Giustizia: picchiate gli anarchici... e fatemi ministro! di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 6 maggio 2015 Le continue esternazioni del dottor Gratteri. Stavolta è tornato a rivendicare il dicastero della giustizia e ha spiegato perché a Milano bisognava usare infiltrati, idranti e manganelli più grossi. Fosse stato per Gratteri, Expo non l'avrebbero mai finito - non che l'abbiano proprio finito, ma insomma, quasi. Anzi, fosse stato per Gratteri, Expo non l'avrebbero dovuto proprio cominciare. Metto assieme un piccolo florilegio di citazioni da interviste, dichiarazioni, comunicati, per giornali, radio, televisioni "dall'Alpi alle Piramidi dal Manzanarre al Reno", in merito. 25 ottobre 2014: "Gratteri: Expo, vetrina per mafie". 25 febbraio 2015: "Gratteri: per le mafie partecipare a Expo è una questione di prestigio". 7 marzo 2015: "Gratteri: se conosco la ndrangheta, penso che ci sia anche all'Expo". 15 aprile 2015: "Gratteri: chi mangia dentro Expo". Fino all'ultimativo, 16 aprile 2015: "Gratteri: su Expo ndrangheta c'è". Va da sé, che se la ndrangheta è quella cosa andava fermata, e che se non è stata fermata, troppe collusioni ci sono state. Certe volte, viene da pensare che Gratteri ce l'abbia su con Milano. Quando ci fu la carneficina al tribunale - che Claudio Giardiello s'era portato dentro la pistola eludendo i controlli e aveva cominciato a sparacchiare qua e là fulminando avvocati, testimoni, giudici, un'ordalia sembrava - lui se ne venne fuori che c'era troppo lassismo e "lei non sa chi sono io". E la soluzione stava nei Marshall americani, che si occupano della sicurezza dei magistrati ma si occupano anche della sicurezza dei palazzi di giustizia. Cioè, stava nel trasformare la Polizia penitenziaria italiana nei Marshall americani, che quelli non fanno passare neppure Mosè con le tavole della legge avute da Dio, neppure Cicerone con le Dodici tavole del diritto romano. Va da sé che per trasformare la Polizia penitenziaria italiana nei Marshall americani, bisognava stargli appresso, che lui proprio a quello stava lavorando. A gratis -scrivetelo questo che è importante. Insomma, disse Gratteri, "non esiste una differenza sostanziale tra chi è magistrato e chi è poliziotto o chi è avvocato, indagato o imputato. Tutti passano sotto al metal detector". L'ordalia del metal detector. La Polizia penitenziaria in questione, o quanto meno un suo sindacato, il Sappe, non riusciva a capacitarsi di questa cosa, che cioè ci fosse qualcuno che stava decidendo cosa fare di loro, senza però magari fargli una domandina, porgli un quesito, ascoltare un parere, accettare un'opinione. Come fossero merda secca. "Ma lui a che titolo parla?", dissero. Non conoscono l'uomo. Ieri, 5 maggio ("Ei fu. Siccome immobile / dato il mortai sospiro...") il nostro Bonaparte - intervista a Sky Tg24 - ha esternato sul "bordello" di Milano del Primo maggio. Figurati. "Bisogna dotare la polizia di idranti più potenti e dare più poteri ai reparti mobili: non è possibile affrontare centinaia di black bloc solo con i manganelli. Sono assoluta- mente favorevole alle manifestazioni di dissenso, ma non si può permettere la devastazione di una città, una cosa che ormai avviene puntualmente". E uno. "Bisogna far funzionare i servizi segreti, non è possibile che non ci sia un infiltrato all'interno di questi movimenti. Ed è impossibile che siano stati identificati solo cinque manifestanti, praticamente quelli che sono andati in braccio alla polizia". E due. Vi risparmio il resto, l'andazzo è questo. Sembra quasi suggerire che si potrebbe fare come a Piatì, Calabria, quando lui arrestò duecento persone (uno per ogni famiglia) e poi dopo dodici anni andarono assolti quasi tutti. Si potrebbe arrestarli prima, quelli dei centri sociali, gli anarchici, gli antagonisti, i no Expo, i no Tav, i no-qualche-cosa. Poi, fra dodici anni, li mandiamo assolti. Però, intanto, ce li togliamo dai coglioni. L'obiettivo sembra il ministro dell'Interno. Troppo lassismo. Sbagliate le regole di ingaggio. Dotazione insufficiente. Legislazione permissiva. Catena di comando ingarbugliata. Gestione della piazza debole e confusa. Potremmo fare ancora un passettino, dottor Gratteri. Gli idranti, sono quelle cose che usarono abbondantemente a Gezi Park, Istanbul, su mandato esplicito di un illuminato ministro e di un autorevole presidente, senza mai riuscire a fermare la protesta e la rivolta. Ci vollero nove morti, per fermarli. E se lo ricorda - cos'era, aprile? - quando due membri del Dhkp, che chiedevano "giustizia" sulla morte di Berkin Elvan, il ragazzo simbolo delle proteste di Gezi, presero in ostaggio il giudice Mehmet Selim Kiraz proprio dentro un tribunale? Con la bandiera e la stella a cinque punte, la pistola alla tempia e tutto il repertorio. Finì in una carneficina. È questo che vuole, "alzare il livello dello scontro"? O il problema è che bisogna mettere i Marshall americani pure ai tribunali di Istanbul? Se vuole, può passare direttamente alle pallottole di gomma. Beh, sì qualcuno ci resta secco, però succede di rado. Statisticamente, dico. Oppure, si può utilizzare direttamente il taser. I Marshall americani ce l'hanno il taser. E se per quello, magari che una legislazione tutta dalla loro parte non ce l'hanno, però trovano sempre un Grand Jury che li assolve, dopo che hanno sparacchiato di qua e di là, lasciando a terra qualche negro. Dico per dire. Lo so che lei è favorevole alla manifestazione del dissenso. Puntualmente, ogni volta che "alza" il livello dell'esternazione, il dottor Gratteri ricorda urbi et orbi che lui lo volevano fare ministro. Anche ieri, 5 maggio ("stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro...): "Il presidente del Consiglio fino a cinque minuti prima mi ha telefonato per dirmi: lei è nella lista dei sedici ministri. Non so chi si sia opposto al mio nome, evidentemente hanno pensato che non potessi garantire certi equilibri di potere". Entrò papa in conclave da Napolitano, uscì cardinale. Aveva tutto pronto, le nuove leggi, la nuova riforma, le nuove disposizioni per il ministero, i direttori da cambiare, quelli da nominare. S'era comprato pure il vestito nuovo (i calabresi di talento sono un po' così, chi non ricorda la Lanzetta il giorno del giuramento? C'hanno proprio il fuoco sacro delle istituzioni). Invece, nisba. Sta cosa, proprio gli s'è messa di traverso. I poteri forti si misero di traverso. Così, fa le veci del ministro. Fa come se fosse ministro. Fa il ministro extraparlamentare, legibus solutus (è latinorum, ma il dottore capirà). Ora, noi in Calabria che c'abbiamo un problema grande come una casa, con la disoccupazione più alta d'Europa, la tassazione più feroce del pianeta, le infrastrutture e i servizi più schifosi dell'universo, le imprese che vengono penalizzate invece d'essere aiutate come in un mondo sottosopra, la migrazione che sbarca qui pure dalla galassia più lontana, dai bastioni di Orione, noi qui in Calabria che vediamo cose che voi umani non potreste neppure immaginare, vorremmo avanzare una modesta proposta, ovvero che il dottor Gratteri si dedicasse solo a quello che meglio sa fare, qualsiasi cosa sia, invece di andarsene in giro a esternare, un giorno sì e l'altro pure, sul mondo. Mah. "Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza". Giustizia: il Senatore Luigi Manconi "basta bambini in cella, si può fare" di Luigi Manconi www.partitodemocratico.it, 6 maggio 2015 "Ogni anno una quarantina di minori (0-3 anni) si trovano detenuti con le proprie madri: la gran parte nelle celle e nei reparti ordinari dei nostri istituti penitenziari, con quali rovinosi effetti sullo sviluppo psicologico di quei bambini. La questione sarebbe agevolmente affrontabile ricorrendo a quanto già previsto dalla legge: case famiglia protette per madri e figli minori". Lo ha dichiarato il senatore del Pd dopo l'incontro con il ministro della Giustizia. "In un lungo e assai positivo incontro con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ho avuto conferme rassicuranti e impegnative sull'intenzione di risolvere in tempi rapidi la questione dei bambini in carcere". Lo ha dichiarato il senatore del Pd Luigi Manconi, Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani. "In media, ogni anno, e da tre lustri - spiega Manconi - una quarantina di minori (0- 3 anni) si trovano detenuti con le proprie madri: la gran parte nelle celle e nei reparti ordinari dei nostri istituti penitenziari, con quali rovinosi effetti sullo sviluppo psicologico di quei bambini, non è difficile immaginare. La questione sarebbe agevolmente affrontabile ricorrendo a quanto già previsto dalla legge: case famiglia protette per madri e figli minori. Ma ritardi amministrativi, intoppi burocratici, indifferenza istituzionale hanno impedito finora la cancellazione di una iniquità più oltraggiosa di tutte le altre iniquità che rivela il nostro sistema penitenziario. Ora il ministro Orlando si è impegnato a fare di questa drammatica questione una priorità del suo programma. E i primi segnali positivi già si manifestano. A Roma, grazie all'opera instancabile dell'assessore ai Servizi sociali, Francesca Danese, un accordo tra tribunale, Comune e Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria permetterà di accogliere le detenute con figli in una casa famiglia protetta, ricavata da due palazzine dell'Eur sottratte alla criminalità organizzata. Un buon inizio". Giustizia: Orlando; inasprire le pene per i reati sui minori, dal 1999 oltre 7mila condanne Ansa, 6 maggio 2015 Sono 305 i detenuti presenti nelle carceri italiane per il reato di prostituzione minorile e 1.622 i reclusi per maltrattamenti in famiglia. Sono invece 157 i minori vittime di reato presi in carico dai servizi sociali. Sono i dati (aggiornati al 9 aprile 2015) che risultano dalle tabelle che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha lasciato oggi alla commissione parlamentare per l'infanzia, presieduta da Michela Vittoria Brambilla, nel corso di un'audizione sul fenomeno della prostituzione minorile e degli abusi sui minori. Tra il 1999 e il 2014, il numero dei provvedimenti di condanna per i delitti più gravi contro i minori è stato di 7.119: di queste, 1.708 sono le condanne per il reato di prostituzione minorile, 1.646 quelle per pedopornografia, 3.534 per detenzione di materiale pedopornografico. In particolare il reato di prostituzione minorile, ha detto Orlando in audizione, ha visto "un aumento dell'incidenza nel corso degli anni e riguarda soprattutto soggetti di nazionalità italiana". Tra i temi toccati dal ministro, sollecitato dalle domande dei componenti della commissione, quello relativo ai riti alternativi e al patteggiamento per il reato di prostituzione minorile, con uno sconto di pena che può consentire di evitare il carcere. "Questo, se si guarda alla pena individuale, può apparire incongruo", ha detto Orlando. Ma il patteggiamento "consente di acquisire conoscenze e informazioni" utili alle indagini e "per questo ritengo che rinunciare a questo strumento sarebbe un errore. Bisogna invece agire sulla congruità delle pene, come si è fatto per la corruzione" per evitare che il patteggiamento porti ad evitare del tutto il carcere. Prostituzione minorile in aumento, serve pena congrua "Sappiamo che le Procure della Repubblica, che sono in possesso dei dati più recenti che riguardano le iscrizioni dei reati, registrano un incremento notevolissimo delle stesse proprio a partire dall'anno 2014, e che tale aumento riguarda specificamente autori di nazionalità italiana". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, in audizione in Commissione Infanzia, parlando del fenomeno della prostituzione minorile. Secondo il Guardasigilli, "bisogna ragionare sulla congruità della pena", in particolare perché, nei casi in cui il processo si chiude con patteggiamento, non sempre l'esecuzione pena avviene con la reclusione. "Rinunciare tout court allo strumento del patteggiamento sarebbe un errore - ha detto il ministro - soprattutto perché fa emergere situazioni, in particolare quando si incrociano con la criminalità organizzata. Credo invece si debba incidere sulla pena, come abbiamo fatto per la corruzione". Dal 1999 ad oggi, sono 7.119 le condanne per delitti contro i minori, di cui 1.708 per prostituzione minorile. "Il fenomeno della prostituzione minorile, fino a qualche anno fa - ha rilevato il ministro - interessava soprattutto i Paesi in via di sviluppo: uno degli aspetti più noti dello sfruttamento sessuale dei minori è quello legato al turismo sessuale da parte di chi si reca all'estero con l'intento di intrattenere rapporti sessuali a pagamento, spesso favorito da canali di mediazione illeciti, appositamente destinati a tale scopo. Oggi il fenomeno - ha aggiunto Orlando -si estende in modo preoccupante anche ai Paesi più avanzati, sia per l'aumentato livello di povertà e di emarginazione, sia per la stretta connessione tra tale forma di sfruttamento e la criminalità organizzata, che avvia ciclicamente ragazze straniere minorenni e giovani uomini in circuiti di prostituzione. In Italia, come nel resto d'Europa, si è assistito, peraltro, negli ultimi tempi, alla propalazione del fenomeno anche in contesti privi di condizioni di emarginazione sociale o economica". La competenza sul monitoraggio di questa tipologia di reati compete al ministero dell'Interno, ma il dicastero della Giustizia rileva un aumento del numero dei procedimenti che però "non può dirsi, in questa fase, solo conseguenza diretta dell'effettivo aumento delle condotte penalmente rilevanti - ha osservato Orlando - siamo ancora in un periodo temporale estremamente ravvicinato rispetto alla introduzione o, comunque, alla modifica dei reati, per effetto del recepimento ed attuazione della convenzione di Lanzarote, per cui può più agevolmente ritenersi che i dati in aumento siano essenzialmente espressione della maggiore efficacia repressiva delle nuove fattispecie di reato, piuttosto che della crescita in sè del fenomeno". Quanto alle vittime, l'ultimo monitoraggio, relativo al 2013, fa emergere che 16 uffici di servizio sociale per i minorenni su 29 hanno preso in carico 157 nuovi casi di vittime segnalati dall'Autorità giudiziaria, che può avvalersi dell'assistenza dei servizi minorili dell'Amministrazione della giustizia e dei servizi istituiti dagli enti locali. "Di tali 16 uffici - ha detto Orlando - il 62% si trova in Italia meridionale e insulare e, in relazione ai 157 soggetti trattati, hanno avuto in carico 134 casi, pari all'85%. La concentrazione di vittime e di segnalazioni pervenute agli uffici di servizio sociale per i minorenni dalle regioni meridionali e insulari fa presumere, peraltro, non solo che l'ampiezza del fenomeno sia legata strettamente al maggiore disagio economico e sociale di tali territori, ma anche che i servizi sociali degli enti locali, in queste aree geografiche, siano carenti di personale e che, quindi, l'autorità giudiziaria si rivolga più frequentemente agli uffici centrali del ministero". Secondo il Guardasigilli, "il sistema normativo e sanzionatorio italiano è perfettamente strutturato, completo e più che adeguato rispetto agli strumenti di contrasto al fenomeno, anche di carattere transnazionale", anche se, ha concluso Orlando, "siamo consapevoli che gli strumenti di prevenzione e di sostegno alle vittime debbano ancora essere potenziati e migliorati". Tra i dati forniti alla Commissione Infanzia, anche il numero dei detenuti per il reato di prostituzione minorile (art.600 bis c.p.): in totale ammonta a 305 unità, mentre sono detenute per il reato di "maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli" (art. 572 c.p.) 1.622 persone. Giustizia: Iori (Pd); reati di pedofilia, prevedere terapie obbligatorie per evitare recidiva Ansa, 6 maggio 2015 "I casi di adescamento di minori online in Italia sono quasi triplicati in due anni e il tasso di recidiva dei pedofili, in Rete e non, ha toccato un livello intollerabile: credo che sia opportuno e necessario prevedere terapie rieducative e psicologiche in grado di prevenire la possibilità, per chi abusa, di reiterare la violenza sui bambini e sugli adolescenti". Lo dichiara, in una nota, la deputata del Pd e responsabile nazionale del partito per l'infanzia e l'adolescenza, Vanna Iori, in occasione della giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia. "La terapia in Italia oggi rappresenta solo un'opzione volontaria per il pedofilo consapevole, ma occorrerebbe rendere obbligatorio questo percorso per chi è detenuto per questo tipo di reato e, verosimilmente, potrà tornare a commetterlo", aggiunge. "All'interno delle azioni che si possono intraprendere per contrastare la pedofilia - prosegue Iori - c'è sicuramente il potenziamento del monitoraggio degli abusi sui minori attraverso un sistema di raccolta dati più adeguato: è solo conoscendo il fenomeno nella sua pienezza e nelle sue sfaccettature che l'opera di prevenzione e di contrasto può trovare più efficacia", sottolinea Iori, che ha presentato una mozione sul tema alla Camera insieme alla deputata del Pd e responsabile per il welfare, Micaela Campana. "Credo, inoltre, che occorra preservare il lavoro della Polizia postale da possibili tagli che rischiano di vanificare l'ottimo lavoro svolto fino ad ora e che sia altrettanto necessario prevedere e incrementare le iniziative di formazione rivolte agli adulti affinché possano contribuire al pieno sviluppo psicologico dei bambini e ragazzi o quanto meno a proteggerli e salvaguardarli dai pericoli più gravi", conclude la responsabile nazionale del Pd per l'infanzia e l'adolescenza. Giustizia: il "Protocollo Farfalla" non ha nulla a che fare con la trattativa Stato-mafia di Damiano Aliprandi Il Garantista, 6 maggio 2015 Nessun detenuto al 41bis fu pagato dai servizi segreti in cambio di informazioni. Il famigerato "protocollo farfalla" non ha nulla a che vedere con la cosiddetta tesi sulla trattativa mafia-stato portata avanti dalla procura di Palermo. È ciò che chiaramente emerge leggendo le 31 pagine di relazione del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, reperibile sul suo sito ufficiale. In pratica non c'è nessun riferimento al presunto pagamento dei detenuti mafiosi al 41bis come da tempo è stato scritto sul Fatto Quotidiano. Di certo, fu un operazione al di là della legalità visto che la legge - ora cambiata tramite il decreto antiterrorismo - vieta un ruolo attivo dei servizi segreti all'interno delle carceri italiane. Un'operazione che fu totalmente fallimentare. Scrive il Copasir nella prelazione che "si sarebbe chiusa nell'agosto del 2004 per l'infondatezza dei presupposti, per la difficoltà di stabilire un rapporto fiduciario con i carcerati individuati e in particolare per l'impercorribilità di un'operazione caratterizzata da un'attività di contatto intermediata da personale del Dap privo di specifica formazione". Gli otto carcerati individuati per l'operazione nel documento del 24 maggio 2004, non sono mai divenuti dei fiduciari del Sisde. Insomma: un fallimento totale. Ma su questa stessa pagina del Garantista ciò è stato denunciato da tempo. Il cosiddetto "protocollo farfalla" non consisteva nell'aver pagato i detenuti richiusi al 41bis per reperire informazioni. Anche perché l'unico "pentito" a fare questa "rivelazione" è stato dichiarato inattendibile dallo stesso magistrato Scarpinato, uno dei titolari del processo sulla trattativa mafia-stato. Il protocollo farfalla è stato invece una operazione di intelligence, portata avanti in collaborazione con l'amministrazione penitenziaria, per mettere sotto controllo le associazioni dei detenuti, avvocati penalisti che esercitavano legittimamente la difesa dei reclusi al 41bis e uomini appartenenti alla criminalità organizzata che in rivendicavano i propri diritti di detenuti e protestavano contro il carcere duro: un regime che gli organismi internazionali, e recentemente anche Papa Bergoglio, considerano tortura. La denominazione "farfalla" si ispira al nome dell'Associazione Papillon: creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni nella casa circondariale romana di Rebibbia, con l'obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie nonviolente in collaborazione con movimenti politici sensibili alle tematiche. Perché questa attenzione? Tutto è partito nel settembre del 2002 quando, su iniziativa della stessa Associazione Papillon, il mondo carcerario - con la solidarietà dei movimenti libertari e partiti come i radicali, i verdi, ed una parte di Rifondazione comunista- intraprese una spettacolare protesta nonviolenta durata una settimana. Nella piattaforma di protesta, condivisa da tutti i detenuti, c'era la richiesta di indulto generalizzato di 3 anni (misura che avrebbe consentito l'uscita dal carcere di circa 15 mila persone); il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale; la riforma del codice penale; l'abolizione dell'ergastolo e la depenalizzazione dei reati minori; l'abolizione degli articoli 4bis e 41bis, l'aumento della liberazione anticipata a 4 mesi e un aumento delle misure alternative. Ci fu anche un'audizione parlamentare dell'allora vice presidente di Papillon, Vittorio Antonini, detenuto politico a Rebibbia perché fece parte delle Brigate Rosse, che diede voce in parlamento alle ragioni della protesta. A quella importante campagna di pressione del mondo carcerario aderirono anche boss, come Leoluca Bagarella che con un proclama letto in udienza denunciò la tortura del 41 Bis. Ed è qui che lo Stato intravedeva un disegno "oscuro", una regia unica che avrebbe collegato l'ex terrorismo rosso (sebbene Antonini fosse il solo detenuto politico ad aderire con forza alla protesta, mentre gli altri erano tutti reclusi comuni) con la mafia. Altro "campanello d'allarme" fu il ritrovamento, nell'agosto del 2002, di un volantino di "Papillon Rebibbia Onlus", al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d'onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41bis. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde che ha dato vita, in collaborazione col Dap (guidato allora da Giovanni Tinebra), alla famosa "Operazione Farfalla". I servizi monitoravano anche avvocati penalisti, soprattutto quelli politicamente di sinistra, che difendevano i detenuti reclusi al 41 Bis. L'assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell'attività ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate ad una trattativa tra lo Stato e la criminalità. Un fallimento completo, soprattutto della pseudo "contro informazione" di una certa stampa. Giustizia: il giuslavorista Bottini "la verifica sul Jobs act? fatela fare a noi avvocati" di Errico Novi Il Garantista, 6 maggio 2015 I legali specializzati sul lavoro si sentono "discriminati" dalla riforma del processo civile. Ora chiedono di monitorare quella sui licenziamenti. Adesso vorrebbero un risarcimento. Parola complicata, certo, visto che si tratta di avvocati del lavoro e proprio sui "risarcimenti", o indennizzi per dirla in modo tecnico, si è consumato lo scontro più feroce nell'esame del Jobs act. Ma quello a cui pensano gli avvocati giuslavoristi ha poco a che vedere con le cause dei loro assistiti, datori di lavoro o dipendenti che siano. "Vorremmo che il governo ci riconoscesse un ruolo ben preciso, quello di essere anche noi terminali di raccolta sugli effetti della riforma. Nel Jobs act è previsto un monitoraggio su tempi e modi di applicazione delle nuove norme. Bene, sarebbe giusto che tale rete di raccolta e elaborazione dati coincidesse con quella degli avvocati del lavoro". A parlare è Aldo Bottini, presidente degli Avvocati giuslavoristi italiani (Agi), associazione che riunisce appunto circa 1700 professionisti specializzati in materia. Il risarcimento di cui sopra ha a che vedere con un "torto", di non piccolo conto, che questa particolare categoria ha subito in occasione della riforma del processo civile. Quando si è introdotta per decreto la negoziazione assistita come forma di definizione dei contenziosi (divenuta obbligatoria quando l'oggetto della causa ha un valore inferiore a 50mila euro), la materia giuslavoristica è stata di fatto esclusa. O meglio, è stato previsto che l'accordo firmato da un'azienda con un suo dipendente o ex dipendente continui a non avere valore definitivo in sé a meno che non sia vistato da una direzione territoriale del lavoro o da una commissione sindacale. Un'eccezione che Bottini non esita a definire "insultante". Ed è difficile dargli torto. Perché quell'esclusione equivale a considerare inadeguati o addirittura inaffidabili quei legali che tutelano proprio i lavoratori. È così, avvocato Bottini? Il governo vi ha discriminato? "Mettiamola in questo modo: è una storia che ancora mi corrode il fegato. Non vorrei esagerare, ma in Parlamento c'è stato un dietrofront che ha prodotto un effetto umiliante, nei nostri confronti. Nell'originario decreto legge del ministro Orlando la negoziazione assistita era prevista anche per le controversie di lavoro. Invece dopo le modifiche introdotte in fase di conversione siamo tornati di fatto alla disciplina a cui siamo già sottoposti ora: perché l'accordo tra le parti sia inimpugnabile dobbiamo sottoporlo o a una commissione sindacale, o alla direzione territoriale del Lavoro. Avevamo spiegato che sarebbe stato importante, per noi, prevedere invece che gli accordi fatti tra parti assistite da avvocati fossero definitive, e non necessitassero di un passaggio presso l'organismo conciliativo". Il ministro della Giustizia era d'accordo con voi. "Assolutamente: si era reso conto dell'opportunità di procedere per le cause di lavoro secondo lo stesso criterio previsto per altre materie. Poi il Parlamento ha cambiato le carte in tavola". Nella vostra associazione ci sono molti avvocati che di solito difendono i lavoratori e che sono per esempio poco entusiasti del Jobs act. Anche loro erano d'accordo con quella semplificazione? "Sì, la posizione degli avvocati giuslavoristi italiani era unanime. Tra l'altro distinguere le controversie giuslavoristiche rischia di diventare persino insultante proprio nei confronti di chi fra noi assiste di solito i dipendenti e non i datori di lavoro. È come se si dicesse che nelle loro mani il lavoratore chissà quale accordo vessatorio può essere indotto a firmare". Ma l'esclusione delle cause di lavoro dalla nuova negoziazione assistita è avvenuta perché la si riteneva troppo pericolosa per la parte più debole, cioè il lavoratore? "In Parlamento ci sono state molte discussioni, in cui si è argomentato in alcuni casi anche qualcosa di simile a quello a cui lei allude. Ma posso assicurare che la norma non è saltata per motivi del genere. È intervenuta la lobby, bipartisan ma capace di unirsi quando serve, dei sindacati e delle associazioni datoriali. Che temevano di perdere una funzione importante. E che hanno poi finito per negare la nostra". E quindi ora dite: riconosceteci il ruolo sul Jobs act. "Non è che questo eventuale riconoscimento sanerebbe il precedente errore. Tanto è vero che subito dopo la conversione del decreto sul processo civile, dov'era contenuta appunto la norma sulla negoziazione assistita, abbiamo chiesto e ottenuto che al congresso del Consiglio nazionale forense fosse approvato un ordine del giorno che esprimesse la protesta di tutti gli avvocati. E comunque non ci rassegniamo, proveremo a far reintrodurre le norme, inizialmente previste dal ministro Orlando, nella legge delega sulla riforma del Codice di procedura civile. Lì peraltro speriamo di riuscire a persuadere il governo sull'abolizione del procedimento speciale previsto dalla legge Fornero per i licenziamenti nelle aziende con più di 15 dipendenti. In proposito siamo d'accordo con l'Associazione magistrati, per la meraviglia del ministro... Detto questo, riteniamo che la nostra associazione sia il soggetto più idoneo a svolgere quella funzione di raccolta dati sull'andamento del Jobs act che la stessa riforma prevede di realizzare". Cosa proponete di fare? "Lo spiegheremo al convegno su "Lavori e diritti" che terremo a Milano il 19 e 20 giugno prossimi. Un appuntamento fissato proprio per fare un primo punto sugli effetti del Jobs act. Soprattutto sulle modalità con cui le nuove norme vengono applicate in sede giudiziale. Ebbene, una delle cose che chiederemo in quell'appuntamento è di diventare un canale privilegiato di raccolta informazioni sul funzionamento della nuova disciplina. Vorremmo farlo nell'interesse dei nostri soci, che maneggiano quotidianamente la materia, e della collettività". Non tutti gli scritti all'Agi sono entusiasti della riforma. "C'è una preoccupazione in coloro che fra noi difendono in genere i lavoratori. Alcune delle novità introdotte andranno valutate anche in base all'interpretazione che ne daranno i giudici. E ora è presto per poter fare un bilancio, da questo punto di vista: il nodo ovviamente è la reintegra, sopravvissuta solo per i licenziamenti discriminatori e alcune particolari fattispecie di licenziamenti disciplinari. Ma visto che le nuove regole si applicano solo a chi è stato assunto dopo la loro entrata in vigore, i casi di licenziamento ancora non ci sono. C'è stato appena il tempo di fare le assunzioni". Si ridurranno le cause di licenziamento: più che in tribunale, lavorerete in fase conciliatoria. "Già ora è così. Ma di sicuro aumenteranno le cause per licenziamento discriminatorio, che è l'unica fattispecie in cui è ancora prevista la reintegra. E per quanto provare la discriminazione sia arduo, alcuni lavoratori la invocheranno anche perché è la sola via rimasta aperta. Ma noi di lavoro ne avremo comunque molto, ne sono certo". Giustizia: Csm, è scontro giudici-governo sulla riforma delle correnti di Liana Milella La Repubblica, 6 maggio 2015 Legnini in conclave al Csm fa le ore piccole per lanciare l'autoriforma del Consiglio e annunciarla in un plenum con Mattarella. Orlando in via Arenula è disponibile a "vedere" le mosse di Legnini, ma è altrettanto deciso "ad andare avanti ugualmente su una legge che riformi palazzo dei Marescialli". In allarme il suo vice ministro Costa, alfaniano di Ncd, che ricorda la ben nota battuta di Renzi, "chi nomina non giudica, chi giudica non nomina", pronunciata nel lontano 30 giugno 2014, quando a palazzo Chigi fu annunciata la grande riforma della giustizia. Adesso, dice Costa, "bisogna rispettare i patti, serve una legge ordinaria per rivedere il sistema elettorale del Csm e togliere potere alle correnti, non può bastare una riformetta fatta in casa". Siamo allo scontro, anche se all'insegna del bon ton, tra governo e Csm. Con il vice presidente di palazzo dei Marescialli Giovanni Legnini impegnato a portare avanti un suo progetto, un'autoriforma del Csm che, dall'interno, corregga le più macroscopiche storture del Consiglio, dalle nomine con tempi lunghissimi, più volte bacchettate dal Colle, ai "pacchetti" di capi uffici concordati dalle correnti, dai ritardi dei consigli giudiziari nel disegnare i profili dei candidati alla sezione disciplinare, tuttora composta anche da chi è inserito nelle altre commissioni. Negli stessi giorni in cui il Guardasigilli Andrea Orlando stava per affidare all'ex vice presidente del Csm Michele Vietti la presidenza di una commissione per studiare la riforma del Consiglio, Legnini ha fatto il giro delle stanze che contano, compresa quella di Sergio Mattarella, nella veste di presidente del Csm, e ha spiegato la sua idea. Un'autoriforma che garantisce tempi assai più rapidi rispetto a una legge. Mattarella, a questo punto, è pronto a partecipare al plenum che consacrerà l'iniziativa di Legnini. Il quale, da ieri pomeriggio, è impegnato a discuterne con i consiglieri. Ma fuori monta preoccupazione e contrarietà. La preoccupazione è quella di Orlando. Attento a vedere che succede, il ministro della Giustizia non intralcia Legnini, ma è ben deciso a non archiviare il suo progetto di riforma. "Insedierò comunque una commissione e starò a vedere che cosa fa il Csm. Leggerò quel progetto, ma di certo non rinuncio a una legge di riforma fatta dal governo". Di certo non ci rinuncia Renzi. E neppure Enrico Costa che, da vice ministro, sta mettendo insieme il dossier delle doglianze contro il Consiglio. I gruppi di Camera e Senato del partito ne hanno discusso e la parola d'ordine, riassunta da Costa, è "andare avanti su una riforma decisa del Csm che faccia emergere le energie migliori tra i magistrati e non solo quelle indicate dalle correnti". Scontro assicurato, dunque. Giustizia: eco-reati, il governo si piega ai petrolieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 maggio 2015 A Montecitorio cancellata la norma che vietava l'uso dell'air gun. Il testo torna al Senato. Non è #lavoltabuona. Renzi ci ripensa e gli ambientalisti protestano. Niente tweet stavolta, per Renzi non era #lavoltabuona. E la Camera si adegua. Si aspettava solo il via definitivo: era previsto per il primo pomeriggio di ieri, e l'Italia avrebbe avuto finalmente una legge sugli ecoreati. Ma, come sintetizzano bene Legambiente e Libera, promotrici dell'appello "In nome del popolo inquinato", "a pochi metri dal traguardo il governo cambia idea e, dopo tante rassicurazioni e prese di posizione pubbliche da parte di diversi ministri, sostiene l'emendamento per togliere subito il comma sull'air gun dal ddl e lo rispedisce al Senato, dove ora rischia l'affossamento". Per le associazioni ambientaliste, per Sel e per il M5S la decisione di sopprimere la norma che vieta la discussa tecnica di ispezione dei fondali marini, utilizzata per sondare la presenza di idrocarburi nel sottosuolo, è una dimostrazione di subalternità ai desiderata delle compagnie petrolifere. Le stesse che hanno bombardato i mari della Sardegna, della Calabria o la costa adriatica. Ma il governo, rappresentato in Aula dal ministro dell'Ambiente, Gianluca Galletti, e dal Guardasigilli Andrea Orlando, respinge le accuse e assicura l'impegno ad approvare "entro maggio in via definitiva al Senato" - anche imponendo la questione di fiducia - un provvedimento che "ha un valore storico per le politiche ambientali". "Si è parlato di poteri forti, non so se residuino ma so che ci sono interessi legittimi - ha aggiunto Orlando. E oggi siamo davanti a una impostazione ragionevole e condivisa. C'è l'impegno del governo ad approvare questo testo che non piaceva ai cosiddetti padroni, ma ciò non ci ha impedito di andare avanti". Le polemiche alla Camera sono scoppiate quando, poco dopo le 11 di ieri mattina, appena ripreso l'esame del testo, il relatore di maggioranza Alfredo Bazoli, del Pd, annuncia di non essere d'accordo con il governo che ha appena dato parere favorevole a tre emendamenti che sopprimono il divieto, introdotti al Senato, di utilizzare la tecnica dell'air gun, considerata dal mondo dell'associazionismo ambientalista nefasta per la biologia e l'ecosistema marino. Bazoli convoca la riunione del comitato dei nove (commissione e relatori) ma alla fine si rimette alla decisione della maggioranza che si adegua al parere del governo. "Avevamo chiesto che non cambiasse #nemmenounavirgola - scrive sul suo blog Pippo Civati - e invece il governo ha deciso di cambiare il testo di una legge avviata quando al governo c'era Letta e che attende una sua definitiva approvazione da più di un anno e mezzo. Alcune cose si blindano, altre si rinviano, a seconda dei diktat che provengono dall'esecutivo". Col voto segreto, l'Aula alla fine approverà l'emendamento abrogativo del divieto con 283 sì, 160 no e 2 astenuti. E a sera, il testo così modificato viene licenziato in seconda lettura dalla Camera con 353 voti favorevoli, 19 no e 34 astenuti. E torna nel pantano del Senato. Ma il deputato Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente e primo firmatario della proposta di legge non si scoraggia e ripone enorme fiducia sul "forte impegno assunto dal governo per un veloce e definitivo passaggio in Senato" del "provvedimento la cui urgenza è stata significativamente evidenziata dallo stesso capo dello Stato, Mattarella". Sel non ci crede e promette "battaglia, insieme alle associazioni ambientaliste, in difesa del nostro territorio". Greenpeace invece protesta con veemenza: "Il governo Renzi conferma la sua spiccata vocazione di servizio alle compagnie petrolifere". Libera e Legambiente fanno appello al "presidente del Senato, Pietro Grasso, di cui conosciamo bene la sensibilità sul tema della lotta all'ecomafia e alla criminalità ambientale, perché la legge sugli ecoreati sia davvero calendarizzata subito e definitivamente approvata entro il 20 maggio". Giustizia: eco-reati, le pistole dei petrolieri texani puntate sul mare sardo di Costantino Cossu Il Manifesto, 6 maggio 2015 Dopo lo stop al ddl torna l'incubo "air gun". Con il blitz alla Camera l'uso di bombe d'aria per esplorare le acque in cerca di greggio è di nuovo possibile. Sindaci e ambientalisti in rivolta. Il voto a scrutinio segreto che cancella dal ddl sugli eco-reati il divieto di usare l'air gun apre in Sardegna prospettive inquietanti. Sui tavoli del governo giace infatti da tempo un progetto che prevede l'utilizzo delle bombe d'aria per cercare petrolio al largo della costa occidentale dell'isola. È stato presentato circa un anno fa dalla Schlumberger Limited, la più grande società per servizi petroliferi al mondo. Da Houston, in Texas, i manager della multinazionale gestiscono 115 mila dipendenti di oltre 140 nazionalità, che lavorano in oltre 85 paesi (gli uffici della filiale italiana stanno a Ravenna). In Sardegna il colosso Usa ha proposto un intervento che ha come "teatro" buona parte del litorale che da Alghero, a nord, va sino a San Vero Milis, a sud, passando per Villanova Monteleone, Bosa, Magomadas, Cuglieri e Narbolia. Un'area marina di 20.922 chilometri quadrati. La Schlumberger ha inviato ai funzionari del ministero per lo Sviluppo economico una richiesta di valutazione di impatto ambientale: il primo passo della procedura di autorizzazione. Tutto però si è bloccato perché la tecnica dell'air gun, che i manager Usa vorrebbero usare in Sardegna, è poi entrata nel ddl sugli eco-reati. Ma dopo ciò che è accaduto ieri alla Camera, il quadro cambia. I cacciatori di petrolio di Houston possono nuovamente impugnare le loro pistole. Gigantesche pistole, che sparano nelle profondità marine una paurosa quantità di aria compressa, che raggiunge il fondo del mare e poi manda indietro un "rimbalzo" acustico dalla cui intensità è possibile capire se negli abissi così "bombardati" si nasconde il prezioso oro nero. Unico ostacolo per le aspettative di profitto della Schlumberger resta l'opposizione forte e determinata sia delle popolazioni locali sia di un nutrito fronte ambientalista. Tutti i sindaci della zona interessata hanno chiesto al ministero dell'Ambiente e a quello dello Sviluppo economico di fermare la Schlumberger. E anche dal fronte dei deputati sardi si levano voci di protesta: "Con un blitz a scrutinio segreto è stato cancellato il reato penale per chi ricerca petrolio in mare con le bombe sismiche - attacca Mauro Pili, deputato del partito autonomista Unidos. Non resteremo a guardare". "Rimandare al Senato il ddl sugli eco-reati è un errore - sottolinea da parte sua il deputato del Centro democratico Roberto Capelli - L'air gun per la ricerca di petrolio in mare va vietato e non si capisce perché dall'oggi al domani si sia cambiato idea. Noi in Sardegna sappiamo bene quanto sia deleterio, per l'ecosistema marino, per la pesca e dunque per la stessa economia, perché lo abbiamo già sperimentato. Il gioco non vale la candela nemmeno sul piano del ritorno economico perché i costi sono sostenibili solo con giacimenti grandissimi, che in Italia non esistono. Ecco perché non possiamo arretrare, anzi servono pene durissime per chi commettere reati contro l'ecosistema". Una richiesta di stop alle ricerche petrolifere davanti alle coste della Sardegna arriva in particolare dal Gruppo d'intervento giuridico (Grig). L'associazione ambientalista denuncia che oltre ai texani della Schlumberger ci sono i norvegesi della Tgs Nopec Geophysical Company pronti a puntare le pistole ad aria compressa sui fondali marini sardi. Anche la società nord europea, infatti, ha inviato al governo una richiesta di valutazione di impatto ambientale per un intervento di rilevazione sulle coste occidentali dell'isola, in una zona un po' più a nord rispetto all'area che interessa alla Schlumberger. "Le operazioni con air gun previste da tutte e due le multinazionali - ricordano i militanti del Gruppo di intervento giuridico - si svolgerebbero in un'area contigua al cosiddetto Santuario Pelagos, istituito dall'Unione europea come area marina protetta di interesse internazionale e area protetta di interesse mediterraneo". "Una zona - spiega il Grig - di straordinario valore naturalistico, abitata non solo da balene e delfini, ma anche da tartarughe marine. Se si usassero le bombe d'aria, il danno per queste specie sarebbe devastante: potrebbero perdere l'udito e insieme l'orientamento. E si rischierebbe una strage". Giustizia: il Giubileo della Misericordia e quei gesti papali per chi è dietro le sbarre di Andrea Tornielli La Stampa, 6 maggio 2015 La celebrazione giubilare in piazza San Pietro con i carcerati si inserisce in un cammino che ha visto passi significativi fatti dagli ultimi Pontefici. "L'ipotesi è ancora allo studio ma è desiderio del Papa che il Giubileo della Misericordia venga vissuto non solo all'interno delle carceri ma che ci sia una rappresentanza di detenuti in piazza San Pietro. Non so se sarà fattibile ma è forte desiderio del Papa potere avere una rappresentanza di detenuti in San Pietro per dare loro una parola di speranza". Con queste parole l'arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione e collaboratore del Papa nell'organizzazione dell'Anno Santo straordinario, ha annunciato un'iniziativa prevista in calendario per il prossimo 6 novembre. Un'iniziativa che segue le molte già prese da Francesco e s'inserisce in un cammino di particolare attenzione dei Papi per i carcerati di Roma iniziato da tempo. La presenza di carcerati in piazza San Pietro di per sé non sarà una novità assoluta, dato che una piccola delegazione di detenuti del carcere di Padova che lavorano nella cooperativa Giotto era presente all'udienza del 7 marzo con gli appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione. Lo stesso Pontefice argentino, inoltre, fin dall'inizio del suo servizio come vescovo di Roma, ha già celebrato due volte la messa "in Coena Domini" del Giovedì Santo all'interno di un carcere: nel 2013 in quello minorile di Casal del Marmo, quest'anno a Rebibbia. Nell'ottobre 2013, ricevendo i cappellani delle carceri italiane, Francesco aveva raccontato delle sue telefonate con alcuni carcerati di Buenos Aires, comunicazioni che non si sono interrotte dopo l'elezione a vescovo di Roma. Aveva confidato che, dopo la conversazione con l'uno o l'altro dei suoi amici dietro le sbarre, poggiata la cornetta gli viene alla mente una domanda dolorosa: "Perché lui è lì e non io?". "Ogni volta che chiamo i carcerati di Buenos Aires, ogni tanto la domenica per una chiacchiera, mi domando: perché lui e non io? Io che meriti ho più di lui per non stare lì?". "Fa bene domandarsi - aveva aggiunto Francesco - "Perché lui è caduto e non io?". Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Vale la pena di ricordare che il Papa è successore dell'apostolo Pietro, che conobbe la prigione proprio a Roma, nel Carcere Mamertino: una tradizione molto antica ha individuato la cella dove fu rinchiuso insieme a Paolo, e dal IV secolo, per volere di Papa Silvestro, la prigione divenne chiesa di "San Pietro in carcere". A mo' di esempio si può poi citare il caso di Ponziano, diciottesimo vescovo di Roma, eletto circa nell'anno 230. Cinque anni dopo venne deportato in Sardegna e condannato ai lavori forzati in miniera. Molto più vicino a noi, il caso di Pio VI, l'unico Papa esiliato e morto in cattività nell'età moderna, fatto prigioniero da Napoleone nel febbraio 1798 e morto nell'agosto successivo nella fortezza di Valence, avendo sulle labbra queste sue ultime parole: "Signore, perdonali". Per quanto riguarda le visite dei Papi alle carceri, ne sono documentate diverse, diventate occasione per migliorare le condizioni di vita dei prigionieri. Sia Innocenzo X (nel 1650) sia Clemente XI (nel 1704) si erano recati a sorpresa e in segreto a visitare i cantieri per la costruzione delle Carceri Nuove di Via Giulia e del correzionale di San Michele a Porta Portese. E ci erano tornati una volta ultimati i lavori per incontrare i detenuti e verificare come quelle carceri fossero gestite. Leone XII nel 1824 e quindi nel 1827 ha compiuto due visite ai carcerati: la prima alle prigioni Nuove di Via Giulia, la seconda al carcere minorile di Via del Gonfalone. Anche Pio IX, l'ultimo Papa re che ha guidato lo Stato Pontificio prima che Roma fosse annessa al regno d'Italia, ha compiuto una visita pastorale ai detenuti, visitando i prigionieri politici nelle prigioni cittadine di Roma e quindi, il 26 ottobre del 1868, i reclusi del bagno penale di Civitavecchia, appena inaugurato. Da allora, bisognerà attendere esattamente novant'anni prima che un altro Papa varchi la porta del carcere. Anche se non si deve dimenticare che Pio XII, nel Natale 1951, aveva dedicato un radiomessaggio a tutti i carcerati del mondo, manifestando loro la sua vicinanza: "Noi, consapevoli come siamo della fragilità e della debolezza incommensurabile, che spesso fiacca a morte l'animo umano, comprendiamo il triste dramma, che può avervi sorpresi e coinvolti, per un concorso sventurato di circostanze, non sempre imputabili al vostro libero volere… E come nel Cielo si fa più festa per un peccatore che si converte, così sulla terra ogni uomo onesto deve inchinarsi dinanzi a colui, che già caduto, forse in un istante di smarrimento, sa poi penosamente redimersi e risorgere". La prima visita di un Papa al carcere avvenuta sotto l'occhio delle telecamere fu quella, storica, compiuta da Giovanni XXIII il giorno di Santo Stefano del 1958. I dirigenti di Regina Coeli erano stati avvertiti con una settimana d'anticipo, ma avevano deciso di non dirlo ai reclusi fino alla vigilia. "Sono Giuseppe, vostro fratello", dice Papa Roncalli. I detenuti gli offrono un messale rilegato in pelle bianca, che da allora il Papa userà quotidianamente nella celebrazione della Messa privata. Ai reclusi che lo applaudono piangendo, confessa che uno dei suoi parenti un giorno era stato arrestato come bracconiere. Un passaggio che "L'Osservatore Romano" non riporterà nell'edizione del giorno successivo. Dopo aver impartito la benedizione, Giovanni XXIII chiede di poter visitare i raggi del carcere. Non era previsto. Particolarmente toccante è l'incontro con un omicida che lo aspetta in ginocchio, con le lacrime agli occhi e non osa alzare lo sguardo. Il giovane uomo non riesce a parlare, singhiozza soltanto. Roncalli si avvicina, fa cenno di non capire. Il carcerato gli chiede: "Quello che ha detto vale anche per me che ho tanto peccato? Ci può essere perdono anche per me?". Giovanni XXIII, commosso, non dice nulla, si piega su lui e lo abbraccia. Paolo VI visita il carcere di Regina Coeli, che sorge a poca distanza dal Vaticano, 9 aprile 1964: "Direi che un solo peccato - afferma - potete commettere qui: la disperazione. Togliete dalla vostra anima questa catena, questa vera prigionia e lasciate che il vostro cuore, invece, si dilati e ritrovi - anche nella presente costrizione che vi toglie la libertà fisica, esteriore, - i motivi della speranza... È la voce di Cristo, appunto, che invita a essere buoni, a ricominciare, a riprendere vita, a risorgere". Paolo VI compone una preghiera perché i carcerati possano recitarla, nella quale si afferma: "Signore, Tu ti sei lasciato ammazzare a quel modo per salvare i Tuoi carnefici, per salvare noi uomini peccatori: anche per salvare me? Se è così, Signore, è segno che si può essere buoni nel cuore anche quando pesa sulle spalle una condanna dei tribunali degli uomini". A partire da quell'anno, il Papa invierà ogni Natale un dono per ciascun detenuto delle carceri di Regina Coeli e Rebibbia, una confezione di dolci e un segno religioso con il suo augurio. Giovanni Paolo II, ridotto in fin di vita dai colpi sparati da Alì Agca il 13 maggio 1981 in Piazza San Pietro, varca le porte del carcere di Rebibbia il 27 dicembre 1983 per incontrare, da solo, nella sua cella, l'attentatore. I due si siedono su una sedia vicino al letto, uno di fronte all' altro. Wojtyla, per un momento, posa una mano su un ginocchio di Alì. Poi tutte e due chinano la testa e cominciano a parlare a voce bassa. È Agca, che il Papa aveva perdonato già all'indomani dell'attentato, a parlare di più. Wojtyla si china con una mano sulla fronte fino a sfiorare il capo di Alì. Uscendo dalla cella, il Pontefice dice: "Ho parlato con lui come si parla con un fratello, al quale ho perdonato e che gode la mia fiducia, quello che ci siamo detti è un segreto tra me e lui". Anche se in seguito trapelerà che l'attentatore turco aveva detto al Papa di non capacitarsi del fatto che non fosse rimasto ucciso. Nel 2000, anno del grande Giubileo, Giovanni Paolo II, ormai anziano e ammalato, farà visita a Regina Coeli. Alla vigilia della visita, per non dare l'idea del sovraffollamento del carcere, cento detenuti vengono trasferiti altrove. Wojtyla celebra messa nella "rotonda" di Regina Coeli, la stessa che aveva accolto le celebrazioni dei predecessori. Il Papa indossa paramenti cuciti dai carcerati, celebra su un altare d'ulivo opera di un agente penitenziario e riceve in dono da un gruppo di reclusi albanesi un crocifisso di gesso. In quella occasione due detenuti avevano indossato l'abito bianco servendo la Messa papale come chierichetti. Uno di loro, Gianfranco Cottarelli, 44 anni, aveva avuto il compito di reggere, con le mani tremanti, il pastorale a forma di croce del Papa. Lui, che era stato protagonista inquadrato dalle telecamere in mondovisione, pochi giorni dopo viene trovato morto nella sua cella per aver ingerito un cocktail micidiale di droga e psicofarmaci. Anche Benedetto XVI ha compiuto due visite alle carceri: il 18 marzo 2007, aveva varcato le porte del carcere minorile di Casal del Marmo, per celebrarvi la Messa. E il 18 dicembre 2011 aveva fatto al carcere Nuovo Complesso di Rebibbia, dialogando con i detenuti, uno degli incontri più significativi e commoventi del pontificato ratzingeriano. Papa Benedetto aveva parlato contro il sovraffollamento e il degrado delle carceri e aveva aggiunto: "Bisogna pensare che ognuno può cadere ma Dio vuole che tutti arrivino da lui, riconoscere la propria fragilità, andare avanti con dignità e trovare comunque gioia nella vita. Riconosciamo che anche i passi oscuri hanno un loro senso e ci aiutano a diventare più noi stessi e figli di Dio. Il Signore vi aiuterà e noi siamo vicini a voi". Non va infine dimenticata la tradizione che vedeva alcuni alti esponenti della Curia romana partecipare ad attività di apostolato nelle carceri. Com'erano soliti fare i segretari di Stato Domenico Tardini e Agostino Casaroli. Giustizia: Garante della privacy "incivile la gogna mediatica allestita per Bossetti" di Alfredo Barbato Il Garantista, 6 maggio 2015 Due vittime della giustizia da baraccone: Silvio Berlusconi e Massimo Bossetti. Due imputati molto particolari e assai diversi tra loro. Sia per il ruolo che hanno avuto sulla scena pubblica sia per le accuse loro rivolte. Ad accostarli, per il trattamento che l'ex premier e il presunto assassino di Yara hanno subito da parte dei media, è il Garante della Privacy Antonello Soro. Il suo intervento al talk show KlausCondicio, che il giornalista Klaus Davi mette in onda su You Tube, è di quelli destinati a suscitare nuove polemiche. Anche considerato che il tema delle intercettazioni, sollevato dal presidente dell'Authority in particolare per Berlusconi, è di nuovo scomparso dal dibattito pubblico, dopo un breve ritorno di fiamma seguito al caso dell'ex ministro Lupi. "Premesso che non conosco il complesso delle indagini nei confronti di Berlusconi, mi rendo conto però che l'uso delle intercettazioni nei confronti dell'ex premier è stato assolutamente devastante", dice Soro. "Mi riferisco anche a quelle più recenti riversate sui giornali, che non avevano nessun interesse dal punto di vista penale. E, aggiungo, anche ai fini dell'individuazione di un particolare comportamento nei riguardi di un uomo che non riveste alcun ruolo parlamentare, non mi sembravano significative. In Italia esiste un esasperato ricorso alla pubblicazione delle intercettazioni, che considero un aspetto non esaltante del giornalismo di inchiesta", è l'attacco del Garante. A suo giudizio i media dovrebbero piuttosto "filtrare" le intercettazioni "rilevanti e di interesse pubblico" da quelle che invece "non lo sono. Va trovato un punto di equilibrio tra il diritto dei magistrati a intercettare e la pubblicazione delle intercettazioni rilevanti", osserva Soro. Molto severe anche le considerazioni relative al video dell'arresto di Bossetti, reso disponibile dagli inquirenti proprio in coincidenza con l'udienza preliminare, che ha visto il muratore rinviato a giudizio come presunto autore dell'omicidio di Yara Gambirasio: "Prima ancora dell'avvio del vero e proprio processo, il cittadino Bossetti è stato trattato in modo incivile e rappresentato come un mostro in prima pagina. Non spetta ai giornalisti emettere la sentenza usando i ferri di campagna, come accadeva una volta, prima che un processo di civilizzazione avesse trovato una norma che esplicitamente lo vietasse". Resterà difficile da dimenticare quel "cittadino Bossetti", espressione che forse per la prima volta viene pronunciata da un rappresentante delle istituzioni da quando il carpentiere bergamasco è stato arrestato. Antonello Soro risponde anche a una domanda sul rischio che a intercettare le conversazioni private non sia solo la magistratura ma anche la criminalità organizzata: "Mi meraviglierei del contrario, e cioè che la ‘ndrangheta non fosse in grado di intercettare mail e telefonate. La criminalità informatica ha assunto dimensioni globali assolutamente straordinarie rispetto solo a quattro anni fa. E, quando la criminalità organizzata trova un filone ricco, è la prima che individua il modo di sfruttarlo", dice il presidente dell'Autorità Garante della Privacy. Che ricorda: "Le organizzazioni criminali utilizzano un'infinità di tecnologie per praticare anche il furto di identità, usandolo come grimaldello per spostare risorse economiche o per demolire il profilo delle persone". Giustizia: Shalabayeva sfida la Procura di Roma "vuol salvare i miei aguzzini" di Errico Novi Il Garantista, 6 maggio 2015 Alma Shalabayeva non si arrende. Si oppone formalmente alla richiesta di archiviazione presentata dai pm romani per i tre diplomatico kazaki colpevoli, secondo lei, del "rapimento mio e della mia figlioletta Alua, di 6 anni". Sferra un vero e proprio attacco alla magistratura inquirente e innanzitutto al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Parla anche attraverso i suoi avvocati, il legale italiano Astolfo Di Amato e l'americano Peter Sahalas. È il primo a dire: "Le firme in calce al nulla osta che nel 2013 consentì l'espulsione della mia assistita sono le stesse che compaiono sotto la richiesta di archiviazione nei confronti dei diplomatici kazaki". Il secondo avvocato rincara la dose: "C'è un enorme conflitto di interessi. In questa indagine c'è stato un tentativo di mettere un toppa ma siamo rimasti molto delusi, il popolo italiano merita di più dalla sua giustizia". Il caso dell'imprenditore kazako Mukhtar Ablyazov e di sua moglie Alma Shalabayeva torna dunque a far parlare di sé, due anni dopo lo sconquasso diplomatico che portò in effetti al "sequestro" della donna, portata in Kazakistan a bordo di un aereo insieme con la figlia di 6 anni. Nella conferenza stampa convocata ieri nello studio del professor Di Amato emergono nuovi dettagli su quell'incredibile vicenda. E resta sullo sfondo un aspetto, che pone effettivamente molti interrogativi sulle scelte operate in quella occasione dalla Procura dio Roma: i magistrati inquirenti della Capitale furono coinvolti nel rocambolesco "rapimento" da un punto di vista burocratico, oltre che strettamente giudiziario. Oltre a indagare Shalabayeva per possesso di documenti falsi, furono chiamati a dare il nulla osta all'espulsione della donna. In queste procedure infatti è previsto che prima di eseguire materialmente l'espulsione si debba ottenere il via libera da magistrati che eventualmente abbiano in corso indagini a carico del soggetto extracomunitario. Il punto è che però la richiesta di nulla osta inoltrata a una Procura dall'ufficio immigrazione costituisce di solito una mera formalità. La si trasmette giusto perché così la legge prescrive. Capita molto spesso che i pm lascino trascorrere il ridottissimo termine, appena sette giorni, passato il quale si può procedere comunque all'espulsione. Una sorta di silenzio-assenso. Ebbene, nel caso di Shalabayeva il nulla osta della Procura di Roma arrivò in pochissime ore. Segno di un'attenzione particolare riservata al caso dai magistrati romani. I legali di Shalabayeva battono molto adesso sul fatto che sussista un forte conflitto di interessi, per il sostituto Eugenio Albamonte e il procuratore capo Giuseppe Pignatone. Sono loro appunto ad aver firmato il nulla osta all'espulsione decretata dal giudice di pace il 31 maggio 2013. Sono sempre loro, ora, a dire che in quella vicenda non ci furono comportamenti anomali da parte dei tre diplomatici kazaki per i quali hanno chiesto appunto nei giorni scorsi l'archiviazione al giudice dell'udienza preliminare. Si tratta dell'ambasciatore del Kazakistan a Roma Andrian Yelemessov, del segretario d'ambasciata Nurlan Khassen e del console Yerzhan Yessirkepov. Eppure delle anomalie ci furono. Prima fra tutte, la presenza di un aereo sulla pista di Ciampino già pronto al decollo per deportare Shalabayeva in Kazakistan ancor prima che i pm romani firmassero il nulla osta all'espulsione. "Si trattava di un jet privato. Pagato da chi? Considerato che il costo del nolo dovrebbe aggirarsi intorno ai 70mila euro e che una cifra del genere in Italia, in base alle norme fiscali, non può certo essere pagata in contanti, dovrebbe esistere da qualche parte una traccia bancaria, un assegno o un bonifico. Il vettore era austriaco, ma l'agenzia che procurò il velivolo era italiana: chi la pagò?". Chi, appunto? L'ambasciata del Kazakistan, molto probabilmente. E giacché "si trattò di un vero e proprio rapimento", qualcuno ne dovrebbe rispondere. A un certo punto dell'incontro con i giornalisti l'avvocato Sahalas indica un'impressionante pila di documenti poggiata sul tavolo davanti a lui: "Guardate, questi sono gli atti delle indagini condotte dalla Procura di Roma. Posso assicurarvi che nelle migliaia e migliaia di fogli che vedete non compare mai, neppure una volta, la parola rapimento". Ed è Alma Shalabayeva a lamentarsi personalmente di questa dissolvenza: "Sono davvero sorpresa che i diplomatici responsabili del mio rapimento siano stati lasciati in libertà. Che addirittura non esista un capo d'accusa nei loro confronti". Al suo fianco Shalabayeva ha i suoi due figli maggiori, Madina e Madiar. Tutti e tre ringraziano "lo stato italiano, la stampa, tutti i media indipendenti che ci hanno difesi, che hanno tenuto viva la nostra storia". Ma l'unico nome che Alma cita è quello dell'ex ministro degli Esteri Emma Bonino: "Voglio dire grazie specialmente a lei, è grazie al suo alacre impegno se siamo stati in grado di tornare in Italia". Rientro che avvenne a fine 2013, 6 mesi dopo il "sequestro diplomatico" e diversi mesi prima che la Cassazione sancisse in via definitiva l'illegittimità della sua espulsione. Shalabayeva dice ancora di Emma Bonino: "So che sta attraversando un momento particolare, voglio esprimerle tutto il mio sostegno". La figlia Madina indica invece nei tre diplomatici dell'ambasciata del Kazakistan a Roma "i mandanti del rapimento di mia madre: sono stati colti con le mani nella marmellata, sono stati loro a manipolare la polizia italiana". E in effetti sono solo le posizioni di alcuni agenti di polizia a rischiare, diversamente dall'ambasciatore e dai suoi due funzionari, di essere rinviati a giudizio per la vicenda. C'è peraltro una parte di questa storia che meriterebbe di essere approfondita davvero in un processo. La scena verificatasi sulla pista da cui sarebbe decollato l'aereo del "rapimento", dove un funzionario di polizia spiegò alla moglie di Ablyazov (attualmente detenuto a Parigi e sottoposto a richieste di estradizione da parte di Russia e Ucraina) che se non avesse preso con sé la figlioletta di 6 anni, Alua, questa sarebbe rimasta in Italia, e la circostanza non sarebbe stata di ostacolo all'espulsione. Un fatto increscioso, dal momento che l'ufficio Immigrazione della Questura aveva sostenuto in una relazione prodotta in quelle convulse ore di fine maggio 2013 la tesi esattamente contraria: in una relazione firmata dal dirigente Maurizio Improta si ricordava infatti che l'esistenza stessa della piccola avrebbe impedito l'espulsione della madre Alma Shalabayeva, per il principio dell'unità familiare. La polizia insomma smentì se stessa pur di consentire il rapimento kazako. Ma di questo specifico aspetto, a quanto risulta dalle indagini formalmente chiuse, nessuno sarà chiamato a rispondere. Ed è in effetti anche per questo che sarebbe necessario veder comparire davanti a un tribunale non solo i poliziotti ma anche i diplomatici che orchestrarono quella vergogna. Esecuzione della pena, rinvio facoltativo per infermità fisica Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2015 Pena - Esecuzione - Rinvio dell'esecuzione - Differimento facoltativo - Grave infermità fisica - Provvedimento di rigetto - Motivazione - Criteri. Il provvedimento di rigetto della richiesta di differimento dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica è affetto da vizio di motivazione solo se l'omesso riferimento alle necessità di tutela del diritto alla salute e al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità si combina con l'accertata sussistenza di un quadro patologico particolarmente grave, capace "ictu oculi" di essere causa di una sofferenza aggiuntiva proprio per effetto della privazione dello stato di libertà, nonostante il regime di detenzione possa assicurare la prestazione di adeguate cure mediche. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 23 luglio 2014 n. 32882 Pena - Esecuzione - Rinvio dell'esecuzione - Rinvio facoltativo per infermità fisica - Grave stato di salute - Nozione. Ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'articolo 11 della legge 26 luglio 1975 n. 354. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 5 settembre 2014 n. 37216 Pena - Esecuzione - Rinvio dell'esecuzione - Gravi patologie ad andamento cronico progressivo - Rinvio facoltativo dell'esecuzione - Configurabilità - Presupposti. In tema di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena, è contraria al senso di umanità la detenzione di un soggetto prossimo a compiere 78 anni affetto da patologie ad andamento cronico progressivo, quali l'encefalopatia multinfartuale con progressivo deterioramento cognitivo, la cardiopatia fibrillante ed il diabete mellito, che gli impediscano di percepire il senso stesso della detenzione, sia nel suo profilo retributivo che in quello risocializzante. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 9 dicembre 2010 n. 43488 Pena - Esecuzione - Rinvio dell'esecuzione - Patologia cerebrale cronica - Rinvio facoltativo dell'esecuzione - Configurabilità - Presupposti. In tema di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena, è contraria al senso di umanità la detenzione di un soggetto affetto da patologia cerebrale cronica su base degenerativa - vascolare che gli impedisca di percepire il senso stesso della detenzione, sia nel suo profilo retributivo che in quello risocializzante. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 1 marzo 2010 n. 8100 Pena - Detenzione domiciliare - Rinvio dell'esecuzione della pena - Presupposti - Patologia grave ma congruamente fronteggiabile in ambiente carcerario - Necessità della concessione - Esclusione. Anche in presenza di una patologia sicuramente grave del condannato il giudice non è tenuto automaticamente a concedere il rinvio dell'esecuzione della pena per ragioni di salute, ovvero la misura alternativa della detenzione domiciliare in casa di cura, dovendo invece verificare se la situazione patologica sia congruamente fronteggiabile in ambiente carcerario, senza che ciò contrasti con il basilare senso di umanità e impedisca il normale regime trattamentale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 4 luglio 2008 n. 27313 Tenuità del fatto, il giudice acquisisce d'ufficio il fascicolo del Pm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2015 Tribunale di Bari. Sezione II penale. Sentenza 20 aprile 2015. Con una interessante sentenza il tribunale di Bari cerca di riparare, in via interpretativa, a quella che ritiene una vera e propria lacuna legislativa nella nuova disciplina relativa alla non punibilità per la "particolare tenuità del fatto". Qualora, infatti, il giudice ritenga nella fase predibattimentale di trovarsi in una simile ipotesi non ha modo di conoscere il merito della questione. Per uscire da questa empasse la Seconda sezione penale, sentenza 20 aprile 2015 n. 1523 (estensore Dello Preite), ha ritenuto "necessario" acquisire d'ufficio il fascicolo del Pm per prendere cognizione dei fatti. La vicenda riguardava una truffa online per la vendita di 4 biglietti per la partita di Champions Juventus - Real Madrid pagati ma mai consegnati. La questione - Secondo il comma 1-bis dell'articolo 469 del Cpp - introdotto dal Dlgs 28/2015, in vigore dal 2 aprile scorso - la sentenza di non doversi procedere, oltre che per difetti oggettivi di natura procedurale, come era prima della riforma, deve essere pronunciata anche nel caso in cui l'imputato non è punibile ai sensi del nuovo articolo 131-bis del Cp. E cioè "quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale". E qui sta il punto, dal momento che la valutazione della gravità del reato implica una indagine di merito che il giudice non è in grado di fare dovendo tener conto (ex articolo 133 primo comma del Cp ) di una serie di elementi che non conosce (modalità dell'azione, gravità del danno o pericolo cagionato, intensità del dolo o grado della colpa ecc.). La soluzione - Così stando le cose ne deriva che il magistrato "non è in grado - con gli scarni elementi del fascicolo predibattimentale - di poter rispondere a tutte le domande di merito che l' art. 131-bis Cp impone". A questo punto colmando in via analogica la lacuna della riforma, e prendendo a riferimento il "similare istituto della pena su richiesta", il tribunale ha ritenuto necessaria l'acquisizione del fascicolo delle indagini, avendo rilevato prima facie (perché la piena cognizione non può ancora esserci), la possibilità di una definizione di NDP per tenuità del fatto, "certamente con l'accordo delle parti, ma non necessariamente per loro iniziativa". Inoltre, aggiunge la sentenza, laddove il giudice ritenga che il processo debba proseguire, "inevitabile corollario sarà quello della sua incompatibilità alla trattazione ulteriore, ex art. 34 Cpp". Entrato in possesso del fascicolo il giudice dunque ha potuto accertare sia la condotta dell'imputato che l'entità del danno, pari a 480 euro (somma accreditata dall'acquirente sul conto Banco Posta del finto venditore). Ma anche la "finalità puramente ludica e voluttuaria" dell'acquisto, ciò che secondo la sentenza "induce a pensare ad un danno patrimoniale tenue e non certamente rilevante". Per cui, considerata la punibilità massima del reato (inferiore ai cinque anni), la modestia del danno e del pericolo, oltre al fatto che l'autore era incensurato, il tribunale ha escluso la punibilità del fatto. Procura piccola, processo trasferito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2015 Corte di cassazione. Sentenza 5 maggio 2015. Via libera al trasferimento del processo per legittimo sospetto se l'imputato, un dirigente di polizia, è il testimone a carico in un procedimento che ha coinvolto un pubblico ministero in forza nel piccolo ufficio giudiziario che dovrebbe giudicarlo. L'ambito ristretto rende concreto il rischio che le strade dei due si incrocino ancora a ruoli invertiti: con il poliziotto nella veste di imputato e il Pm in quella della pubblica accusa. La Cassazione (sentenza 18647) accoglie la richiesta di spostare il processo in un'altra sede a causa di situazioni in grado di mettere seriamente a rischio l'imparzialità di giudizio della Procura e non solo. Una decisione non frequente in casi del genere. Qui la Cassazione trova fondato il pericolo alla luce dei fatti. Il sospetto sul clima prende le mosse dalla rivelazione di un pentito, che aveva riferito di collegamenti stretti tra due avvocati locali, nemici giurati del ricorrente, e ambienti giudiziari. I legali si vantavano di conoscere in anticipo le misure cautelari adottate nei confronti di personale di polizia, compreso l'imputato, grazie ai rapporti privilegiati con alcuni Pm. Al di là delle notizie fornite dal "pentito" nel concreto c'era un'azione penale, per abuso d'ufficio, esercitata nei confronti di tre magistrati della Procura e di uno dei due avvocati, che era stato sospeso dall'Ordine. Per un Pm, poi rientrato in servizio, c'era stato un rinvio a giudizio per concussione in un processo in cui l'odierno imputato è testimone. In più, erano state aperte diverse azioni disciplinari nei confronti di alcuni sostituti procuratori proprio a causa dei legami con la famiglia di avvocati. Per la Cassazione ciò è sufficiente, per considerare fondato il legittimo sospetto e spostare il processo altrove (articolo 45 del Codice di procedura penale). La Suprema corte, chiarisce che nella scelta non pesa la fondatezza dei vari reati o illeciti disciplinari ipotizzati, ma la piccola realtà territoriale che rende, nel tempo, inevitabile il coinvolgimento nel processo dei pochi Pm in servizio. Un rischio da evitare, visto l'indiscutibile clima di tensione tra l'imputato, i pm e gli avvocati, questi ultimi tra l'altro attivi nella politica locale e coinvolti in processi per rapporti opachi con la Procura. Considerate le piccole dimensioni dell'organico, non è infondato il timore di una scarsa trasparenza e correttezza nel giudizio. La Cassazione si affretta a precisare che quanto detto non mette necessariamente a rischio l'imparzialità dei giudici essendo questi del tutto estranei alle vicende riferite. Tuttavia, sempre a causa delle ridotte dimensioni dell'ambiente, anche gli organi giudicanti devono fare i conti, almeno per l'immagine che se ne può avere all'esterno, con il sospetto di condizionamenti. Si è dunque determinata la grave situazione locale, prevista dalla norma, che secondo la giurisprudenza va intesa come "un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del giudice...". La Cassazione ricorda un precedente nel quale era stato rimesso un processo per diffamazione a carico di un'avvocatessa per le accuse rivolte ad alcuni magistrati. Il legale era finito nel mirino delle toghe locali che in un comunicato tranchant avevano considerato la sua condotta un possibile pregiudizio per i diritti fondamentali dei suoi clienti. Violenza sessuale, da provare l'incapacità di autodeterminarsi della persona "ritardata" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2015 Corte di cassazione. Sezione III penale. Sentenza 5 maggio 2015 n. 18513 Il ritardo mentale non impedisce di per sé una valido consenso all'atto sessuale. Dunque, diversamente da coma accadeva in passato, non è sempre punibile la condotta di chi si congiunga carnalmente con persona "malata di mente" o non in grado di resistere "a cagione delle proprie condizioni di inferiorità psichica e mentale". Va dunque provato caso per caso lo sfruttamento di tale condizione di minorità per ottenere un consenso che a quel punto risulta viziato proprio perché indotto dal disagio mentale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 18513/2015, accogliendo il ricorso di un imputato quarant'enne originario del Bangladesh contro la misura cautelare della custodia in carcere. Il caso - Il tribunale di Venezia, invece, aveva respinto l'istanza di riesame della misura coercitiva confermando l'esistenza di gravi indizi del reato di violenza sessuale (articolo 609-bis, comma 2, n. 1 ) ai danni dell'extracomunitario per aver costretto una diciassettenne - affetta da disturbo della sfera emozionale e da ritardo mentale lieve - a subire atti sessuali abusando delle sue condizioni di inferiorità psichica. La motivazione - Per la Suprema corte, però, la prova della sussistenza del reato era stata erroneamente desunta dalle modalità dell'atto sessuale (consumato sbrigativamente in un garage) e dalla terminologia utilizzata per descriverlo, tipica di una ragazzina più piccola. In sostanza, argomenta la sentenza, il tribunale sembrava mettere in dubbio la stessa capacità di auto-derminarsi della ragazza "finendo di fatto per sovrapporre la patologia con l'assenza del valido consenso, benché non vi sia evidenza alcuna che il ritardo mentale, sia pure di grado medio, inibisca di per sé un valido consenso all'atto sessuale". Così facendo non ha neppure preso in considerazione l'argomento della difesa secondo cui, come accertato dai medici, la ragazza aveva già avuto dei rapporti in precedenza, circostanza questa da approfondire proprio al fine di valutare la capacità di autodeterminarsi. Né il fatto che la stessa gravità del ritardo mentale non era pacifica, essendo stato qualificato una volte "lieve" e l'altra "medio". E ciò sicuramente era rilevante ai fini della contestazione del "consapevole sfruttamento" che l'imputato ne avrebbe fatto. Il principio - Nell'annullare l'ordinanza la Cassazione ha messo nero su bianco i punti cui il Tribunale di Padova dovrà attenersi in sede riesame affermando il seguente principio di diritto: "In tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perché sussista il reato di cui all'art. 609-bis. comma 2, n. 1, cod. pen., è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all'atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sé tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell'induzione; 5) l'induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l'induzione e la sua natura abusiva non si Identifichino con l'atto sessuale, ma lo precedono". Emilia Romagna: il sovraffollamento delle carceri è finito, ma restano alcuni problemi www.romagnaoggi.it, 6 maggio 2015 A Rimini preoccupano le criticità strutturali e le carenze igienico-sanitarie dell'edificio penitenziario e la qualità del vitto. Un totale di 30 visite nei 13 istituti penitenziari dell'Emilia-Romagna e 535 istanze prese in carico per vicende detentive riguardanti singoli individui o questioni collettive: l'Ufficio del Garante regionale delle persone private della libertà personale ha dedicato "energie prevalenti al tema della vigilanza", spiega la Garante, Desi Bruno, nella relazione sull'attività svolta nel 2014 illustrata in Aula, per "verificare in concreto gli effettivi interventi dell'Amministrazione penitenziaria per assicurare il miglioramento delle condizioni di vita delle persone ristrette negli istituti della regione Emilia-Romagna e per segnalare disservizi, violazioni dei diritti, problemi di ordine strutturale". Il tutto, premette la Garante, in un clima profondamente mutato nei suoi tre anni di incarico: alla fine del 2011 era il sovraffollamento delle carceri il problema principale, con 4 mila detenuti e una capienza massima complessiva di 2.453 unità, mentre alla fine del 2014 l'emergenza si può considerare rientrata, con 2.916 ristretti per 2.799 posti. Nei colloqui con i ristretti Bruno, che ha presentato in Assemblea legislativa la sua relazione così come previsto dalla legge regionale che istituisce la figura del Garante dei detenuti, si è occupata principalmente di condizioni detentive e di rapporti con l'amministrazione penitenziaria (176 casi su 484), questioni sanitarie (99), accesso alle misure alternative alla detenzione (83), richieste di trasferimento (59) e rapporti con la magistratura di sorveglianza (34 casi). Proprio l'interazione fra i detenuti e i giudici che si occupano dell'esecuzione della pena è stata al centro anche degli incontri collettivi, in totale 51, effettuati dalla Garante in due occasioni, a Rimini e a Ravenna, e ha riguardato anche un terzo incontro, quello organizzato alla casa lavoro di Castelfranco Emilia, incentrato però principalmente sull'assenza di attività lavorativa. Significativo anche il colloquio con i ristretti della Dozza di Bologna sulle modalità di presentazioni del ricorso per detenzione inumana e degradante, sulla qualità del vitto e sui prezzi del sopravvitto e più in generale su tutte le carenti condizioni strutturali dell'Istituto. Nella sua relazione, Bruno focalizza l'attenzione su dieci tematiche "cruciali" per la sua attività di organo di garanzia: il passaggio, a lungo atteso e finalmente realizzato nel 2015, dagli Ospedali psichiatrici giudiziari alle Rems, le residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria; l'irrisolta questione delle misure di sicurezza detentive per persone imputabili e socialmente pericolose a Castelfranco Emilia; l'eccessiva presenza di detenuti malati e la presenza di circuiti differenziati al Centro diagnostico terapeutico di Parma; la necessità, poi fatta propria anche dal Dap, di ripensare l'edilizia penitenziaria rinunciando a nuovi padiglioni; il rimedio compensatorio per detenzione inumana e degradante dopo la sentenza della Corte europea cosiddetta "Torreggiani", tra i cui appellanti figura anche un detenuto del carcere di Piacenza; la generale mancanza di lavoro in carcere; la carenza di magistrati di sorveglianza; le iniziative per la popolazione carceraria straniera e, infine, il diritto agli affetti anche per i ristretti. Nella sintesi delle sue attività, Bruno non manca di dedicare un focus ai problemi di ogni singola struttura penitenziaria non emersi nel corso dei colloqui. A Parma le principali criticità sono le modalità di svolgimento dei colloqui Asl, il mantenimento dei rapporti con la famiglia, e in particolare con i minori di 12 anni, per i detenuti in regime di 41bis e la rigidità delle restrizioni nell'isolamento disciplinare nella sezione Iride. A Rimini preoccupano le criticità strutturali e le carenze igienico-sanitarie dell'edificio penitenziario e la qualità del vitto, a Modena la carenza di attività lavorativa, i prezzi del sopravvitto e le richieste collettivo di trasferimento. A Bologna Bruno segnala le condizioni strutturali dell'istituto penitenziario, l'applicazione del divieto di fumo nelle sezioni, a Castelfranco Emilia la territorializzazione delle misure di sicurezza, la presenza di soggetti con disturbi psichiatrici e la carenza di volontari impegnati in attività. Nella struttura di Piacenza le difficoltà più significative coinvolgono la carenza di educatori per l'area trattamentale, l'assenza di luoghi dedicati all'attività sportiva e la cessazione dell'attività della redazione del giornale "Sosta forzata" all'interno del carcere. All'Istituto penale minorile di Bologna infine sono sotto osservazione le condizioni detentive, le criticità strutturali dell'edificio e la presenza di detenuti maggiorenni infra-venticinquenni. Napoli: detenuto 51enne si impicca a Poggioreale. La famiglia: ci aveva già provato di Marco Di Caterino Il Mattino, 6 maggio 2015 Era finito in carcere lo scorso mese di febbraio. Arrestato dai carabinieri dopo una rapina in una farmacia di Crispano, uno dei tanti paesoni alle porte di Napoli. L'altra notte Giovanni Iazzetta, 51 anni, di Afragola, una moglie e tre figlie femmine, una delle mille e più anime "senza storia" di quell'inferno che è il carcere di Poggioreale, si è impiccato nel bagno della sua cella, con una corda dell'accappatoio. E quando i suoi compagni di cella si sono accorti di quanto stava accadendo, hanno tentato di fare qualcosa, non prima però di aver chiesto l'intervento dei poliziotti penitenziari. Il loro tempestivo intervento non è servito a salvare la vita al detenuto. Una morte orribile, che aveva avuto più di un prologo con alcuni episodi di autolesionismo dello stesso detenuto, e che sono rimasti lettera morta, se non per la statistica. I familiari, a cui è stata data la notizia solo dopo qualche ora dagli agenti del commissariato di Afragola, hanno accusato la direzione del carcere di non aver tenuto conto delle sue condizioni psicologiche e di quel "farsi male" ripetuto più volte, come se fosse stata una sorta di tragica preparazione al suicidio. "Certo che se invece di un Giovanni Iazzetta qualunque, si fosse chiamato che so, Cosentino o meglio Cu-tolo, ora non staremmo qui e preparare il suo funerale", dice con rabbia uno dei familiari del deceduto, seguito da uno sgarbato: "E mo, jatevenne!". Nei "mattoni" la notizia del suicidio di "uno di loro", è stata immediatamente metabolizzata, ma non così la rabbia. Qui lo conoscevano tutti. Una vita bruciata da alcol e droga, scandito da un incessante via vai dalle patrie galere, inframmezzato da una misera quotidianità nell'orrida edilizia delle palazzine popolari Iacp di Afragola, che qui tutti chiamano "mattoni" e che per panorama e sky line hanno i palazzoni del rione Salicelle, un altro posto difficile in mano alla camorra, e un curvone dell'Asse Mediano che sembra brontolare come una bestia primordiale, per rumore sordo dell'incessante passaggio di auto e camion. "Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi - dice Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) - sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere". Parma: il Garante dei detenuti "il carcere di via Burla fa acqua da tutte le parti" Gazzetta di Parma, 6 maggio 2015 Un carcere che "fa acqua da tutte le parti", con un numero sottodimensionato di agenti, "sbarramenti violabili con un seghetto", risorse così inadeguate da non permettere l'acquisto di pc e dunque costringere ancora a una burocrazia su carta, e condizioni tali da diminuire sempre più le attività per i detenuti. È la lunga analisi che fa di via Burla il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Roberto Cavalieri. Ecco il suo lungo e particolareggiato intervento, che prende spunto dal rinvio a giudizio di 11 persone per la clamorosa evasione del febbraio 2013. "La decisione del Gup del Tribunale di Parma di rinviare a giudizio undici dipendenti dell'Amministrazione penitenziaria - direttrice, comandante e nove membri della Polizia penitenziaria - per rispondere anche dell'imputazione di "procurata evasione", agendo quindi con dolo, desta una forte preoccupazione. La fuga di due detenuti, avvenuta la notte del 2 febbraio 2013, appare ora avere i connotati della scientifica volontà e determinazione di evadere alla quale si è aggiunta la presunta volontà di qualcuno di essere complice nell'azione evasiva. Come non rimanere colpiti da questo scenario? Non conosco i dettagli dell'indagine ne ho letto una sola pagina del procedimento. Frequentando il carcere, nel mio ruolo di Garante dei diritti dei detenuti, sono rimasto vicino a questa indagine per il tramite della preoccupazione degli indagati che conosco, in parte, personalmente. Svolgere il ruolo di Garante comporta una costante attenzione ai meccanismi che possono generare violazione dei diritti dei detenuti che, nonostante l'esecuzione di una condanna, restano esseri umani portatori di diritti inviolabili. Nell'arco di un anno ho raccolto un numero considerevole di presunte violazioni che ho segnalato alle competenti autorità e raccolto in un documento presentato davanti al Consiglio comunale lo scorso 30 marzo. Queste si concentrano su aspetti sanitari, trattamentali, limitazione del diritto allo studio, lentezze e inadempienze della giustizia, mancato rispetto delle forniture obbligatorie, incolumità personale, igiene degli ambienti detentivi, limitazione della cura degli aspetti affettivi e familiari dei detenuti. Nel nostro carcere sono rinchiuse 530 persone. Un numero che si è via via ridotto dalle oltre 650 presenti prima degli importanti e recenti interventi legislativi successivi alla condanna ricevuta dall'Italia da parte della Corte europea per i diritti dell'uomo per la violazione dell'art. 3 della Convenzione che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti come quelli subiti da un detenuto rinchiuso in un altro carcere emiliano, quello di Piacenza. I detenuti nel nostro carcere sono sottoposti a regimi detentivi differenziati che vanno dal 41bis sino alla media sicurezza (i cosiddetti detenuti comuni) passando per alcune sfumature dell'alta sicurezza per persone con reati associativi. Il costo per la gestione di questa struttura finalizzata al "trattamento e al recupero" dei detenuti è enorme. Prendendo come validi i dati dell'Associazione Antigone un detenuto in Italia costa ogni giorno circa 150 Euro. È facile calcolare che il nostro carcere ha un costo di gestione e mantenimento di 29 milioni di euro all'anno. L'insieme della totalità delle iniziative volte a "recuperare" i detenuti (corsi, scuola, attività culturali e sportive, etc) non rappresentano che una misera parte di quella enorme cifra. In aiuto alla situazione intervengono le risorse che provengono dal territorio (Comune di Parma, Regione Emilia Romagna e volontariato penitenziario in particolare) in quanto il Ministero della Giustizia per le attività trattamentali dei detenuti stanzia l'equivalente del costo di 63 minuti di vita e gestione del carcere di Parma per ogni anno di funzionamento ovvero 3.500 Euro. Una miseria appunto. Nel mio rapporto ho avuto modo di evidenziare che al carcere di Parma il Ministero della Giustizia ha assegnato 460 uomini della penitenziaria dei quali effettivi sono solamente 309; la differenza è fatta di uomini che mancano perché impegnati in altre sedi o in congedo o assegnati e distaccati ad altri servizi ministeriali. Ora questa mancanza di uomini si riverbera pesantemente su due aspetti della gestione del carcere. Il primo è quello relativo alla riduzione delle attività trattamentali per i detenuti. Meno agenti sono in servizio meno forze si hanno per vigilare e di conseguenza meno attività si possono svolgere. A Parma tutte le attività iniziano alle 9.00 e terminano alle 15.00, con un'ora di "pausa", dal lunedì al venerdì esclusi i giorni festivi e le interruzioni nel corso delle pause estive, di Natale e Pasqua per permettere agli agenti di fare le ferie. Il resto del tempo i detenuti lo trascorrono nelle sezioni detentive o in cella con inevitabili effetti sulla loro tenuta psicofisica. Il secondo effetto è quello relativo alle modalità di lavoro degli uomini del Corpo di Polizia penitenziaria che si vedono ridotti nel numero, assillati dagli adempimenti (poca parte del lavoro è supportata dall'informatizzazione, perché mancano i fondi per acquistare i personal computer, e così si lavora su registri cartacei per la tenuta dei movimenti delle persone, delle perquisizioni, dei diversi controlli, etc.), stressati e spesso impreparati e non formati alla complessità della gestione delle dinamiche che si sviluppano in una sezione dove possono essere collocati anche 50 detenuti con molteplici problematiche sotto la sorveglianza di un solo agente. La notte tra l'1 e il 2 febbraio del 2013 il carcere di Parma è rimasto annichilito dalla abilità e destrezza di due detenuti i quali altro non hanno fatto che sfruttare le falle di un sistema iper-burocratico, dotato di una tecnologia molto povera, sottodimensionato nelle forze umane, perennemente sotto pressione e anche impunito nelle inadeguatezze della costruzione dotata di sbarramenti violabili da semplici seghetti, che nei periodi di pioggia fa acqua da tutte le parti e con un volume degli spazi detentivi fortemente prevalenti rispetto agli spazi dedicati alle attività, al lavoro e alla socializzazione. Quello che come Garante mi auguro è che il Tribunale di Parma svolga con scrupolo questo processo e che l'autorità giudiziaria, prima o poi, ascolti anche le denunce e gli appelli dei detenuti, dei loro familiari e del Garante, e cerchi il responsabile vero di questo insensato sistema che allo stato delle cose non produce assolutamente nulla. Ritenere invece che quella notte undici persone abbiano, con dolo, procurato l'evasione di due detenuti appare essere la semplificazione di uno scenario molto più complesso che rischia di condannare solo coloro che sono rimasti con il "cerino in mano". Cagliari: Sdr; indagine di Poste Italiane su ritardi della corrispondenza nel carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2015 "Non è caduta nel vuoto la nota di Sdr sui ritardi nella ricezione della corrispondenza segnalata da detenuti e familiari relativamente ai ristretti della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Poste Italiane ha infatti promosso un monitoraggio per verificare la fondatezza della informazione e gli eventuali disservizi. Una risposta significativa per chi ripone nella corrispondenza uno strumento di relazione affettiva, spesso l'unico, per mantenere i rapporti con familiari e amici e una modalità per mantenere viva la comunicazione sociale nella prospettiva del reinserimento". Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme" che nei giorni scorsi si era fatta carico di rappresentare la problematica. "L'associazione - osserva Caligaris esprimendo apprezzamento e soddisfazione per l'accoglimento della segnalazione - ha ricevuto rassicurazioni dall'Azienda attraverso un comunicato con cui vengono illustrate le modalità con le quali viene garantito il servizio. Un'attenzione che testimonia la volontà di offrire a chi è privato della libertà la certezza di un diritto. L'auspicio è quello di una sempre maggiore collaborazione tra le Istituzioni con il coinvolgimento dei cittadini per garantire efficienza e trasparenza". Dalla nota recapitata all'associazione emerge che "il servizio di recapito viene assicurato giornalmente dal lunedì al venerdì, senza eccezioni, anche in caso di improvvisa assenza del portalettere titolare". "Dalle indagini per risalire ai motivi dei segnalati ritardi - si legge nel documento di Poste Italiane - è emerso che il 90% della corrispondenza viene consegnata il giorno successivo a quello di impostazione, il 4% due giorni dopo quello di impostazione e il 6% nei giorni successivi. L'analisi, focalizzata sulle cause dei ritardi nella consegna di questi ultimi oggetti, ha permesso di verificare, anche visivamente, che questi invii sono stati indirizzati in maniera irregolare. Nello specifico: in alcuni casi l'indirizzo è stato posizionato quasi sopra lo spazio riservato all'affrancatura, in altri casi era pressoché illeggibile, in altri ancora era per metà occultato da adesivi e/o disegni. La lavorazione della corrispondenza è totalmente automatizzata e, grazie impianti di ultima generazione, è un lettore ottico che legge l'indirizzo negli invii e li veicola direttamente nella zona del portalettere. Quando nel circuito di lavorazione vengono inseriti invii indirizzati in modo irregolare - precisa ancora l'Azienda - possono verificarsi due ipotesi: l'invio viene scartato e lavorato manualmente, accumulando talvolta un giorno di ritardo, o può essere letto erroneamente e veicolato anche in altre regioni. In questo caso il ritardo accumulato può essere maggiore. Poste Italiane sta valutando la possibilità di incontrare il direttore dell'Istituto di Pena e, insieme, valutare il mezzo più idoneo per informare i detenuti ed invitarli a prestare la propria collaborazione per poter offrire un servizio migliore". Con riferimento alla consegna dei pacchi ai detenuti, Poste Italiane e Ministero della Giustizia, Dipartimento per l'Amministrazione Penitenziaria nel 2008 hanno sottoscritto un apposito protocollo. La normativa prevede che i pacchi diretti agli ospiti di Uta vengano depositati presso l'ufficio postale di Uta che, una volta presi in carico i pacchi, provvede nella stessa giornata ad inviare un fax all'Istituto di Pena nel quale vengono analiticamente indicati gli estremi dei pacchi giacenti e i nominativi dei destinatari. La Direzione dell'Istituto, verificata la presenza nella struttura penitenziaria del destinatario e la sussistenza dei requisiti necessari, invia un proprio incaricato per il ritiro dei pacchi. La stessa normativa prevede che l'ufficio postale trattenga in giacenza i pacchi per 7 giorni lavorativi a partire dal giorno successivo al deposito del pacco da parte del corriere e, in caso di mancato ritiro, provveda a rinviarlo al mittente o al macero se ciò risulta richiesto dallo stesso mittente nella lettera di vettura. Fossombrone (Pu): detenuto accoltella alla gola un compagno durante l'ora d'aria Corriere Adriatico, 6 maggio 2015 Un detenuto del carcere di Fossombrone è stato aggredito e accoltellato alla gola, nell'ora d'aria. Ad averlo accoltellato un altro recluso che si era procurato un'arma rudimentale. Il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria ha di fatto salvato la via al ferito trasferito a tempi da record prima all'ospedale di Urbino e poi a quello di Pesaro. Non si conoscono le identità dei due carcerati. Si sa solo che entrambi sono campani e ristretti nella sezione di massima sicurezza. L'aggressore sarebbe stato spinto da un improvviso attacco d'ira. Non sarebbero stati individuati motivi diversi da far risalire ad un eventuale regolamento di conti tra appartenenti a "gruppi" antagonisti. Non sono trapelate indiscrezioni di alcun genere in merito. Un altro detenuto è rimasto invece vittima di un'improvvisa crisi respiratoria. Anche in questo caso l'opera degli agenti si è rivelata provvidenziale. Le difficoltà maggiore in casi del genere derivano dal fatto che la sezione speciale riservata alle emergenze sanitarie del carcere, da sempre funzionante nell'ospedale di Fossombrone, ultimamente è stata dismessa in seguito ai tagli che hanno colpito il nosocomio. Tutto diventa più difficile, rispetto al passato, perché bisogna provvedere al trasferimento urgente negli ospedali di Urbino ed eventualmente di Pesaro a seconda della gravità dello stato di salute di chi ha bisogno di essere soccorso. Come è avvenuto appunto nelle ultime ore. I due fatti di cronaca verificatisi nel carcere hanno messo in luce, ancora una volta, la professionalità degli agenti di polizia penitenziaria. Gli stessi che si accingono a celebrare il 198mo anniversario della fondazione del proprio Corpo con la cerimonia in programma venerdì mattina alle 10 alla presenza, tra le altre autorità civili e militari, del direttore Maurizio Pennelli e della comandante del reparto, vice commissario Marta Bianco. Cremona: Sappe; nuova violenza nel penitenziario, scoppia una rissa durante l'ora d'aria La Provincia, 6 maggio 2015 Gli agenti della Polizia penitenziaria riescono a riportare l'ordine nel cortile del nuovo padiglione, il Sappe: "Deve far riflettere l'elevato numero di episodi critici che accadono in questo carcere". Rissa tra detenuti durante l'ora d'aria. L'ultimo episodio di violenza, di una lunga serie, è avvenuto all'interno del penitenziario di Cremona intorno alle 13.30 di domenica 3 maggio. La rissa è scoppiata, pare per futili motivi, tra alcuni detenuti stranieri appartenenti a etnie diverse, mentre si trovavano nel cortile del nuovo padiglione. L'agente di polizia penitenziaria addetto al cortile passeggio ha dato subito l'allarme e, grazie al tempestivo e risolutivo intervento dei colleghi, si è potuto evitare il peggio. Nessun poliziotto è rimasto ferito o contuso nel ripristino dell'ordine e della sicurezza all'interno. "Impeccabile anche questa volta - sottolinea il segretario nazionale del sindacato Sappe Donato Capece - la prontezza degli agenti di Polizia Penitenziaria della casa circondariale di Cremona nell'affrontare il grave ennesimo evento critico, ai quali va sicuramente riconosciuto il merito di saper svolgere il proprio lavoro con spirito di abnegazione, professionalità ed estremo sacrificio". Alfonso Greco, segretario regionale Sappe della Lombardia, aggiunge: "La rissa tra detenuti a Cremona è sintomatico di una emergenza penitenziaria che permane, nonostante tutto, sedata in tempo dai bravi poliziotti penitenziari in servizio che mi auguro vengano premiati per l'ottimo intervento operativo. Ma deve fare seriamente riflettere l'innumerevole numero di episodi critici che accadono nel carcere di Cremona. Ed è assurdo che non si adottino incisivi provvedimenti, chiesti da tempo dalla nostra Organizzazione sindacale". Foggia: la biblioteca "Magna Capitana" entra nelle carceri, siglata convenzione col Prap www.immediato.net, 6 maggio 2015 La Biblioteca Provinciale di Foggia "La Magna Capitana" ha sottoscritto una convenzione con il Prap, Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, dando seguito al protocollo d'intesa per la promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari italiani. Punta al reinserimento sociale della popolazione in esecuzione di pena, anche attraverso il potenziamento dei servizi bibliotecari carcerari e più in generale dell'offerta culturale, anche grazie all'accordo siglato nell'aprile del 2013 tra il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, l'Unione delle Province d'Italia, l'Aib-Associazione Italiana Biblioteche e l'Anci-Associazione Nazionale Comuni d'Italia. L'idea è quella di avviare e potenziare i rapporti di collaborazione tra le biblioteche interne agli istituti penitenziari e i sistemi bibliotecari esterni, che svolgono una funzione di servizio formativo integrato, secondo i più moderni orientamenti dell'apprendimento permanente per tutta la vita e in ogni contesto. "È sempre più evidente il ruolo di vere e proprie infrastrutture sociali ricoperto dalle biblioteche, luoghi di crescita individuale e collettiva, con una spiccata funzione relazionale", sottolinea il presidente della Provincia di Foggia Francesco Miglio. "Sono presidi di democrazia e di cittadinanza attiva e responsabile, che devono lavorare in sinergia con ogni altra struttura e agenzia del territorio". Le buone prassi acquisiste dalla Biblioteca Provinciale di Foggia, sia nella promozione della lettura sia nella conservazione e valorizzazione del patrimonio librario, verranno messe a disposizione della biblioteca penitenziaria, con l'obiettivo di promuovere numerose attività: l'accesso al patrimonio librario e multimediale da parte dei detenuti, anche attraverso appositi sistemi di consultazione informatizzata del catalogo; il progressivo incremento del patrimonio librario e multimediale, tenendo conto della composizione della popolazione detenuta e dei suoi bisogni di lettura e di apprendimento; la valorizzazione degli aspetti multiculturali delle etnie presenti nell'istituto, attraverso la promozione e la diffusione di testi di autori stranieri in lingua originale e bilingua; l'integrazione del servizio bibliotecario interno con le biblioteche del territorio, mediante l'inserimento delle biblioteche penitenziarie nel circuito del prestito interbibliotecario territoriale; la formazione professionale dei detenuti incaricati della conduzione del servizio bibliotecario interno; la realizzazione di iniziative culturali quali incontri con l'autore, seminari su tematiche specifiche, dibattiti con personalità della cultura. Prosegue così l'impegno della Biblioteca presso la Casa Circondariale di Foggia, dove dallo scorso mese di novembre si sta svolgendo il progetto "Accoglienza, Immigrazione, Multicultura - il Cinema va in carcere", con la proiezione di film e il successivo dibattito. Negli anni passati sono state organizzate anche numerose presentazioni di libri. Firenze: "Sport in Libertà" sabato prossimo a Sollicciano, iniziativa promossa dell'Uisp met.provincia.fi.it, 6 maggio 2015 Gli iscritti alla gara sono 100 uomini e 80 donne. Uisp Firenze, in collaborazione con il G.S. Le Torri, porterà sabato 9 maggio Vivicittà all'interno della struttura penitenziaria fiorentina: un momento ludico sportivo per la popolazione residente nel carcere di Sollicciano, un impegno per svolgere attività fisica e ricreativa. Crediamo che lo sport rappresenti non solo uno valido strumento in grado di alleviare problemi di salute legati ai lunghi periodi di detenzione, ma anche un importante canale per tradurre in energia positiva le potenzialità dei reclusi ed aiutare a mantenere/creare una rete solidale tra tutti i soggetti che "vivono" all'interno del sistema carcerario (detenuti, guardie, operatori e volontari). La ricerca del traguardo attraverso la fatica, l'impegno e la riscoperta della lealtà della competizione sono valori che possono guidare il percorso dei detenuti verso i valori più sani della società e anche verso un possibile reinserimento sociale (associazionismo quale valido riferimento un volta fuori). Il progetto, denominato "Sport in libertà", si colloca nei piani d'azione del Comune di Firenze e prevede interventi di attività sportiva più o meno intensa, singola o di gruppo, come momenti formativi ed educativi. Con questa manifestazione come Uisp ci poniamo questi obiettivi: realizzare un'attività sportiva socializzante volta all'integrazione di un segmento della vita carceraria con il mondo esterno; rafforzare le abilità di base, l'autonomia e l'autostima dei detenuti; mettere in contatto l'ambiente esterno con la realtà carceraria favorendo il superamento della reciproca diffidenza e la creazione di un rapporto solidale tra società e detenuti. Quest'anno l'edizione di Vivicittà si svolgerà sabato 9 maggio con partenza alle 9. Il percorso prevede due giri della struttura. Gli iscritti alla gara sono 100 uomini e 80 donne. Parteciperanno anche il Presidente del Q4 e la presidente della commissione sport Q4. Droghe: al Pigneto di Roma prove di dialogo di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 6 maggio 2015 In occasione di "Spiazziamoli", evento organizzato da Libera e altre realtà in 50 piazze a Roma contro le mafie, il comitato abitanti del Pigneto ha distribuito semi di cannabis, spiegando il gesto con un manifesto: "Attenzione: questo è un seme di cannabis, genera libertà, se piantato e coltivato è un potente maficida. Sabato 7 Marzo(…) distribuzione di semi di cannabis e raccolta di firme per la legalizzazione dei cannabis social club. In tanti paesi legalizzando le droghe leggere si sottraggono soldi ai trafficanti, si restituisce dignità ai consumatori, si libera economia per tutta la comunità. In Italia, a Roma, al Pigneto l'ipocrisia del proibizionismo riempie le strade di droga, violenza e repressione". Che cosa ha spinto un comitato civico ad una posizione così inedita? Sei strade rappresentano il centro del Pigneto, quartiere romano già abitato da operai e artigiani e con una convinta partecipazione alla resistenza: poi, dagli anni 90, la gentrificazione. I prezzi modesti degli affitti attirano gli studenti fuori sede e vi trovano casa molti lavoratori immigrati; il prezzo delle abitazioni richiama famiglie della piccola e media borghesia. Il Pigneto, descritto da Ferrarotti nel 90 come "vivace, carino e anche molto economico" comincia una trasformazione che lo renderà una delle mete della "movida" della capitale, sino ad essere paragonato al Greenwich Village. Ma la magia dura poco, i locali di tendenza allontanano ogni altra attività, il quartiere vive un notturno senza alcun progetto, sregolato, in grado di offrire solo food and beverage. In tale contesto di sovraffollamento, che si trasforma in caos e degrado, trovano spazio attività di spaccio sempre più incontrollate, praticate in larga parte da giovani immigrati. Una miscela esplosiva alla quale i cittadini del Pigneto stanno rispondendo avanzando proposte intelligenti e ragionevoli. In un recente incontro presso l'Assessorato alle Politiche sociali, nel denunciare i problemi comuni a tutto il territorio cittadino (microcriminalità, spaccio, dipendenze, cattiva gestione della migrazione, povertà, movida sregolata), hanno avanzato la richiesta di fare del Pigneto un laboratorio, proprio in virtù della concentrazione di tali fenomeni in un quadrante urbano limitato, sperimentando modalità d'intervento innovative, coordinate, che non richiedono risorse ingenti. Nella piattaforma si legge, tra le altre cose, la richiesta di appoggiare le "iniziative per promuovere un cambiamento dell'attuale legislazione in materia di droghe verso un approccio non punitivo per i consumatori e di liberalizzazione per i derivati della cannabis (e la) creazione del "social club Pigneto", associazione con la finalità di "promuovere sul territorio una visione laica e pragmatica sul consumo e l'abuso di droghe, di promuovere campagne informative e di prevenzione e, in generale, di contribuire al dibattito politico e culturale nella società". Si chiede di avviare e coordinare attività di mediazione, di informazione e riduzione del danno, un "Progetto Migranti" in grado di prendere contatto con "giovani migranti, spesso giovanissimi" che dallo spaccio minuto "rimediano quel minimo di sussistenza necessario alla sopravvivenza", pedine sacrificabili e subito rimpiazzate, alle quali offrire percorsi diversi. In ultimo, il Comitato abitanti Pigneto chiede di ospitare "una conferenza nazionale sulle droghe e sulla legalizzazione della cannabis", individuando nel nuovo cinema Aquila, un bene sequestrato all'organizzazione criminale che negli anni ‘80 riempì di eroina le strade della Capitale, la sede dell'evento. Un laboratorio, dunque, altro che sassate. India: caso marò; fallita la via diplomatica, l'Italia ricorre all'arbitrato di Danilo Taino Corriere della Sera, 6 maggio 2015 Dopo i ripetuti rinvii dei tribunali indiani, "ci sono le condizioni migliori per procedere". La richiesta di apertura del contenzioso dovrà essere presentata entro fine giugno. Il governo italiano ha deciso di procedere con l'arbitrato internazionale sul caso dei due marò. Da quel che risulta al Corriere, entro la metà del mese prossimo, probabilmente prima, ritirerà la proposta che aveva fatto all'India per una soluzione diplomatica negoziata e comunicherà al governo di Delhi l'intenzione di procedere con un contenzioso per stabilire dove risiede la giurisdizione nella vicenda che coinvolge Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, cioè dove andranno processati: in India, in Italia (come sostiene il governo di Roma) o in un Paese terzo. Siamo a una svolta: se nel giro di pochi giorni Delhi non darà una risposta chiara all'offerta italiana, il caso prenderà la forma di un confronto pubblico e internazionale. La scelta è il risultato di due sviluppi: da un lato, il governo indiano di Narendra Modi non avrebbe risposto alla proposta di soluzione concordata; dall'altro, nei mesi scorsi il team di avvocati internazionali che segue il caso per l'Italia e i funzionari del governo incaricati da Matteo Renzi hanno ricostruito le condizioni per chiedere l'arbitrato, dopo che per lungo tempo questa possibilità era stata resa precaria dall'accettazione di fatto, da parte di Roma, del procedimento giudiziario indiano. "Si sono create le condizioni migliori che ci siano mai state per procedere all'arbitrato", dice una fonte vicina alla trattativa. La proposta di mediazione diplomatica italiana è dalla fine dell'estate scorsa sul tavolo di Ajit Doval, consigliere per la sicurezza nazionale di Modi. Nonostante rassicurazioni verbali, però, la discussione non avrebbe mai preso il volo. Il governo Renzi, dunque, ha preso atto che la via diplomatica è finita nella sabbia. E che andare avanti in uno stato di incertezza sarebbe non solo ulteriormente frustrante ma anche rischioso: Latorre è in Italia per trascorrere la terza licenza di convalescenza, che scade il prossimo 15 luglio, e non si può immaginare che la Corte Suprema indiana prolunghi la permanenza all'infinito. Venuta meno la prima scelta, quella di un accordo tra capitali - che comunque andava perseguita quando a Delhi è stato eletto, nel maggio 2014, un nuovo governo - Roma ha dunque deciso per la second best, cioè l'arbitrato. La possibilità non era mai stata esclusa. Il gruppo di avvocati internazionali - guidati da Sir Daniel Bethlehem - che lavora sul caso per l'Italia ha nei mesi scorsi costruito la situazione legale per evitare di essere in fallo. Ha cessato di riconoscere processualmente la giurisdizione indiana. Ha ottenuto a metà aprile il prolungamento della licenza per Latorre, così da non trattenerlo in Italia in un modo che può essere considerato "illegale". E il 28 aprile ha saputo che la Corte Suprema inizierà il 7 luglio a discutere il caso della giurisdizione sollevato dall'Italia in una writ-petition, cioè in una richiesta di revisione di una sentenza della Corte che affermava la giurisdizione indiana: revisione che durerebbe mesi. Il ricorso unilaterale all'arbitrato dovrà dunque essere presentato (se ne occuperà probabilmente la Corte Permanente di Arbitrato dell'Aja) prima del 7 luglio per evitare la sovrapposizione con l'udienza indetta dalla Corte Suprema sullo stesso argomento (potrebbe apparire una malafede affrontarlo in due tribunali) ma anche, per ragioni tecniche, significativamente prima del 15 luglio quando scade la licenza di Latorre: la seconda metà di giugno è dunque la finestra ultima per muovere il passo. I rinvii decisi dai tribunali indiani, insomma, a questo punto vengono usati dalla parte italiana per mettere la sua strategia arbitrale entro argini definiti. Nessuna conclusione, di fronte a un arbitrato è scontata. In più, una volta alzato il livello del confronto diplomatico, ci sarà da valutare la posizione di Girone, attualmente in libertà provvisoria a Delhi. Se la reazione della Corte Suprema indiana sarà moderata, forse potrà continuare a muoversi per la città; se la reazione sarà dura, dovrà probabilmente rimanere chiuso nell'ambasciata italiana. Ma più di tre anni dopo l'inizio della vicenda, arrivano i momenti decisivi. Guinea Equatoriale: Roberto Berardi sarà liberato il 19 maggio per "estinzione pena" www.latina24ore.it, 6 maggio 2015 L'uomo è in carcere dal gennaio 2013 ma ora è vicina l'estinzione della pena. Secondo quanto scrive Africa-Express il governo italiano e l'Unione Europea stanno facendo le prime mosse per tutelarne l'incolumità una volta uscito dal carcere, dopo due anni e mezzo. Il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni e l'Alto Commissario UE alla politica estera Federica Mogherini, con due lettere alla famiglia, si sono assunti l'impegno formale di "tutelarne l'incolumità" con ogni mezzo possibile una volta uscito di prigione. Stando a quanto prevede il diritto comunitario, Berardi potrebbe finire, nel peggiore dei casi, sotto la tutela spagnola nell'ambasciata di Madrid a Bata, restando in piedi la questione risarcimento (secondo la sentenza l'imprenditore deve risarcire con 1,4 milioni di euro l'ex-socio africano). La III Commissione Esteri della Camera dei Deputati discuterà a Roma una mozione firmata dal deputato pentastellato Manlio Di Stefano, redatta grazie al contributo di alcuni attivisti di Latina, e amici di Roberto Berardi, che da tempo si mobilitano per chiedere il rispetto dei diritti dell'imprenditore detenuto nell'inferno di Bata Central: la mozione punta proprio ad un impegno formale del governo per tutelare l'incolumità di Berardi una volta uscito dal carcere, conclude Africa-Express. Grecia: il ministro Panousis ammette "le prigioni sono in mano a gruppi criminali" Nova, 6 maggio 2015 Le prigioni della Grecia sono ormai sotto il controllo di gruppi criminali. È quanto affermato dal ministro per la Protezione del cittadino, Yannis Panousis, rispondendo ad una domanda sulla recente rissa scoppiata nel carcere di Koryllados, dove sono morti due detenuti pachistani domenica scorsa. Panousis ha aggiunto che un aumento delle guardie carcerarie aiuterebbe le autorità a sistemare la situazione. Alle dichiarazioni di Panousis hanno fatto seguito quelle del ministro della Giustizia, Nikos Paraskevopoulos, il quale ha ordinato l'apertura di un'inchiesta sull'incidente di domenica, sottolineando che le tensioni nelle carceri sono amplificate da un problema di sovraffollamento dei detenuti e scarsezza di personale. Stati Uniti: arrestato un uomo evaso 56 anni fa, era stato condannato per omicidio Ansa, 6 maggio 2015 Dopo 56 anni la sua fuga è finita: Frank Freshwater, evaso da una prigione dell'Ohio nel 1959, è stato riacciuffato in Florida, a Melbourne. Viveva tranquillamente sotto falso nome, ma lo sceriffo della contea di Brevard lo ha smascherato e arrestato. Dopo aver abitato in vari Stati e lavorato come camionista, Freshwater, che ora ha 79 anni, si era insediato a Melbourne da un paio di decenni. Era evaso dopo aver scontato solo sette mesi dei 20 anni di reclusione a cui era stato condannato per omicidio colposo. E la sua vicenda fa peraltro seguito a quella di David Moore, 66 anni, un detenuto evaso 39 anni fa da un carcere del Kentucky e da allora è rimasto tranquillamente a vivere sotto falso nome nello stesso Stato. Fino a quando, una decina di giorni fa, si è spontaneamente consegnato allo sceriffo di Clarence, la sua cittadina. È malato, ha spiegato allo sceriffo, e ha quindi chiesto di tornare in prigione per ricevere assistenza sanitaria. Texas (Usa): il Card. Maradiaga visita i migranti centroamericani detenuti a Dilley Radio Vaticana, 6 maggio 2015 L'arcivescovo di Tegucigalpa, il card. Oscar Andres Rodriguez Maradiaga, si è recato a San Antonio, Texas, per incontrare l'arcivescovo di questa città, mons. Gustavo García Siller, al fine di conoscere direttamente la situazione di centinaia di migranti, soprattutto messicani e centroamericani, fermati dalle autorità. Nel gruppo c'è anche un gran numero di honduregni che si trovano nel più grande Centro di detenzione degli Stati Uniti, a Dilley, nei pressi di San Antonio. Nel corso di una conferenza stampa dopo la visita al Centro di detenzione, effettuata lo scorso fine settimana insieme all'arcivescovo Garcia Siller, il card. Rodriguez Maradiaga ha parlato della situazione che spinge i connazionali honduregni come altre persone di Paesi come il Guatemala e El Salvador a tentare di emigrare negli Stati Uniti. Nella regione infatti "ci sono situazioni di violenza e situazioni di povertà che hanno portato all'esodo in massa di queste persone" ha spiegato il cardinale, che è anche presidente di Caritas Internationalis. Inoltre ha detto alla stampa che la sua visita servirà anche per riferire al Santo Padre della situazione, adesso che si programma la visita di Papa Francesco negli Stati Uniti. La nota pervenuta a Fides ricorda che l'estate dello scorso anno il confine tra Stati Uniti e Messico ha visto un aumento allarmante del numero di bambini e adolescenti che viaggiano soli, non accompagnati da un adulto, per cui si è parlato di "crisi umanitaria". Molti di questi minorenni sono ancora nel Centro di Dilley e il cardinale è riuscito a parlare con qualcuno di loro, perché sono sotto la custodia e assistenza della Chiesa cattolica di San Antonio.