadinanza? In gran parte del mondo occidentale, la crisi economico-finanziaria apertasi nel 2008 ha interrotto il processo della incarcerazione di massa: non è più possibile tenere insieme alti tassi di detenzione e rispetto (quanto meno formale) dell'universalismo dei diritti umani. Le corti costituzionali, supreme e internazionali hanno evidenziato la contraddizione, riconoscendo frequentemente la prevalenza dell'universalità dei diritti umani sulle politiche dell'esclusione. Ma non sarà una corte che ci salverà, e toccherà scegliere prima o poi. Una traccia per uscirne è in quell'affidamento nella responsabilità che le detenute intervistate sembrano avere, sia quando testimoniano di farsene carico (di fronte al reato, agli affetti, alle relazioni interne ed esterne al carcere), sia quando denunciano l'insensatezza di una pena deresponsabilizzante. La capacità di rispondere di sé di fronte al prossimo (e di fronte al mondo) consente di uscire dal vicolo cieco della vittimizzazione. Non saranno mai sufficienti le denunce delle violazioni dei diritti in carcere a farne un posto migliore. Le vittime-detenute saranno sempre schiacciate dalle vittime (reali o potenziali) dei loro reati. Al contrario, l'assunzione di responsabilità . giustifica la legittima rivendicazione di dignità e diritti, e costringe la controparte a togliersi l'elmo, e ad assumersi le proprie di responsabilità, le responsabilità di una società che si dice ancora universalista e che non può fondarsi sul principio del terzo escluso. Le alternative al carcere. Cosa significa questo nell'esecuzione penale? Abbandonare il paradigma dell'infantilizzazione e della incapacitazione, della riabilitazione e della negazione, per riconoscere all'autore di reato soggettività e diritti, su cui misurare la propria e le altrui responsabilità. Nulla di quanto di buono ha prodotto l'ingegneria sociale correzionalista andrebbe rottamato. Non ovviamente le alternative al carcere, che potrebbero e dovrebbero assurgere al rango di pene principali per la maggior parte dei reati, ma neanche nel regime penitenziario. Al contrario, l'offerta di opportunità formative e lavorative, la progressione nella libertà e nella responsabilità di sé possono essere declinate in forma di diritti, piuttosto che di premi riservati ai beneficiari di quelle "buone prassi" dietro le quali sovente si nasconde una cattiva ordinaria amministrazione. Lo scarto è semplicemente nel punto di vista: la pena detentiva è uno strumento di incapacitazione, in cui i benefici dei meritevoli sono complemento disciplinare dell'esclusione della maggior parte, o è la sofferenza minima e necessaria riservata ad autori di reato che restano titolari dei loro diritti per tutto quanto non sia immediatamente compromesso dalla privazione della libertà? Immigrazione: "I migranti lavorino gratis" e su Alfano è bufera di Alberto Custodero La Repubblica, 8 maggio 2015 "Invece di farli stare lì a fare nulla, i Comuni facciano lavorare i migranti. Gratis". È bufera sul ministro dell'Interno, Angelino Alfano, per aver invitato gli enti locali - incontrati ieri al Viminale in una conferenza sull'immigrazione - a coinvolgere nei lavori socialmente utili anche agli stranieri in attesa di ottenere lo status di richiedenti asilo. Durante l'incontro Stato-territorio, Viminale e Anci hanno deciso di fare un grande progetto per trovare nuova accoglienza agli stranieri. Ma dall'opposizione, Fi e Lega (alleati di Alfano durante i governi Berlusconi), hanno attaccato il titolare del Viminale: "Schiavista". Critiche, ma con toni diversi, arrivano anche dalla sinistra e dall'associazionismo cattolico proprio il giorno in cui la Marina Militare, con un sommergibile, ha trovato sul fondo del mare il barcone del naufragio del 18 aprile che trasportava 750 migranti. Si trova a trecento metri di profondità e le immagini diffuse dalla Marina confermano l'esistenza dei decine di cadaveri intrappolati. Su una fiancata del relitto si intravedrebbero i segni della collisione con la King Jacob. "Alfano riscopre lo schiavismo. Lavoro gratis agli immigrati uguale a più disoccupazione per gli italiani", twitta, caustica, la forzista Daniela Santanché. Sulla stessa linea il segretario leghista. "Non ho parole - commenta Matteo Salvini - Alfano da scafista a schiavista. Il ministro dell'Interno sarebbe pagato per impedire che sbarchino i migranti, non per sfruttarli!". "Non esiste l'ipotesi che possano lavorare gratis, qui proprio non devono venire", taglia corto il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, che quando era titolare del Viminale aveva proposto i "respingimenti" in mare, politica poi condannata dall'Ue. "Mancano i soldi - tuona Maroni - e da noi non ne devono più mandare perché la Lombardia ha superato già la soglia del 10 per cento". "Alfano - aggiunge - non ha coinvolto le Regioni nella gestione dei migranti, decidono tutto i prefetti, neanche i Comuni. E molti sindaci sono contrari. Stiamo assistendo a una nuova forma di schiavismo". Dal Veneto arriva "un no assoluto, perché - ha detto il governatore Luca Zaia - abbiamo già dato". "Speriamo sia solo una boutade elettorale - commenta Gianni Bottalico, presidente Acli - altrimenti è una affermazione gravissima, non si saltano le norme che regolano il lavoro". Prendono le distanze da Alfano anche dal centrosinistra. "I lavori socialmente utili costituiscono un percorso di integrazione importante per i richiedenti asilo - dichiara Gennaro Migliore, presidente della commissione d'inchiesta sui Migranti - Alfano indica una pratica da applicare, ma deve essere chiaro che i migranti non possono esse utilizzati come manovalanza gratuita, al loro lavoro deve essere data dignità". Dal Viminale è arrivata in serata una precisazione. "Alfano ha fatto riferimento a una circolare già in vigore del Dipartimento Immigrazione". "Da un anno - spiega il capo dipartimento, Mario Morcone - abbiamo chiesto ai Comuni di invitare i migranti a partecipare a progetti di integrazione, solo su base volontaria, in assistenza anziani, in attività ambientali o di riqualificazione del territorio. A Bergamo è già stato fatto un progetto pilota che ha funzionato benissimo". Attualmente l'Italia ha in carico 85mila persone. "Rinforzeremo i centri che devono rilasciare lo status di rifugiati", assicurano al Viminale. Ma dove saranno accolte le altre decine di migliaia che stanno salpando dalla Libia? Il governo libico di Tripoli ha deciso di pattugliare con uomini armati i punti da cui partono gli immigrati clandestini che salpano verso l'Italia. Ma molti governatori, come quello uscente della Toscana, Enrico Rossi, sono "contrari a tendopoli e a concentrazioni e a caserme per accogliere i profughi". "L'anno scorso abbiamo deciso che tutti, Regioni e Comuni, devono partecipare all'accoglienza - chiarisce Morcone - man mano che avremo bisogno di posti, li chiederemo agli enti locali. E ce li devono dare". Immigrazione: intervista a Luigi Manconi "così si rischia solo di sfruttarli ancora" di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 8 maggio 2015 Senatore Luigi Manconi, lei presiede la Commissione per la Tutela dei Diritti Umani. Una circolare del Viminale, che prevede che i richiedenti asilo lavorino come volontari per gli enti locali, ha scatenato parecchie polemiche. Cosa ne pensa? "Bisogna partire da una incongruenza dell'attuale normativa che vieta ai richiedenti asilo, per i primi sei mesi di attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, di svolgere qualunque attività lavorativa retribuita. Questo, effettivamente, determina nei profughi una condizione di smarrimento e aggiunge allo stato di obiettiva marginalità e di ansia per l'esito della richiesta, una situazione di vuoto. Non solo: l'inattività viene percepita dai residenti italiani quasi come un'ulteriore colpa, tanto più perché si ignora o si vuole ignorare che si tratta di persone in fuga da guerre etniche e tribali, da persecuzioni di natura religiosa, politica, sessuale e da catastrofi naturali, miseria e carestia. Di conseguenza, l'idea di offrire loro un'attività è decisamente positiva. Ma a questo punto intervengono le perplessità". Ovvero? "Non sono convinto che in tutto il territorio nazionale sia possibile garantire l'assoluta volontarietà del lavoro svolto, il fatto cioè che dipenda da una scelta totalmente libera. Temo, in altre parole, che in più di una situazione quel lavoro volontario si presti a essere sfruttato; e che non sia garantita affatto quella condizione molto significativa affermata al punto 4 della circolare, che prevede una qualche attività di formazione. E, ancora, che si tratti effettivamente di un lavoro "di pubblica utilità", come dice la circolare, e indirizzato a uno "scopo sociale", perché è proprio questo che potrebbe favorire una maggiore accoglienza da parte dei residenti e una più equilibrata convivenza. Ma ritengo sia necessario porre un'ulteriore condizione". Quale? "Tutto ciò avrebbe un senso se questo volontariato fosse preliminare - mi si dice che al Viminale provvidenzialmente qualcuno la pensa così - all'inserimento dei richiedenti asilo e rifugiati all'interno di progetti di lavori socialmente utili. Dunque, remunerati modestamente e, tuttavia, remunerati. In caso contrario, sì, il rischio della discriminazione è forte". Immigrazione: rischio illegalità per migliaia di richiedenti asilo di Valentina Brinis e Liana Vita Il Manifesto, 8 maggio 2015 La cronaca dei naufragi di chi tenta di attraversare il Mediterraneo per chiedere asilo nei paesi europei ci ha abituati all'idea che, una volta raggiunta l'Italia, tutte le difficoltà svaniscano. Ma non è così. Per dimostrarlo basterebbe visitare anche solo uno dei Cas (centri di accoglienza straordinaria) o un qualunque Cara (centro di accoglienza richiedenti asilo e rifugiati) per rendersi conto delle condizioni difficili in cui sono costrette a vivere centinaia di persone in attesa di completare l'iter per la richiesta di asilo. Tralasciando però questo aspetto dell'accoglienza, ci sono altri fatti che stanno accadendo in alcune città italiane che ben rappresentano il percorso a ostacoli (a volte insuperabili) che caratterizza la vita dei profughi in Italia. Uno di questi riguarda Roma, dove da qualche mese i titolari di permessi di soggiorno in scadenza stanno riscontrando difficoltà nel rinnovo se si trovano sprovvisti del certificato di residenza. Per completare quella pratica, infatti, è necessario comunicare agli uffici della questura un indirizzo a cui far pervenire le comunicazioni. Un passaggio che, fino a ora, quando non poteva essere compiuto autonomamente, veniva risolto grazie ad alcune organizzazioni autorizzate che correvano in soccorso rilasciando un certificato di residenza. Per una disposizione della Questura di Roma quelle residenze, considerate "virtuali", non sono più valide per il rinnovo del permesso di soggiorno, ai sensi dell'art. 10bis della legge 07.08.1990 n. 241, come riportato nelle lettere rilasciate dall'Ufficio immigrazione in risposta alla richiesta di rinnovo. La motivazione è legata al fatto che quell'indirizzo non corrisponderebbe alla dimora abituale del richiedente che dunque risulterebbe irreperibile qualora lo si cercasse. Le nuove disposizioni prevedono che l'indirizzo fornito nella richiesta di rinnovo corrisponda a un domicilio effettivo, ma in molti casi, anche se il titolare del permesso di soggiorno ha un alloggio, difficilmente è in grado di dimostrarlo con la documentazione necessaria (contratto di affitto o cessione di fabbricato o con la dichiarazione di ospitalità). L'effetto di tutto ciò è che diventeranno presto irregolari migliaia di persone e tra queste anche molti titolari dello status di rifugiati, in possesso di un titolo permanente e la cui condizione è paragonabile a quella dei cittadini italiani. Ma l'aspetto che più preoccupa è che si creerà un vero e proprio commercio illegale di indirizzi di residenza falsi, con conseguente sfruttamento economico di chi deve rinnovare il titolo di soggiorno. Arrivati a questo punto il ministero dell'Interno dovrebbe chiarire agli Uffici immigrazione delle questure italiane come sia da intendere il significato di "dimora abituale". Basterebbe una nota per affrontare e sanare una situazione che rischia di esplodere. È giunta infatti l'ora di correre ai ripari se non si vuole far precipitare migliaia di persone nella irregolarità. Immigrazione: la rivolta dei prefetti contro Alfano di Francesco Lo Dico Il Garantista, 8 maggio 2015 I barconi affondano, il ministro Alfano è in apnea, ma i prefetti pensano bene di piantare l'ancora nel risentimento di categoria e lasciare il Guardasigilli a sbrigarsela da solo. Sembrerebbe questa la sintesi amara che ha spinto i funzionari prefettizi a disertare il vertice con il ministro degli Interni, a causa di un forte "malessere" e di un certo "sconcerto", che li ha sospinti al gran rifiuto. Ma la verità è più complessa, e rappresenta icasticamente l'emergenza migranti. I prefetti sentono di essere i punti terminali di un enorme scaricabarile che affida alle loro mani il classico cerino. L'Europa se ne frega e scarica tutto sul governo che a sua volta scarica tutto sul ministro Alfano che a sua volta scarica tutto sui prefetti che a loro volta devono bisticciare con le Regioni. La decisione di non prendere parte al summit del Viminale, spiegano i prefetti in una nota, è legata alle "cronache di questi ultimi giorni e le dimostrazioni di profonda disattenzione, verso la categoria, non per ultima della stessa amministrazione". Sembra di capire che i prefetti non abbiano gradito in particolare la circolare del Viminale che ha richiesto pochi giorni fa ai funzionari di predisporre circa 9mila posti per fronteggiare gli arrivi di massa dei migranti degli ultimi giorni. Un atto di forza che ha posto i prefetti nella scomoda posizione di dovere fare a botte con i governatori più ostili all'accoglienza dei migranti. Basti citare in proposito, la telefonata che il prefetto Mario Morcone ha fatto al presidente della Valle d'Aosta Augusto Rollandin, che si è rifiutato di accogliere i 79 migranti assegnati alla sua Regione. "Credo che questo sia profondamente sbagliato e che dia anche segnali sbagliati ai nostri cittadini", ha commentato Morcone. Più in generale, la questione migranti è il sintomo di una situazione esplosiva. Per i prefetti la mancata partecipazione al vertice di oggi al Viminale non va interpretata come un "gesto di sfida o di rottura ma semplicemente il sofferto segnale di uno sconcerto e di un malessere, ormai diffusissimi, prossimi a tramutarsi in insofferenza". Ma in verità la nota di oggi è come una mozione di sfiducia nei confronti del governo, condannato perché distante dai problemi che attanagliano il Paese, poco attento alle materie di pubblica sicurezza all'assistenza sociale, alla gestione delle emergenze. In un altro passo della nota, le rivendicazioni si fanno meno nebulose, e lasciano intravedere più chiaramente quali siano le ragioni dello "sconcerto". I prefetti parlano di loro stessi come di uomini che "da Nord a Sud, in questo delicatissimo momento del Paese, stanno assicurando con i consueti spirito di servizio e senso delle Istituzioni, l'espletamento di funzioni essenziali dello Stato: nei settori dalla immigrazione alla sicurezza, dalle crisi sociali a quelle economiche". Intanto prosegue senza tregua l'arrivo di migranti. Nel Canale di Sicilia sono state recuperate 328 persone sbarcate a Messina, altri 200 siriani sono approdati in Salento. Nella notte la Guardia di finanza ha soccorso 90 profughi su una motonave, mentre altri 400 sono stati salvati da un mercantile davanti all'isola di Tavolara. Qui chi diserta non sono i prefetti, ma i signori d'Europa. Stati Uniti: "intercettazioni di massa illegali", tribunale New York dà ragione a Snowden di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 8 maggio 2015 Una Corte d'Appello federale, quella di New York, si pronuncia per la prima volta sul programma di spionaggio telefonico che è stato adottato negli Stati Uniti dalla Nsa, l'agenzia federale di "intelligence", fin dal 2001, dopo gli attentati di Al Qaeda dell'11 settembre. E dichiara questo tipo di sorveglianza illegittimo. I tre giudici della Corte hanno decretato all'unanimità che le norme contenute nella sezione 215 del Patriot Act non autorizzano controlli a tappeto e la raccolta di "metadata", a differenza di quanto sostenuto fin qui non solo da George Bush, che varò questi interventi, ma anche, successivamente, dall'Amministrazione Obama. Una vittoria, ma solo parziale per l'Aclu, l'Associazione per i diritti civili che aveva presentato il ricorso, perché la Corte ha giudicato lo spionaggio "illegittimo" ma non "incostituzionale", e non ne ha ordinato l'immediata sospensione. Secondo i tre giudici, una decisione in merito spetta al Congresso che dovrà pronunciarsi presto, anche perché molte misure contenute nella Sezione 215 del Patriot Act scadranno il prossimo primo giugno. In effetti i parlamentari stanno lavorando da tempo alla riforma di queste direttive sui controlli di sicurezza. Lo stesso Obama, pur considerando legittimo quello che è stato fatto fino ad oggi, ha promesso un drastico cambio di rotta. Le iniziative prese dal Senato per correggere le direttive fornite alla Nsa si sono, però, fin qui arenate perché la destra conservatrice considera il nuovo sistema troppo restrittivo: forti garanzie per la privacy dei cittadini, ma a scapito della loro sicurezza. Il vero vincitore, per ora, sembra Edward Snowden, l'ex gestore dei contratti d'appalto della National Security Agency che, rivelando due anni fa i suoi segreti, ha messo in ginocchio il sistema federale di "intelligence" interno. Rifugiatosi in Russia per sottrarsi all'arresto, Snowden è considerato da molti più un eroe della trasparenza che il responsabile di una fuga di notizie che mette in pericolo la sicurezza Usa. Non c'è dubbio che, anche se le sue intenzioni possono essere state positive, l'ex "contractor" del governo ha violato leggi molto importanti: quelle sullo spionaggio. La sentenza della Corte d'Appello consente, però, ora a Glenn Greenwald, il giornalista che dal 2013 a oggi ha pubblicato gran parte del materiale informativo trafugato dall'ex collaboratore dei servizi segreti, di affermare che "chi porta alla luce un programma segreto che più giudici federali dichiarano illegale, dovrebbe essere ringraziato, non mandato in galera: merita la gratitudine degli americani". Il governo ritiene di non aver violato le norme perché l'azione di spionaggio della Nsa è sottoposta alla sorveglianza di un tribunale. Ma parliamo di una corte segreta: la magistratura nota come Fisa che è chiamata a verificare che i servizi segreti non vadano, nella loro azione, oltre i limiti fissati dalla legge. La Corte segreta aveva in effetti dichiarato legittimo lo spionaggio Nsa, ma i giudici si erano mossi solo nel 2007 e lo avevano fatto su esplicita sollecitazione della Casa Bianca. Gran Bretagna: caso Ilva, ok dalla Corte di Westminster all'estradizione di Fabio Riva di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 8 maggio 2015 Un fine politico e forse anche una collusione tra magistrati e governo si nasconderebbero dietro le inchieste sull'Ilva a Milano e Taranto: ad agitare il sospetto è la difesa di Fabio Riva di fronte alla Corte di Westminster, ma per il giudice inglese "non c'è alcuna prova convincente" che i magistrati "abbiano mostrato lacune nella propria indipendenza". Per questo ha concesso l'estradizione di Riva che era stata chiesta del giudice milanese Fabrizio D'Arcangelo. Fabio Riva è stato coinvolto con altri nell'inchiesta dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, coordinati dall'aggiunto Francesco Greco, che in sei mesi a luglio 2014 ha portato alla sua condanna a sei anni e mezzo di carcere per associazione per delinquere e truffa ai danni dello Stato. Per l'accusa, 100 milioni di euro di contributi destinati alle imprese che investono all'estero sono finiti illegalmente nelle casse della Riva Fire spa, la holding che controlla l'Ilva. Il processo d'appello comincerà il 14 maggio. Per sostenere l'esistenza di una "agenda politica", il team legale di Riva ha presentato al giudice John Zani il professor David Hine. Associato di politica e relazioni internazionali all'Università di Oxford, Hine ha espresso "sorpresa e potenziale preoccupazione per la velocità" del processo, evidentemente troppo rapida per la tradizione italiana, ma che in realtà e nella media per i processi con il rito immediato e imputati detenuti. A Taranto, ci sarebbe stata invece una "impressionate indifferenza" all'equilibrio "tra le conseguenze sociali ed economiche" dell'inchiesta e "la salvaguardia della salute pubblica". Addirittura può essere che tra Taranto e Milano possa esserci stata "una attiva cooperazione" con una "collusione passiva" del governo nazionale. Poi il professore ha criticato il sistema italiano che permette ai magistrati di essere eletti e di fare dichiarazioni pubbliche in cui esprimono le loro "visuali politiche". Lapidaria la risposta del giudice: "Nessun contatto improprio o collusione" tra Procure. Fabio Riva potrebbe finire nelle carceri di Opera (Milano), Taranto, Lecce, Pavia o Perugia dove, sostiene la difesa, la sua incolumità sarebbe a rischio. A testimoniarlo è stato l'ex senatore radicale Marco Perduca secondo il quale a Taranto, dove c'è l'acciaieria, e nella vicina Lecce, Riva potrebbe essere aggredito dai detenuti per l'ostilità diffusa verso l'intera famiglia. Lo stesso sarebbe ad Opera, perché lì ci sono molti meridionali, e a Pavia, dove tanti detenuti speciali devono essere controllati perché possono mettere a rischio la loro sicurezza se finiscono con quelli comuni, come Riva. Perugia sarebbe il carcere migliore. "Sorpreso" il giudice Zani, convinto che "lo Stato italiano sarà in grado di proteggere" Riva dietro le sbarre. Per evitare di tornare subito in Italia, Fabio Riva ha fatto appello. Russia: in un carcere sul Volga scoppia la rivolta, un detenuto morto e quindici feriti Ansa, 8 maggio 2015 I disordini sono scoppiati in un penitenziario sul Volga. Un morto e quindici feriti. Questo il bilancio della rivolta scoppiata in un penitenziario russo. Si tratta del carcere numero 3 della regione di Nizhni Novgorod, sul fiume Volga. Non sono ancora chiari i motivi che hanno originato i disordini. Secondo la versione ufficiale della polizia una "banale" rissa tra detenuti sarebbe degenerate in violenze più estese. Altre fonti, invece, parlano di una sommossa dei reclusi contro presunti abusi delle guardie e il pesante regime carcerario cui sono sottoposti. Oltre alla vittima e ai feriti, si sono registrati anche danneggiamenti a mobili e attrezzature. Stati Uniti: rilasciato su cauzione Omar Khadr, il più giovane detenuto di Guantánamo www.internazionale.it, 8 maggio 2015 Dodici anni e nove mesi dopo essere stato arrestato in Afghanistan dalle truppe statunitensi all'età di 15 anni, Omar Khadr è uscito dal carcere. Oggi Khadr ha 28 anni ed è stato il prigioniero più giovane di Guantánamo, il carcere statunitense di massima sicurezza a Cuba, riservato ai terroristi. Khadr, che dal 2012 era stato trasferito nel suo paese d'origine, il Canada, ha ottenuto il rilascio su cauzione. Potrà vivere insieme alla sua famiglia, ma sarà sottoposto a controlli continui e sarà costretto a indossare un braccialetto per essere sempre rintracciabile, inoltre non potrà possedere cellulare, né computer e non potrà uscire di casa dalle 22 alle 7. Tuttavia i suoi problemi con la giustizia non sono finiti. Infatti il governo canadese, che lo considera pericoloso, ha deciso di fare ricorso contro la decisione del tribunale di rilasciarlo su cauzione. Khadr è stato condannato da un tribunale statunitense per aver ucciso il militare statunitense Christopher Speer in Afghanistan. Nel 2010 Khadr si è dichiarato colpevole e nel 2012 ha ottenuto il trasferimento da Guantánamo in un carcere canadese, una volta in Canada il ragazzo ha deciso di fare appello contro la condanna, dicendo che era stato costretto a dichiararsi colpevole per uscire da Guantánamo. Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza nel 2002, Khadr ha raccontato di essere stato vittima di abusi e torture da parte delle forze dell'ordine statunitensi. Mauritania: Ong denuncia condizioni critiche in cui versano detenuti salafiti in carcere Nova, 8 maggio 2015 Una Ong mauritana ha denunciato le condizioni critiche in cui versano i detenuti salafiti presenti nel carcere centrale di Nouakchott, in Mauritania. Secondo quanto riporta l'agenzia di stampa mauritana "Ani", l'organizzazione per i Diritti umani e la giustizia ha denunciato le condizioni in cui vivono i detenuti salafiti e in particolare il loro leader, al Wali Ould Ala, noto col nome di Abu Karim al Shanqiti. Quest'ultimo infatti è il capofila di una serie di detenuti islamici che stanno attuando uno sciopero della fame da giorni per chiedere un miglioramento delle condizioni carcerarie al governo mauritano.