Giustizia: il Quirinale twitta pro-detenuti "garantirgli migliori condizioni di vita" Askanews, 7 maggio 2015 Il Capo dello Stato sollecita attività di rieducazione e rispetto della vita umana. Il presidente della Repubblica ha dedicato un pensiero, affidandolo a un tweet, ai detenuti e alla situazione carceraria italiana. Bisogna "consentire sotto profili etici morali, oltre che di obbligo costituzionale, migliori condizioni ai detenuti", ha infatti sollecitato su Twitter Sergio Mattarella, in occasione del 198esimo anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria. Il Capo dello Stato, che ha ringraziato per "l'impegno tutto il corpo della Polizia Penitenziaria", ha aggiunto che bisogna anche "garantire condizioni che agevolino attività di rieducazione, che rispettino la vita umana". Giustizia: Bruno Bossio (Pd); no all'ergastolo ostativo, la Legge Penitenziaria va cambiata Dire, 7 maggio 2015 "La presente norma di legge (modifica dell'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario) va a modificare la disciplina riguardante l'ergastolo ostativo, vale a dire una pena che nega ogni tipo di beneficio penitenziario e di misura alternativa al carcere a chi è stato condannato per reati associativi e non si è pentito, anche quando questo pentimento non può più avvenire poiché il detenuto non è più in grado di esprimerlo. Questo tipo di pena trasforma il reo in vittima: l'uomo e la sua dignità vengono totalmente annullati ed è chiaramente in contrasto con il principio costituzionale della rieducazione del condannato a cui la pena deve tendere e con quanto prescrive la Corte europea dei diritti dell'uomo. Da qui la nostra proposta di legge di modifica". Lo dichiara la deputata del Pd, Enza Bruno Bossio, prima firmataria della proposta di legge di modifica del 4 bis dell'ordinamento penitenziario, proposta sottoscritta anche dal capogruppo della commissione Giustizia alla Camera, Walter Verini, nonché dai deputati Leva, Schirò, Locatelli, Scuvera, Rampi, Laquaniti, Bruno, Tullo, Massa, Bargero, Magorno, Mura, Pinna, Sgambato, Bazoli e pubblicata oggi alla Camera. "Con questa norma sarà possibile - prosegue Bruno Bossio - previa valutazione della magistratura di sorveglianza, far venir meno il divieto d'accesso al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata in determinati casi". "In tal modo soprattutto la pena dell'ergastolo verrà finalmente resa maggiormente compatibile con gli standard richiesti dalla nostra Costituzione e dall'Unione europea e si va ad affermare il principio secondo il quale, dopo un lungo periodo di detenzione, possano prevalere le esigenze umanitarie", conclude Bruno Bossio. La Legge Penitenziaria va cambiata (emilioquintieri.wordpress.com) La mia proposta di legge va a modificare quelle norme dell'Ordinamento Penitenziario (Art. 4 bis) che prevedono il divieto di concessione di ogni beneficio e misura alternativa alla detenzione ai condannati per taluni delitti definiti "ostativi" per il solo fatto della loro mancata "collaborazione". In particolare, questo divieto, nel caso dei condannati all'ergastolo, si traduce in una vera e propria "pena di morte occulta" come recentemente l'ha definita Papa Francesco. Infatti, oggi, gli ergastolani ristretti nelle nostre Carceri sono 1.584, molti di loro reclusi da oltre 26 anni, senza liberazione condizionale, altri da più di 30 anni, durata massima stabilita per le pene detentive. Tra questi, quelli "ostativi", sono circa 1.000 ed il loro "fine pena", come si evince dai rispettivi certificati di detenzione, è il 31/12/9999, una data fissata tra circa 8 mila anni. Per loro, se non "collaborano", le porte del carcere non si apriranno mai più. Anche se questa "collaborazione" non potrà più avvenire poiché il detenuto non è più in grado di esprimerla o perché non può farlo avendo paura di ritorsioni nei confronti dei propri familiari da parte dei suoi vecchi sodali. Questo tipo di pena trasforma il reo in vittima: l'uomo e la sua dignità vengono totalmente annullati ed è chiaramente in contrasto con il principio costituzionale della rieducazione del condannato a cui la pena deve tendere e con quanto prescrive la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo. Da qui la mia proposta di legge per la revisione delle norme". Lo dichiara l'Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, prima firmataria della coraggiosa proposta di legge A.C. n. 3091 che reca "Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia" , iniziativa che riprende per la gran parte la proposta avanzata dalla Commissione Ministeriale istituita dall'ex Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e presieduta dal Prof. Francesco Palazzo, Ordinario di Diritto Penale all'Università degli Studi di Firenze. La proposta, oltre all'On. Bruno Bossio, è stata condivisa e sottoscritta dall'On. Walter Verini, Capogruppo del Partito Democratico in Commissione Giustizia a Montecitorio e dai Deputati Roberto Rampi, Luigi Lacquaniti, Danilo Leva, Chiara Scuvera, Camilla Sgambato, Ernesto Magorno, Gea Schirò, Federico Massa, Cristina Bargero, Romina Mura e Alfredo Bazoli del Partito Democratico, Pia Locatelli del Partito Socialista Italiano, Paola Pinna di Scelta Civica per l'Italia e Franco Bruno di Alleanza per l'Italia. "Con questa norma sarà possibile - prosegue l'On. Bruno Bossio - far venir meno il divieto d'accesso al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata anche quando risulti che la mancata collaborazione del condannato non faccia venir meno il sussistere dei requisiti, diversi dalla collaborazione medesima, che di quei benefici permettono la concessione, ai sensi dell'Ordinamento Penitenziario". Infatti, per la concessione dei benefici e delle misure alternative alla detenzione in carcere vengono richieste informazioni a diversi Uffici Giudiziari e di Polizia circa il mantenimento di collegamenti, da parte dei condannati, con la criminalità organizzata. Ebbene, nella maggior parte dei casi, le note informative si limitano a riferire i fatti precedenti alla carcerazione ed alle condanne, vecchi di decenni, esprimendo sempre parere negativo per l'accoglimento delle istanze formulate alla Magistratura di Sorveglianza. Questa proposta, invece, prevede che non si debbano esprimere pareri ma fornire elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l'attualità di tali collegamenti e che gli eventuali pareri espressi non possano essere utilizzati nella motivazione delle decisioni giurisdizionali. "In tal modo soprattutto la pena dell'ergastolo verrà finalmente resa maggiormente compatibile con gli standard richiesti dalla nostra Costituzione e dal diritto dell'Unione Europea ribadendo il principio secondo il quale, dopo un lungo periodo di detenzione, debbano prevalere le esigenze umanitarie", conclude l'On. Bruno Bossio. Giustizia; non scordiamoci il reato di tortura, le ragioni che rimangono valide anche oggi di Mario Chiavano Avvenire, 7 maggio 2015 Reato di tortura: sarà la volta buona? Così s'era detto non molte settimane fa, dopo la sferzata venuta dall'Europa per gli incresciosi fatti del 2001, con l'auspicio che la sentenza desse un'accelerata decisiva per tradurre in legge norme che si attendono dal novembre 1988, da quando cioè il Parlamento diede il via libera alla ratifica della "Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti, crudeli, disumani e degradanti", firmata a New York, sotto l'egida dell'Orni, il 10 dicembre 1984. Poi, altri fatti recenti e altre cronache, ultimi quelle di Milano, hanno fatto recedere la questione nell'agenda politica. E tuttavia, il prevedere, finalmente, un crimine esplicitamente denominato come "tortura" avrebbe un alto significato, non solo simbolico, a garanzia dell'impegno dell'Italia per la più radicale sconfessione di comportamenti che nulla può giustificare. Ma sarebbe sbagliato ridurre il tutto a una questione di etichette. In effetti, quella Convenzione (art. 4) chiede, sì, agli Stati di "vigilare", tra l'altro, "affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni... passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità", ma - senza entrare in maggiori dettagli sui modi in cui formulare le relative norme incriminatrici - essa si preoccupa piuttosto, con parecchie delle sue clausole, di scongiurare qualsiasi forma di impunità per i responsabili, escludendo scappatoie che impediscano di sottoporli alle sanzioni dovute. Del resto, è proprio tale aspetto, a essere messo maggiormente in rilievo pure dalla sentenza della Corte europea, la quale ha deplorato che, per quella che uno stesso funzionario di polizia ebbe a definire una "macelleria messicana" e le cui modalità sono abbondantemente documentate, i responsabili siano stati sottratti a un'equa sanzione, contrariamente a quanto vuole l'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. È per queste ragioni che a essere posto sotto accusa a Strasburgo è stato il nostro intero sistema di giustizia penale: sistema - dice la sentenza - "rivelatosi inadeguato in rapporto all'esigenza di sanzionare gli atti di tortura compiuti e privo dell'effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni del genere". Tutto ciò, peraltro, non per un'assoluta esiguità di pene previste in astratto: già per le lesioni gravi - contestate agli imputati dei processi di Genova - era ed è comminata, se il delitto è commesso con sevizie o crudeltà, la reclusione in misura tale da sfiorare i dieci anni: poco al di sotto, insomma, delle pene massime stabilite, ad esempio, dai codici austriaco e tedesco, che pur configurano come reato specifico quello di tortura. Il fatto è che, nel caso della scuola Diaz, gli accertamenti sono stati dapprima sviati da depistaggi organizzati e poi vanificati da indulti e prescrizioni estintive. Ben venga dunque la nuova legge. E speriamo che le polemiche politiche, divampate più o meno strumentalmente (e presto spentesi), e la stessa ricerca di un "meglio" a confronto di un "bene", a torto o a ragione giudicato mediocre, non rimandino di nuovo l'approvazione alle calende greche. Né si dica che la severità, in questo campo, costituisce un atto di sfiducia nelle forze dell'ordine o addirittura un incentivo ai comportamenti violenti degli "antagonisti". Il fatto è che le violenze di piazza erano e sono, sì, da reprimere per le vie legali, e da contrastare sul campo, se necessario, anche con la forza, salvaguardando i poteri affidati alla polizia dal vigente codice penale; ma non possono scusare certe reazioni, compiute "a freddo" su persone, almeno in quel momento, inermi (E in questi giorni abbiamo visto, fortunatamente, esempi virtuosi di interventi dissuasivi compiuti dalle forze dell'ordine). Piuttosto, a rischiare di innescare o irrobustire una deleteria spirale di violenze è il continuare a scorgere, in reazioni del genere, soltanto sfoghi comprensibili o addirittura sacrosanti, come fanno quanti confondono la necessaria solidarietà dovuta ai tutori della legalità con l'indulgenza per chi infrange uno dei pilastri di quella legalità che dovrebbe tutelare. Giustizia: il Csm si autoriforma per bloccare le mosse dell'esecutivo di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2015 Il dossier in mano a Legnini. Il consiglio stronca il processo telematico: "mancano soldi e mezzi". È ormai incardinata al Csm l'autoriforma per provare a evitare, per citare un consigliere, "una controriforma della politica". Diversi i punti in discussione: ampliamento del voto segreto (finora quasi mai applicato) per arginare il potere delle correnti; incompatibilità tra il ruolo di membro della Sezione disciplinare e quello in Commissioni che hanno competenze connesse; compiti più specifici al Comitato di presidenza, a cui verrebbe sottratto il potere esclusivo di archiviare le richieste di apertura di pratiche; e tempi contingentati di discussione in plenum. Su questi cardini ha cominciato a muoversi la Seconda commissione che, con l'astensione del laico di Ncd Antonio Leone, ha approvato una risoluzione preliminare sulla riforma del regolamento interno. Il merito verrà affrontato in un plenum presieduto dal capo dello Stato Sergio Mattarella, probabilmente il 4 giugno. Nei prossimi giorni il presidente si incontrerà con il vice Giovanni Legnini. Già sono emersi i primi contrasti interni: alcuni laici di centro destra vorrebbero estendere il voto segreto alle nomine dei vertici degli uffici giudiziari mentre la maggior parte della Commissione è contraria. Altro punto controverso è la delineazione delle incompatibilità con l'appartenenza alla sezione disciplinare. Intanto sia Legnini che il ministro della Giustizia Orlando smentiscono che ci sia un conflitto Csm-governo ma il Guardasigilli ha confermato che l'iniziativa del Consiglio non bloccherà la riforma: "Ci sono modifiche che devono essere affrontate in sede normativa". Dal Csm arrivano critiche forti al ministero sul funzionamento del processo civile telematico, "strumento irrinunciabile". Occorrono misure urgenti perché diventi una realtà, lo scrive nero su bianco la Settima commissione in una relazione approfondita. "La promessa velocizzazione" delle cause, si legge nel documento, ha "indiscutibilmente fatto i conti con l'impiego di risorse inadeguate in termini di hardware, assistenza tecnica e capacità di tenuta delle linee telematiche" così come "del tutto inadeguata è stata la formazione" di giudici e personale amministrativo. Per non parlare di computer e stampanti: "apparecchiature inefficienti e obsolete" che rappresentano per i giudici un percorso a ostacoli quando devono consultare atti. Ma "la maggiore emergenza è l'inadeguatezza dell'assistenza" affidata a operatori esterni i cui interventi sono "spesso del tutto intempestivi e non risolutivi". Giustizia: il taglio (incerto) ai vitalizi per i parlamentari condannati di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 7 maggio 2015 Gli uffici di presidenza delle Camere votano sulla delibera voluta da Grasso e Boldrini. Pd favorevole, Fi contraria, indecisi i centristi. E M5S chiede misure più severe. Per sapere se sarà davvero "una disciplina di forte moralizzazione dell'attività politica", come viene definita nella bozza di delibera sui vitalizi dei parlamentari condannati che oggi Camera e Senato dovranno approvare, non resta che aspettare la sua concreta applicazione. Le nuove regole stabiliscono la cessazione dei "trattamenti previdenziali erogati a titolo di assegno vitalizio o pensione" agli onorevoli "cessati dal mandato" che abbiano riportato condanne definitive superiori a due anni per reati contro la pubblica amministrazione o colpe gravi che presuppongano una pena massima non inferiore a sei anni. Caso classico, quello di Marcello Dell'Utri, che ha sulle spalle sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La cosa si applica anche a chi ha deciso di patteggiare la pena, ma soltanto a quanti decideranno di chiudere così i conti con la giustizia da adesso in poi. Paletti che ricalcano evidentemente quelli piantati dalla legge Severino, secondo cui i condannati a pene superiori a due anni sono incandidabili. Ma il meccanismo non è automatico: toccherà infatti ai vertici di Montecitorio o Palazzo Madama decidere caso per caso, "previo accertamento dei relativi presupposti". Viene poi escluso il reato di abuso d'ufficio. E sono salvi dalla tagliola, anche qui in linea con la legge Severino, gli ex parlamentari condannati che hanno ottenuto la riabilitazione avendo scontato la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Cioè molti di loro. E comunque chi si è visto togliere il vitalizio, lo riavrà nel momento in cui scatterà la riabilitazione. La cessazione del vitalizio non si applica quindi agli assegni di reversibilità incassati dai familiari del parlamentare deceduto, a patto che il decesso sia avvenuto prima di oggi, quando le delibere dovrebbero essere approvate. E in ogni caso chi sarà colpito dalla sanzione avrà diritto a vedersi restituire in unica soluzione tutti i contributi versati. Fin qui le misure messe a punto dai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso (dopo la consultazione di ben otto-pareri-otto di illustri giuristi e costituzionalisti). L'approvazione, però, ancora ieri sera era una scommessa. Tanto più che l'esame avverrà in parallelo ma separatamente da parte degli uffici di presidenza delle due Camere. Perciò con la possibilità di esiti differenti. Anche perché i rapporti di forza sono diversi. I rappresentanti del Partito democratico voteranno a favore. I molti mal di pancia sono passati davanti al rischio di dover affrontare una campagna elettorale per le Regionali sotto i bombardamenti grillini che potrebbero diventare pericolosissimi in alcune situazioni come la Campania. Dove lo scenario, con il candidato del Pd Vincenzo De Luca condannato in primo grado e alla testa di una coalizione per molti a sinistra palesemente indigesta, è già abbastanza complicato. Uno spettro che non ha tuttavia spaventato Forza Italia, contraria alla delibera. Il partito di Silvio Berlusconi si ostina a chiedere che la decisione venga presa con una legge, e per rimarcare questa posizione ha depositato una sua proposta. Anche se è scontato che servirebbe solo a far trascorrere inutilmente del tempo: una legge del genere non passerebbe mai l'esame. E sembra quello il reale obiettivo politico. Le vere incognite sono rappresentate da Area popolare e Movimento 5 Stelle. Che potrebbero far pendere la bilancia da una parte o dall'altra in Senato, dove i numeri sono decisamente più ballerini che alla Camera. Fra gli alfaniani regna l'indecisione. Mentre i grillini reclamano misure ancora più draconiane criticando l'esclusione del reato di abuso d'ufficio e il salvacondotto della riabilitazione. Grasso incrocia le dita. Ma di sicuro la mazzata che il M5S ha preso ieri alla Camera, con la sospensione di ben 66 deputati, non sembra proprio un gran viatico. Giustizia: omicidio stradale; il nuovo ddl prevede fino a 30 anni di revoca della patente Il Messaggero, 7 maggio 2015 Non è l'ergastolo della patente, che in molti auspicavano, ma poco ci manca. Il pirata della strada che provoca la morte di una persona rischia la revoca della patente, anche quella nautica, fino a 30 anni, se ha l'aggravante di essere in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti e aver superato i limiti di velocità. Il disegno di legge sugli omicidi stradali cambia ancora con un emendamento depositato in commissione Giustizia del Senato dal relatore Giuseppe Cucca (Pd). Si tratta della terza modifica dell' articolo 6 del ddl, quello che prevedeva appunto il cosiddetto ergastolo della patente, trasformato poi in sospensione da 5 a 12 anni scatenando molte proteste. Ieri la nuova svolta, con l'inasprimento della pena. L'articolo è stato sostituito per intero con l'introduzione della revoca fino a 30 anni. In questo modo dovrebbero essere superati i dubbi di costituzionalità che erano stati avanzati nei giorni scorsi al testo precedente proprio sull'introduzione dell'ergastolo della patente. Ora, con il nuovo testo, dopo la revoca della patente e al termine del periodo previsto dalla legge (da un minimo di 4 a un massimo di 30 anni), sarà possibile sostenere nuovamente gli esami necessari per conseguirla di nuovo. Ma non è finita. Ecco le altre pene contenute nel nuovo emendamento presentato ieri in commissione. Per chi al volante provoca la morte di una persona la revoca della patente sarà di 12 anni se non ci sono aggravanti. Questo termine sarà elevato a 20 anni nel caso in cui il conducente sia stato in precedenza condannato per aver guidato in stato di ebbrezza o aver guidato un'imbarcazione senza avere conseguito l'abilitazione. Per chi invece causa lesioni a terzi la revoca è di 4 anni. Anni eh diventano 8 se il pirata è stato in precedenza condannato per aver guidato in stato di ebbrezza o aver guidato un'imbarcazione senza avere conseguito l'abilitazione. Sarà invece di 10 anni se l'interessato si trova alla guida in stato di ebbrezza alcoolica o di alterazioni per sostanze stupefacenti e abbia anche violato i limiti di velocità. L'obiettivo, come aveva spiegato lo stesso Cucca nei giorni scorsi, è quello di chiudere i lavori della commissione entro maggio per portarlo poi in Aula per l'eventuale approvazione. Un momento atteso soprattutto dai parenti delle vittime dei pirati della strada. Giustizia: femminicidio; i Centri antiviolenza contro il premier "ha perso un'occasione" di Eretica Il Garantista, 7 maggio 2015 Oggi il Governo sottopone all'intesa della conferenza unificata Stato Regioni il piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere. Ma non è una buona notizia. Anzi. Perché il piano è stato fatto senza consultare i centri antiviolenza, cioè quelle realtà che da sempre e con maggiore impegno si battono davvero contro il femminicidio. E infatti i centri, già ieri, hanno fatto sapere la loro contrarietà: "Il Governo Renzi - scrivono in un comunicato - perde un'occasione storica". La legge sul femminicidio, se ricordate, fu approvata senza che i centri antiviolenza fossero d'accordo. Non era stata presa in considerazione la loro opinione e quel che ne era venuto fuori era, ed è, un impasto paternalista che vorrebbe risolvere il problema della violenza sulle donne semplicemente con la repressione. A margine si parlava di prevenzione e in particolare si faceva riferimento ad un piano antiviolenza che è stato pensato e scritto senza che, ancora una volta, i centri antiviolenza e le associazioni che si occupano di violenza sulle donne fossero consultate. È come dire che al governo piace decidere sul destino delle donne senza consultare le donne stesse. Da un approccio di questo tipo non poteva che venir fuori un insieme di azioni che non rispettano la memoria, l'esperienza, che altre hanno maturato lavorando in quel campo. Orgogliosamente chi si occupa di violenza di genere a consulenza del ministro per l'Interno, presentava poco tempo fa il "Percorso Rosa" che consta di una strategia tesa a spingere la donna che si rivolge a un pronto soccorso a denunciare. Non c'è accoglienza da parte di qualcuna che sa quel che deve dire in questi casi. Tutto viene affidato a chi non sa, ad esempio, che se una donna che subisce violenza si vede braccata nel pronto soccorso, obbligata a seguire un percorso che non ha neppure avuto il tempo di scegliere, probabilmente non si presenterà. Sarà intimidita e si piegherà di fronte alle brutali leggi dell'omertà. Di questa modalità, autoritaria e sovra-determinante, di interferire con le decisioni di una donna, quasi a intenderla incapace di scegliere per sé, si era già tanto parlato a proposito dell'impossibilità di ritirare la denuncia citata nella legge sul femminicidio. Qualunque persona che opera in un centro antiviolenza può dire che questo è il modo migliore per imporre alle donne il silenzio. Ed eccoci al Piano Antiviolenza, che colloca i centri antiviolenza tra mille altre organizzazioni e associazioni private, rendendole semplicemente funzionali all'istituzionalizzazione del salvataggio delle donne abusate. Si parla dunque di un legame stretto, una rete, che mette assieme le principali istituzioni di una città, Asl, procura, prefettura e polizie comprese. I centri antiviolenza, se gli va bene, potranno essere chiamati quando urge un posto presso una casa rifugio o quando dovranno fare da tassinare per portare le donne da un posto all'altro. Di tutta la capacità dei centri di rispettare e favorire nelle donne una decisione autonoma, che non sempre coincide con la denuncia, di tutta la fatica fatta per cercare di creare altre reti per aiutare le donne che hanno subito violenza pare che non importi proprio a nessuno. Non c'è valorizzazione per il lavoro reso in decenni di attività e quel che è peggio è che nella redistribuzione del 13 milioni di fondi da tempo in sospeso pur se destinati ai Centri, si compie un altro errore. Vengono affidati alle Regioni le quali, senza criteri trasparenti e soprattutto senza fare una distinzione tra associazioni e associazioni, potrebbe assegnare quei soldi un po' a casaccio. Non sono molti e dunque in realtà il problema è, come dicono i centri antiviolenza, che non garantiranno una ricaduta sul "reale sostegno dei percorsi di autonomia delle donne". Per i centri le risorse sono maggiormente dedicate al reinserimento lavorativo o sociale e invece discriminano molto i fondamentali percorsi di ascolto, accoglienza e ospitalità. Poi si oppongono al fatto che non si privilegia il femminile quando si parla di figure professionali dedicate a questo problema. E per finire fanno notare che la richiesta di un osservatorio che abbia la capacità di mettere assieme i dati che riguardano la violenza di genere viene esaudita ma con la sottrazione dell'incarico all'Istat e con l'affido a privati che gestiranno una sorta di "Banca Dati". Non colgo la necessità di parlare solo di personale femminile dedicato ma in generale trovo che i centri antiviolenza già da tempo avrebbero dovuto smettere di pietire risorse che non arrivano mai e avrebbero dovuto sviluppare una capacità di recupero di una autonomia economica che dovrebbe riposizionarle in una zona indipendente e non condizionabile dai capricci istituzionali e dall'oscillazione di interesse per il brand "antiviolenza" tanto sfruttato per la legittimazione del governo attuale e di quelli passati. La mancata indipendenza ha significato per alcuni centri la chiusura obbligata quando sono state revocate le convenzioni con i comuni. Ha significato a volte anche non assumere un atteggiamento chiaro quando si tratta di progetti per accogliere le prostitute vittime di violenza o le migranti prive di permesso di soggiorno. Quel che passa in secondo piano, poi, è la necessità, da più parti richiesta, di mettere in luce organizzazioni che si occupino anche di violenze omofobiche, o nelle coppie gay, lesbiche o violenze contro le trans. La violenza di genere va considerata a tutto tondo, inclusa quella che riguarda uomini che disertano il ruolo patriarcale e pagano un prezzo salato per questo. Ci sono mille libertà da tutelare e molte persone che giusto in questa fase di transizione e di rielaborazione sulla maniera di dirsi necessari a risolvere un percorso, potrebbero contribuire a rilanciare, invece che a sparire, perché è tempo di guardare alle soluzioni preventive, ad un contributo culturale che possa essere utile a modificare l'immaginario di cui tutti ci nutriamo. Serve che i centri, per esempio, facciano politica e dicano, con chiarezza, che il loro impegno dovrà essere risolto anche a tutela delle donne che vogliono cambiare sesso, vivere la propria sessualità in modo differente o di quelle che migrano, senza tutele, o vogliono abortire, perché tutto ciò è violenza di genere e non sempre dipende da un maschile che in alcuni casi viene tirato in ballo come se fosse la spiegazione per tutti i mali del mondo. Spero che quindi una riflessione critica possa riguardare i centri, il governo, e chiunque si occupi di violenza. Per rappresentare le proprie istanze, comunque, i centri antiviolenza manifesteranno oggi a Roma per chiedere ancora una volta che delle donne si parli con chi quelle donne le conosce e le ha aiutate da lungo tempo. Io spero che qualcuno le ascolti. E se così non è, allora, vi aspettiamo qui fuori per raccontare un'altra antiviolenza. La nostra. Giustizia: no-Expo; "mai stati a Milano", i cinque ragazzi francesi in cella senza prove di Damiano Aliprandi Il Garantista, 7 maggio 2015 Sono nel carcere genovese del Marassi i cinque ragazzi francesi sospettati dalla Procura di aver fatto parte della guerriglia urbana durante l'Expo di Milano. Si dichiarano innocenti e dicono di non esserci proprio stati a Milano. Spetterà comunque ai magistrati e alla Digos della città della Madonnina cercare un fermo immagine, un frame o qualche foto in cui si veda che uno di questi stia spaccando una vetrina, scagliando una pietra o una molotov, oppure dando fuoco ad un'auto. Senza di ciò, i cinque risulterebbero estranei agli incidenti di venerdì scorso. Ma perché sono stati tratti in arresto? A Genova era una notte inoltrata di domenica - due giorni dopo i fatti di Milano - quando alla centrale operativa delle Volanti giunse una telefonata di una guardia giurata. Segnala quattro giovani, tre maschi ed una ragazza, che stavano sfasciando delle macchine in Largo Zecca. La polizia arriva sul posto alle 5,40, ma gli autori dei danneggiamenti riescono a scappare e si barricano in casa. Uno dei poliziotti cerca di entrare da una finestra del primo piano, si arrampica da un tubo dell'acqua ma non è riuscito a salire. Ci sono voluti i vigili del fuoco per abbattere la porta di ingresso. Dentro la casa vi erano i quattro che hanno danneggiato le auto, un altro giovane ed una donna, la titolare del contratto della casa. Dentro l'appartamento sarebbero stati rinvenuti materiali riconducibili alla protesta da parte dei 500 Black Bloc a Milano e forse utilizzato durante la guerriglia e gli scontri con polizia e carabinieri. Spetterà comunque alla Procura di Milano cercare elementi per comprovare i loro sospetti. Al vaglio della Digos genovese ci sarebbero l'abbigliamento (tute nere), alcune mascherine sanitarie, una bomboletta spray e soprattutto la cartina del capoluogo lombardo e il biglietto di ingresso al casello autostradale di Milano che porta la stampigliatura delle 22,59. I magistrati milanesi, però, dovranno cercare elementi che possano provare la partecipazione dei cinque francesi ai disordini di venerdì scorso: foto, video o qualche telefonata. Però uno degli arrestati si difende: "Non sono mai stato a Milano e tanto meno ho partecipato agli scontri dell'Expo. Sono a Genova da una settimana e sono venuto a trovare il mio amico Pierre Boilleau che studia qui". Lo ha dichiarato al suo legale Luc Robert Gauthier, 24 anni, uno dei cinque presunti black bloc francesi arrestati. Gauthier ha sostenuto di non essersi mai allontanato dalla Liguria e di non avere partecipato ad alcuna manifestazione. Anche Boilleau, 24 anni, ha detto al suo legale "di non essere mai stato in Lombardia", ma di essere a Genova da sei mesi "a seguire un corso di studi Erasmus e di non avere mai preso parte a disordini". Di certo se mai dovessero essere accusati, il reato contestato sarebbe "devastazione e saccheggio". Un reato con una pena pesantissima: può arrivare fino a 15 anni di galera. Il reato di devastazione e saccheggio è una eredità dal codice Zanardelli. Faceva parte delle imputazioni che attentavano alla sicurezza interna dello Stato, tant'è vero che in un unico articolo erano previste insieme "guerra civile, devastazione, saccheggio e strage". Reato politico per definizione, la sua applicazione richiedeva una violenza politica organizzata sotto il profilo associativo. Con il varo del codice Rocco, "devastazione e saccheggio" perde una parte della sua estensione e politicità. Le condotte incriminate vengono suddivise: alla vecchia "devastazione, saccheggio e strage finalizzati alla sovversione dello Stato", reato punito con l'ergastolo si affianca il semplice danneggiamento. In mezzo c'è il 419 cp, ovvero la sola "devastazione e il saccheggio", punita con pene che oscillano da 8 a 15 anni. Si tratta di un reato contro l'ordine pubblico, privo però di una precisa definizione per quanto riguarda l'estensione, l'intensità e la gravità dei fatti incriminati. Indeterminatezza che contrasta la Costituzione la quale prevede condotte "determinate e precise" per ogni reato. Questo reato è stato predisposto dal regime fascista per ovvi motivi. Ma a renderlo efficace e più raffinato contro i movimenti di piazza è stata la magistratura che ha ridotto l'ambito di estensione delle condotte di danneggiamento e di furto per poter ritenere compiuto il reato più grave di devastazione, anche di fronte ad episodi circoscritti sia nel tempo che nello spazio. Il paradosso è che che i dirigenti di polizia che hanno permesso che si torturassero i ragazzi nelle caserme Ranieri a Napoli e Bolzaneto a Genova, sono stati condannati a pene di 3 anni, mentre i 10 manifestanti del G8 di Genova sono stati condannati a 100 anni di carcere. Vale più il bene materiale rispetto alla dignità di una vita umana? Giustizia: liberazione anticipata e unificazione pene, sciogliere cumulo per verifica requisiti www.quotidianogiuridico.it, 7 maggio 2015 Cassazione Penale, Sentenza, Sezione Prima, 27 aprile 2015, n. 17412. Pronunciandosi su una vicenda in cui il Presidente del Tribunale di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo presentato da un detenuto "su liberazione anticipata", la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17412/2015, - nell'accogliere la tesi difensiva con cui si rappresentava che il detenuto aveva già espiato la pena inflittagli per i reati c.d. ostativi all'applicazione del beneficio richiesto - ha affermato che, in presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti in esecuzione, è legittimo lo scioglimento del cumulo quando occorre procedere al giudizio sull'ammissibilità della domanda di concessione di un beneficio penitenziario, il quale trovi ostacolo nella presenza nel cumulo di uno o più titoli di reato inclusi nel novero dei delitti elencati nell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, al fine di accertare se il condannato abbia o meno terminato di espiare la parte di pena relativa ai delitti cosiddetti ostativi. Giustizia: Anac, così i dipendenti pubblici segnaleranno i colleghi "corrotti" di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2015 Se tutti i dipendenti pubblici devono trasformarsi in "sentinelle anticorruzione", la riservatezza di chi segnala possibili reati ha bisogno di una tutela "effettiva ed efficace", e non di una protezione "generale e astratta" come quella prevista dalla legge anticorruzione e rilanciata dal decreto sulla Pa della scorsa estate. Per passare dalla tutela promessa a quella reale, l'Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone mette in campo un sistema informatico di gestione delle segnalazioni, che confluiranno in una casella mail accessibile al solo presidente dell'Anac, il quale le assegnerà a un gruppo di lavoro ad hoc, con la promessa di "definire" entro 120 giorni la segnalazione, decidendo se debba avere effetti o no. A fissare le regole è la stessa Anac, nella determinazione 6/2015 diffusa ieri dopo una consultazione con le Pa che definisce le regole operative del whistle blowing. Come denuncia il nome (letteralmente:?"soffiare nel fischietto"), questa attività è tipica del mondo anglosassone ma praticamente sconosciuta da noi, e consiste nel denunciare illeciti di cui si viene a conoscenza in ufficio. L'Anac ci crede, e per questa ragione forza nei limiti del possibile una normativa piuttosto zoppicante, chiede a Governo e Parlamento di intervenire per migliorarla ma soprattutto getta le basi per attuarla nel modo più ampio. Oggetto di tutela sono tutti i dipendenti delle Pa, compresi gli enti di diritto privato a controllo pubblico, che segnalano possibili atti di corruzione o cattiva gestione purché, spiega la determinazione, non siano fondati solo su "sospetti o voci". Attenzione:?a far scattare la segnalazione non serve un sospetto di reato, perché l'Anac chiede di vigilare anche su "sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro" e così via. La segnalazione andrà fatta al responsabile anticorruzione di ogni ente, che girerà il tutto all'Anac con un modulo informatico già disponibile sul sito dell'Autorità:?modulo, assicura l'Anac, che arriverà in una botte di ferro, cioè nella casella mail letta dal solo Cantone. Giustizia: la mediazione civile non va, gli organismi iscritti sono diminuiti da 1.000 a 300 di Gabriele Ventura Italia Oggi, 7 maggio 2015 Fuggi fuggi dalla mediazione. Gli organismi iscritti al registro tenuto dal ministero della giustizia sono infatti passati dagli oltre mille di fine 2011, quando la mediazione obbligatoria era a pieno regime, ai poco più di 300 attualmente registrati nel nuovo albo istituito un mese fa dal ministero della giustizia. Stesso discorso per gli enti di formazione: da oltre 400 sono passati a 110 iscritti nel nuovo elenco. L'occasione per fare i conti sull'istituto avviato dal dlgs n. 28/2010 e rinnovato dal dl n. 69/2013, è l'avvio del nuovo registro informatizzato del ministero della giustizia, nel quale, dal 6 aprile 2015, sono iscritti solo gli organismi e gli enti che hanno inoltrato i propri dati mediante il sistema informatico, secondo quanto previsto nella circolare 18 settembre 2014. E se da un lato via Arenula afferma che sono in fase di compilazione, lavorazione da parte dell'amministrazione o in coda per il controllo e la chiusura della procedura, in tutto circa 200 domande da parte di organismi di mediazione e altre 100 di enti di formazione, il crollo degli operatori interessati a investire nella mediazione è di almeno il 50%. Basti pensare, tra l'altro, che dalle ultime statistiche diffuse dal ministero della giustizia, aggiornate a novembre 2014, gli organismi attivi risultavano 933: 87 delle camere di commercio, 642 privati, 114 aderenti all'ordine degli avvocati e 90 di altri ordini professionali. Ricordiamo, infatti, che dal 6 aprile scorso, nella pagina web del sito del ministero della giustizia, alla voce registro organismi di mediazione ed elenco enti di formazione, sono presenti i soli organismi che hanno provveduto a inoltrare all'amministrazione tutti i dati mediante il sistema informatico. L'amministrazione, dopo aver validato i dati inseriti dagli organismi e dagli enti che, nel loro stesso interesse, abbiano provveduto agli adempimenti previsti dalla stessa circolare, provvederà all'inserimento nei nuovi registro ed elenco e ad oscurare i dati presenti sul vecchio registro e sul vecchio elenco. Con il sistema rinnovato avviato da via Arenula è possibile consultare anche l'elenco dei mediatori, che attualmente risultano essere circa 12.600. I formatori iscritti al nuovo albo, invece, sono oltre 600, e si dividono in docenti di ordine pratico, teorico, o entrambi. È consultabile anche il numero di enti per cui opera il mediatore e il formatore. Nella pagina web dedicata dal ministero della giustizia (mediazione.giustizia.it), infine, è possibile effettuare: richieste di iscrizione di nuovi organismi ed enti di formazione, operazioni di richiesta di modifica e di cancellazione, comunicazioni. Giustizia: abbiamo un problema… la violenza ci piace, basta che stia lontano di Alessandro Robecchi Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2015 Siccome durante gli anni di piombo ero già abbondantemente sceso dal triciclo, conosco l'importanza della presa di distanza. Erano tempi in cui la premessa era d'obbligo per non insozzare qualunque possibile discorso: "Premesso che sono contro il terrorismo". Bene, comincerò allo stesso modo: premesso che sono contro i black bloc, che non ne subisco il fascino nichilista e simil-punk, e che ho un alibi di ferro per la giornata del primo maggio (ero a casa guardare i black bloc alla tivù). Ecco, premesso tutto questo e guardando la questione da una prospettiva più politica, dirò che abbiamo qualche problemino con la violenza, la protesta, la ribellione. Come in molte altre cose, siamo un po' schizofrenici, e parlo soprattutto di informazione (una cosa un po' più complessa di giornali e telegiornali, ma ci stanno dentro anche loro). È una specie di visione asimmetrica, uno strabismo variabile. Perché invece le rivolte piacciono molto. I giovani di Hong Kong hanno tenuto le prime pagine per giorni, le varie primavere arabe, dove pure è scorso molto sangue, hanno trasformato certi commentatori in tifosi da curva. Persino le violente manifestazioni di Francoforte (c'erano anche i black bloc) per l'inaugurazione della nuova sede della Bce costata un miliardo e 300 milioni hanno raccolto qualche vaga simpatia, o almeno comprensione. Per non parlare delle rivolte urbane dei giovani neri negli Stati Uniti, con o senza mamme che li portano via. Insomma, non è vero che non ci piace la protesta, la rivolta, la ribellione, e anzi sembriamo gradire parecchio quando avviene in casa d'altri, lontano. Eppure anche qui l'atto di ribellione è spesso evocato e anzi paternalisticamente consigliato. Si dice ai giovani, spesso e volentieri, ma perché non vi ribellate? Siete apatici, inani, sdraiati... è ormai un refrain quello della generazione delle rivolte che dice ai figli un po' seccata: ma insomma, perché non fate casino? Non mancherebbero i motivi, diciamo, anche solo per restare ai casi di cronaca come l'Expo. In un paese che ha il 43 per cento di disoccupazione giovanile, per esempio, il Grande Evento che deve fare da volano all'economia utilizza oltre diecimila giovani volontari non pagati, con la promessa che riceveranno in cambio un sorriso da mettere nel curriculum. Che affiori un po' di rabbia e che possa volare qualche sasso, cosa sempre spiacevole, mi parrebbe da mettere nel conto. Ma c'è di più. La violenza non piace mai, ma è fotogenica. Chiedere per esempio alle migliaia e migliaia di insegnanti che hanno fatto flash-mob contro la riforma della scuola, hanno acceso lumini, hanno protestato civilmente, pacificamente e persino elegantemente. Zero titoli, zero righe, manco un trafiletto. Avessero preso a martellate un Bancomat o divelto lo specchietto a un taxi, sarebbero finiti con gran clamore sui giornali e nei Tg. Dunque abbiamo un problema con la violenza: che se c'è, la protesta viene resa visibile (a volte tra le righe dell'indignazione si trova persino qualche noterella sulle motivazioni); se non c'è e protesti pacificamente e con grande senso civico, per dirla tecnicamente, non ti caga nessuno e al massimo le tue ragioni finiscono accanto alle farmacie di turno e a "cerco dog-sitter". Quando le parti saranno invertite - che so, le prime dodici pagine di quotidiano dedicate al corteo pacifico e solo un trafiletto per l'auto bruciata dai teppisti - avremo risolto in parte i nostri problemi con la violenza, la protesta e la rivolta. E con l'ipocrisia. Giustizia: caso Pizzolato; Tar Lazio sospende l'estradizione in Brasile dell'ex banchiere Ansa, 7 maggio 2015 Il Tar del Lazio ha sospeso l'estradizione in Brasile di Henrique Pizzolato, in seguito al ricorso della difesa dell'ex banchiere. Lo riferisce il legale dell'italo-brasiliano, avv. Alessandro Sivelli del foro di Modena. È stata fissata un'udienza per il 3 giugno. "Certamente fino a tale data Henrique Pizzolato rimarrà in Italia", spiega l'avvocato. Nel ricorso era stato evidenziato che il Ministro "ha assunto la decisione utilizzando documenti nuovi inviati dal Governo brasiliano, non messi a disposizione della difesa dell'interessato e inoltre che il provvedimento contraddice la recente legge approvata dal Parlamento italiano, che consente ai cittadini italiani, detenuti in Brasile, di scontare la pena in Italia". Pizzolato, continua Sivelli, "ha infatti sempre dichiarato di essere disposto a scontare la pena in Italia e auspica che il Ministro voglia chiedere all'Autorità Giudiziaria italiana di celebrare il procedimento in Italia, con le garanzie previste dal nostro codice. Ricordiamo ancora una volta che Henrique Pizzolato è stato condannato dal Supremo Tribunale Federale brasiliano in un unico grado di giudizio, senza possibilità di impugnazione, procedimento nel quale i diritti della difesa non sono stati rispettati". Nel ricorso si è sottolineato anche che il provvedimento di estradizione "contraddice un precedente provvedimento con il quale era stata negata l'estradizione in Brasile di un cittadino italo brasiliano". Infine "è stata ancora una volta evidenziata la drammatica e non risolta situazione delle carceri brasiliane nelle quali i diritti della persona non vengono rispettati". Lettere: suicidio "da giustizia", quanto pesano le parole di Adriano Sansa Famiglia Cristiana, 7 maggio 2015 Un uomo, pediatra stimato, si getta da un ponte a Genova. Sua moglie sta per seguirlo, ma non vi riesce. Qualche anno fa la famiglia era stata sconvolta da un altro suicidio. I coniugi erano in difficoltà, vicini alla separazione. Il loro figlio, accusato di traffico internazionale di medicinali rubati, era agli arresti domiciliari. Nell'auto del pediatra si trova un biglietto: "La magistratura miope a volte uccide". Il procuratore di Monza, che conduce l'inchiesta, soggiunge: "Ormai dicono tutti così". Poi spiega d'avere appreso con dolore del dramma e di aver voluto amaramente constatare che spesso si usa la magistratura come capro espiatorio. Quanto dolore ha colpito quell'uomo. Quali eventi possono aver causato il suo gesto che ci appare disperato. Nessuno saprebbe dire quanto abbia pesato il processo contro il figlio. Nessuno crede che la giustizia possa non procedere per timore di ferire i congiunti degli indagati. Il procuratore ha spiegato, a sua volta ferito dalle critiche, di non aver voluto mancare di rispetto al dolore e di avere espresso il rammarico per un costume che non di rado ha dato ai giudici colpe non loro. Un'amara lezione ci raggiunge: le parole di tutti contano, alleviano il male o pesano come pietre, aggravandolo. Il loro uso, e l'abuso, sono nella nostra personale e collettiva responsabilità: di ciascuno, e dei mezzi di comunicazione che le riportano. Liguria: Sappe; alla Festa della Polizia penitenziaria si ammetta il fallimento www.ivg.it, 7 maggio 2015 "Sarebbe onesto che il Provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria della Liguria, nel suo saluto in occasione della festa del Corpo della Polizia Penitenziaria che sarà celebrata l'8 maggio in tutti gli istituti della Liguria, ammettesse il fallimento della gestione dei penitenziari liguri. Non si può certamente definire positiva la gestione degli istituti della regione dove le cronache raccontano un decremento del livello della sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria sempre più solo e senza strumenti per fronteggiare ed arginare innumerevoli eventi critici". Questo è il commento del segretario regionale del Sappe, Michele Lorenzo, in occasione dell'annuale del Corpo, che, continuando, afferma: "L'assurdo si palesa nella realtà quotidiana quando non vi sono nemmeno i guanti protettivi per le perquisizioni o una tutela per operare in presenza di detenuti affetti da patologia infettiva ma nemmeno nessuna attenzione per i detenuti affetti da problemi psichiatrici lasciati nelle sezioni ordinarie e tutto rimane inascoltato anche da parte dei politici". "La Polizia Penitenziaria è prioritariamente deputata alla sicurezza - ricorda Lorenzo - oggi invece la politica gestionale voluta dai vertici non imprime nessuna attenzione per l'incolumità del poliziotto negli istituti liguri, e questo non si può accettare". "Il Sappe della Liguria comunque non vuole assolutamente attivare alcuna forma di protesta pubblica - afferma - perché la dignità e la durezza del lavoro del poliziotto va rispettata e riconosciuta ed è giusto festeggiarlo. Ma non possiamo dimenticare l'extra attività effettuata nel 2014, e non riconosciuta, la Polizia Penitenziaria ligure ha fronteggiato quasi 1.000 eventi critici tra i quali spiccano i 300 casi di detenuti autolesi per protesta o i 32 tentativi di suicidio sventati solo grazie al pronto intervento dei poliziotti, oppure le 26 aggressioni che il personale ha subito ai quali si devono aggiungere 3 incendi e i 10 danneggiamenti alle celle. Ma l'attività di prevenzione della Polizia Penitenziaria si è maggiormente concentrata nel controllo agli accessi dove sono stati sequestrati oggetti non consentiti e cospicue quantità di sostanze stupefacenti. Concludendo il segretario regionale Lorenzo sostiene- a fronte di questa attività del Poliziotto penitenziario ligure corrisponde l'inerzia dell'Amministrazione che non accetta la critica sindacale e movimenta selvaggiamente il personale da un istituto ad un altro come se fossero le pedine di una scacchiera". Napoli: il detenuto suicida in cella a Poggioreale era stato rifiutato dai familiari La Repubblica, 7 maggio 2015 Non aveva mai potuto lasciare il carcere perché non sapeva dove andare: era stato rifiutato finanche dai familiari. Il giudice gli aveva applicato la misura alternativa degli arresti domiciliari senza mai poterla far eseguire; soltanto nell'ultimo periodo era stata trovata un'alternativa grazie ai volontari e alla direzione del carcere. Ma non c'è stato tempo: Giovanni Iazzetta, 51 anni, di Afragola, si è tolto la vita a Poggioreale l'altro giorno, impiccandosi con la cinta dell'accappatoio. Il particolare del rifiuto, triste e drammatico, è emerso in queste ore, indagando sui motivi del gesto estremo del detenuto. La direzione del carcere si era interessato del caso dopo che era emersa chiara l'impossibilità di ottenere un domicilio per gli arresti a casa. Sposato, due figlie, arrestato dai carabinieri dopo una rapina in una farmacia a Crispano, Iazzetta era stato rifiutato proprio dai familiari. Nel senso che la direzione del carcere non aveva potuto dare seguito al provvedimento degli arresti domiciliari. Tra gli stessi operatori sociali e i volontari che lavorano a Poggioreale era scattata una gara di solidarietà che sembrava aver raggiunto un risultato: proprio nei giorni scorsi era arrivato un assenso di massima da parte di un dormitorio. Una corsa inutile: l'altro giorno la decisione di farla finita. Una sorpresa (e un dolore forte) per gli operatori e per lo stesso direttore di Poggioreale, Antonio Fullone, che personalmente segue i casi più difficili all'interno del carcere. Una vita sul filo, sfortunata, quella di Iazzetta. Abitava nella zona dei cosiddetti "mattoni", alla periferia di Afragola. Qui lo conoscevano tutti. Una vita bruciata da alcol e droga, scandita da un incessante via vai dal carcere, inframmezzato da una misera quotidianità nell'orrida edilizia delle palazzine popolari Iacp di Afragola, i "mattoni" appunto, e che per panorama e sky line hanno i palazzoni del rione Salicelle, un altro posto difficile in mano alla camorra. Una volta rinchiuso in carcere, Iazzetta era stato preso in carico ma anche assistito dalla polizia penitenziaria e dal personale che svolge una continua azione di affiancamento e monitoraggio. Si era rincuorato dopo aver appreso che poteva tornare a casa, ma si era subito abbattuto quando si era reso conto che la famiglia non aveva dato la sua disponibilità per i domiciliari. L'altro giorno la decisione di farla finita. E quando la notizia è stata data fuori, a casa, gli stessi familiari si sono sentiti tramortiti. Firenze: incendio doloso all'ospedale, appiccato da un detenuto paziente psichiatrico La Repubblica, 7 maggio 2015 Le fiamme sarebbero state appiccate da un detenuto paziente psichiatrico che poi è riuscito a darsi alla fuga. È ricercato dalla polizia. Fiamme all'ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze. Evacuato un reparto. È successo questa mattina al servizio psichiatrico di diagnosi e cura dove un detenuto ricoverato ha appiccato il fuoco ad un materasso e, approfittando del marasma seguito al dilagare del fumo, è riuscito a fuggire lasciando l'ospedale. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e agenti della squadra mobile. Altri due pazienti anch'essi ricoverati nel reparto di psichiatria sono stati trasferiti in un'altra struttura di accoglienza dei servizi di salute mentale dell'Azienda sanitaria di Firenze essendo divenute inagibili le stanze dell'ospedale nel centro storico fiorentino. Il pronto intervento prima della squadra antincendio presente sempre all'interno dell'ospedale e poi dei vigili del fuoco ha consentito di circoscrivere le fiamme che, a un primo esame, non hanno intaccato le strutture murarie e non si sono estese ad altri locali. Il paziente, fino a pochi giorni fa ospite della struttura di accoglienza psichiatrica Le Querce nelle vicinanze di Sollicciano, era stato ricoverato nel reparto di Santa Maria Nuova per sottoporsi a cure ed accertamenti. Ha appiccato il fuoco una prima volta nel corso della notte, ma le fiamme sono state circoscritte dalla vigilanza interna che ha anche chiamato sul posto la polizia, e una seconda volta, intorno alle 9.30 stavolta facendo più danni. Appena eseguiti gli accertamenti sui danni, che non appaiono a un primo esame consistenti, "si conta di ripristinare il reparto nell'arco di pochi giorni. - fa sapere al Asl di Firenze in un comunicato - Nel frattempo i ricoveri vengono effettuati nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) dell'Annunziata, di Torregalli e delle Oblate". Milano: dalle carceri lombarde 100 detenuti al lavoro per l'Expo, lavorano a rotazione di Silvia Egiziano Ansa, 7 maggio 2015 Expo è occasione di lavoro anche per un centinaio di detenuti. Provenienti dalle carceri di Bollate, Opera, Busto Arsizio, sono impegnati per svolgere servizi di logistica, di accoglienza, di sostegno allo staff e unanimemente riconoscono che per loro l'esperienza all'Esposizione Universale è "un'occasione straordinaria". Il programma è stato messo a punto dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, e a quasi una settimana dall'apertura di Expo è stato accolto in termini estremamente positivi sia dai detenuti, sia dal Dap del Ministero della Giustizia. "Per noi è davvero un'opportunità - dice Pietro Dambrosio, 34 di Milano, detenuto a Opera, che insieme a quattro compagni di carcere ha potuto incontrare i giornalisti. Non è solo un' opportunità di lavoro, ma è anche un modo per mostrarci al mondo, una occasione di reinserimento". Una dei responsabili del progetto, Luigi Palmiero, dell' amministrazione penitenziaria, spiega che i detenuti sono stati selezionati tra coloro che possono usufruire della possibilità di lavorare all'esterno. Provengono in prevalenza dalle carceri lombarde, circa l'8% sono donne e il 35% stranieri. Tra questi c'è Ionut Soimosan, 28 anni, rumeno . "Sono detenuto da due anni e mezzo a Busto Arsizio - racconta - e per me è la prima esperienza di lavoro fuori da carcere. Il mio lavoro qui comincia la mattina ai tornelli di ingresso, poi mi sposto al Padiglione Zero, dove mi occupo dell' accoglienza: accompagno le persone e fornisco informazioni anche agli stranieri, perché parlo inglese e spagnolo. Per me e per tutti noi questa è un'opportunità per dimostrare alla gente che in carcere ci sono delle persone, non esseri che camminano". Alla prima esperienza di lavoro fuori dal carcere anche il 30/ne marocchino Sandar Salah, detenuto a Opera: "In carcere - dice - abbiamo fatto un corso per accogliere e informare i visitatori di Expo. Ringrazio il Dap per averci questa opportunità. Loro ci hanno messo la faccia, noi ci mettiamo l'impegno per dimostrare che siamo capaci". Di accoglienza si occupa anche Michele Beracci, 57 anni, originario di Napoli: "Alla mia età - racconta, visibilmente emozionato - non avrei mai immaginato di ritrovarmi a lavorare qui all'Expo. Ringrazio il Dap, il direttore e tutti gli operatori del carcere di Opera che ci hanno ammesso a questo progetto, che per noi è una cosa stupenda. Sono quattro anni che non uscivo dal carcere. Prima facevo il cuoco, quindi questo è proprio il mio ambiente ideale". Roma: beni confiscati mafia destinati a casa-famiglia per le madri detenute con i loro figli di Francesca Cusumano (Associazione "A Roma Insieme") Ristretti Orizzonti, 7 maggio 2015 L'annuncio dell'assessora Francesca Danese di aver ottenuto due beni confiscati alla mafia per destinarli alla creazione di una casa famiglia protetta per le madri detenute con i loro figli, premia il lavoro di centinaia di volontari che, anno dopo anno, hanno donato il loro impegno per far uscire, almeno il sabato, i bambini da 0 a 3 anni fuori dal carcere di Rebibbia. "È un sogno che si avvera - commenta Gioia Passarelli, presidente dell'Associazione A Roma Insieme, fondata più di 20 anni da Leda Colombini, all'indomani dell'accordo siglato tra Tribunale, Comune di Roma e Dap per l'istituzione della prima casa famiglia protetta della capitale, in ottemperanza alla legge 62 del 2011. "Nessun bambino varchi più la soglia di un carcere" è stato lo slogan e l'obbiettivo da raggiungere che ci siamo posti fin dalla nascita - ha aggiunto la Passarelli - oggi possiamo dire, grazie alla tenace perseveranza dell'assessora Danese, alla disponibilità "illuminata" del sindaco Ignazio Marino e alla determinazione del giudice Guglielmo Muntoni, che questo traguardo di civiltà è molto più vicino, è quasi raggiunto. A tutti e tre - ha concluso - vanno i nostri più sinceri ringraziamenti per questa bella vittoria". Quando la "Casa di Leda" (nome indicato dalla proposta di Casa Famiglia già presentata all'assessora Danese da "A Roma Insieme" qualche tempo fa), sarà pronta, le detenute madri potranno scontare la loro pena tra mura domestiche, insieme ai loro figli piccoli, senza sbarre alle finestre, in linea con l'art. 27 della Costituzione che prevede la "rieducazione" e non solo la "pena" fine a se stessa per i detenuti, in modo particolare quelli che siano colpevoli di reati minori. Firenze: "troppi trasferimenti", detenuto in sciopero fame da 6 mesi è dimagrito 30 chili Redattore Sociale, 7 maggio 2015 Nel carcere fiorentino di Sollicciano Mario D. protesta contro i continui trasferimenti: "Non sono un pacco". L'uomo non cammina più autonomamente e presenta evidenti segni di disidratazione. I medici esprimono preoccupazione: "Rischia di morire". Deve scontare altri sette anni. Uno sciopero della fame lungo 6 mesi, dallo scorso novembre fino ad oggi. Mario D., detenuto del carcere fiorentino di Sollicciano, per 6 mesi si è nutrito quasi esclusivamente di liquidi ed è dimagrito 30 chili. Il suo corpo è quasi scheletrico, non deambula più autonomamente e presenta evidenti segni di disidratazione. È stato arrestato a Roma sette anni fa con l'accusa di omicidio. Deve scontare altri sette anni di galera. Ha cominciato la sua protesta prima di Natale, dopo il trasferimento dall'istituto penitenziario di Massa a quello di Firenze. "Non sono un pacco" avrebbe detto l'uomo dopo l'ennesimo trasferimento. È proprio questo il motivo della protesta, ovvero i continui trasferimenti da un carcere all'altro: prima da Rebibbia a Viterbo, poi da Viterbo a Prato, quindi da Prato all'Elba, poi dall'Elba ancora a Prato, infine a Massa. Stando alle ipotesi dell'amministrazione penitenziaria, l'ultimo trasferimento sarebbe arrivato in seguito ai sospetti di un presunto spaccio di droga all'interno del carcere di Massa organizzato proprio da Mario D. Il detenuto è già stato ricoverato due volte all'ospedale San Giovanni di Dio di Firenze, ma dopo le cure è rientrato in carcere. I medici del carcere fiorentino hanno più volte espresso preoccupazione, così come la direzione dell'istituto. Nella relazione di marzo, i medici hanno scritto che c'è "la possibilità di un repentino peggioramento del quadro clinico qualora la protesta in atto non venga velocemente interrotta". In sostanza, significa che l'uomo potrebbe addirittura rischiare un collasso e l'arresto cardiaco. Secondo l'avvocato David Santodonato, difensore del recluso, "il gravissimo stato di salute del detenuto è assolutamente incompatibile col regime carcerario, che in queste condizioni non riesce a svolgere la sua funzione rieducativa". A febbraio la difesa del recluso ha presentato un'istanza di sospensione della detenzione, che però è stata rigettata a marzo dal magistrato di sorveglianza. "Mario dovrebbe scontare la detenzione agli arresti domiciliari finché le sue condizioni di salute non migliorano" ha detto l'avvocato Santodonato. Nel caso i magistrati non concedessero la detenzione domiciliare, Mario ha già annunciato uno sciopero della sete. Mario D. è affetto da disturbi psichici, soffre di una patologia di tipo narcisistico. In più di una circostanza, ha avuto diverbi infuocati con i compagni di cella, ragione per cui in tutti questi anni non gli sono mai stati concesse uscite in libertà vigilata. È inoltre in corso un processo per aggressione ad altri detenuti nel carcere di Prato. Attualmente è in cella da solo, nell'area transiti di Sollicciano. Lamezia (Cz): il Sindaco Gianni Speranza "vicenda chiusura del carcere è allucinante" Ansa, 7 maggio 2015 "Ho letto sulla stampa del decreto del Ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando, sulla chiusura del carcere di Lamezia e sono rimasto sconcertato. È allucinante, oltre ad essere grave, perché nel decreto sono presenti notizie e affermazioni totalmente false. Com'è noto né io né l'amministrazione ha mai condiviso alcuna chiusura del nostro carcere". È quanto ha dichiarato, in una nota, il sindaco di Lamezia Terme Gianni Speranza. "Il 13 febbraio scorso - ha aggiunto - avevo chiesto al ministro Orlando e alla delegazione parlamentare calabrese un incontro sulla situazione del carcere ma non ho ricevuto alcuna risposta. Da ultimo, il 31 marzo scorso il nostro Consiglio comunale aperto ha discusso proprio del carcere con tutti i rappresentanti delle categorie professionali e le associazioni cittadine per ribadire il no alla chiusura della struttura e addirittura il verbale della seduta del Consiglio è stato anche inviato al provveditorato regionale. Proprio per questo l'affermazione contenuta nel decreto di chiusura è falsa ed assurda e quindi il decreto è per noi irricevibile e deve essere annullato. Vedo già che ci sono esponenti politici cittadini che, invece di protestare contro il Governo che ha chiuso il carcere, non trovano di meglio che attaccare come hanno fatto in tutti questi dieci anni il sottoscritto e "leccare" i potenti di turno. Come ho fatto in tutti questi dieci anni, oggi stesso scriverò nuovamente alla delegazione parlamentare calabrese ed al ministro Orlando per ottenere un incontro urgente e promuova immediatamente interrogazioni urgenti affinché il Ministro riferisca sulle notizie false e totalmente infondate presenti nel decreto di chiusura". "Domani, giovedì 7 maggio 2015, alle 12 - ha concluso Speranza - terrò una conferenza stampa per illustrare tutte le richieste, le comunicazioni e gli atti intercorsi tra l'amministrazione comunale ed il Ministero della Giustizia, il Ministro, il Viceministro, il provveditore ed i vari referenti dell'amministrazione penitenziaria dal 2012 ad oggi". Bruno (Provincia): disappunto per chiusura istituto Lamezia "La soppressione della Casa circondariale di Lamezia Terme ormai è realtà. Il nostro disappunto per quanto deciso dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha firmato nei giorni scorsi il decreto di chiusura della struttura penitenziaria, si aggiunge a quello dei molti che hanno protestato e combattuto per scongiurarne la chiusura". È quanto afferma Enzo Bruno, presidente della Provincia di Catanzaro e segretario provinciale della Federazione del Partito democratico di Catanzaro. "Una decisione - prosegue - che arriva nonostante gli appelli e le resistenze degli amministratori locali e la mancata condivisione di Presidente del Tribunale e Procuratore della Repubblica di Lamezia. La chiusura della Casa circondariale priva in maniera ingiustificata la città di Lamezia Terme, da sempre impegnata in prima linea nella lotta alla criminalità, di un fondamentale presidio di legalità e sicurezza che inevitabilmente indebolisce e depaupera ancor di più l'apparato di giustizia del territorio lametino. Il nostro pensiero in questo momento va anche al personale della Polizia penitenziaria, e alle loro famiglie, trasferito in altre strutture carcerarie, al cui inevitabile ed importante disagio si unirà quello degli operatori di diritto". "La storia della Casa circondariale di Lamezia - conclude Bruno - non può essere cancellata con una firma di decreto soprattutto perché non è stata assolutamente condivisa dalle istituzioni politiche e giudiziarie locali. Sarebbe opportuno sollecitare la deputazione calabrese, regionale e nazionale, di chiedere al ministro Orlando il ritiro del decreto". Torino: irruzione dei No Tav al convegno sulle carceri, minacce e fumogeni in sala www.torinotoday.it, 7 maggio 2015 Interrotto il convegno "Giù le mani dalle donne: voci dal carcere" in via delle Orfane. Gli attivisti hanno chiesto la liberazione di un compagno detenuto per gli scontri a Chiomonte e prima di allontanarsi hanno lanciato alcuni fumogeni. Un gruppo di una ventina di attivisti No Tav ha fatto irruzione nella serata di ieri a un convegno organizzato dalla Compagnia di Sanpaolo in via delle Orfane. Si stava parlando di carceri con il capo dell'ufficio detenuti di Torino, Marco Bonfiglioli, quando i manifestanti hanno fatto il loro ingresso in sala chiedendo la liberazione di un compagno detenuto in cella per episodi di violenza avvenuti a Chiomonte. Prima di lasciare la sala, gli attivisti No Tav hanno lanciato alcuni fumogeni e minacciato un ragazzo che aveva tirato fuori dalla tasca il cellulare per filmare quanto stava avvenendo. Sul posto sono intervenute le forze dell'ordine che ora indagano su quanto avvenuto. Gorgona (Li): un esempio di recupero dei detenuti grazie agli animali domestici di Roberta Ragni www.greenme.it, 7 maggio 2015 Coltivare la terra e svolgere attività con gli animali aiuta a raggiungere l'obiettivo di rieducazione, crescita culturale e reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Lo dimostra l'esperienza del carcere di Gorgona, l'ultima isola-penitenziario italiana. Ma tutto questo ha rischiato di finire per colpa della "spending review", che ha dato il via alla vendita degli animali legati al progetto per la rieducazione dei 70 detenuti del carcere dell'isola di Gorgona. Da oggi, però, ci sono ottime novità. Il Governo si è impegnato "a valorizzare e promuovere buone pratiche come l'esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell'isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici". Lo stabilisce il punto 21 della Mozione firmata da ventitré senatori fra i quali Amati, Cirinnà, Fissore e Granaiola (Pd), Mazzoni e Bonfrisco (Forza Italia), De Petris e Petraglia (Sel), Schifani (Ncd), Repetti (Gruppo Misto) approvata ieri con 170 voti a favore e solo 3 contrari dall'Aula di Palazzo Madama, nel corso del dibattito parlamentare per la promozione della cultura contro i maltrattamenti degli animali. "È un punto positivo di svolta per non far morire la positiva esperienza di recupero dei detenuti alla Gorgona così come le decine di animali come bovini, suini, pecore, capre, cavalli e galline che non devono essere utilizzati o venduti per la produzione e la macellazione", dichiarano le associazioni Lav ed Essere Animali, chiedendo che il Ministro della Giustizia Orlando ora passi dalle parole ai fatti. Basterebbe bloccare la cessione dell'attività di gestione degli animali sull'isola, recuperando intenti e professionalità che hanno consentito negli ultimi anni a questo carcere di essere un positivo esempio a livello nazionale e non solo, per il perseguimento dell'obiettivo costituzionale del recupero dei detenuti e della tutela degli animali come previsto dal Trattato dell'Unione Europea. Roma: il 3 giugno le telecamere della Uil-Pa web Tv nel carcere di Regina Coeli Ansa, 7 maggio 2015 Il prossimo 3 giugno una troupe di Uil Web Tv varcherà i cancelli della Casa Circondariale romana di Regina Coeli, armata di microfoni e telecamere, per effettuare un documentario sulla vita e le attività in carcere del personale di Polizia Penitenziaria. Durante le riprese del documentario saranno illustrate e spiegate da personale di polizia penitenziaria in servizio le varie attività svolte dalle donne e dagli uomini dei baschi blu: l'immatricolazione, il servizio nuovi giunti, le verifiche di sicurezza, le varie forme di sorveglianza, i colloqui, i passeggi, le attività socio-pedagogiche, il servizio delle traduzioni. "Sarà un'occasione per offrire ai mass-media, alla politica, alla cittadinanza ed alla società una informazione completa su quelle che sono le attività svolte dalla polizia penitenziaria nell'ambito di una delle realtà più complesse del sistema penitenziario come quella di Regina Coeli a Roma", dichiara Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-pa Penitenziari, che aggiunge: "Noi raccontiamo la verità, lo faccia anche Orlando. Dal 1 gennaio ad oggi 7 suicidi, 84 agenti feriti e 46 intossicati. Lo scopo del documentario - spiega Sarno - è informare con puntualità e completezza sulle nostre attività quasi sempre connotate da difficoltà operative e logistiche, ancor più in presenza di una grave carenza di organico". Libri: "Al di sotto della legge", conversazioni di Luigi Notari con Mauro Ravarino* Il Manifesto, 7 maggio 2015 Democrazia e polizia. Nel 1981 la polizia si spogliava del suo status militare. Un libro indaga il tradimento di quel cambiamento epocale e racconta dall'interno una istituzione poco democratica, dove il reclutamento avviene dall'esercito. Ma guerra e piazza non sono la stessa cosa. Ha vinto un apparato chiuso a riccio e lontano dalla società. Non tutti gli anni Settanta si sono chiusi il 14 ottobre del 1980 con la marcia dei quarantamila colletti bianchi a Torino. Per chi era rimasto indietro c'era ancora uno spicchio di decennio per la conquista di diritti prima negati. Il primo aprile del 1981 fu approvata con la legge 121 l'agognata riforma di polizia e così il nuovo ordinamento dell'amministrazione della pubblica sicurezza, che entrò in vigore il 25 aprile successivo. Nonostante un risultato comunque di compromesso, segnò un passaggio d'epoca. Gli agenti si spogliarono dello status militare e vestirono quello civile. "Un cambiamento culturale, il poliziotto diventò soggetto sociale e mediatore" commenta Luigi Notari. Erano passati dodici anni dai primi scossoni interni, una lotta quasi carbonara che si scontrò con la repressione dell'apparato. Oltre all'avvento della smilitarizzazione e della sindacalizzazione, anche le donne per la prima volta ebbero accesso nell'organigramma della polizia di Stato. Ma la legge 121, sostiene Notari, non fu mai completamente attuata, perché i tentativi di controriforma, per separare ancora una volta la polizia dalla società, iniziarono quasi subito. Che cosa interruppe quello spirito riformatore? "Anzitutto la paura di contaminazione da parte degli altri corpi. L'Arma dei carabinieri o la Guardia di finanza che, nonostante la presenza di un forte movimento democratico, non è riuscita a smilitarizzarsi e tuttora rimane l'unico corpo di polizia tributaria militare in Europa. E, poi, a opporsi all'applicazione piena della riforma furono gli stessi apparati della polizia di Stato. La riforma aveva introdotto una figura intermedia come l'ispettore, che incentivò il reclutamento di giovani cittadini diplomati. Quella dell'ispettore, mutuata dalle polizie europee, era un'intuizione straordinaria, perché si trattava di un ruolo che prevedeva più indipendenza e specializzazione nelle indagini, rispetto ad altre funzioni maggiormente suggestionate dalle prospettive di carriera. Ma la nuova figura suscitò perplessità tra gli ex sottufficiali e la preoccupazione da parte di chi dirigeva la polizia giudiziaria, ancora basata sul modello inquisitorio. Lo spirito riformista naufragò. L'alleanza tra apparati di polizia e gli altri corpi armati frenò bruscamente tale processo. E, poi, ci fu il caso Dozier". Il 17 dicembre 1981 le Brigate rosse rapirono a Verona il generale americano Nato James Lee Dozier. 40 giorni dopo, il 28 gennaio 1982, Dozier venne liberato dai reparti speciali dei Nocs, con un blitz in un appartamento a Padova. Dopo gli arresti, anche quelli avvenuti in corso di indagini, diversi militanti delle Br-Pcc vennero torturati dalla polizia. "Fu il primo caso di malapolizia dopo la riforma con il ricorso a strumenti illegittimi per estorcere la verità. I fatti accaddero alla vigilia del primo congresso nazionale del Siulp, che contava già 40 mila iscritti. Il caso Dozier minò il cambiamento democratico, perché la polizia si ripiegò su se stessa, si affidò ai tifosi, chiedendo consenso e provando a ricostruire la separatezza dalla società. Si trattò di un meccanismo infernale che si è poi ripetuto. Di fronte agli errori operativi e agli abusi, l'apparato tende a rinforzarsi e le strutture democratiche a indebolirsi. La polizia si autorappresenta come un totem, mettendo a rischio la trasparenza. È successo, vent'anni dopo, anche a Genova, nel 2001". I Novanta sono gli anni di un'involuzione autoritaria dell'istituzione, di un'americanizzazione della polizia italiana, di una rimilitarizzazione dopo l'illusione della riforma. Ecco il filo che porta al G8 di Genova. "Se si fosse fatta chiarezza sulla Uno bianca, non sarebbero accadute Genova e la Diaz. Nessuno ha pagato con la carriera, non c'è stata nessuna responsabilità oggettiva. Invece, dopo i 23 morti e i feriti, la più grande vittima della Uno bianca è stata la riforma di polizia. Oltre alla sicurezza dei cittadini". Se nel precedente decennio c'era stato il tentativo di minimizzare gli effetti della riforma, l'attacco al processo democratico nei Novanta fu diretto. In che senso? "La prima reazione strutturale alla riforma corrispose ai cambiamenti storici: il crollo dei partiti e l'avvento del maggioritario, che ha meno spazi di trasparenza e partecipazione, in politica come negli apparati, che hanno vita propria e si sentono più autonomi. Con il maggioritario prevale, nella pubblica amministrazione, la tecnocrazia. Il proporzionale, per sua natura, riusciva a far emergere istanze diverse. Il modello della governance risulta orientato a un'organizzazione gerarchica e decisionista, leaderistica. Più simile all'impostazione militare". La fine del servizio militare obbligatorio (2005) si riflette sulle forze di polizia. Con quale esiti? "Con la sospensione della leva non abbiamo più in polizia gli ausiliari, che consentivano un ringiovanimento dell'istituzione e una contaminazione culturale. Ma, soprattutto, si sono radicati nuovi modelli di reclutamento che, per i ruoli esecutivi, si rivolgono esclusivamente a chi ha completato un periodo di leva professionale, che può andare da uno a tre anni, in seguito al quale si ottiene il diritto di accedere ai concorsi in polizia. Una soluzione che è stata adottata anche per incentivare i giovani ad arruolarsi nell'esercito. Senza, però, occuparsi della loro formazione, affidata alle forze armate. Ma guerra e piazza non sono la stessa cosa. E, generalmente, la mentalità militare e più portata all'obbedienza, alla conformità. I controriformisti hanno ottenuto il loro scopo, rimilitarizzando la polizia, plasmandola come (parafrasando Ermanno Rea) "una fabbrica dell'obbedienza". L'apparato ha risanato la ferita della riforma". * Proponiamo un'anteprima di "Al di sotto della Legge" (Edizioni Gruppo Abele), dal 6 maggio in libreria. Una lunga conversazione su polizia e democrazia tra Mauro Ravarino, giornalista collaboratore del manifesto, ex "ragazzo di Genova" nel luglio 2001, e Luigi Notari, poliziotto di lungo corso, già segretario nazionale del Siulp, che ha ripetutamente contestato il conformismo dell'istituzione. Un incontro mai rituale in cui scorre un pezzo della storia d'Italia: dalla battaglia per la smilitarizzazione della polizia all'assassinio di Aldo Moro; dall'omicidio di Francesco Lorusso a Bologna alla strage del 2 agosto; dalla bomba sul Rapido 904 alla nascita della Seconda Repubblica; dalla Uno bianca alla rottura dell'unità sindacale; da Genova 2001 alla fine della leva obbligatoria; dalla Val di Susa alla Ferrara di Aldrovandi, una delle vittime degli abusi di polizia. Immigrazione: pronta la bozza di Risoluzione Onu di Carlo Lania Il Manifesto, 7 maggio 2015 Nazioni unite. Il Consiglio di sicurezza vicino a un accordo per intervenire nel Mediterraneo. Una bozza di risoluzione dell'Onu sull'emergenza immigrazione nel Mediterraneo sarebbe già pronta a New York e potrebbe essere presentata ufficialmente il prossimo 18 maggio. Nello stesso giorno, ma a Bruxelles, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini - che lunedì parteciperà a una riunione del Consiglio di Sicurezza Onu - presenterà le proposte con cui l'Europa intende contrastare i trafficanti di uomini che organizzano i viaggi di migranti nel canale di Sicilia. Stesso obiettivo di un piano presentato sempre ieri e sempre al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite anche dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Gli sforzi delle diplomazie europee e internazionali per fronteggiare l'emergenza immigrazione hanno avuto nelle ultime ore un'improvvisa accelerazione. Sforzi mirati soprattutto a ottenere presto il via libera da parte dell'Onu a un piano di intervento europeo nel canale di Sicilia che consenta di mettere fine a un immobilismo che dura ormai da mesi. La data fissata, per ora, è appunto il prossimo 18 maggio, giorno in cui si incroceranno due appuntamenti: a New York il Consiglio di sicurezza dovrebbe rendere pubblica la risoluzione necessaria a dare una cornice di legalità internazionale entro la quale l'Ue potrà agire. La bozza di testo su cui si sta lavorando avrebbe avuto il via libera già da Gran Bretagna e Francia, i due membri europei del Consiglio di sicurezza che, secondo quanto appreso dall'Ansa, avrebbero ormai posizioni "molto vicine". Un primo passo che ha consentito di avviare già ieri la discussione della bozza anche con Stati uniti, Russia e Cina. Anche se i contenuti della bozza sono ancora molto incerti, è bene ricordare come nei giorni scorsi proprio il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon abbia bocciato senza mezzi termini la proposta italiana di bombardare i barconi dei trafficanti all'ancora nei porti libici. L'ipotesi più probabile, è quindi quella che si tenterà di intercettare, abbordandoli e affondandoli, prima che i trafficanti li carichino di migranti. Lunedì prossimo comunque il consiglio di sicurezza tornerà a riunirsi nuovamente per fare il punto e alla riunione sarà presente anche la Mogherini che riferirà sui colloqui avuti nelle scorse settimane con l'Unione africana e i paesi arabi. È chiaro che la il caos politico e militare presente in Libia, Paese dal quale parte la quasi totalità dei barconi, rende la situazione estremamente delicata. Ma il 18 maggio sarà un giorno fondamentale anche per il fronte europeo, quando a Bruxelles si terrà il secondo appuntamento della giornata con la riunione del consiglio Affari Esteri e Difesa dei 28. Potendo presumibilmente già contare sul via libera avuto dalle Nazioni unite, la Mogherini presenterà il piano messo a punto in queste settimane. Pochi giorni fa l'Alto rappresentante ha scartato con decisione la possibilità più pericolosa vale a dire quella di un intervento armato. "Non stiamo preparando un'operazione militare in Libia", ha assicurato. L'idea sarebbe quindi quella di utilizzare al massimo le informazioni provenienti dai servizi per intercettare i barconi, dissuadere le partenze con una massiccia presenza di navi militari e provare a bloccare i flussi finanziari delle organizzazioni criminali. Inoltre si punterà a realizzare accordi bilaterali con i Paesi confinanti con la Libia in modo da bloccare i trafficanti prima che attraversino la frontiera. Il problema, non da poco, è che in questo modo si fermerebbero anche i migranti, uomini, donne e bambini in fuga da guerre e persecuzioni presenti nei Paesi di origine. Per loro il piano europeo prevedrebbe l'attuazione di quanto previsto dal processo di Khartoum, ovvero al realizzazione di campi estiti dalle organizzazioni internazionali dove verrebbero accolti e dove esaminare le richieste di asilo. Perché questo si concretizzi davvero, perché i campi non si trasformano in recinti utili solo a trattenere i migranti lontani dall'Europa, servirebbe però un impegno reale da parte dell'Unione europea a modificare il regolamento di Dublino, permettendo così una divisione più equa dei profughi tra gli Stati membri. Su questo punto però, finora purtroppo si sono registrate solo resistenze. Anche se va detto che un piccolo passo è stato fatto ieri con l'approvazione, da parte della commissione Libertà civili dell'Europarlamento, di una prima modifica al regolamento di Dublino che consente l'esame delle richieste di asilo presentate dai minori non accompagnati nel Paese in cui il minore si trova a e non in quello in cui è sbarcato e ha presentato domanda per la prima volta. Immigrazione: senza dignità non c'è accoglienza di Antonio Mattone Il Mattino, 7 maggio 2015 Ieri 562 profughi sbarcati a Napoli, l'altro ieri 652 a Salerno, domani chissà quanti altri. Il sistema dell'accoglienza rischia di saltare. Dove saranno sistemati tutti i migranti che stanno per arrivare dalle nostre parti? E come reagiranno gli abitanti di zone già segnate da endemici problemi sociali, mancanza di lavoro e di servizi? Già qualche giorno fa i cittadini di Cellole, nel Casertano, guidati dal loro sindaco erano scesi in strada per protestare dopo l'arrivo di 24 immigrati che dovevano essere ospitati in una villetta gestita da una cooperativa sociale. C'è da dire che le condizioni di questa struttura non sembravano garantire una degna accoglienza. Basti pensare che mancava l'acqua calda e non c'erano i letti per tutti gli ospiti. E qui sorge il problema di avere garanzie dalle associazioni che prendono in carico persone già provate da lunghi ed estenuanti viaggi, e dei relativi controlli che bisogna esercitare. Non è pensabile che non ci sia alcuna verifica sui luoghi dove andranno ad alloggiare i migranti. L'accoglienza non può diventare solo un business ma deve essere caratterizzata da un imprescindibile tratto umanitario e da una opportuna sostenibilità. Tuttavia bisogna anche dire che, soprattutto in questa fase elettorale, c'è chi specula sulle paure collettive e getta benzina sul fuoco per ottenere qualche consenso in più, semplificando una realtà estremamente complessa e difficilmente controllabile. Se non verranno rimosse alla radice le cause di questo esodo biblico non possiamo illuderci di fermare l'ondata migratoria che si sta riversando sulle nostre coste e finiremo per esserne travolti. E non basteranno i paventati blocchi navali o le sparate preelettorali a spaventare chi fugge da guerre e orrori. Ieri nel porto di Napoli sono sbarcati eritrei, sudanesi, pakistani, siriani. Gente che proviene da luoghi dove la vita non vale nulla. L'Europa non può più far finta che il problema non esita e deve farsene carico. Deve ridiventare un soggetto politicamente attivo ripristinando azioni di diplomazia internazionale nelle zone di conflitto, promuovendo interventi e progetti nei paesi in via di sviluppo e dando una significativa svolta all'operazione Triton che deve riacquistare quella natura di assistenza ai migranti che invece aveva caratterizzato Mare Nostrum. Solo per fare un esempio ieri nel porto di Napoli alcuni soccorritori lamentavano che con Mare Nostrum le operazioni di identificazione e di prima assistenza avvenivano già sulle navi, per cui quando i migranti sbarcavano nei nostri porti venivano immediatamente smistati nei centri di accoglienza o negli ospedali se avevano bisogno di cure. Dei profughi arrivati ieri a Napoli solo 121 resteranno in Campania, mentre gli altri sono già partiti per alcune Regioni del Nord. L'altro problema serio da affrontare è la ripartizione dei migranti nel territorio italiano. Un peso che non può gravare solo su qualche comunità, ma che deve essere ridistribuito equamente in tutti i territori della nazione. Le Regioni italiane possono farsi carico dell'accoglienza degli immigrati in proporzione alle loro risorse. Mi ha molto colpito l'esperienza del sindaco di Pozzallo e dei suoi cittadini, un paese di 19mila abitanti che in un anno ha visto sbarcare oltre 25mila persone. Lo scorso febbraio in un convegno sui migranti organizzato dalla chiesa di Napoli affermò con orgoglio: "Voglio essere il sindaco che accoglie i migranti e non l'amministratore che riceve cadaveri". E allora osservare ieri nel porto di Napoli rappresentanti delle istituzioni, volontari, medici, mediatori culturali operare insieme in sinergia e collaborazione era un bel vedere e un segno di speranza. Immigrazione: le richieste d'asilo arretrate che creano il caos dell'accoglienza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 7 maggio 2015 Esaminata solo una domanda su due: 40 mila migranti in attesa nei centri. Ci sono circa 40mila richieste di asilo presentate all'Italia che devono essere ancora esaminate. In attesa che arrivino le risposte il sistema di accoglienza rischia di andare in tilt. Gli accordi internazionali obbligano infatti le autorità del nostro Paese a provvedere all'assistenza dei profughi fino al termine della procedura, ma le commissioni territoriali appaiono ormai ingolfate e i tempi continuano ad allungarsi. Sono i dati trasmessi dal ministero dell'Interno al Parlamento a fotografare una situazione drammatica che si aggrava con il trascorrere delle settimane e i continui sbarchi di migranti. Perché dimostrano che soltanto una istanza su due viene "lavorata" mentre le persone alloggiate nei centri e nelle strutture temporanee ormai sono quasi 75 mila, alle quali si aggiungono 12 mila minori. Nel 2014 sono state presentate 64.886 richieste per ottenere lo status di rifugiato. Ne sono state esaminate soltanto 36.330 e di queste i138 per cento è stata respinta. L'arretrato si è sommato a quello degli anni precedenti, ma ciò che maggiormente preoccupa sono le nuove richieste perché dei 33.831 giunti sulle nostre coste fino al 4 maggio scorso, ben 20.858 hanno già chiesto di ottenere il riconoscimento. Secondo il Trattato di Dublino lo Stato dell'Unione europea dove il richiedente asilo ha messo piede per la prima volta ha l'obbligo di verificare i requisiti e dunque nel caso di chi arriva attraversando il Mediterraneo è l'Italia a dover provvedere. Tempi più rapidi servirebbero certamente ad alleggerire la situazione perché le statistiche dimostrano che almeno un terzo degli stranieri non ha diritto a ottenere la protezione internazionale, dunque non deve rientrare nel programma di accoglienza gestito dal Viminale. Nel 2014 su ci sono stati infatti 13.327 dinieghi e la stessa percentuale sembra confermata anche per i primi mesi di quest'anno visto che su 14.636 casi verificati, ben 6.927 sono stati giudicati non idonei. Più volte il ministro Angelino Mano ha aumentato il numero delle commissioni proprio per cercare di velocizzare il sistema e adesso si pensa di intervenire nuovamente per tentare di alleggerire la pressione sul sistema di accoglienza. Oggi pomeriggio al Viminale ci sarà un incontro con i rappresentanti di Regioni e Comuni. L'obiettivo è varare un piano più strutturato che consenta di non agire in emergenza per tutta l'estate alla ricerca di posti dove alloggiare i migranti. Più volte il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione, ha evidenziato la necessità di poter contare su un circuito stabile senza essere costretti ad allestire tendopoli oppure a chiuderli nelle caserme. Lo ha ripetuto ieri lo stesso Mano evidenziando come "non sarebbe giusto scaricare sulle Regioni che hanno l'onere del go per cento degli sbarchi anche il peso di accogliere da soli tutti i migranti". Un chiaro riferimento al Sud, con la Sicilia che può contare su 107 strutture temporanee e si fa carico del 23 per cento degli stranieri, la Calabria che ne ha 54 e ne prende i16 per cento, la Puglia con so luoghi di accoglienza e arriva addirittura all'8. Un peso notevole tenendo conto che la Lombardia ha 313 luoghi e si fa carico del 9 per cento dei migranti, il Piemonte ne ha tgo e finora ha accettato il 6 per cento pur facendo sapere di essere disponibile ad aumentare la capienza, mentre il Veneto ha 145 strutture e si ferma al 4 per cento. Sbarchi e tragedie non sembrano conoscere tregua, ma questo non appare sufficiente ad accelerare le trattative con l'Unione europea e con l'Onu per ottenere almeno il via libera alla distruzione dei barconi degli scafisti. E sembra sempre più difficile che alla fine si riesca ad ottenerlo. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà lunedì prossimo per discutere le strategie in materia di immigrazione, ma le resistenze già evidenti - quelle della Russia in particolare, ma non solo - rispetto alla possibilità di intervenire militarmente o con operazioni di polizia internazionale fanno ritenere che anche questa volta non si riuscirà a trovare l'accordo per la firma della risoluzione. Per questo l'Italia ha deciso di proseguire comunque all'affondamento dei mezzi, oppure al trasferimento in alcuni porti delle Regioni del sud o a Malta, visto che il governo de La Valletta sta mostrando piena collaborazione. Indonesia: una detenuta britannica "dopo i sette stranieri fucilati presto toccherà a me" di Andrea Pira Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2015 A una settimana dall'esecuzione di 8 trafficanti, Lindsay Sandiford, 58 anni, condannata per traffico di droga nel 2013, ha scritto al Mail On Sunday: "Non si tratta di sapere se, ma quando". La donna, che si prepara a presentare appello alla Corte suprema, sostiene di essere stata sfruttata dai trafficanti che minacciavano di uccidere il figlio se si fosse rifiutata di trasportare i 4,7 chilogrammi di cocaina con cui è stata fermata. Lindsay Sandiford è cosciente di poter essere la prossima a finire davanti a un plotone di esecuzione in Indonesia. Nel 2013 è stata condannata con l'accusa di traffico di droga. A maggio dell'anno prima fu arresta all'arrivo all'aeroporto di Denpasar, sbarcata dal un volo partito da Bangkok con nascosti in valigia 4,7 chilogrammi di cocaina. È trascorsa una settimana dall'esecuzione della sentenza di condanna morte di otto trafficanti, di cui sette stranieri, senza che le pressioni della comunità internazionale siano riuscite a muovere il presidente indonesiano Joko Widodo verso un atto di clemenza. All'ultimo soltanto una nona condannata, la filippina Mary Veloso è stata risparmiata perché testimone in un processo. La 58enne britannica ha pertanto affidato a una lettera ripresa dal tabloid Mail on Sunday i propri timori. "La mia esecuzione è imminente. So di poter morire da un momento all'altro. Potrebbero portarmi via dalla mia cella a Bali fino a Nusa Kambagan, l'isola delle esecuzioni, e darmi le 72 ore di preavviso prima di essere portata davanti a un plotone", si legge nell'incipit del testo pubblicato dal giornale, con il quale annuncia di aver iniziato a scrivere le lettere d'addio. "Il giorno della mia morte si è fatto più vicino con le esecuzioni di mercoledì, tra cui quella del mio caro amico Andrew Chan", continua. Il riferimento è all'australiano giustiziato il 29 aprile scorso assieme al connazionale Myuran Sukumaran, entrambi accusati di essere a capo dei "nove di Bali", un'organizzazione dedita allo spaccio e al centro di uno scontro diplomatico tra Jakarta e Canberra. Già all'indomani dell'esecuzione, che Sandiford aveva definito "brutale e senza senso, aveva ricordato la propria amicizia con Chan, di cu tesseva le lodi per il sostegno dato agli altri carcerati, e in un messaggio affidato al proprio avvocato non aveva nascosto di temere di essere la prossima. "Non si tratta di sapere se, ma quando", ha aggiunto la donna che si prepara a presentare appello alla Corte suprema indonesiana. Sandiford, che è già nonna, sarebbe infatti stata sfruttata dai trafficanti. La donna sarebbe di fatto stata costretta a fare da corriere sotto la minaccia di una banda di ucciderle il figlio. Secondo l'organizzazione umanitaria britannica Reprieve, ricorda anche Amnesty International, la magistratura indonesiana non avrebbe inoltre tenuto conto di attenuanti quali l'età e lo stato di salute. Attualmente è in corso anche una campagna di finanziamento per sostenere il ricorso alla Corte suprema. Sul sito dell'iniziativa si lamentano inoltre le carenze nel sostegno fornito dal governo di Londra alla propria connazionale. Dall'inizio dell'anno nell'arcipelago sono stati giustiziati 14 trafficanti, in maggioranza stranieri, il che ha contribuito alle tensioni non soltanto con l'Australia, ma anche con Brasile e Paesi Bassi che lo scorso gennaio avevano richiamato i propri ambasciatori in segno di protesta. Le esecuzioni hanno in parte offuscato agli occhi dell'opinione pubblica internazionale l'immagine di leader riformatore del presidente Widodo, la cui strategia per la lotta contro la droga è stata affidata al codice penale, mentre il predecessore, Susilo Bambang Yudhoyono, era più propenso a trattare la questione come un problema sanitario. E all'orizzonte non si vedono passi avanti. Il procuratore generale Muhammad Prasetyo ha spiegato che la proposta per abolire la pena capitale è ancora allo stadio iniziale. "È troppo presto per discuterne", ha commentato. Nord Corea: "il mondo deve aiutarci", diario di uno scrittore evaso dai campi di prigionia di Shin Dong-Hyuk La Repubblica, 7 maggio 2015 Sono nato in un campo di prigionia nordcoreano, e per molti anni ho pensato che la mia vita non avesse alcun significato. Nato prigioniero, non riuscivo a immaginare una vita diversa, né di poter essere io stesso qualcos'altro: ero uno schiavo, e non mi facevo domande. Respiravo la stessa aria di adesso, e sentivo gli stessi battiti del cuore, ma la mia vita non era migliore di quella degli insetti e degli altri animali intorno a me. Spesso li invidiavo, perché mangiavano meglio di me di sicuro, ed erano più liberi. Alcuni, come gli insetti e gli uccelli, potevano persino uscire da quel terribile inferno, e andare e venire come pareva loro. Non ho mai saputo esattamente perché i miei genitori siano stati rinchiusi in un campo, né tantomeno perché mi ci trovassi io. Credo che anche loro non fossero sicuri della ragione che li aveva portati lì, ma dopo un po' nei campi si smette di pensarci. Del resto ho saputo poi che è facilissimo essere imprigionati in Corea del Nord, a volte per delle infrazioni ridicole. Per esempio in Corea del Nord è obbligatorio avere in casa una foto del dittatore in carica, oggi Kim Jong Un, da esporre nel posto migliore e più visibile della casa, e da trattare con ogni cura. Ci sono delle ispezioni mensili, senza preavviso, per controllare lo stato della foto. Se per caso durante un'ispezione a sorpresa si trova la foto impolverata, o appesa male, o nella parete sbagliata, bene, questa è una ragione sufficiente per venire deportati. Se sul giornale compare un'immagine del dittatore e voi per caso lo ripiegate al contrario, oppure riutilizzate la pagina, oppure lo attorcigliate, o lo accartocciate potreste finire dritti in un campo di lavoro, prelevati senza troppe cerimonie mentre magari state mangiando o aspettando il bus. Questo stato di cose va avanti da settant'anni, ed è andato via via sempre peggiorando. Dopo la fine delle dinastie coreane e l'occupazione giapponese, Kim Il Sung è diventato il leader della Corea del Nord nel 1940, e ha istituito il nuovo sistema di governo. Da quel momento in poi per il mio popolo non è stato possibile sapere più nulla del mondo esterno, o molto poco, e tutte le informazioni arrivano dal regime. Non è legale possedere o far circolare libri che non siano quelli approvati (quasi tutte biografie dei nostri "Cari Leader" e variazioni sul tema). È vietato naturalmente possedere o leggere la Bibbia, che anzi è forse il libro più temuto dal regime. La televisione ha un solo canale, che trasmette sempre discorsi, parate, inaugurazioni di piscine, scuole o ospedali che spesso sono finzioni, e che vengono sempre presentati come doni del Caro Leader alla nazione. Ma voi che cosa pensereste se il vostro governo presentasse l'apertura di una scuola come un regalo? In realtà oggi all'interno del Paese molti hanno desiderio di informarsi su quello che succede al di là dei confini, ma ci vorranno anni e grandi sforzi affinché trovino il coraggio di ribellarsi a un sistema politico che per così tanto tempo ha esercitato un controllo totale sulle masse. Oggi il vero problema che paralizza il popolo nord coreano più che l'ingenuità è la paura: paura del Caro Leader, del suo regime, delle sue punizioni. Dal giorno della mia fuga (quasi dieci anni fa) a oggi non è cambiato nulla: i soprusi, le violenze, gli omicidi per mano di Kim Jong Un sono ancora all'ordine del giorno. Intanto il resto del mondo sta a guardare, e lascia che tutto questo continui ad accadere. Eppure un giorno dovremo intervenire, fare qualcosa. L'unica cosa che posso fare io è consegnare al mondo la mia voce e la mia storia, e far conoscere a voi gli eventi terribili che accadono in Corea del Nord. Ho vissuto in un inferno sulla terra per 24 anni, e ho capito solo dopo un po' che cos'è la libertà, quella che voi in Europa e in Occidente date per scontata, e che è invece il vostro bene più prezioso. La libertà sono io, è in me, è nel mio Dna, nella mia mente, nell'anima e nel corpo. Me ne sono reso conto tardi, ma ora so che è dentro di noi dal momento in cui nasciamo, anzi dal momento in cui siamo nella pancia di nostra madre. Non è un dono, non è qualcosa che qualcuno ci concede. La vita è preziosa, ma può finire in qualsiasi momento. Tutto può finire in un istante. Per questo vale la pena di combattere per la nostra felicità e per la libertà di tutti, ogni giorno.